Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/09/2010
In Italia, una settimana può durare più di sette giorni, anche più di un mese, o di una stagione: può allungarsi come il naso di Pinocchio, che cresceva a ogni bugia detta. Figuriamoci, poi, quanto può durare un lustro: tanto, chi va mai a ricordarsi cinque anni dopo impegni presi cinque anni prima? Lo constata il WSJ, in una rubrica, The Source, dedicata alla promessa del governo Berlusconi di rilanciare il nucleare in Italia entro il 2013. Ecco un esempio di come le settimane possono dilatarsi: “Il 23 luglio –ricorda il WSJ- Berlusconi disse che il nuovo ministro dello Sviluppo economico sarebbe stato nominato entro la settimana successiva”. Sono passati due mesi e una settimana (appunto!) e qualcuno l’ha visto il nuovo ministro? Per il nucleare, il giornale, come la Bloomberg, un cui dispaccio ha buona eco sui siti Usa, prende spunto da una sortita dell’Enel, che mette le mani avanti: “se le cose non si sbloccano, non potremo rispettare l’obiettivo di costruire nuove centrali entro il 2013”. Per una volta, può non dispiacermi che i tempi italiani siano dilatati. Ma, attenzione!: da oggi, le settimane dureranno sette giorni e i lustri massimo cinque anni, una volta archiviato il ‘teatrino della politica’ con il voto di fiducia (annunciato da molti media esteri). O forse no: “Domani, è un altro giorno”, suona americano: “Del doman non v’è certezza”, fa tanto italiano.
giovedì 30 settembre 2010
mercoledì 29 settembre 2010
Iran: Sakineh, non la lapidano, ma l'impiccano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/09/2010
Qual è il problema?, la lapidazione? E allora, niente lapidazione. O la condanna per adulterio? E allora, niente adulterio. L’Iran integralista di Mahmud Ahmadinejad accontenta l’Occidente che protesta per la condanna a morte inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna di 43 anni, madre di due figli, moglie infedele, la cui vicenda suscita emozioni e polemiche forti in Italia e in Francia e –meno- nel resto del Mondo. Sakineh morirà impiccata, colpevole di avere complottato per fare uccidere il marito dall’amante. Proprio come Teresa Lewis, la donna americana di 41 anni, con un quoziente intellettivo poco al di sopra della soglia dell’handicap mentale, la cui condanna è stata eseguita nel carcere di Jarratt, in Virginia, Stati Uniti, la settimana scorsa: due storie parallele, l’iniezione letale da una parte, la forca dall’altra. Che differenza c’è?, in fondo.
Certo, il sistema giudiziario iraniano è meno trasparente di quello americano. Ma, di fatto, il regime di Teheran ‘de-islamizza’ e ‘occidentalizza’ il reato e la pena e ‘mette il silenziatore’ alle proteste, o almeno ne delegittima molte, specie quelle –già flebili- statunitensi.
Per Sakineh, la sentenza di condanna a morte per adulterio tramite lapidazione era stata sospesa fin da luglio. A fare ora sapere che la donna è stata condannata all’impiccagione è stato il procuratore generale iraniano Gholamhossein Mohseni-Ejei, citato dal Teheran Times. Poco dopo, il ministero degli esteri affermava che “il procedimento giudiziario non s’è ancora concluso” e che “il verdetto sarà pronunciato in via definitiva quando l’iter sarà finito”.
Il figlio di Sakineh mediaticamente più attivo, Sajjad Ghadarzadeh, chiede in lacrime all’Italia “d’intervenire “. E la Farnesina auspica “fortemente che la condanna possa essere rivista”, aggrappandosi allo spiraglio di speranza lasciato dal ministero degli esteri iraniano e assicurando che il governo italiano “continua ad adoperarsi con la massima determinazione, come ha finora fatto”: L’Italia è e resta contraria alla pena di morte “ovunque e in qualsiasi modo venga eseguita”.
La vicenda umana e giudiziaria, che si trascina da quattro anni, resta intrisa di contraddizioni e zeppa di punti oscuri. Sakineh, di etnia azera, subisce nel maggio del 2006 99 frustate: lo dispone un tribunale di Tabriz, perché la donna è rea confessa di adulterio (lei dirà di averlo ammesso sotto tortura). Nel settembre del 2006, un altro tribunale la condanna per l’omicidio del marito: morte per lapidazione, è la sentenza, confermata l’anno dopo dalla Corte Suprema.
Non accade nulla per tre anni, quando l’esecuzione della sentenza pare vicina. Innescata dai figli, Sajjad e una ragazza, scatta la mobilitazione internazionale. L’esecuzione è sospesa. Ma, in agosto, Sakineh confessa in tv l’adulterio e la complicità nell’omicidio –dichiarazioni forse estorte-. Il caso diventa uno dei tasselli del confronto tra l’Iran e l’Occidente.
La scorsa settimana, a New York, il presidente iraniano nega che la sentenza di lapidazione sia mai stata pronunciata. E la mancanza di trasparenza del sistema giudiziario iraniano non consente di fare chiarezza. Ora, il procuratore generale dice che le sentenze sono due, ma che quella per omicidio “ha la precedenza” su quella per adulterio. Il figlio, di cui si ignora quali siano le fonti, afferma che la condanna a morte sarà “annunciata ufficialmente fra due settimane”. L’avvocato Javid Hutan Kian cercherà, nei prossimi giorni, di bloccare l’esecuzione e di ottenere una revisione del verdetto.
In Italia, le notizia da Teheran suscitano reazioni a raffica. Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli chiede che “l’Italia ritiri immediatamente l’ambasciatore a Teheran” –e quello a Washington?-, accusando Ahmadinejad “di stare facendo un uso politico della vita di Sakineh per alzare il livello dello scontro con Europa e Stati Uniti”. Ma l’attenzione dei media occidentali è molto diversificata: alle 15.00 di ieri, la Reuters non aveva dedicato a Sakineh una riga nel notiziario generale, l’Afp un dispaccio e l’Ansa almeno 15 notizie. Segno d’una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche.
Qual è il problema?, la lapidazione? E allora, niente lapidazione. O la condanna per adulterio? E allora, niente adulterio. L’Iran integralista di Mahmud Ahmadinejad accontenta l’Occidente che protesta per la condanna a morte inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna di 43 anni, madre di due figli, moglie infedele, la cui vicenda suscita emozioni e polemiche forti in Italia e in Francia e –meno- nel resto del Mondo. Sakineh morirà impiccata, colpevole di avere complottato per fare uccidere il marito dall’amante. Proprio come Teresa Lewis, la donna americana di 41 anni, con un quoziente intellettivo poco al di sopra della soglia dell’handicap mentale, la cui condanna è stata eseguita nel carcere di Jarratt, in Virginia, Stati Uniti, la settimana scorsa: due storie parallele, l’iniezione letale da una parte, la forca dall’altra. Che differenza c’è?, in fondo.
Certo, il sistema giudiziario iraniano è meno trasparente di quello americano. Ma, di fatto, il regime di Teheran ‘de-islamizza’ e ‘occidentalizza’ il reato e la pena e ‘mette il silenziatore’ alle proteste, o almeno ne delegittima molte, specie quelle –già flebili- statunitensi.
Per Sakineh, la sentenza di condanna a morte per adulterio tramite lapidazione era stata sospesa fin da luglio. A fare ora sapere che la donna è stata condannata all’impiccagione è stato il procuratore generale iraniano Gholamhossein Mohseni-Ejei, citato dal Teheran Times. Poco dopo, il ministero degli esteri affermava che “il procedimento giudiziario non s’è ancora concluso” e che “il verdetto sarà pronunciato in via definitiva quando l’iter sarà finito”.
Il figlio di Sakineh mediaticamente più attivo, Sajjad Ghadarzadeh, chiede in lacrime all’Italia “d’intervenire “. E la Farnesina auspica “fortemente che la condanna possa essere rivista”, aggrappandosi allo spiraglio di speranza lasciato dal ministero degli esteri iraniano e assicurando che il governo italiano “continua ad adoperarsi con la massima determinazione, come ha finora fatto”: L’Italia è e resta contraria alla pena di morte “ovunque e in qualsiasi modo venga eseguita”.
La vicenda umana e giudiziaria, che si trascina da quattro anni, resta intrisa di contraddizioni e zeppa di punti oscuri. Sakineh, di etnia azera, subisce nel maggio del 2006 99 frustate: lo dispone un tribunale di Tabriz, perché la donna è rea confessa di adulterio (lei dirà di averlo ammesso sotto tortura). Nel settembre del 2006, un altro tribunale la condanna per l’omicidio del marito: morte per lapidazione, è la sentenza, confermata l’anno dopo dalla Corte Suprema.
Non accade nulla per tre anni, quando l’esecuzione della sentenza pare vicina. Innescata dai figli, Sajjad e una ragazza, scatta la mobilitazione internazionale. L’esecuzione è sospesa. Ma, in agosto, Sakineh confessa in tv l’adulterio e la complicità nell’omicidio –dichiarazioni forse estorte-. Il caso diventa uno dei tasselli del confronto tra l’Iran e l’Occidente.
La scorsa settimana, a New York, il presidente iraniano nega che la sentenza di lapidazione sia mai stata pronunciata. E la mancanza di trasparenza del sistema giudiziario iraniano non consente di fare chiarezza. Ora, il procuratore generale dice che le sentenze sono due, ma che quella per omicidio “ha la precedenza” su quella per adulterio. Il figlio, di cui si ignora quali siano le fonti, afferma che la condanna a morte sarà “annunciata ufficialmente fra due settimane”. L’avvocato Javid Hutan Kian cercherà, nei prossimi giorni, di bloccare l’esecuzione e di ottenere una revisione del verdetto.
In Italia, le notizia da Teheran suscitano reazioni a raffica. Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli chiede che “l’Italia ritiri immediatamente l’ambasciatore a Teheran” –e quello a Washington?-, accusando Ahmadinejad “di stare facendo un uso politico della vita di Sakineh per alzare il livello dello scontro con Europa e Stati Uniti”. Ma l’attenzione dei media occidentali è molto diversificata: alle 15.00 di ieri, la Reuters non aveva dedicato a Sakineh una riga nel notiziario generale, l’Afp un dispaccio e l’Ansa almeno 15 notizie. Segno d’una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche.
SPIGOLI: SPQR, Bossi come Asterix, ma Trota non è Obelix
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/09/2010
Proprio quando la politica italiana pareva avere stancato la stampa estera, ecco che l’estro padano da studentello di prima media (dei miei tempi, quando s’incominciava a studiare latino a 11 anni) provoca un sussulto, soprattutto sui giornali francesi e spagnoli. Un po’, perché lì il latino è di casa; e un po’, perché, almeno in Francia, la sguaiata ‘traduzione’ di SPQR evoca la bonaria invettiva di Asterix e Obelix e della loro allegra combriccola gallica, “Il sont fous ces romains”, sono pazzi questi romani. Ma se Bossi sr Asterix potrebbe pure ricordarlo, Bossi jr, Renzo, il ‘Trota’, Obelix proprio non lo è. Su Le Figaro (Bossi tratta i romani da porci) e Le Monde (Per il principale alleato di Berlusconi, i romani sono dei porci), come pure su El Mundo e altri quotidiani, i titoli si ripetono quasi identici, con “porci” in evidenza. E l’Afp dedica alla battutaccia un bel dispaccio. Intanto, nessuno sembra più interessato all’intervento di Mr B domani in Parlamento; e pochi hanno badato all’esternazione stile ‘camera con vista’ (no, scusate, quello era Scajola; volevo dire ‘camera con cucina’) di Gianfranco Fini sabato scorso. L’ultimo a sbandierare la politica è El Pais, che lunedì si chiedeva: “Torneranno gli italiani a dare fiducia al Grande Imprenditore?”, adesso che “tramonta il mito del Buon Gestore”.
Proprio quando la politica italiana pareva avere stancato la stampa estera, ecco che l’estro padano da studentello di prima media (dei miei tempi, quando s’incominciava a studiare latino a 11 anni) provoca un sussulto, soprattutto sui giornali francesi e spagnoli. Un po’, perché lì il latino è di casa; e un po’, perché, almeno in Francia, la sguaiata ‘traduzione’ di SPQR evoca la bonaria invettiva di Asterix e Obelix e della loro allegra combriccola gallica, “Il sont fous ces romains”, sono pazzi questi romani. Ma se Bossi sr Asterix potrebbe pure ricordarlo, Bossi jr, Renzo, il ‘Trota’, Obelix proprio non lo è. Su Le Figaro (Bossi tratta i romani da porci) e Le Monde (Per il principale alleato di Berlusconi, i romani sono dei porci), come pure su El Mundo e altri quotidiani, i titoli si ripetono quasi identici, con “porci” in evidenza. E l’Afp dedica alla battutaccia un bel dispaccio. Intanto, nessuno sembra più interessato all’intervento di Mr B domani in Parlamento; e pochi hanno badato all’esternazione stile ‘camera con vista’ (no, scusate, quello era Scajola; volevo dire ‘camera con cucina’) di Gianfranco Fini sabato scorso. L’ultimo a sbandierare la politica è El Pais, che lunedì si chiedeva: “Torneranno gli italiani a dare fiducia al Grande Imprenditore?”, adesso che “tramonta il mito del Buon Gestore”.
lunedì 27 settembre 2010
Un Miliband di più in Gb, uno di meno in Europa
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 27/09/2010
Che stagione desolante, per la sinistra europea: non ne azzecca una, mi vien da dire, né dove c’è (Spagna, e basta mi sa), né dove non c’è (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e fermiamoci qui, ai Grandi dell’Ue). Uno chiede: “Vero! Ma perché lo dici ora?”. L’altra sera, quando s’è saputo che i laburisti britannici avevano scelto Ed Miliband come nuovo leader, e non il fratello David, m’ha preso un attacco di bile. Non che m’importi molto delle gerarchie di famiglia a casa Miliband (Red-Ed è più giovane e più di sinistra e forse per questo ha vinto), e neppure delle faccende interne ai laburisti britannici, chè, dai tempi che li guidava il compagnuccio di Bush Tony Blair faccio fatica a collocarli a sinistra –e spesso sbaglio-. Ma il caso che m’offende è europeo e ve lo racconto. L’anno scorso, più o meno di questi tempi, anzi era autunno più profondo, l’Unione dei 27 doveva scegliere per la prima volta un presidente ‘stabile’ del Consiglio europeo e una sorta di ‘ministro degli esteri’ europeo, che, in realtà, si chiama pomposamente alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, è pure vicepresidente della Commissione europea e presidente del Consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue. L’una e l’altra carica sono previste dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1.o dicembre 2009. Come andò? Il Partito popolare, che nel Parlamento di Strasburgo è il gruppo più numeroso, si prese il presidente ‘stabile’, che dura in carica due anni e mezzo, e puntò sull’allora premier belga, una figura non troppo nota, Herman Van Rompuy, rivelatosi, però, paziente mediatore ed efficace negoziatore. Il Partito socialista, che è secondo al Ppe, chiese per sé il posto di ‘ministro degli esteri’. Forse vi ricordate: era quando in Italia, solo in Italia, si scriveva che c’era in corsa per quel posto Massimo D’Alema, mentre i capi di governo socialisti dell’Ue s’erano già messi d’accordo che l’incarico andasse a un britannico. E, qui, il primo errore: scegliere un laburista, nell’imminenza di elezioni che, più che verosimilmente, dovevano consegnare il potere ai conservatori significava nominare qualcuno che, di lì a poco, avrebbe avuto un rapporto non idilliaco con il suo stesso governo e sarebbe contato poco nel suo stesso Paese. Ma non basta: i laburisti, invece di giocare la carta di David Miliband, che era ministro degli esteri, volarono basso e indicarono Lady Ashton, che nessuno sapeva chi fosse allora e nessuno lo sa neppure adesso, perché questa creaturina politica di Blair, una laburista baronessa, non brilla né per intraprendenza né per abilità e appena può, lei che dovrebbe essere la voce dell’Europa nel Mondo, sta zitta. E qui, il secondo errore: i laburisti, che già sentivano arrivare la sconfitta di Gordon Brown, puntualmente verificatasi alle politiche di maggio, preferirono tenersi Miliband di riserva nel partito, pensando che sarebbe stato lui il successore del leader sconfitto. E, invece, adesso l’Unione europea si tiene Lady Ashton, che non fa ombra a nessuno; i laburisti si tengono ‘Red-Ed’, che sta già facendo indietro tutta, perché troppo rosso si perde (ricordate Neil Kinnock, il gallese che era rosso persino nei capelli rimastigli?); e David si tiene smacco e magone, in attesa di decidere se fare da spalla, o meno, al fratellino che lo vorrebbe come cancelliere dello scacchiere nel suo governo ombra. Capite adesso perché la bile? Potevamo avere noi un Miliband in Europa e loro uno in Gran Bretagna; mentre a Lady Ashton un posto all’ombra non era difficile trovarglielo.
