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venerdì 30 dicembre 2016

Siria: Putin con Erdogan annuncia la pace, Usa ed Ue esclusi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/12/2016

La pace russa fa un passo forse decisivo in Siria, mentre gli Stati Uniti dei due presidenti sono talmente assorbiti dai risvolti interni degli eventi mediorientali da assistere senza intervenire: Barack Obama e la sua Amministrazione non hanno più l’autorevolezza per farlo, Donald Trump non ha ancora il potere (ma a suon di tweet caccia il naso dovunque).

E, comunque, a Trump può anche andare bene così: il colpo di acceleratore di Putin verso la fine del conflitto sgombera l’orizzonte di un problema spinoso, anche se lascia senza voce in capitolo l’Occidente intero: l’America senza bussola e la solita Europa imbelle, costretta a prendere atto di quanto da altri concordato e ad esprimere una soddisfazione di maniera, all'unisono con l’Onu.

Il fatto che i negoziati conseguenti al cessate-il-fuoco ora annunciato, e in vigore dalla mezzanotte, si faranno ad Astana, Kazakhstan, e non in uno dei luoghi deputati della diplomazia equidistante, Ginevra o Vienna, significa che la partita è russa – o, al massimo, russo-turca - e che Putin la vuole giocare in casa (25 anni dopo la fine dell’Urss, l’unico cosmodromo russo continua a essere quello di Baikonur in Kazakhstan: segno che fra i due Paesi c’è intesa e fiducia).

E’ stato il presidente russo ad annunciare la firma della tregua tra il regime di Assad e i ribelli usciti sconfitti della battaglia di Aleppo: “Abbiamo lavorato a lungo – ha detto Putin, spartendo il merito dello sforzo di pace con il presidente turco Erdogan -; adesso serve pazienza e grande attenzione”.

Dopo quasi 70 mesi di guerra civile e oltre mezzo milione di morti, è davvero la volta buona? Se anche il cessate-il-fuoco tenesse e la trattativa di pace decollasse, la Siria non si trasformerebbe, da un giorno all’altro, in una Svizzera mediorientale: resta la presenza del sedicente Stato islamico, che ha perso terreno, ma continua a controllare porzioni di territorio; e resta la questione curda. Anche se gli eroi della presa di Idlib e della resistenza a Kobane, perduta e riconquistata, sono stati lasciati da Putin alla mercé del suo nuovo amico Erdogan, trattati alla stregua di quei terroristi di cui sono stati a lungo gli unici avversari sul terreno.

Del resto, il Medio Oriente prossimo venturo sembra una storia di uomini forti: Putin ed Erdogan, presidenti autoritari, l’immarcescibile al-Assad e il faraone al-Sisi. Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu sono per ora più interessati a celebrare l’amicizia ritrovata israelo-americana che preoccupati degli assetti tutto intorno, a patto che le milizie jihadiste siano tenute sotto scacco e che la stabilità regni, dopo il tempo dell’incertezza conseguente alle Primavere arabe, di cui restano tracce solo in Tunisia. Quanto all’Iran, l’intesa che preserva al potere al-Assad gli sta bene: Teheran ha sempre lavorato in tal senso.

Mordono probabilmente il freno l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo, costrette a trangugiare, per il momento, un trionfo sciita. Vi sono lì germi di future instabilità.

Sul terreno, mentre in Iraq le forse di Baghdad lanciano una nuova massiccia offensiva su Mossul, la capitale dell’autoproclamato Califfo, attaccando cinque quartieri, raid e bombe anti-jihadisti uccidono decine di civili, tra cui numerosi bambini, in località della Siria ancora sotto il controllo delle milizie e dell’opposizione ad al-Assad. Lo denuncia un’organizzazione anti-regime.

Negli Usa, Obama apre un nuovo fronte anti-Trump, annunciando un inasprimento delle sanzioni contro la Russia per le interferenze degli hacker di Mosca sul voto negli Usa. Il magnate dà la colpa ai computer che “ci complicano la vita” e accusa il presidente d’atteggiamenti “incendiari”, prima d’una telefonata “chiarificatrice”, dopo la quale i due definiscono “senza problemi” la transizione – roba da Pinocchio -.

Il che non impedisce a Trump di rincuorare Netanyahu: “Sii forte, il 20 gennaio è vicino”. Con lui alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non tratteranno più Israele “con disprezzo. L’Italia è ben contenta d’avere schivato una grana: si fosse votato in Consiglio di Sicurezza dopo il 1° gennaio, si sarebbe dovuta esprimere. Che cosa avrebbe fatto? Il premier Gentiloni fa esercizi d’equilibrio sulla trave: “Gli insediamenti non agevolano la soluzione dei due Stati. Ma cercare d’indurre Israele a negoziati isolandolo è un’illusione”.

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