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venerdì 21 ottobre 2016

Mosul: l'ultima battaglia parte come una guerra lampo, ma durerà molto a lungo

Scritto per Il Nostro Tempo uscito il 20/10/2016

Scattata all'alba di lunedì, l’offensiva su Mosul è destinata a essere, nelle intenzioni di chi la conduce, l’attacco finale al sedicente Stato islamico e la spallata decisiva all'autoproclamato Califfo. Esercito iracheno e peshmerga curdi, con l’appoggio dell’aviazione Usa, tentano di scardinare le linee di difesa degli jihadisti.

Le prime notizie sull'offensiva anti-integralisti hanno avuto  il ritmo incalzante d’una guerra lampo. Ma tutti sanno bene che l’azione sarà lunga, lenta, cruenta. Aleppo in Siria e Sirte in Libia danno la misura di come prendere una città sia complicato e sanguinoso. Com'è stato per Falluja in Iraq.

All'attacco coordinato, partecipano 30.000 uomini circa, fra cui commando delle forze speciali Usa. Washington avverte: per la conquista ci vorranno settimane o mesi. L'Onu considera a rischio l’intera popolazione dell’area urbana, un milione e mezzo di persone, e denuncia il possibile ricorso ai civili come scudi umani.

Fattori etnici e religiosi s’intersecano e aggiungono ferocia allo scontro: le unità irachene sono sciite, gli jihadisti asserragliati sunniti, i curdi che avanzano più speditamente non dovrebbero entrare in città per evitare d’attizzare la reazione popolare.  A Mosul, si calcola che i miliziani siano 3/4.000: troppo pochi per controllare una città così popolosa, se non avessero il sostegno o almeno la condiscendenza d’una buona parte degli iracheni residenti, fra cui vi sono migliaia di ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein – quello sciolto dopo l’invasione americana – e almeno 100 mila ex militari.

Gli errori e gli orrori compiuti dall'Amministrazione Bush, l’invasione immotivata, l’approssimativa gestione del dopo Saddam, le torture inflitte in carcere ai resistenti catturati, continuano a stingersi sulla situazione in Iraq e ad alimentare risentimenti anti-americani e anti-occidentali, che vanno ad aggiungersi e ad intrecciarsi a secolari diatribe etnico-religiose.

Proprio il ginepraio degli interessi e delle alleanze, che riproduce - senza ricalcarlo esattamente - quanto avviene in Siria, induce alla prudenza sull’andamento e l’esito dell’azione militare. Peshmerga a parte, l’efficienza e la determinazione degli attaccanti va verificata; e i miliziani potrebbero anche decidere d’evitare scontri impari e di fondersi piuttosto alla popolazione, o mischiarsi ai civili in fuga, ricompattandosi poi altrove al più presto.

Non è neppure escluso che la battaglia di Mosul alzi la soglia di rischio d’attentati in America e, soprattutto, in Europa: ad agire, potrebbero essere integralisti provenienti dall'area bellica oppure ‘lupi solitari’ o cellule locali ansiosi di vendicare i loro ‘martiri’. Ovunque, i servizi d’intelligence sono sul chi vive.

Il dato di fondo è che, rispetto a un anno fa, l’autoproclamato Califfato sta perdendo ovunque territori: l’esercito iracheno controlla Falluja, Ramadi, Tikrit; e, in Siria, ‘lealisti’, curdi e ribelli anti-Assad, pur mossi da istanze diverse, erodono le aree gestite dal sedicente Stato islamico.

Più religiosamente simbolica che militarmente significativa è stata la presa di Dabik, in Siria, fatta dagli insorti turcomanni con l’appoggio turco: poco più di un villaggio, Dabiq è il luogo in cui una profezia sunnita colloca lo scontro finale tra i musulmani e i ‘romani’, cioè i ‘crociati’, e ha rilievo nella propaganda del Califfo – la patinata rivista jihadista s’intitola proprio ‘Dabiq’ -.

Il parallelo con la tradizione giudaico-cristiana è Armageddon, luogo della battaglia finale tra Bene e Male. La profezia musulmana è nell’Hadith, un racconto della vita e delle opere di Maometto e dei suoi seguaci. Al versetto 6924, si legge che “l’ultima ora suonerà quando i romani giungeranno a Dabiq: allora, verrà da Medina un esercito per contrastarli”, che, alla fine, vincerà e conquisterà Roma, che, all’epoca – VII secolo – significava Costantinopoli, la capitale dell’Impero romano d’Oriente.

L’offensiva su Mosul è partita quasi nel momento in cui Matteo Renzi s’imbarcava per Washington,  per una visita di Stato di due giorni, con colloqui ufficiali nello Studio Ovale e cena di gala – l’ultima della presidenza Obama -. Non c’è chiaramente nesso di ‘causa effetto’ tra i due eventi, il viaggio del premier e i prodromi della riconquista della capitale del Califfato in Iraq. Ma è un fatto che l’Italia è oggi presente militarmente ai vertici del triangolo di crisi dell’Occidente – e Obama, ricevendo Renzi, ha lodato il lavoro d’addestramento delle forze irachene affidato ai carabinieri.

Nei pressi di Mosul, a una trentina di chilometri dalla città, un contingente italiano di 500 uomini sta completando il proprio schieramento a protezione di una grande diga, la cui ristrutturazione è affidata a una ditta italiana, la Trevi. In Libia, 300 uomini tra militari in armi e medici e para-medici hanno appena allestito un ospedale da campo sull'aeroporto di Misurata, che è la base di partenza della riconquista di Sirte non ancora ultimata. E, infine, sul fronte della nuova Guerra Fredda, 140 soldati stanno per andare a integrare un avamposto della Nato ai confini con la Russia in Lettonia.

Atti di coinvolgimento che hanno componenti d’interesse nazionale, in Libia, ed economico / commerciale in Iraq, ma che sono anche pegni d’alleanza offerti agli Stati Uniti. Specie il drappello di uomini in Lettonia, che appare in contraddizione con la linea del dialogo con la Russia portata avanti dall’Italia. Renzi, a Washington, se n’è fatto forte, evitando di approfondire le ambiguità e le opacità, in ottica atlantica, tra Roma e Mosca.

Il Cremlino, intanto, annuncia che risponderà, “anche in modo asimmetrico”, ad eventuali sanzioni decise da Usa ed Ue per Aleppo, la città che, agli occhi di al-Assad e di Putin, è una Mosul siriana non degli jihadisti – quella è Raqqa -, ma dell’opposizione al regime.

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