Che stagione desolante, per la sinistra europea: non ne azzecca una, mi vien da dire, né dove c’è (Spagna, e basta mi sa), né dove non c’è (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e fermiamoci qui, ai Grandi dell’Ue). Uno chiede: “Vero! Ma perché lo dici ora?”. L’altra sera, quando s’è saputo che i laburisti britannici avevano scelto Ed Miliband come nuovo leader, e non il fratello David, m’ha preso un attacco di bile. Non che m’importi molto delle gerarchie di famiglia a casa Miliband (Red-Ed è più giovane e più di sinistra e forse per questo ha vinto), e neppure delle faccende interne ai laburisti britannici, chè, dai tempi che li guidava il compagnuccio di Bush Tony Blair faccio fatica a collocarli a sinistra –e spesso sbaglio-. Ma il caso che m’offende è europeo e ve lo racconto. L’anno scorso, più o meno di questi tempi, anzi era autunno più profondo, l’Unione dei 27 doveva scegliere per la prima volta un presidente ‘stabile’ del Consiglio europeo e una sorta di ‘ministro degli esteri’ europeo, che, in realtà, si chiama pomposamente alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, è pure vicepresidente della Commissione europea e presidente del Consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue. L’una e l’altra carica sono previste dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1.o dicembre 2009. Come andò? Il Partito popolare, che nel Parlamento di Strasburgo è il gruppo più numeroso, si prese il presidente ‘stabile’, che dura in carica due anni e mezzo, e puntò sull’allora premier belga, una figura non troppo nota, Herman Van Rompuy, rivelatosi, però, paziente mediatore ed efficace negoziatore. Il Partito socialista, che è secondo al Ppe, chiese per sé il posto di ‘ministro degli esteri’. Forse vi ricordate: era quando in Italia, solo in Italia, si scriveva che c’era in corsa per quel posto Massimo D’Alema, mentre i capi di governo socialisti dell’Ue s’erano già messi d’accordo che l’incarico andasse a un britannico. E, qui, il primo errore: scegliere un laburista, nell’imminenza di elezioni che, più che verosimilmente, dovevano consegnare il potere ai conservatori significava nominare qualcuno che, di lì a poco, avrebbe avuto un rapporto non idilliaco con il suo stesso governo e sarebbe contato poco nel suo stesso Paese. Ma non basta: i laburisti, invece di giocare la carta di David Miliband, che era ministro degli esteri, volarono basso e indicarono Lady Ashton, che nessuno sapeva chi fosse allora e nessuno lo sa neppure adesso, perché questa creaturina politica di Blair, una laburista baronessa, non brilla né per intraprendenza né per abilità e appena può, lei che dovrebbe essere la voce dell’Europa nel Mondo, sta zitta. E qui, il secondo errore: i laburisti, che già sentivano arrivare la sconfitta di Gordon Brown, puntualmente verificatasi alle politiche di maggio, preferirono tenersi Miliband di riserva nel partito, pensando che sarebbe stato lui il successore del leader sconfitto. E, invece, adesso l’Unione europea si tiene Lady Ashton, che non fa ombra a nessuno; i laburisti si tengono ‘Red-Ed’, che sta già facendo indietro tutta, perché troppo rosso si perde (ricordate Neil Kinnock, il gallese che era rosso persino nei capelli rimastigli?); e David si tiene smacco e magone, in attesa di decidere se fare da spalla, o meno, al fratellino che lo vorrebbe come cancelliere dello scacchiere nel suo governo ombra. Capite adesso perché la bile? Potevamo avere noi un Miliband in Europa e loro uno in Gran Bretagna; mentre a Lady Ashton un posto all’ombra non era difficile trovarglielo.
domenica 26 settembre 2010
SPIGOLI: posto a vita in Germania, non in regno precari
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/09/2010
In Italia, sale la disoccupazione (Bloomberg e molti media) e la ripresa è lenta (Marcegaglia e tutti i media) e potrebbe persino rallentare (Les Echos). Ma l’economia e la finanza vivono di conflitti e di personaggi: la cacciata di Profumo da Unicredit, le tensioni tra Fiat e sindacato e l’attenzione mediatica per Marchionne (un articolo di Breakingviews che ne paragona lo stile a quello della Thatcher finisce su Le Monde ed El Pais). Mentre noi ci barcameniamo, la Germania, senza tagli e quindi senza scontri sociali, trascina la ripresa in Europa; e la Siemens promette un posto di lavoro a vita, facendo un accordo con i sindacati (intoccabile fino al 2013). Lo sottolinea il Financial Times: una mossa “insolita” perfino per la Germania, dove management e lavoratori vanno spesso d’amore e d’accordo; una scelta decisamente controcorrente rispetto all’Italia, dove a vita è il precariato. Con l’intesa, la Siemens s’impegna a non mandare a casa nessuno dei suoi 128mila lavoratori. Altri gruppi industriali tedeschi, come quelli dell’auto, garantiscono la durata del posto di lavoro, ma mai oltre i dieci anni – alla Daimler di Sindelfingen –, ricorda Ft. La formula Siemens è un traguardo (o un miraggio?) per Susanna Camusso? Vari media esteri hanno presentata questa settimana la prima donna ache guiderà il maggiore sindacato italiano, la Cgil, al posto di Guglielmo Epifani.
In Italia, sale la disoccupazione (Bloomberg e molti media) e la ripresa è lenta (Marcegaglia e tutti i media) e potrebbe persino rallentare (Les Echos). Ma l’economia e la finanza vivono di conflitti e di personaggi: la cacciata di Profumo da Unicredit, le tensioni tra Fiat e sindacato e l’attenzione mediatica per Marchionne (un articolo di Breakingviews che ne paragona lo stile a quello della Thatcher finisce su Le Monde ed El Pais). Mentre noi ci barcameniamo, la Germania, senza tagli e quindi senza scontri sociali, trascina la ripresa in Europa; e la Siemens promette un posto di lavoro a vita, facendo un accordo con i sindacati (intoccabile fino al 2013). Lo sottolinea il Financial Times: una mossa “insolita” perfino per la Germania, dove management e lavoratori vanno spesso d’amore e d’accordo; una scelta decisamente controcorrente rispetto all’Italia, dove a vita è il precariato. Con l’intesa, la Siemens s’impegna a non mandare a casa nessuno dei suoi 128mila lavoratori. Altri gruppi industriali tedeschi, come quelli dell’auto, garantiscono la durata del posto di lavoro, ma mai oltre i dieci anni – alla Daimler di Sindelfingen –, ricorda Ft. La formula Siemens è un traguardo (o un miraggio?) per Susanna Camusso? Vari media esteri hanno presentata questa settimana la prima donna ache guiderà il maggiore sindacato italiano, la Cgil, al posto di Guglielmo Epifani.
sabato 25 settembre 2010
SPIGOLI: Mr B e Fini, il derby ai Caraibi è una soap opera
Scritto per Il fatto Quotidiano del 24/09/2010
Si gioca ai Carabi il derby della politica italiana tra Berlusconi e Fini (ma El Pais lo considera, piuttosto, una ‘soap opera’, una di quelle serie senza né capo né coda più stile Incantesimo che Beautiful). La stampa internazionale se n’é un pochino stufata, come l’opinione pubblica: l’una e l’altra hanno capito che i guitti sul palco recitano a soggetto una commedia senza fine. Per Le Monde, “il calo di popolarità di Berlusconi va di pari passo con la disaffezione per la politica”, mentre il WSJ tiene la barra sul “declino della sinistra”. Nessuno, o quasi, crede che in Parlamento la prossima settimana possa esserci una ‘scena madre’ (El Economista: “Berlusconi sottoporrà il piano di governo al voto”). Se il no all’uso delle intercettazioni per indagare sull’ex sottosegretario Cosentino era passato quasi inosservato (notizie su NouvelObs e El Mundo), l’ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti nella ‘querelle’ tra il premier e il presidente della Camera stzzica El Pais. Ma sono storie senza pathos perché il cuore batte altrove: nella corsa alla successione di Profumo all’Unicredit, (Paul Betts, sul Financial Times, scommette su Arpe) e nelle vicende dello Ior, di cui si parla a iosa di qua e di là dell’Atlantico (e Le Monde commenta che il Vaticano continua ad avere un problema con Mammona, il dio del profitto).
Si gioca ai Carabi il derby della politica italiana tra Berlusconi e Fini (ma El Pais lo considera, piuttosto, una ‘soap opera’, una di quelle serie senza né capo né coda più stile Incantesimo che Beautiful). La stampa internazionale se n’é un pochino stufata, come l’opinione pubblica: l’una e l’altra hanno capito che i guitti sul palco recitano a soggetto una commedia senza fine. Per Le Monde, “il calo di popolarità di Berlusconi va di pari passo con la disaffezione per la politica”, mentre il WSJ tiene la barra sul “declino della sinistra”. Nessuno, o quasi, crede che in Parlamento la prossima settimana possa esserci una ‘scena madre’ (El Economista: “Berlusconi sottoporrà il piano di governo al voto”). Se il no all’uso delle intercettazioni per indagare sull’ex sottosegretario Cosentino era passato quasi inosservato (notizie su NouvelObs e El Mundo), l’ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti nella ‘querelle’ tra il premier e il presidente della Camera stzzica El Pais. Ma sono storie senza pathos perché il cuore batte altrove: nella corsa alla successione di Profumo all’Unicredit, (Paul Betts, sul Financial Times, scommette su Arpe) e nelle vicende dello Ior, di cui si parla a iosa di qua e di là dell’Atlantico (e Le Monde commenta che il Vaticano continua ad avere un problema con Mammona, il dio del profitto).
venerdì 24 settembre 2010
MO: Obama vuole la pace e pungola gli israeliani
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/09/2010
Altro che discorso sullo stato dell’Unione, che fa ogni anno a fine gennaio. Quello di Barak Obama dalla tribuna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite è un discorso sullo stato del Mondo, che spazia dalle speranze di pace in Medio Oriente alle ansie per l’ambiente all’urgenza della ripresa, dopo la crisi economica dell’autunno 2008. Il presidente statunitense spinge perché i negoziati appena ripresi fra israeliani e palestinesi vadano avanti; risponde con cautela, ma senza chiusure, alle aperture venute a sorpresa nelle ultime ore dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad; conferma l’impegno a ritirare tutte le truppe dall’Iraq entro l’anno prossimo –ce ne sono ancora 50 mila-, proprio mentre il suo proconsole in Afghanistan, il generale David Petraeus, dice al NYT che non bisogna mettergli fretta per il ritiro da laggiù; e, infine, affronta il tema di un’economia che s’è lasciata alle spalle lo spettro della depressione, ma che deve ancora ritrovare ritmi di crescita che producano, oltre che ricchezza per alcuni, posti di lavoro per tutti.
Il discorso all’Onu di Obama, il momento culminante della settimana clou dell’Assemblea generale, crocevia annuale della diplomazia internazionale, è segnato da una gaffe diplomatica e da un’alone di giallo internazionale (subito spazzolato via da smentite e precisazioni). La gaffe: Obama ritarda e, così, sul podio, al suo posto, va il presidente svizzero, la signora Doris Leuthard, non prima che il presidente di turno dell’Assemblera, svizzero anch’egli, Joseph Deiss, precisi che la Confederazione non si sta arrogando il ruolo di superpotenza, ma si preoccupa di fare rispettare la puntualità.
L’alone di giallo lo provoca la delegazione israeliana: seggi vuoti, quando il presidente statunitense prende la parola. Subito, si ipotizza un “boicottaggio”., anche perché Obama dice, fra le tante, almeno una cosa che suona stilettata a Benjamin Netanyahu e al suo governo: chiede che Israele estenda la moratoria sugli insediamenti, la cui scadenza è imminente, il 26 settembre, una decisione cui i palestinesi subordinano il prosieguo delle trattative. Viene fuori che l’assenteismo israeliano è ispirato al rispetto di una festività ebraica: nessun boicottaggio, quindi; anzi le fonti israeliane giudicano il discorso del presidente “equilibrato”. Ma quei seggi vuoti non sono una bella foto.
L’impegno per la pace in Medio Oriente è il tema più forte dell’intervento di Obama, le cui parole trovano un’eco a Roma nelle dichiarazioni del presidente egiziano Hosni Mubarak. Davanti alla stampa, accanto a Silvio Berlusconi, che non rinuncia ai suoi consueti tocchi macchiettistici, Mubarak afferma che la moratoria degli insediamenti è necessaria perché i negoziati vadano avanti e sollecita un ruolo attivo dell’Unione europea. Berlusconi, in sintonia con l’ospite e con Obama, s’impegna a intervenire “presso gli amici israeliani” perché Netanyahu proroghi la moratoria “almeno fino a fine anno per un periodo di tre mesi”.
Il presidente statunitense parla a largo spettro: chiede che cessino proclami e tentativi di distruggere Isarele, afferma che la sicurezza dello Stato ebraico richiede la nascita d’una Palestina indipendente e preconizza che il nuovo Stato possa nascere fra un anno, se le trattative si concluderanno nei tempi previsti in modo positivo. Obama riconosce al premier Netanyahu e al presidente palestinese Abu Mazen “il coraggio per la pace”.
Ad Ahmadinejad, che aveva usato toni pacati, nonostante contenuti polemici, il presidente risponde con l’impegno “a cercare una soluzione” sul problema dei programmi nucleari iraniani potenzialmente militari. E sul fronte della lotta al terrorismo, ribadisce che la priorità è sconfiggere al Qaida e la tirannia che “è ancora fra noi”, forte della certezza che “la storia sta con la libertà”.
Obama anuncia un viaggio in Oriente quest’autunno, dopo le elezioni di midterm, il 2 novembre, e chiede la cooperazione dei Paesi emergenti, di Cina e India, di Brasile e Russia, per rilanciare l’economia ed affrontare lo spettro dell’effetto serra. La presenza del presidente all’Onu è occasione per incontri bilaterali, fra cui uno col premier cinese Wen Jiabao, in vista della visita a Washington nel 2011 del presidente Hu Jintao: Usa e Cina devono lavorare insieme per una crescita bilanciata e per garantire stabilità e sicurezza.
Altro che discorso sullo stato dell’Unione, che fa ogni anno a fine gennaio. Quello di Barak Obama dalla tribuna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite è un discorso sullo stato del Mondo, che spazia dalle speranze di pace in Medio Oriente alle ansie per l’ambiente all’urgenza della ripresa, dopo la crisi economica dell’autunno 2008. Il presidente statunitense spinge perché i negoziati appena ripresi fra israeliani e palestinesi vadano avanti; risponde con cautela, ma senza chiusure, alle aperture venute a sorpresa nelle ultime ore dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad; conferma l’impegno a ritirare tutte le truppe dall’Iraq entro l’anno prossimo –ce ne sono ancora 50 mila-, proprio mentre il suo proconsole in Afghanistan, il generale David Petraeus, dice al NYT che non bisogna mettergli fretta per il ritiro da laggiù; e, infine, affronta il tema di un’economia che s’è lasciata alle spalle lo spettro della depressione, ma che deve ancora ritrovare ritmi di crescita che producano, oltre che ricchezza per alcuni, posti di lavoro per tutti.
Il discorso all’Onu di Obama, il momento culminante della settimana clou dell’Assemblea generale, crocevia annuale della diplomazia internazionale, è segnato da una gaffe diplomatica e da un’alone di giallo internazionale (subito spazzolato via da smentite e precisazioni). La gaffe: Obama ritarda e, così, sul podio, al suo posto, va il presidente svizzero, la signora Doris Leuthard, non prima che il presidente di turno dell’Assemblera, svizzero anch’egli, Joseph Deiss, precisi che la Confederazione non si sta arrogando il ruolo di superpotenza, ma si preoccupa di fare rispettare la puntualità.
L’alone di giallo lo provoca la delegazione israeliana: seggi vuoti, quando il presidente statunitense prende la parola. Subito, si ipotizza un “boicottaggio”., anche perché Obama dice, fra le tante, almeno una cosa che suona stilettata a Benjamin Netanyahu e al suo governo: chiede che Israele estenda la moratoria sugli insediamenti, la cui scadenza è imminente, il 26 settembre, una decisione cui i palestinesi subordinano il prosieguo delle trattative. Viene fuori che l’assenteismo israeliano è ispirato al rispetto di una festività ebraica: nessun boicottaggio, quindi; anzi le fonti israeliane giudicano il discorso del presidente “equilibrato”. Ma quei seggi vuoti non sono una bella foto.
L’impegno per la pace in Medio Oriente è il tema più forte dell’intervento di Obama, le cui parole trovano un’eco a Roma nelle dichiarazioni del presidente egiziano Hosni Mubarak. Davanti alla stampa, accanto a Silvio Berlusconi, che non rinuncia ai suoi consueti tocchi macchiettistici, Mubarak afferma che la moratoria degli insediamenti è necessaria perché i negoziati vadano avanti e sollecita un ruolo attivo dell’Unione europea. Berlusconi, in sintonia con l’ospite e con Obama, s’impegna a intervenire “presso gli amici israeliani” perché Netanyahu proroghi la moratoria “almeno fino a fine anno per un periodo di tre mesi”.
Il presidente statunitense parla a largo spettro: chiede che cessino proclami e tentativi di distruggere Isarele, afferma che la sicurezza dello Stato ebraico richiede la nascita d’una Palestina indipendente e preconizza che il nuovo Stato possa nascere fra un anno, se le trattative si concluderanno nei tempi previsti in modo positivo. Obama riconosce al premier Netanyahu e al presidente palestinese Abu Mazen “il coraggio per la pace”.
Ad Ahmadinejad, che aveva usato toni pacati, nonostante contenuti polemici, il presidente risponde con l’impegno “a cercare una soluzione” sul problema dei programmi nucleari iraniani potenzialmente militari. E sul fronte della lotta al terrorismo, ribadisce che la priorità è sconfiggere al Qaida e la tirannia che “è ancora fra noi”, forte della certezza che “la storia sta con la libertà”.
Obama anuncia un viaggio in Oriente quest’autunno, dopo le elezioni di midterm, il 2 novembre, e chiede la cooperazione dei Paesi emergenti, di Cina e India, di Brasile e Russia, per rilanciare l’economia ed affrontare lo spettro dell’effetto serra. La presenza del presidente all’Onu è occasione per incontri bilaterali, fra cui uno col premier cinese Wen Jiabao, in vista della visita a Washington nel 2011 del presidente Hu Jintao: Usa e Cina devono lavorare insieme per una crescita bilanciata e per garantire stabilità e sicurezza.
SPIGOLI: banca scaccia banca, Ior e l'ombra di Marcinkus
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/09/2010
Chiodo scaccia chiodo; e banca scaccia banca: dopo l’Unicredit, va in pagina lo Ior, l’istituto di credito del Vaticano. Non che ‘The Profumo Affair’, come l’Economist etichetta la cacciata del Ceo di Unicredit, sparisca dai titoli: “La partenza di uno dei banchieri italiani di maggiore successo mette a rischio l'indipendenza del settore dalla politica”, preconizza il settimanale. E Les Echos commenta, parafrasando Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen, “Discredito e disunione: le beghe fiorentine (che per i francesi vuol dire bizantine) non sono di buon augurio per l’avvenire del credito europeo” (pure su Le Monde, Expansion, WSJ e vari siti Usa). La curiosità però, si sposta sullo Ior, oggetto di un’inchiesta per riciclaggio che tocca il presidente Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani. Il portavoce del Vaticano, padre Lombardi, scrive ad FT, che mette la lettera in homepage, ribadendo che tutto nasce da “un equivoco” tra lo Ior e un’altra banca. La storia è pure su El Pais e ovunque in Europa, ma la stampa americana è la più attenta, memore delle vicende non proprio gloriose di Mons. Paul Marcinkus: WSJ e i siti di tutti i maggiori media citano la fiducia del Vaticano che “la faccenda sarà presto chiarita”. Quella di Marcinckus attende ancora di esserlo trent’anni dopo.
Chiodo scaccia chiodo; e banca scaccia banca: dopo l’Unicredit, va in pagina lo Ior, l’istituto di credito del Vaticano. Non che ‘The Profumo Affair’, come l’Economist etichetta la cacciata del Ceo di Unicredit, sparisca dai titoli: “La partenza di uno dei banchieri italiani di maggiore successo mette a rischio l'indipendenza del settore dalla politica”, preconizza il settimanale. E Les Echos commenta, parafrasando Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen, “Discredito e disunione: le beghe fiorentine (che per i francesi vuol dire bizantine) non sono di buon augurio per l’avvenire del credito europeo” (pure su Le Monde, Expansion, WSJ e vari siti Usa). La curiosità però, si sposta sullo Ior, oggetto di un’inchiesta per riciclaggio che tocca il presidente Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani. Il portavoce del Vaticano, padre Lombardi, scrive ad FT, che mette la lettera in homepage, ribadendo che tutto nasce da “un equivoco” tra lo Ior e un’altra banca. La storia è pure su El Pais e ovunque in Europa, ma la stampa americana è la più attenta, memore delle vicende non proprio gloriose di Mons. Paul Marcinkus: WSJ e i siti di tutti i maggiori media citano la fiducia del Vaticano che “la faccenda sarà presto chiarita”. Quella di Marcinckus attende ancora di esserlo trent’anni dopo.
giovedì 23 settembre 2010
Usa: Obama e i generali, guerre dai gay all'Afghanistan
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/09/2010
Con i militari, il presidente Obama –si direbbe- lega poco (e pure con gli economisti, che sono una razza ben diversa, ma che gli stanno dando un dispiacere via l’altro). In realtà lo smacco ‘militare’, l’altra sera, a Washington, al presidente l’ha dato il Senato, rinviando ‘sine die’ il dibattito sull’ok all’accettazione completa degli omosessuali nelle Forze Armate. E' una promessa del primo nero alla Casa Bianca, che vuole abrogare la pratica del "Don't ask, don't tell" che risale a Bill Clinton: io, Pentagono, non ti chiedo quando ti arruoli quali sono i tuoi orientamenti sessuali, ma tu non me lo dire (e, soprattutto, non farmelo capire in servizio).
Allo smacco militare, che Obama non considera definitivo (sostiene di potercela ancora fare), si somma la defezione del consigliere economico della Casa Bianca, Larry Summers, personaggio da sempre controverso. L’uscita di Summers, dopo quelle del responsabile del budget Peter Orszag, della capa dei consiglieri economici Christina Romer e di Herbert Allison, il gestore del piano ‘salva banche’, potrebbe persino favorire la coesione e l’intesa della squadra del presidente.
Però, tanto fermento, a sei settimane dalle elezioni di midterm, suona un po’ ‘fuggi fuggi’. E il voto di martedì condanna Obama a non rispettare, almeno per ora, un impegno elettorale forte: in Senato, i democratici hanno una maggioranza netta, ma non sufficiente a dettare i tempi d’una procedura, se i repubblicani sono compatti, come lo sono stati. Il fatto è che la storia dell’abrogazione del “Don’t ask, don’t tell” non convince i vertici delle Forze armate: lo si era già capito bene a marzo, quando un generale in congedo, John Sheehan, aveva accusato i gay presenti tra i militari olandesi di essere responsabili della strage di Srebrenica, in Bosnia, nel 1995 (8.000 circa le vittime).
Sheehan si scusò e ritrattò. Ma andiamoci a leggere le dichiarazioni successive: il segretario alla difesa Robert Gates, un repubblicano, e il capo di Stato Maggiore Mike Mullen “non sono contrari” alla revisione (che non è proprio un appoggio entusiastico). Il comandante dei marines James Conway è “assolutamente contrario”; e il suo successore designato James Amos è sulla stessa linea.
Che Obama non fosse il presidente dei militari, era chiaro fin dall’inizio. Le Forze Armate, specie l’Esercito, più ancora i marines, sono una riserva repubblicana: fosse stato per loro alla Casa Bianca sarebbe arrivato di sicuro John McCain, l’antagonista di Obama, eroe di guerra, pilota della Navy abbattuto su Hanoi e rimasto per sette anni prigioniero dei Vietcong.
Invece, i generali si sono trovati un presidente nero e democratico, che voleva arruolare i gay, ritirarsi dall’Iraq –cosa che ha fatto- e ridisegnare la strategia in Afghanistan. Per farlo, chiamò un idolo dei soldati, il generale Stanley McChrystal, Accademia di West Point, guerra del Golfo e campagna d’Iraq. Il suo comando in Afghanistan è durato un anno, fino a giugno, quando sfogò su Rolling Stone, con linguaggio da caserma, tutto il suo disprezzo verso l’Amministrazione e il presidente. Anche McCrystal i gay in divisa non li vuole proprio.
Con i militari, il presidente Obama –si direbbe- lega poco (e pure con gli economisti, che sono una razza ben diversa, ma che gli stanno dando un dispiacere via l’altro). In realtà lo smacco ‘militare’, l’altra sera, a Washington, al presidente l’ha dato il Senato, rinviando ‘sine die’ il dibattito sull’ok all’accettazione completa degli omosessuali nelle Forze Armate. E' una promessa del primo nero alla Casa Bianca, che vuole abrogare la pratica del "Don't ask, don't tell" che risale a Bill Clinton: io, Pentagono, non ti chiedo quando ti arruoli quali sono i tuoi orientamenti sessuali, ma tu non me lo dire (e, soprattutto, non farmelo capire in servizio).
Allo smacco militare, che Obama non considera definitivo (sostiene di potercela ancora fare), si somma la defezione del consigliere economico della Casa Bianca, Larry Summers, personaggio da sempre controverso. L’uscita di Summers, dopo quelle del responsabile del budget Peter Orszag, della capa dei consiglieri economici Christina Romer e di Herbert Allison, il gestore del piano ‘salva banche’, potrebbe persino favorire la coesione e l’intesa della squadra del presidente.
Però, tanto fermento, a sei settimane dalle elezioni di midterm, suona un po’ ‘fuggi fuggi’. E il voto di martedì condanna Obama a non rispettare, almeno per ora, un impegno elettorale forte: in Senato, i democratici hanno una maggioranza netta, ma non sufficiente a dettare i tempi d’una procedura, se i repubblicani sono compatti, come lo sono stati. Il fatto è che la storia dell’abrogazione del “Don’t ask, don’t tell” non convince i vertici delle Forze armate: lo si era già capito bene a marzo, quando un generale in congedo, John Sheehan, aveva accusato i gay presenti tra i militari olandesi di essere responsabili della strage di Srebrenica, in Bosnia, nel 1995 (8.000 circa le vittime).
Sheehan si scusò e ritrattò. Ma andiamoci a leggere le dichiarazioni successive: il segretario alla difesa Robert Gates, un repubblicano, e il capo di Stato Maggiore Mike Mullen “non sono contrari” alla revisione (che non è proprio un appoggio entusiastico). Il comandante dei marines James Conway è “assolutamente contrario”; e il suo successore designato James Amos è sulla stessa linea.
Che Obama non fosse il presidente dei militari, era chiaro fin dall’inizio. Le Forze Armate, specie l’Esercito, più ancora i marines, sono una riserva repubblicana: fosse stato per loro alla Casa Bianca sarebbe arrivato di sicuro John McCain, l’antagonista di Obama, eroe di guerra, pilota della Navy abbattuto su Hanoi e rimasto per sette anni prigioniero dei Vietcong.
Invece, i generali si sono trovati un presidente nero e democratico, che voleva arruolare i gay, ritirarsi dall’Iraq –cosa che ha fatto- e ridisegnare la strategia in Afghanistan. Per farlo, chiamò un idolo dei soldati, il generale Stanley McChrystal, Accademia di West Point, guerra del Golfo e campagna d’Iraq. Il suo comando in Afghanistan è durato un anno, fino a giugno, quando sfogò su Rolling Stone, con linguaggio da caserma, tutto il suo disprezzo verso l’Amministrazione e il presidente. Anche McCrystal i gay in divisa non li vuole proprio.
SPIGOLI: Profumo, la Libia e un licenziamento all'italiana
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/09/2010
Da giorni, Alessandro Profumo era la stella italiana della stampa estera: una stella cadente, la cui scia era stata seguita prima in chiave libica e poi in versione “storia d’amore tempestosa”, che finisce male tra accuse di “arroganza e inaffidabilità” al “Ceo che voleva fare pure il presidente” e che s’era fatto “troppi nemici” tra Fondazioni e politici. Les Echos, che lo aveva già ritratto seduto su un seggiolino eiettabile, e la stampa economica di mezzo mondo scrivono che la Libia è stata solo “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”: le dimissioni sono l’esito di una lotta di potere persa (FT parla di “una caccia coi cani”) tra Mr Arroganza e gli azionisti. L’uscita di scena di Profumo da Ceo d’Unicredit era subito andata, nella notte tra martedì e mercoledì, sulle homepage dei siti di Financial Times e Wall Street Journal. E ieri era tempo di analisi internazionali. Profumo, osserva FT, se ne va senza un successore, che potrebbe esserci per Natale, dopo essere stato “a lungo considerato uno dei più influenti banchieri d’Italia”, rispettato nei centri finanziari per avere costruito un “campione europeo” con asset di mille miliardi di euro da un gruppo di banche regionali italiane. WSJ condivide l’approccio e titola “Il capo di Unicredit se ne va per una faida”.
Il NYT fa risalire “gran parte dei problemi tra Profumo e gli azionisti” ai forti aumenti di capitale e all’assenza di dividendi nel 2008 e alla scarsità degli stessi nel 2009. Il quotidiano americano evoca il ruolo nella vicenda di Mediobanca, la banca d’investimento di cui “il premier Silvio Berlusconi detiene un’ampia quota”. Profumo è stato messo “spalle al muro”, titola Les Echos, che invece coinvolge Cesare Geronzi: “ce l’ha con lui perché lo allontanò dal gruppo al momento della fusione con Capitalia e lo sospetta di avere cercato di bloccare la sua nomina alla testa delle Generali”. Titoli anche su Le Figaro (“costretto alle dimissioni” per “eccesso di autonomia”), il Times, il Guardian, l’Independent, la Bbc, El Pais, Abc e su molti siti Usa – dal Washington Post al San Francisco Chronicle - con lanci di Ap e Bloomberg Molti s’interrogano sul successore; l’Independent si chiede che cosa farà ora Profumo: “Può assecondare la sua passione per l’Inter o fare un po’ più di immersioni subacquee”. Attenzione, però: il manager ha le sue armi e “una volta placò un politico arrabbiato con la banca tirando fuori la foto la foto di uno squalo che aveva scattato lui stesso”.
Da giorni, Alessandro Profumo era la stella italiana della stampa estera: una stella cadente, la cui scia era stata seguita prima in chiave libica e poi in versione “storia d’amore tempestosa”, che finisce male tra accuse di “arroganza e inaffidabilità” al “Ceo che voleva fare pure il presidente” e che s’era fatto “troppi nemici” tra Fondazioni e politici. Les Echos, che lo aveva già ritratto seduto su un seggiolino eiettabile, e la stampa economica di mezzo mondo scrivono che la Libia è stata solo “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”: le dimissioni sono l’esito di una lotta di potere persa (FT parla di “una caccia coi cani”) tra Mr Arroganza e gli azionisti. L’uscita di scena di Profumo da Ceo d’Unicredit era subito andata, nella notte tra martedì e mercoledì, sulle homepage dei siti di Financial Times e Wall Street Journal. E ieri era tempo di analisi internazionali. Profumo, osserva FT, se ne va senza un successore, che potrebbe esserci per Natale, dopo essere stato “a lungo considerato uno dei più influenti banchieri d’Italia”, rispettato nei centri finanziari per avere costruito un “campione europeo” con asset di mille miliardi di euro da un gruppo di banche regionali italiane. WSJ condivide l’approccio e titola “Il capo di Unicredit se ne va per una faida”.
Il NYT fa risalire “gran parte dei problemi tra Profumo e gli azionisti” ai forti aumenti di capitale e all’assenza di dividendi nel 2008 e alla scarsità degli stessi nel 2009. Il quotidiano americano evoca il ruolo nella vicenda di Mediobanca, la banca d’investimento di cui “il premier Silvio Berlusconi detiene un’ampia quota”. Profumo è stato messo “spalle al muro”, titola Les Echos, che invece coinvolge Cesare Geronzi: “ce l’ha con lui perché lo allontanò dal gruppo al momento della fusione con Capitalia e lo sospetta di avere cercato di bloccare la sua nomina alla testa delle Generali”. Titoli anche su Le Figaro (“costretto alle dimissioni” per “eccesso di autonomia”), il Times, il Guardian, l’Independent, la Bbc, El Pais, Abc e su molti siti Usa – dal Washington Post al San Francisco Chronicle - con lanci di Ap e Bloomberg Molti s’interrogano sul successore; l’Independent si chiede che cosa farà ora Profumo: “Può assecondare la sua passione per l’Inter o fare un po’ più di immersioni subacquee”. Attenzione, però: il manager ha le sue armi e “una volta placò un politico arrabbiato con la banca tirando fuori la foto la foto di uno squalo che aveva scattato lui stesso”.
mercoledì 22 settembre 2010
PENSIERI: i silenzi della sinistra e l'ascesa della destra
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/09/2010
Il Pd è “una maionese mal amalgamata” e la sinistra in Italia e’ “in coma senza respiratore“. Chi l’ha detto?, Berlusconi?, Rutelli?, Capezzone?, Veltroni?, la Santanchè? Nessuno di questi: sono giudizi di El Pais, che certo non è un giornale di destra, espressi dentro un’inchiesta sulla crisi della sinistra in Europa. Eppure, un avversario come Mr B dovrebbe dare coraggio alla sinistra italiana: basta guardare come lo tratta ogni giorno la stampa internazionale (ieri, il Daily Mail aveva sul sito in homepage la foto dell’Espresso di un Berlusconi giovane con sulla scrivania una 357 Magnum).
Che le difficoltà della sinistra siano un dato europeo, non solo italiano, è parere diffuso. Domenica, il Sunday Times attribuiva la “svolta dell’Ue a destra”, simbolizzata dall’atteggiamento sui Rom della Francia, spalleggiata dall’Italia, proprio al “lungo silenzio della sinistra sull’immigrazione”, forse innescata dall’incertezza se indicare una prospettiva di solidarietà o se inseguire i sondaggi della paura. E, ieri, l’Independent e Les Echos denunciavano con titoli praticamente identici “L’ascesa dell’estrema destra in Europa“. L’Independent ricorda che il successo in Svezia del partito anti-immigrazione viene dopo una serie di affermazioni dell’estrema destra anti-islamica in Olanda, Belgio, Svizzera, Austria, Ungheria e Norvegia. E Les Echos individua un “ciclo dell’intolleranza”: “Come la Lega Nord in Italia, diversi partiti regionalisti ostili agli stranieri hanno il vento in poppa. Il fenomeno non è nuovo, ma la crisi, con l’aumento della disoccupazione, gli ridà vigore“.
Mentre la sinistra, in Europa, ma specie in Italia, si fa spesso del male da sola: invece di proporre alternative alle scelte di destra, si perde in litigi tra nostalgie e velleità. Su El Pais, Sergio Mora scrive: “La sensazione è che il Pd, più che un partito di governo riformista, sia una maionese mal amalgamata di ex democristiani e di ex comunisti che cercano di mantenere i loro privilegi” (e inseguono il consenso a Porta a Porta e al Festival di Sanremo). Stando ai sondaggi, “gli italiani lo identificano sempre più con la vecchia politica e non si fidano dei suoi giovani”. Se Bersani è “un protetto dell’apparato senza carisma”, il Pd tira avanti “diviso come sempre e senza il coraggio di essere di sinistra”: così, attira appena il 25% delle intenzioni di voto.
Il Pd è “una maionese mal amalgamata” e la sinistra in Italia e’ “in coma senza respiratore“. Chi l’ha detto?, Berlusconi?, Rutelli?, Capezzone?, Veltroni?, la Santanchè? Nessuno di questi: sono giudizi di El Pais, che certo non è un giornale di destra, espressi dentro un’inchiesta sulla crisi della sinistra in Europa. Eppure, un avversario come Mr B dovrebbe dare coraggio alla sinistra italiana: basta guardare come lo tratta ogni giorno la stampa internazionale (ieri, il Daily Mail aveva sul sito in homepage la foto dell’Espresso di un Berlusconi giovane con sulla scrivania una 357 Magnum).
Che le difficoltà della sinistra siano un dato europeo, non solo italiano, è parere diffuso. Domenica, il Sunday Times attribuiva la “svolta dell’Ue a destra”, simbolizzata dall’atteggiamento sui Rom della Francia, spalleggiata dall’Italia, proprio al “lungo silenzio della sinistra sull’immigrazione”, forse innescata dall’incertezza se indicare una prospettiva di solidarietà o se inseguire i sondaggi della paura. E, ieri, l’Independent e Les Echos denunciavano con titoli praticamente identici “L’ascesa dell’estrema destra in Europa“. L’Independent ricorda che il successo in Svezia del partito anti-immigrazione viene dopo una serie di affermazioni dell’estrema destra anti-islamica in Olanda, Belgio, Svizzera, Austria, Ungheria e Norvegia. E Les Echos individua un “ciclo dell’intolleranza”: “Come la Lega Nord in Italia, diversi partiti regionalisti ostili agli stranieri hanno il vento in poppa. Il fenomeno non è nuovo, ma la crisi, con l’aumento della disoccupazione, gli ridà vigore“.
Mentre la sinistra, in Europa, ma specie in Italia, si fa spesso del male da sola: invece di proporre alternative alle scelte di destra, si perde in litigi tra nostalgie e velleità. Su El Pais, Sergio Mora scrive: “La sensazione è che il Pd, più che un partito di governo riformista, sia una maionese mal amalgamata di ex democristiani e di ex comunisti che cercano di mantenere i loro privilegi” (e inseguono il consenso a Porta a Porta e al Festival di Sanremo). Stando ai sondaggi, “gli italiani lo identificano sempre più con la vecchia politica e non si fidano dei suoi giovani”. Se Bersani è “un protetto dell’apparato senza carisma”, il Pd tira avanti “diviso come sempre e senza il coraggio di essere di sinistra”: così, attira appena il 25% delle intenzioni di voto.
martedì 21 settembre 2010
Papa, Bush e Sakineh, quando la 'bufala' fa notizia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/09/2010
Bufale ed esagerazioni, notizie inventate e notizie deformate, errori e doli: la storia del giornalismo, e ancora prima la storia dell'umanita', e' fitta di panzane che, per sbaglio o deliberatamente, hanno conquistato spazio e credibilita' (e hai voglia, poi, a smantellarle).
Giornalisticamente, le tipologie della bufala sono svariate. C'e' la notizia inventata di sana pianta, perche' utile a certi fini, o semplicemente perche' gustosa: quand'ero giovane cronista, m'affascinava il collega esperto che, dai casi veri della commedia umana, cavava storie totalmente false, ma a tenuta stagna rispetto a ogni smentita.
C'e' la notizia 'gonfiata': un classico, dopo una catastrofe il numero delle vittime dei titoli e' sempre superiore a quello che risultera' dai computi più accurati. Perche'? L'approssimazione delle informazioni disponibili, in primo luogo. Ma anche la convinzione che, ad avere più morti degli altri, si sia più tosti.
E, ancora, c'e' la notizia che e' difficile da verificare, e di cui esistono versioni diverse (e subito, ovviamente, si punta su quella che fa più colpo); e c'e' la notizia che si rivela presto falsa o che viene radicalmente ridimensionata, ma cui non si vuole proprio rinunciare "perche' ormai l'ho prevista", o peggio "l'ho in pagina, in scaletta"; e c'e' la bufala che caccia la bufala, la notizia che vuole fare da antidoto a un'altra, ma che e' anch'essa 'montata'.
Le bufale non sono 'patrimonio' solo giornalistico. Sandro Fontana, in un libro politicamente molto orientato, ha raccontato quelle che lui definisce "le grandi menzogne della storia contemporanea", che vanno -solo per citargliene alcune- dalla "vittoria mutilata" della Grande Guerra ai "crimini del comunismo", da Moro a Berlinguer alla "doppiezze del pacifismo": un'antologia cosi' settaria che potrebbe finire anch'essa fra le "grandi menzogne".
Ma in tutte le bufale dei giorni nostri, che per riuscire bene hanno bisogno di impatto mediatico, c'e' sempre una componente di responsabilita' giornalistica. Pensiamo alla storia delle armi di distruzione di massa che l'Iraq si Saddam non aveva, ma che furono addotte da George Bush e dalla sua cricca di alleati servizievoli, Blair, Aznar, Mr B, come giustificazione dell'invasione. Le fonti erano autorevole, ma la stampa Usa, patriotticamente 'formattata' dall'11 Settembre, ne accetto' le affermazioni in modo acritico.
Dove ci sono di mezzo intelligence e indagini, interessi politici ed economici, le bufale sono all'ordine del giorno: polpette avvelenate servite a colleghi talora (ma non sempre) ignari. Esempio recente: prima dell'estate, un quotidiano pubblico' la foto di un manager della Bmw spacciandolo per il signor Franco, mitico uomo dei servizi dietro la presunta 'trattativa' mafia / Stato. Un errore, poi corretto.
Negli ultimi giorni, le cronache internazionali hanno traversato due grosse bufale, una certa, l'altra ancora 'sub judice. La prima, in fondo la più innocente, e' quella dei sei nusulmani arrestati a Londra perche' minacciavano la sicurezza del Papa in visita. I sei sono stati davvero arrestati ed erano davvero sospettati da Scotland Yard, ma, in realta', non minacciavano nessuno e sono stati liberati (quasi) subito. Certo, c'e' chi ha sparato la notizia proprio grossa, pur essendoci fin dall'inizio indizi di montatura, seguendo più che l'istinto il 'dalli all'arabo'.
Ma la visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna e' stata l'occasione per un'altra 'bufala', più' sottile: vista dall'Italia, e' stata una sorta di conquista d'Albione, molto più che non letta sulla stampa inglese o vista alla Bbc.
Altro fronte, dove il confine e' sottile tra dramma e bufala e, forse, lo si e' varcato più volte, nell'uno e nell'altro senso: la vicenda di Sakineh, la donna-moglie-madre iraniana fustigata, forse addirittura due volte, per adulterio e condannata alla lapidazione per complicita' nell'assassinio de marito. Ora, il presidente iraniano Ahmadinejad, uno da credibilita' zero, afferma che Sakineh non e' mai stata condannata alla lapidazione: la notizia sarebbe stata fabbricata dagli americani per nuocere all'Iran. Ora, almeno una bufala c'e': o la storia di Sakineh o le parole di Ahmadinejad. Ma forse ce ne sono due: di Sakineh, s'e' scritto anche quello che non si sapeva; e il presidente, adesso, cambia il gioco in tavola, tanto nessuno mai avra' accesso alle segrete carte iraniane.
Bufale ed esagerazioni, notizie inventate e notizie deformate, errori e doli: la storia del giornalismo, e ancora prima la storia dell'umanita', e' fitta di panzane che, per sbaglio o deliberatamente, hanno conquistato spazio e credibilita' (e hai voglia, poi, a smantellarle).
Giornalisticamente, le tipologie della bufala sono svariate. C'e' la notizia inventata di sana pianta, perche' utile a certi fini, o semplicemente perche' gustosa: quand'ero giovane cronista, m'affascinava il collega esperto che, dai casi veri della commedia umana, cavava storie totalmente false, ma a tenuta stagna rispetto a ogni smentita.
C'e' la notizia 'gonfiata': un classico, dopo una catastrofe il numero delle vittime dei titoli e' sempre superiore a quello che risultera' dai computi più accurati. Perche'? L'approssimazione delle informazioni disponibili, in primo luogo. Ma anche la convinzione che, ad avere più morti degli altri, si sia più tosti.
E, ancora, c'e' la notizia che e' difficile da verificare, e di cui esistono versioni diverse (e subito, ovviamente, si punta su quella che fa più colpo); e c'e' la notizia che si rivela presto falsa o che viene radicalmente ridimensionata, ma cui non si vuole proprio rinunciare "perche' ormai l'ho prevista", o peggio "l'ho in pagina, in scaletta"; e c'e' la bufala che caccia la bufala, la notizia che vuole fare da antidoto a un'altra, ma che e' anch'essa 'montata'.
Le bufale non sono 'patrimonio' solo giornalistico. Sandro Fontana, in un libro politicamente molto orientato, ha raccontato quelle che lui definisce "le grandi menzogne della storia contemporanea", che vanno -solo per citargliene alcune- dalla "vittoria mutilata" della Grande Guerra ai "crimini del comunismo", da Moro a Berlinguer alla "doppiezze del pacifismo": un'antologia cosi' settaria che potrebbe finire anch'essa fra le "grandi menzogne".
Ma in tutte le bufale dei giorni nostri, che per riuscire bene hanno bisogno di impatto mediatico, c'e' sempre una componente di responsabilita' giornalistica. Pensiamo alla storia delle armi di distruzione di massa che l'Iraq si Saddam non aveva, ma che furono addotte da George Bush e dalla sua cricca di alleati servizievoli, Blair, Aznar, Mr B, come giustificazione dell'invasione. Le fonti erano autorevole, ma la stampa Usa, patriotticamente 'formattata' dall'11 Settembre, ne accetto' le affermazioni in modo acritico.
Dove ci sono di mezzo intelligence e indagini, interessi politici ed economici, le bufale sono all'ordine del giorno: polpette avvelenate servite a colleghi talora (ma non sempre) ignari. Esempio recente: prima dell'estate, un quotidiano pubblico' la foto di un manager della Bmw spacciandolo per il signor Franco, mitico uomo dei servizi dietro la presunta 'trattativa' mafia / Stato. Un errore, poi corretto.
Negli ultimi giorni, le cronache internazionali hanno traversato due grosse bufale, una certa, l'altra ancora 'sub judice. La prima, in fondo la più innocente, e' quella dei sei nusulmani arrestati a Londra perche' minacciavano la sicurezza del Papa in visita. I sei sono stati davvero arrestati ed erano davvero sospettati da Scotland Yard, ma, in realta', non minacciavano nessuno e sono stati liberati (quasi) subito. Certo, c'e' chi ha sparato la notizia proprio grossa, pur essendoci fin dall'inizio indizi di montatura, seguendo più che l'istinto il 'dalli all'arabo'.
Ma la visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna e' stata l'occasione per un'altra 'bufala', più' sottile: vista dall'Italia, e' stata una sorta di conquista d'Albione, molto più che non letta sulla stampa inglese o vista alla Bbc.
Altro fronte, dove il confine e' sottile tra dramma e bufala e, forse, lo si e' varcato più volte, nell'uno e nell'altro senso: la vicenda di Sakineh, la donna-moglie-madre iraniana fustigata, forse addirittura due volte, per adulterio e condannata alla lapidazione per complicita' nell'assassinio de marito. Ora, il presidente iraniano Ahmadinejad, uno da credibilita' zero, afferma che Sakineh non e' mai stata condannata alla lapidazione: la notizia sarebbe stata fabbricata dagli americani per nuocere all'Iran. Ora, almeno una bufala c'e': o la storia di Sakineh o le parole di Ahmadinejad. Ma forse ce ne sono due: di Sakineh, s'e' scritto anche quello che non si sapeva; e il presidente, adesso, cambia il gioco in tavola, tanto nessuno mai avra' accesso alle segrete carte iraniane.
SPIGOLI: Rom, sinistra tace ed Europa svolta a destra
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/09/2010
Se l'Europa svolta a destra, sull'immigrazione e sui temi ad essa legati del razzismo e della xenofobia, la colpa e' della sinistra, che troppo a lungo ha taciuto. La tesi del Sunday Times appare provocatoria, ma e' attualissima e trae forza ed intensita' dal Vertice dell'Ue sui Rom della scorsa settimana e dal voto di domenica in Svezia, dove l'estrema destra e' entrata per la prima volta in Parlamento, compromettendo la governabilita' del Paese (il centrodestra ha vinto, ma non ha la maggioranza). E, prima, c'erano state le elezioni in Belgio e soprattutto in Olanda. Al Vertice dell'Ue, Francia, Italia e Rep. Ceca, schierati contro l'accoglienza ai Rom, avevano tenuto ferma la loro posizione (e il Dauphiné Libéré aveva titolato "Sarkozy e Berlusconi contro il resto del mondo!"). Una dichiarazione in merito di Daniel Cohn-Bendit, un leader del Maggio '68, oggi capogruppo dei Verdi al Parlamento europeo, tiene banco sulla stampa francese: "Sarkozy si berlusconizza -dice Cohn-Bendit-. E' l'immagine di Sarkozy che si deteriora, non quelal della Francia" (NouvelObs, Le Figaro, Le Monde). Per l'Independent, la disputa sui Rom con la Merkel, contraria ai rimpatrii, lascia Sarkozy più isolato che mai, mentre il Guardian ribadisce che "la discriminazione dei Rom è un problema europeo".
Se l'Europa svolta a destra, sull'immigrazione e sui temi ad essa legati del razzismo e della xenofobia, la colpa e' della sinistra, che troppo a lungo ha taciuto. La tesi del Sunday Times appare provocatoria, ma e' attualissima e trae forza ed intensita' dal Vertice dell'Ue sui Rom della scorsa settimana e dal voto di domenica in Svezia, dove l'estrema destra e' entrata per la prima volta in Parlamento, compromettendo la governabilita' del Paese (il centrodestra ha vinto, ma non ha la maggioranza). E, prima, c'erano state le elezioni in Belgio e soprattutto in Olanda. Al Vertice dell'Ue, Francia, Italia e Rep. Ceca, schierati contro l'accoglienza ai Rom, avevano tenuto ferma la loro posizione (e il Dauphiné Libéré aveva titolato "Sarkozy e Berlusconi contro il resto del mondo!"). Una dichiarazione in merito di Daniel Cohn-Bendit, un leader del Maggio '68, oggi capogruppo dei Verdi al Parlamento europeo, tiene banco sulla stampa francese: "Sarkozy si berlusconizza -dice Cohn-Bendit-. E' l'immagine di Sarkozy che si deteriora, non quelal della Francia" (NouvelObs, Le Figaro, Le Monde). Per l'Independent, la disputa sui Rom con la Merkel, contraria ai rimpatrii, lascia Sarkozy più isolato che mai, mentre il Guardian ribadisce che "la discriminazione dei Rom è un problema europeo".
domenica 19 settembre 2010
Afghanistan: elezioni, italiani nell'epicentro della paura
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/09/2010
Per gli afghani e' stato il giorno del coraggio, di quelli che sono andati a votare. Ma e' stato anche il giorno della paura, di molti di quelli che non ci sono andati. Ed e' stato un giorno di violenza e di sangue, con scontri, attentati, incidenti, con almeno 14 vittime (ma il bilancio, alla fine, risultera' certamente più grave).
Per i militari italiani, e' stato un giorno complicato, difficile, terribilmente pericoloso, avvelenato dal dolore per l'uccisione venerdì del tenente Romani. La provincia di Herat, nell'Ovest, proprio quella affidata al contingente italiano e' stata l'epicentro degli incidenti più gravi. Ci sono pure stati spari e razzi contro basi degli italiani: tiri di kalashnikov a Bala Morgab, razzi a Bala Baluk. Nessun ferito, gli alpini hanno risposto con i mortai.
S'affaccia il dubbio che i talebani stiano spostando la loro azione militare nella zona di Herat. Se fosse vero, il contingente italiano, che ha gia' subito 30 perdite, si troverebbe in prima linea: un'ipotesi inquietante, mentre la salma di Alessandro Romani, che ha ieri ricevuto l'omaggio dei suoi commilitoni, e' in viaggio per l'Italia. Domani, giorno di lutto a Roma, camera ardente al Celio e poi cerimonia funebre a Santa Maria degli Angeli.
La giornata elettorale e' stata confusa e caotica. L'impressione e' che la 'democrazia' afghana non abbia superato la prova d'appello, dopo le contestate presidenziali, anche se fonti militari Usa e Isaf giudicano le violenze in calo. L'Onu da' giudizi cauti e non pienamente positivi, perche' la sicurezza del voto non e' stata garantita. L'affluenza alle urne, specie fuori dalle grandi citta, non e' stata alta come in passato: bassa a Sud e ad Est, contrastata a Ovest.
Sono solo impressioni, sensazioni, perche' i dati sono scarni e poco attendibili. Si calcola che solo il 40 pc dei 10,5 milioni di potenziali elettori afghani abbiano votato, per scegliere i 249 deputati della Wolesi Jirga, la Camera bassa, fra oltre 2000 candidati. Almeno 68 eletti, per legge, saranno donne.
L'appuntamento elettorale era avversato dai talebani che avevano lanciato un appello al boicottaggio e che, per tenere la gente lontana dalle urne, hanno compiuto violenze ed attentati e hanno ingaggiato combattimenti. I seggi sono rimasti aperti nove ore, dalle 7 alle 16 (ma il 10 pc delle stazioni di voto sono rimasti chiusi). Tutto il territorio afgano e' stato presidiato da forze dell'esercito e della polizia, appoggiate, in caso di emergenza, da reparti di pronto intervento americani o alleati. Gli italiani hanno compiuto diversi interventi.
Tutto il territorio nazionale è presidiato da forze dell'esercito e della polizia afghane, appoggiate per le situazioni di emergenza da reparti di pronto intervento americani e alleati.
Gia' durante la notte, gli insorti avevano colpito con un razzo l'area del quartier generale della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf, sotto comando Nato) nel centro di Kabul, senza fare vittime o danni.
Poco dopo, una bomba e' esplosa in un quartiere a sud della capitale, facendo un ferito, mentre una salva di razzi veniva sparata contro una base della Nato nell'Est a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangahar.
Nella provincia di Herat, un bus carico di persone che stavano presumibilmente andando a votare è saltato su un ordigno: sei i morti e cinque i feriti. Il governatore di Kandahar, Toryali Weesa, e' uscito illeso da un attentato, mentre altre esplosioni hanno ucciso almeno sette uomini della sicurezza afgana nella provincia di Baghlan, a Nord.
Impossibile tenere il conto degli incidenti ai seggi. Un episodio politicamente significativo e' il sequestro di 1.500 schede false per un ex vice-ministro del governo talebano (1996-2001), Rehmatullah Wahidyar, in corsa per un seggio: un indizio che l'atteggiamento dei talebani potrebbe cambiare, soprattutto quando i soldati americani e alleati cominceranno a ritirarsi.
Il presidente Hamid Karzai ha votato in una scuola vicino alla sua residenza, auspicando un'alta affluenza. L'esito delle elezioni, i cui risultati saranno noti solo fra settimane, condizionera' i progetti del capo dello Stato di portare avanti una trattativa di riconciliazione con i talebani. Ma Karzai, per essere credibile agli occhi degli afgani, deve pure combattere corruzione e nepotismo.
Per gli afghani e' stato il giorno del coraggio, di quelli che sono andati a votare. Ma e' stato anche il giorno della paura, di molti di quelli che non ci sono andati. Ed e' stato un giorno di violenza e di sangue, con scontri, attentati, incidenti, con almeno 14 vittime (ma il bilancio, alla fine, risultera' certamente più grave).
Per i militari italiani, e' stato un giorno complicato, difficile, terribilmente pericoloso, avvelenato dal dolore per l'uccisione venerdì del tenente Romani. La provincia di Herat, nell'Ovest, proprio quella affidata al contingente italiano e' stata l'epicentro degli incidenti più gravi. Ci sono pure stati spari e razzi contro basi degli italiani: tiri di kalashnikov a Bala Morgab, razzi a Bala Baluk. Nessun ferito, gli alpini hanno risposto con i mortai.
S'affaccia il dubbio che i talebani stiano spostando la loro azione militare nella zona di Herat. Se fosse vero, il contingente italiano, che ha gia' subito 30 perdite, si troverebbe in prima linea: un'ipotesi inquietante, mentre la salma di Alessandro Romani, che ha ieri ricevuto l'omaggio dei suoi commilitoni, e' in viaggio per l'Italia. Domani, giorno di lutto a Roma, camera ardente al Celio e poi cerimonia funebre a Santa Maria degli Angeli.
La giornata elettorale e' stata confusa e caotica. L'impressione e' che la 'democrazia' afghana non abbia superato la prova d'appello, dopo le contestate presidenziali, anche se fonti militari Usa e Isaf giudicano le violenze in calo. L'Onu da' giudizi cauti e non pienamente positivi, perche' la sicurezza del voto non e' stata garantita. L'affluenza alle urne, specie fuori dalle grandi citta, non e' stata alta come in passato: bassa a Sud e ad Est, contrastata a Ovest.
Sono solo impressioni, sensazioni, perche' i dati sono scarni e poco attendibili. Si calcola che solo il 40 pc dei 10,5 milioni di potenziali elettori afghani abbiano votato, per scegliere i 249 deputati della Wolesi Jirga, la Camera bassa, fra oltre 2000 candidati. Almeno 68 eletti, per legge, saranno donne.
L'appuntamento elettorale era avversato dai talebani che avevano lanciato un appello al boicottaggio e che, per tenere la gente lontana dalle urne, hanno compiuto violenze ed attentati e hanno ingaggiato combattimenti. I seggi sono rimasti aperti nove ore, dalle 7 alle 16 (ma il 10 pc delle stazioni di voto sono rimasti chiusi). Tutto il territorio afgano e' stato presidiato da forze dell'esercito e della polizia, appoggiate, in caso di emergenza, da reparti di pronto intervento americani o alleati. Gli italiani hanno compiuto diversi interventi.
Tutto il territorio nazionale è presidiato da forze dell'esercito e della polizia afghane, appoggiate per le situazioni di emergenza da reparti di pronto intervento americani e alleati.
Gia' durante la notte, gli insorti avevano colpito con un razzo l'area del quartier generale della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf, sotto comando Nato) nel centro di Kabul, senza fare vittime o danni.
Poco dopo, una bomba e' esplosa in un quartiere a sud della capitale, facendo un ferito, mentre una salva di razzi veniva sparata contro una base della Nato nell'Est a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangahar.
Nella provincia di Herat, un bus carico di persone che stavano presumibilmente andando a votare è saltato su un ordigno: sei i morti e cinque i feriti. Il governatore di Kandahar, Toryali Weesa, e' uscito illeso da un attentato, mentre altre esplosioni hanno ucciso almeno sette uomini della sicurezza afgana nella provincia di Baghlan, a Nord.
Impossibile tenere il conto degli incidenti ai seggi. Un episodio politicamente significativo e' il sequestro di 1.500 schede false per un ex vice-ministro del governo talebano (1996-2001), Rehmatullah Wahidyar, in corsa per un seggio: un indizio che l'atteggiamento dei talebani potrebbe cambiare, soprattutto quando i soldati americani e alleati cominceranno a ritirarsi.
Il presidente Hamid Karzai ha votato in una scuola vicino alla sua residenza, auspicando un'alta affluenza. L'esito delle elezioni, i cui risultati saranno noti solo fra settimane, condizionera' i progetti del capo dello Stato di portare avanti una trattativa di riconciliazione con i talebani. Ma Karzai, per essere credibile agli occhi degli afgani, deve pure combattere corruzione e nepotismo.
SPIGOLI: il calcio fa sempre titolo, scioperi, spogliatoi e Sara
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/09/2010, non pubblicato
Dai Mondiali in poi, il calcio italiano non fa più titolo per i suoi successi, ma continua a interessare il Mondo intero: lo ‘sciopero dei milionari’, di cui tanto si discute (e che alla fine, scommettiamoci!, non ci sarà o sarà una burletta), e pure le novità del campionato, che non sono i giocatori o i moduli o le prodezze, ma le telecamere negli spogliatoi e Sara Carbonero a Mediaset Premium. L’ipotesi di ‘astensione dal lavoro’ il 25 e 26 settembre attira ironia mondiali un po’ gratuite per i tanti giocatori professionisti delle serie minori che non navigano nell’oro e che stanno in società spesso traballanti. Il WSJ, testata a vocazione economica, esordisce con un gioco di parole brillante (“Gli scioperanti italiani hanno un nuovo ‘goal’“, ambivalente per gol, rete, e obiettivo), ma poi scivola nel luogo comune datato: “Il calcio italiano non brilla per fuochi d'artificio ed è specialista in 0-0. Ora farà ancora meno gol del solito ... causa sciopero”. Sui siti Usa, invece, va forte una Ap sui “giornalisti negli spogliatoi”: merce quasi corrente in America, ma “in Europa impensabile”, fino alle riprese di Sky (senza interviste). Infine, la Carbonero, il cui maggiore exploit mediatico e professionale è finora il bacio in diretta del fidanzato neo-campione del mondo, il portiere spagnolo Casillas: la giovane collega ha le sue grane perché in Italia l’hanno presentata come vice-direttore sport di TeleCinco, mentre lei si schernisce su El Mundo, “Sono solo una redattrice”.
Dai Mondiali in poi, il calcio italiano non fa più titolo per i suoi successi, ma continua a interessare il Mondo intero: lo ‘sciopero dei milionari’, di cui tanto si discute (e che alla fine, scommettiamoci!, non ci sarà o sarà una burletta), e pure le novità del campionato, che non sono i giocatori o i moduli o le prodezze, ma le telecamere negli spogliatoi e Sara Carbonero a Mediaset Premium. L’ipotesi di ‘astensione dal lavoro’ il 25 e 26 settembre attira ironia mondiali un po’ gratuite per i tanti giocatori professionisti delle serie minori che non navigano nell’oro e che stanno in società spesso traballanti. Il WSJ, testata a vocazione economica, esordisce con un gioco di parole brillante (“Gli scioperanti italiani hanno un nuovo ‘goal’“, ambivalente per gol, rete, e obiettivo), ma poi scivola nel luogo comune datato: “Il calcio italiano non brilla per fuochi d'artificio ed è specialista in 0-0. Ora farà ancora meno gol del solito ... causa sciopero”. Sui siti Usa, invece, va forte una Ap sui “giornalisti negli spogliatoi”: merce quasi corrente in America, ma “in Europa impensabile”, fino alle riprese di Sky (senza interviste). Infine, la Carbonero, il cui maggiore exploit mediatico e professionale è finora il bacio in diretta del fidanzato neo-campione del mondo, il portiere spagnolo Casillas: la giovane collega ha le sue grane perché in Italia l’hanno presentata come vice-direttore sport di TeleCinco, mentre lei si schernisce su El Mundo, “Sono solo una redattrice”.
sabato 18 settembre 2010
Afghanistan: talebani votano col sangue, ucciso un italiano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/09/2010
Ancora sangue italiano nella guerra afgana. Un ufficiale delle forze speciali italiane è stato ucciso mentre partecipava a un’operazione contro gli insorti; un soldato semplice è rimasto ferito. I due sono stati raggiunti da tiri d’arma da fuoco cercando di catturare quattro individui che poco prima avevano piazzato un ordigno lungo una strada.
Il tragico episodio è avvenuto nel distretto di Bakwa, nella provincia di Farah, poche ore prima dell’apertura dei seggi per le elezioni politiche. E, la notte, un razzo è stato tirato contro la base italiana di Shindand, a sud di Herat, senza fare vittime.
In mattinata, un Predator, un aereo senza pilota, aveva intercettato terroristi in azione sulla via per Delaram, li aveva seguiti e ne aveva segnalato il covo. E’ scattata la Task Force 45: commandos delle forze speciali, a bordo d’un elicottero Ch47 scortato da due Mangusta, hanno raggiunto il luogo indicato, accolti da tiri forse di Kalashnikov.
Soccorsi, i due militari colpiti sono stati trasportati all'ospedale da campo di Farah. Il tenente Alessandro Romani non ce l’ha fatta. Romani, 36 anni, celibe, del reggimento d’assalto Col Moschin, numerose missioni all’estero, e’ il 30.o caduto italiano in Afghanistan, l’ottavo quest’anno.
Oggi si vota, in un Paese segnato da un conflitto lungo nove anni e che non è mai stato così sanguinoso per le truppe internazionali come quest’anno. Verso
le elezioni, i talebani hanno invitato gli afgani a boicottare le urne e unirsi “alla resistenza” contro gli “invasori”, minacciando attacchi ai seggi e sulle strade –i quattro sorpresi dagli italiani ne stavano preparando uno-. I dati dicono che 10,5 milioni di cittadini possono scegliere fra i circa 2.500 candidati –due, ieri, sono stati vittime di un rapimento- i 249 deputati della Camera. I seggi operativi sono circa 6.000, mentre un migliaio non apriranno per ragioni di sicurezza.
Al voto si arriva in un’atmosfera di scetticismo sull’andamento della guerra e sull’evoluzione socio-politico-economica del Paese. Il responsabile dell’Onu a Kabul Staffam de Mistura è ottimista: “Probabilmente le elezioni saranno più trasparenti delle presidenziali”, il cui risultato fu lungamente contestato. Ma il presidente Hamid Karzai è il primo a smorzare le attese: “Ci saranno irregolarità”, avverte (il ministro della difesa italiano Ignazio La Russa fa spallucce: “I brogli ci sono pure da noi”).
La vigilia del voto doveva essere una giornata del silenzio: la propaganda s’è fermata, ma le operazioni militari sono continuate, con decine di morti (soldati afgani e stranieri, insorti, civili, bambini) nelle ultime 48 ore. Nell’insieme, però, la prima metà di settembre è stata meno cruenta che i tre mesi precedenti: una ventina i caduti finora fra le forze americane e dell’Isaf. I primi otto mesi hanno già fatto del 2010 l’anno più nero per i militari statunitensi in Afghanistan, con 323 caduti al 31 agosto.
Ma basta la morte di un italiano a togliere significato alla relative quiete delle ultime due settimane, frutto forse dello sforzo militare contro talebani e insorti, che, per il comandante del contingente internazionale, il generale Usa David Petraeus, ha ormai raggiunto il massimo dell’intensità, con tutte le unità previste schierate, oltre 130 mila uomini. E può pure darsi che la resistenza tenesse “fuochi d’artificio” in serbo per oggi e per il dopo elezioni.
Non solo l’atteggiamento dei talebani è stato enigmatico, di recente. Karzai ha formalmente creato una commissione per i colloqui con gli insorti, ma ha pure licenziato il procuratore anti-corruzione del suo governo e ha criticato la strategia militare alleata.
Nel contingente italiano, circa 3500 militari, di cui la metà alpini, il livello di attenzione era già massimo: le elezioni sono classificate “potenzialmente ad alto rischio””, nonostante nell’Ovest del Paese mancassero minacce specifiche (ma si muore anche senza).
Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, ieri in visita a Roma, chiede all’Italia, come ha appena fatto con la Spagna, più istruttori militari per le truppe afgane, che non sono al momento capaci di garantire la sicurezza del loro Paese. Nè il premier Berlusconi né il ministro La Russa hanno detto no, prima che iniziasse la litania delle condoglianze e l’incrocio delle accuse.
Ancora sangue italiano nella guerra afgana. Un ufficiale delle forze speciali italiane è stato ucciso mentre partecipava a un’operazione contro gli insorti; un soldato semplice è rimasto ferito. I due sono stati raggiunti da tiri d’arma da fuoco cercando di catturare quattro individui che poco prima avevano piazzato un ordigno lungo una strada.
Il tragico episodio è avvenuto nel distretto di Bakwa, nella provincia di Farah, poche ore prima dell’apertura dei seggi per le elezioni politiche. E, la notte, un razzo è stato tirato contro la base italiana di Shindand, a sud di Herat, senza fare vittime.
In mattinata, un Predator, un aereo senza pilota, aveva intercettato terroristi in azione sulla via per Delaram, li aveva seguiti e ne aveva segnalato il covo. E’ scattata la Task Force 45: commandos delle forze speciali, a bordo d’un elicottero Ch47 scortato da due Mangusta, hanno raggiunto il luogo indicato, accolti da tiri forse di Kalashnikov.
Soccorsi, i due militari colpiti sono stati trasportati all'ospedale da campo di Farah. Il tenente Alessandro Romani non ce l’ha fatta. Romani, 36 anni, celibe, del reggimento d’assalto Col Moschin, numerose missioni all’estero, e’ il 30.o caduto italiano in Afghanistan, l’ottavo quest’anno.
Oggi si vota, in un Paese segnato da un conflitto lungo nove anni e che non è mai stato così sanguinoso per le truppe internazionali come quest’anno. Verso
le elezioni, i talebani hanno invitato gli afgani a boicottare le urne e unirsi “alla resistenza” contro gli “invasori”, minacciando attacchi ai seggi e sulle strade –i quattro sorpresi dagli italiani ne stavano preparando uno-. I dati dicono che 10,5 milioni di cittadini possono scegliere fra i circa 2.500 candidati –due, ieri, sono stati vittime di un rapimento- i 249 deputati della Camera. I seggi operativi sono circa 6.000, mentre un migliaio non apriranno per ragioni di sicurezza.
Al voto si arriva in un’atmosfera di scetticismo sull’andamento della guerra e sull’evoluzione socio-politico-economica del Paese. Il responsabile dell’Onu a Kabul Staffam de Mistura è ottimista: “Probabilmente le elezioni saranno più trasparenti delle presidenziali”, il cui risultato fu lungamente contestato. Ma il presidente Hamid Karzai è il primo a smorzare le attese: “Ci saranno irregolarità”, avverte (il ministro della difesa italiano Ignazio La Russa fa spallucce: “I brogli ci sono pure da noi”).
La vigilia del voto doveva essere una giornata del silenzio: la propaganda s’è fermata, ma le operazioni militari sono continuate, con decine di morti (soldati afgani e stranieri, insorti, civili, bambini) nelle ultime 48 ore. Nell’insieme, però, la prima metà di settembre è stata meno cruenta che i tre mesi precedenti: una ventina i caduti finora fra le forze americane e dell’Isaf. I primi otto mesi hanno già fatto del 2010 l’anno più nero per i militari statunitensi in Afghanistan, con 323 caduti al 31 agosto.
Ma basta la morte di un italiano a togliere significato alla relative quiete delle ultime due settimane, frutto forse dello sforzo militare contro talebani e insorti, che, per il comandante del contingente internazionale, il generale Usa David Petraeus, ha ormai raggiunto il massimo dell’intensità, con tutte le unità previste schierate, oltre 130 mila uomini. E può pure darsi che la resistenza tenesse “fuochi d’artificio” in serbo per oggi e per il dopo elezioni.
Non solo l’atteggiamento dei talebani è stato enigmatico, di recente. Karzai ha formalmente creato una commissione per i colloqui con gli insorti, ma ha pure licenziato il procuratore anti-corruzione del suo governo e ha criticato la strategia militare alleata.
Nel contingente italiano, circa 3500 militari, di cui la metà alpini, il livello di attenzione era già massimo: le elezioni sono classificate “potenzialmente ad alto rischio””, nonostante nell’Ovest del Paese mancassero minacce specifiche (ma si muore anche senza).
Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, ieri in visita a Roma, chiede all’Italia, come ha appena fatto con la Spagna, più istruttori militari per le truppe afgane, che non sono al momento capaci di garantire la sicurezza del loro Paese. Nè il premier Berlusconi né il ministro La Russa hanno detto no, prima che iniziasse la litania delle condoglianze e l’incrocio delle accuse.
SPIGOLI: Rom, Berluskozy fallisce conquista Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/09/2010
Sulla stampa internazionale, Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi ci hanno fatto una misera figura, al Vertice dell’Ue di Bruxelles: altro che nobili storiche linee della Marna, o del Piave; il loro è un fronte del porto da “via i Rom”. Per il NYT, “i Rom mettono alla prova le frontiere aperte d’Europa”. In editoriali, l’Independent bolla la “politica spregevole” (“l’Ue deve scusarsi per l’insulto ‘nazi’ della commissaria Reding, mentre Sarkozy va all'attacco e Berlusconi loda la politica delle espulsioni della Francia”); ed El Pais nota che, in un’Europa “sottosopra”, i leader “si limitano a censurare la commissaria”. Il Time, che vede la Spagna dei gitani come modello d’integrazione; il Guardian, che coglie “l’atteggiamento di sfida” del duo Sarkozconi; e WSJ, FT, Telegraph sono allineati. E l’Economist scrive: “Perseguitare i Rom non risolverà il principale problema sociale d'Europa. l'istruzione potrebbe”. La stampa francese punta sullo smacco inflitto della Merkel a Sarkozy: NouvelObs, Le Monde, Libération, titolano sulla “smentita” del cancelliere al presidente, che l’aveva arruolata nel partito anti-rom. Le Figaro dice: “il clima si tende tra Parigi e Berlino”, perché la Francia “vuole rendere europeo il dossier Rom”. La stampa spagnola è fredda verso Zapatero, che tace sulla sostanza, risparmia la Francia e se la prende con la Reding. Di Mr B, El Mundo cita la pretesa che i commissari europei si tacciano, mentre Le Monde lo racconta “al mercato" per conservare la maggioranza.
Sulla stampa internazionale, Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi ci hanno fatto una misera figura, al Vertice dell’Ue di Bruxelles: altro che nobili storiche linee della Marna, o del Piave; il loro è un fronte del porto da “via i Rom”. Per il NYT, “i Rom mettono alla prova le frontiere aperte d’Europa”. In editoriali, l’Independent bolla la “politica spregevole” (“l’Ue deve scusarsi per l’insulto ‘nazi’ della commissaria Reding, mentre Sarkozy va all'attacco e Berlusconi loda la politica delle espulsioni della Francia”); ed El Pais nota che, in un’Europa “sottosopra”, i leader “si limitano a censurare la commissaria”. Il Time, che vede la Spagna dei gitani come modello d’integrazione; il Guardian, che coglie “l’atteggiamento di sfida” del duo Sarkozconi; e WSJ, FT, Telegraph sono allineati. E l’Economist scrive: “Perseguitare i Rom non risolverà il principale problema sociale d'Europa. l'istruzione potrebbe”. La stampa francese punta sullo smacco inflitto della Merkel a Sarkozy: NouvelObs, Le Monde, Libération, titolano sulla “smentita” del cancelliere al presidente, che l’aveva arruolata nel partito anti-rom. Le Figaro dice: “il clima si tende tra Parigi e Berlino”, perché la Francia “vuole rendere europeo il dossier Rom”. La stampa spagnola è fredda verso Zapatero, che tace sulla sostanza, risparmia la Francia e se la prende con la Reding. Di Mr B, El Mundo cita la pretesa che i commissari europei si tacciano, mentre Le Monde lo racconta “al mercato" per conservare la maggioranza.
venerdì 17 settembre 2010
Rom: Sarkozy (e Berlusconi) contro tutti a Vertice Ue
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/09/2010
Spalleggiato da Silvio Berlusconi e dal premier ceco Petr Necas, Nicolas Sarkozy non si smuove d’un centimetro: la Francia - dice ai capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue, riuniti a Bruxelles – andrà avanti a smantellare “i campi illegali” sul proprio territorio, quali che siano la nazionalità, l’origine e l’etnia degli occupanti. E il presidente francese aggiunge: “La Francia ha agito e continuerà ad agire nello spirito delle norme europee”. Parole che stridono, visto che il Parlamento europeo ha censurato le autorità di Parigi, chiedendo lo stop ai rimpatrii, e che la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro la Francia.
Sarkozy lascia Bruxelles ‘arruolando’ che il cancelliere tedesco Angela Merkel nel partito dei rimpatrii. “Un’ipotesi surreale”, lo gelano le fonti tedesche: il presidente prende lucciole per lanterne. Per lui, sono giorni tesi: i rom, le pensioni, gli scandali, e quell’italiano, Mr B, che gli sta appiccicato addosso come una mignatta e che lo scredita agli occhi dei francesi.
Mercoledì, Sarkozy aveva avuto un match verbale con la commissaria europea Viviane Reding, che aveva collegato la chiusura dei campi a quanto avveniva
in Europa nella Seconda Guerra Mondiale. A quelle parole, il presidente aveva replicato: “Accoglili tu nel tuo Paese”, il piccolo Lussemburgo, i Rom.
Nonostante le scuse della Reding, il Vertice non fila via liscio. C’è uno scontro verbale tra Sarkozy e il presidente della Commissione Josè Manuel Durao Barroso, che tiene anch’egli il punto: Bruxelles deve far osservare a Parigi il diritto europeo. C’è nervosismo fra i leader, anche se tutti alla fine ripetono il ritornello del rispetto reciproco Stati-Istituzioni, condito da rimbrotti alla Reding. “Ha sbagliato, s’è scusata –nota Barroso-. Altri fanno populismo”.
Il Vertice concorda una dichiarazione del presidente stabile Herman Van Rompuy: ogni Stato ha diritto di fare rispettare la legge sul proprio territorio; le Istituzioni comuni devono vigilare sul rispetto delle norme Ue da parte degli Stati; la Reding è andata troppo oltre, ma tra Stati e Istituzioni deve esserci reciproco rispetto. E dei Rom che facciamo? Ne parliamo la prossima volta.
Neppure per Berlusconi, tutto è filato liscio ieri. L’aereo di Mr B ha compiuto un atterraggio di fortuna a Linate, per via d’un finestrino rotto. E, la sera, finiti i lavori, il premier è ripartito da Bruxelles senza rispondere a domande. Al Vertice, Berlusconi è stato fido scudiero del presidente Sarkozy: vi era giunto dicendo che la convergenza tra Francia e Italia avrebbe scosso l’Unione, mentre il ministro dell’interno Roberto Maroni benediceva Parigi che “ha agito bene applicando le norme Ue, senza deportazioni di massa”. Al tavolo dei leader, Mr B insiste perché la Commissione si consulti sempre con gli Stati –cosa che già avviene- prima di contestarne le scelte. E fa sua la linea Van Rompuy.
Il Vertice europeo doveva in realtà discutere le riforme del Patto di Stabilità e di crescita e della governance economica Ue, ma ha rinviato le decisioni a otobre, limitandosi ad avallare misure già prese dai ministri delle finanze, come il varo di un semestre europeo per mettere a punto le finanziarie dei vari Paesi europei. I 27 hanno discusso una strategia comune di politica estera verso i maggiori partner e deciso la linea per il Vertice dell’Onu sugli obiettivi del Millennio per lo sviluppo: nella lotta contro la povertà, l’Ue vuole mobilitazione e condivisione delle responsabilità su scala mondiale.
Spalleggiato da Silvio Berlusconi e dal premier ceco Petr Necas, Nicolas Sarkozy non si smuove d’un centimetro: la Francia - dice ai capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue, riuniti a Bruxelles – andrà avanti a smantellare “i campi illegali” sul proprio territorio, quali che siano la nazionalità, l’origine e l’etnia degli occupanti. E il presidente francese aggiunge: “La Francia ha agito e continuerà ad agire nello spirito delle norme europee”. Parole che stridono, visto che il Parlamento europeo ha censurato le autorità di Parigi, chiedendo lo stop ai rimpatrii, e che la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro la Francia.
Sarkozy lascia Bruxelles ‘arruolando’ che il cancelliere tedesco Angela Merkel nel partito dei rimpatrii. “Un’ipotesi surreale”, lo gelano le fonti tedesche: il presidente prende lucciole per lanterne. Per lui, sono giorni tesi: i rom, le pensioni, gli scandali, e quell’italiano, Mr B, che gli sta appiccicato addosso come una mignatta e che lo scredita agli occhi dei francesi.
Mercoledì, Sarkozy aveva avuto un match verbale con la commissaria europea Viviane Reding, che aveva collegato la chiusura dei campi a quanto avveniva
in Europa nella Seconda Guerra Mondiale. A quelle parole, il presidente aveva replicato: “Accoglili tu nel tuo Paese”, il piccolo Lussemburgo, i Rom.
Nonostante le scuse della Reding, il Vertice non fila via liscio. C’è uno scontro verbale tra Sarkozy e il presidente della Commissione Josè Manuel Durao Barroso, che tiene anch’egli il punto: Bruxelles deve far osservare a Parigi il diritto europeo. C’è nervosismo fra i leader, anche se tutti alla fine ripetono il ritornello del rispetto reciproco Stati-Istituzioni, condito da rimbrotti alla Reding. “Ha sbagliato, s’è scusata –nota Barroso-. Altri fanno populismo”.
Il Vertice concorda una dichiarazione del presidente stabile Herman Van Rompuy: ogni Stato ha diritto di fare rispettare la legge sul proprio territorio; le Istituzioni comuni devono vigilare sul rispetto delle norme Ue da parte degli Stati; la Reding è andata troppo oltre, ma tra Stati e Istituzioni deve esserci reciproco rispetto. E dei Rom che facciamo? Ne parliamo la prossima volta.
Neppure per Berlusconi, tutto è filato liscio ieri. L’aereo di Mr B ha compiuto un atterraggio di fortuna a Linate, per via d’un finestrino rotto. E, la sera, finiti i lavori, il premier è ripartito da Bruxelles senza rispondere a domande. Al Vertice, Berlusconi è stato fido scudiero del presidente Sarkozy: vi era giunto dicendo che la convergenza tra Francia e Italia avrebbe scosso l’Unione, mentre il ministro dell’interno Roberto Maroni benediceva Parigi che “ha agito bene applicando le norme Ue, senza deportazioni di massa”. Al tavolo dei leader, Mr B insiste perché la Commissione si consulti sempre con gli Stati –cosa che già avviene- prima di contestarne le scelte. E fa sua la linea Van Rompuy.
Il Vertice europeo doveva in realtà discutere le riforme del Patto di Stabilità e di crescita e della governance economica Ue, ma ha rinviato le decisioni a otobre, limitandosi ad avallare misure già prese dai ministri delle finanze, come il varo di un semestre europeo per mettere a punto le finanziarie dei vari Paesi europei. I 27 hanno discusso una strategia comune di politica estera verso i maggiori partner e deciso la linea per il Vertice dell’Onu sugli obiettivi del Millennio per lo sviluppo: nella lotta contro la povertà, l’Ue vuole mobilitazione e condivisione delle responsabilità su scala mondiale.
SPIGOLI: Rom, bordate Ue anti-Sarkozy investono Mr B
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/09/2010
La stampa francese si fa partecipe del filo diretto Berlusconi-Sarkozy, con un’intervista di le Figaro a Mr B, mentre le polemiche sui Rom investono soprattutto la Francia, ma coinvolgono l’Italia, che sta con Parigi. Scatenati i britannici: FT fa un editoriale senza mezze misure, “Le azioni vergognose di Sarkozy”; il Guardian è ancora più pesante, “Il trattamento dei Rom, la vergogna di un continente … La Francia merita di essere cacciata dall’Ue per le deportazioni…”. El Pais nota che “l’Europa è contro Sarkozy”, con l’eccezione di Berlusconi che “appoggia la Francia contro i Rom”, i “gitani”. Le Monde, Libération, Les Echos, NouvelObs, ma pure la stampa americana. Parlano di “conflitto aperto” tra Bruxelles e Parigi, in un Vertice “dominato dal problema Rom”. L’Italia non è però protagonista solo per l’alleanza con la Francia su una causa sbagliata, ma anche per gli sviluppi della sparatoria libica contro un peschereccio siciliano. La stampa estera ironizza sull’imbelle risposta italiana: l’Independent vale per tutti, “La marina libica mette un insolito ‘post scriptum’ alla visita a Roma del suo leader. La risposta del governo Berlusconi? Il capitano sapeva che stavano pescando illegalmente”. E, intanto, il NYT osserva l’ascesa in Italia “di un nuovo potere”: “La Lega Nord –scrive- è il partito più potente d'Italia: ha in mano la sopravvivenza del premier”.
La stampa francese si fa partecipe del filo diretto Berlusconi-Sarkozy, con un’intervista di le Figaro a Mr B, mentre le polemiche sui Rom investono soprattutto la Francia, ma coinvolgono l’Italia, che sta con Parigi. Scatenati i britannici: FT fa un editoriale senza mezze misure, “Le azioni vergognose di Sarkozy”; il Guardian è ancora più pesante, “Il trattamento dei Rom, la vergogna di un continente … La Francia merita di essere cacciata dall’Ue per le deportazioni…”. El Pais nota che “l’Europa è contro Sarkozy”, con l’eccezione di Berlusconi che “appoggia la Francia contro i Rom”, i “gitani”. Le Monde, Libération, Les Echos, NouvelObs, ma pure la stampa americana. Parlano di “conflitto aperto” tra Bruxelles e Parigi, in un Vertice “dominato dal problema Rom”. L’Italia non è però protagonista solo per l’alleanza con la Francia su una causa sbagliata, ma anche per gli sviluppi della sparatoria libica contro un peschereccio siciliano. La stampa estera ironizza sull’imbelle risposta italiana: l’Independent vale per tutti, “La marina libica mette un insolito ‘post scriptum’ alla visita a Roma del suo leader. La risposta del governo Berlusconi? Il capitano sapeva che stavano pescando illegalmente”. E, intanto, il NYT osserva l’ascesa in Italia “di un nuovo potere”: “La Lega Nord –scrive- è il partito più potente d'Italia: ha in mano la sopravvivenza del premier”.
PENSIERI: al tavolo dell'Ue, l'Italia vale Albania + Uganda
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 16/09/2010
Che cosa vale in Europa e nel Mondo l’Italia di Mr B?, un’Italia che si presenta al Vertice dell’Ue alleata della Francia di Sarkozy sui rimpatrii dei Rom, dopo che una motovedetta libica ‘regalata’ da Roma per tenerci alla larga i clandestini ha sparato addosso a un peschereccio siciliano e dopo che la Commissione europea e –prima- il Parlamento europeo hanno ‘bastonato’ il governo di Parigi con una procedura d’infrazione e una mozione di censura.
Vale l’Albania e l’Uganda messe insieme, cioè il due di briscola, anzi meno, perché le due nomine ‘italiane’ di Lady Ashton -pensa te!, chi si prende gioco di noi- sono autentiche beffe: in Albania, viene mandato, come ambasciatore Ue, anzi come capo delegazione, un eccellente diplomatico, Ettore Sequi, che, infatti, rappresentava l’Ue a Kabul, fin quando la Ashton non l’ha sostituito con un ex ministro degli esteri lituano noto, soprattutto, per avere avallato e coperto le renditions ; e in Uganda viene mandato un funzionario europeo, Roberto Ridolfi, già alle Figi.
Ora, l’Albania è forse l’unico Paese di questo mondo -avrei detto con la Libia, ma poi ci sparano addosso- dove l’Italia conta da sola e non ha quindi bisogno di contare come Ue: per l’Italia, Sequi lì è uno spreco (anzi, può essere un danno, perché se fa bene, come farà, il suo lavoro europeo ridurrà l’influenza italiana); e l’Uganda è un Paese dove l’Ue non conta (quasi) nulla, perchè contano soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti.
Va bene che questo è un primo pacchetto di nomine del nuovo Servizio europeo di azione esterna, il Seae, che sarebbe la diplomazia europea. Ma due nomine, e minori, su 29 non sono granchè: la Cina è di un tedesco, il Giappone di un austriaco, la Spagna ha ben cinque posti; e Washington era già d’un portoghese; Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Polonia, Irlanda stanno come noi o, se facciamo le proporzioni, meglio di noi.
E proprio non capisco come la Farnesina possa dichiararsi “complessivamente soddisfatta”, anche se, nel linguaggio diplomatico, quel “complessivamente” deve volere dire che hanno un diavolo per capello, tanto più che non ci saranno italiani in posizioni di rilievo neppure nella struttura centrale del Seae, occupata da un francesi al vertice e poi da una tedesca e un polacco, un irlandese e un danese. E mancano, per ora, i britannici, che Lady Ashton mica lascerà a terra.
Ora, le due cose messe insieme, il fronte anti-Rom italo-francese e la sberla sulle nomine, possono anche essere lette come l’abbraccio mortale di Berlusconi che soffoca Sarkozy (più i due stanno insieme, più Sarkozy, bollato come ‘Sarkozconi’, annaspa in Francia) e che toglie aria all’Italia nell’Ue. Ma, sia come che sia, l’Italia respira poca Europa (e l’Europa sa pochissimo d’Italia).
Che cosa vale in Europa e nel Mondo l’Italia di Mr B?, un’Italia che si presenta al Vertice dell’Ue alleata della Francia di Sarkozy sui rimpatrii dei Rom, dopo che una motovedetta libica ‘regalata’ da Roma per tenerci alla larga i clandestini ha sparato addosso a un peschereccio siciliano e dopo che la Commissione europea e –prima- il Parlamento europeo hanno ‘bastonato’ il governo di Parigi con una procedura d’infrazione e una mozione di censura.
Vale l’Albania e l’Uganda messe insieme, cioè il due di briscola, anzi meno, perché le due nomine ‘italiane’ di Lady Ashton -pensa te!, chi si prende gioco di noi- sono autentiche beffe: in Albania, viene mandato, come ambasciatore Ue, anzi come capo delegazione, un eccellente diplomatico, Ettore Sequi, che, infatti, rappresentava l’Ue a Kabul, fin quando la Ashton non l’ha sostituito con un ex ministro degli esteri lituano noto, soprattutto, per avere avallato e coperto le renditions ; e in Uganda viene mandato un funzionario europeo, Roberto Ridolfi, già alle Figi.
Ora, l’Albania è forse l’unico Paese di questo mondo -avrei detto con la Libia, ma poi ci sparano addosso- dove l’Italia conta da sola e non ha quindi bisogno di contare come Ue: per l’Italia, Sequi lì è uno spreco (anzi, può essere un danno, perché se fa bene, come farà, il suo lavoro europeo ridurrà l’influenza italiana); e l’Uganda è un Paese dove l’Ue non conta (quasi) nulla, perchè contano soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti.
Va bene che questo è un primo pacchetto di nomine del nuovo Servizio europeo di azione esterna, il Seae, che sarebbe la diplomazia europea. Ma due nomine, e minori, su 29 non sono granchè: la Cina è di un tedesco, il Giappone di un austriaco, la Spagna ha ben cinque posti; e Washington era già d’un portoghese; Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Polonia, Irlanda stanno come noi o, se facciamo le proporzioni, meglio di noi.
E proprio non capisco come la Farnesina possa dichiararsi “complessivamente soddisfatta”, anche se, nel linguaggio diplomatico, quel “complessivamente” deve volere dire che hanno un diavolo per capello, tanto più che non ci saranno italiani in posizioni di rilievo neppure nella struttura centrale del Seae, occupata da un francesi al vertice e poi da una tedesca e un polacco, un irlandese e un danese. E mancano, per ora, i britannici, che Lady Ashton mica lascerà a terra.
Ora, le due cose messe insieme, il fronte anti-Rom italo-francese e la sberla sulle nomine, possono anche essere lette come l’abbraccio mortale di Berlusconi che soffoca Sarkozy (più i due stanno insieme, più Sarkozy, bollato come ‘Sarkozconi’, annaspa in Francia) e che toglie aria all’Italia nell’Ue. Ma, sia come che sia, l’Italia respira poca Europa (e l’Europa sa pochissimo d’Italia).
giovedì 16 settembre 2010
SPIGOLI: l'Italia di Mr B è "Stato bordello"
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/09/2010
Ce lo siamo proprio meritati, il titolo che ci dedica Foreign Policy, autorevole rivista statunitense: l’Italia di Mr B è “The Bordello State” (superfluo tradurre). James Walston, professore di relazioni internazionali alla American University di Roma, non scrive per sentito dire e usa Dante come guida: cita il Purgatorio, Canto VI, “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!“, ma colloca l’Italia di Berlusconi all’inferno. La critica al premier spazia dalla vita privata – “le sue residenze sono diventate bordelli, non solo metaforicamente”– alle scelte politiche ed economiche fino all’attuale leadership volubile (elezioni sì, elezioni no; campagna acquisti sì, nuovo gruppo no; grandi riforme, o anche no purchè si tocchi la giustizia). E la politica estera non è un paradiso, anzi, con quegli angeli custodi demoniaci che sono Putin e Gheddafi. Walston richiama la tesi di Maurizio Viroli, secondo cui che l’Italia ha trasformato “senza violenza una repubblica democratica in una corte con al centro un signore feudale circondato da cortigiani ammirati e invidiati da una moltitudine di gente con spirito servile”. E chiosa crudamente le polemiche di giornata sulle parlamentari ‘prostituitesi’: “Il problema non è che alcune donne approdino in Parlamento attraverso la camera da letto; è che uomini e donne, giornalisti e professionisti, abbiano ceduto, più che il loro corpo, la loro mente e i loro principi”. E qui siamo a Goethe: un Paese di Faust.
Ce lo siamo proprio meritati, il titolo che ci dedica Foreign Policy, autorevole rivista statunitense: l’Italia di Mr B è “The Bordello State” (superfluo tradurre). James Walston, professore di relazioni internazionali alla American University di Roma, non scrive per sentito dire e usa Dante come guida: cita il Purgatorio, Canto VI, “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!“, ma colloca l’Italia di Berlusconi all’inferno. La critica al premier spazia dalla vita privata – “le sue residenze sono diventate bordelli, non solo metaforicamente”– alle scelte politiche ed economiche fino all’attuale leadership volubile (elezioni sì, elezioni no; campagna acquisti sì, nuovo gruppo no; grandi riforme, o anche no purchè si tocchi la giustizia). E la politica estera non è un paradiso, anzi, con quegli angeli custodi demoniaci che sono Putin e Gheddafi. Walston richiama la tesi di Maurizio Viroli, secondo cui che l’Italia ha trasformato “senza violenza una repubblica democratica in una corte con al centro un signore feudale circondato da cortigiani ammirati e invidiati da una moltitudine di gente con spirito servile”. E chiosa crudamente le polemiche di giornata sulle parlamentari ‘prostituitesi’: “Il problema non è che alcune donne approdino in Parlamento attraverso la camera da letto; è che uomini e donne, giornalisti e professionisti, abbiano ceduto, più che il loro corpo, la loro mente e i loro principi”. E qui siamo a Goethe: un Paese di Faust.
mercoledì 15 settembre 2010
SPIGOLI: un elmo ricorda agli inglesi che furono romani
Scritto per il Fatto Quotidiano del 15/09/2010, non pubblicato
Incuriosisce gli eruditi e intriga gli amanti d’antichità l’elmo romano, con una maschera di bronzo perfettamente conservata, trovato in Cumbria da un cacciatore di metalli armato di metaldetector. La Cumbria è una contea nel Nord-Ovest dell’Inghilterra, al confine con la Scozia: vi sono ancora visibili, nei pressi di Carlisle, resti del Vallo di Adriano. Terra ‘romana’, dunque, ancora generosa di reperti dei primi secoli dopo Cristo. La stampa britannica, dalla Bbc al Daily Mail, s’appassiona all’elmo con maschera: cerca di scoprire chi fosse l’uomo, ricco e guerriero, che se ne fregiava, ma s’interroga pure su chi sarà l’acquirente quando l’oggetto, giudicato un capolavoro della metallurgia romana, sarà battuto all’asta da Christie’s per non meno di 300 mila sterline. Il cacciatore di tesori che l’ha trovato a Crosby Garrett, preferisce, invece, restare anonimo. L’elmo risale al 1.o o al 2.o secolo d.C.: completo di maschera, è un reperto piuttosto raro; e le condizioni di conservazione rendono questo eccezionale. Gli archeologi pensano non sia stato usato in combattimento –troppo ricco e poco pratico-, ma piuttosto, ornato di pendagli variopinti, durante parate a cavallo, come le descrive Arriano di Nicomedia, governatore di provincia ai tempi di Adriano, nella sua Ars Tactica.
Incuriosisce gli eruditi e intriga gli amanti d’antichità l’elmo romano, con una maschera di bronzo perfettamente conservata, trovato in Cumbria da un cacciatore di metalli armato di metaldetector. La Cumbria è una contea nel Nord-Ovest dell’Inghilterra, al confine con la Scozia: vi sono ancora visibili, nei pressi di Carlisle, resti del Vallo di Adriano. Terra ‘romana’, dunque, ancora generosa di reperti dei primi secoli dopo Cristo. La stampa britannica, dalla Bbc al Daily Mail, s’appassiona all’elmo con maschera: cerca di scoprire chi fosse l’uomo, ricco e guerriero, che se ne fregiava, ma s’interroga pure su chi sarà l’acquirente quando l’oggetto, giudicato un capolavoro della metallurgia romana, sarà battuto all’asta da Christie’s per non meno di 300 mila sterline. Il cacciatore di tesori che l’ha trovato a Crosby Garrett, preferisce, invece, restare anonimo. L’elmo risale al 1.o o al 2.o secolo d.C.: completo di maschera, è un reperto piuttosto raro; e le condizioni di conservazione rendono questo eccezionale. Gli archeologi pensano non sia stato usato in combattimento –troppo ricco e poco pratico-, ma piuttosto, ornato di pendagli variopinti, durante parate a cavallo, come le descrive Arriano di Nicomedia, governatore di provincia ai tempi di Adriano, nella sua Ars Tactica.
martedì 14 settembre 2010
Libia: l'amico Gheddafi ci spara contro da navi italiane
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/09/2010
L’amico Gheddafi ci spara addosso, con armi italiane da una motovedetta italiana e con a bordo militari italiani per insegnare ai libici come si fa. E’ il modo del dittatore di ricambiare all’Italia l’amicizia appena celebrata a Roma in pompa magna: l’accordo del 2008 ‘fa acqua’, anzi poteva ridursi a un colabrodo. E non è neppure la prima volta che Gheddafi ci tira contro: nel 1986, ci sparò due missili, senza prenderci –l’obiettivo era un’installazione militare Usa a Lampedusa-.
Per carità!, Gheddafi e i libici possono pure averci le loro ragioni: allora, nel 1986, un raid aereo Usa aveva appena bombardato il territorio libico, facendo decine di vittime a Tripoli e a Bengasi, fra cui una figlia adottiva del colonnello; e questa volta, il motopesca Ariete di Mazara del Vallo aveva forse violato le pretese acque territoriali libiche.
Ma non è che spararci addosso, a rischio di fare vittime, fosse, domenica sera, l’unica opzione. La sventagliata di mitraglia contro l’Ariete, motopesca d’altura di Mazara del Vallo, 32 metri, è stata preceduta dall’intimazione a fermarsi, ma il peschereccio è riuscito ad evitare l’abbordaggio e, ieri mattina, è giunto a Lampedusa. I colpi hanno sforacchiato la fiancata e raggiunto la cabina di guida e un gommone utilizzato come tender. Nessun dei membri dell’equipaggio, una decina di persone, è rimasto ferito. “Siamo vivi per miracolo –ha riferito un marinaio-: hanno sparato all’impazzata”, rischiando di provocare l’esplosione delle bombole di gas a bordo.
La motovedetta libica era una delle sei unità della Guardia di Finanza che il governo italiano ha consegnato a Tripoli (tre nel maggio 2009 e tre a inizio 2010) nel quadro dell’accordo per contrastare con pattugliamenti congiunti l’immigrazione clandestina. Oggi, le sei unità sono libiche a tutti gli effetti e battono bandiera libica: i finanzieri a bordo fanno da osservatori e forniscono consulenza tecnica (chissà se avranno suggerito l’alzo da usare per tirare contro l’Ariete).
Mentre si scatenano le polemiche e l’opposizione chiede al governo di riferire in Parlamento, la Guardia Costiera conduce l’inchiesta, i cui atti andranno alla Procura di Agrigento per eventuali sviluppi giudiziari. Il comandante del peschereccio, Gaspare Marrone, è stato il primo a essere ascoltato: l’attacco è avvenuto a circa 30 miglia dalle coste libiche, vicino alle acque tunisine, mentre l’Ariete non stava pescando. La versione del comandante sarà confrontate con i dati della ‘blue box’, una sorta di ‘scatola nera’.
La ‘guerra’ tra pescatori mazaresi e autorità libiche, e pure tunisine, va avanti da molti anni. Prima dell’estate, il 10 giugno, i libici avevano sequestrato tre pescherecci mazaresi, rilasciandoli tre giorni dopo per intervento di Berlusconi. Il contenzioso di pesca nasce dalla pretesa di Gheddafi che tutte le acque del Golfo della Sirte siano libiche, ben oltre i limiti del diritto internazionale. Italia e Libia si sono impegnate a trovare un’intesa in materia di pesca, ma non l’hanno ancora raggiunta.
La Farnesina sta cercando di capire come sono andate davvero le cose e, intanto, prova a stringere i negoziati: stavolta è andata bene, la prossima potrebbe essere una tragedia. L'ambasciatore libico in Italia Abdulhafed Gaddur annuncia la creazione di "una commissione d'inchiesta sui motivi dell'incidente, aperto anche agli italiani".
In passato, l’Ariete aveva più volte soccorso barconi di migranti in difficoltà, contribuendo a salvare oltre 700 persone. Dopo un episodio, il comandante Marrone aveva detto: “La legge del mare ci impone di aiutare chi è in difficoltà. Abbiamo fatto il nostro dovere, torniamo al lavoro”. Gesti e parole che valsero a lui e all’equipaggio un premio del commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ora, l’amico Gheddafi li ha premiati a modo suo.
L’amico Gheddafi ci spara addosso, con armi italiane da una motovedetta italiana e con a bordo militari italiani per insegnare ai libici come si fa. E’ il modo del dittatore di ricambiare all’Italia l’amicizia appena celebrata a Roma in pompa magna: l’accordo del 2008 ‘fa acqua’, anzi poteva ridursi a un colabrodo. E non è neppure la prima volta che Gheddafi ci tira contro: nel 1986, ci sparò due missili, senza prenderci –l’obiettivo era un’installazione militare Usa a Lampedusa-.
Per carità!, Gheddafi e i libici possono pure averci le loro ragioni: allora, nel 1986, un raid aereo Usa aveva appena bombardato il territorio libico, facendo decine di vittime a Tripoli e a Bengasi, fra cui una figlia adottiva del colonnello; e questa volta, il motopesca Ariete di Mazara del Vallo aveva forse violato le pretese acque territoriali libiche.
Ma non è che spararci addosso, a rischio di fare vittime, fosse, domenica sera, l’unica opzione. La sventagliata di mitraglia contro l’Ariete, motopesca d’altura di Mazara del Vallo, 32 metri, è stata preceduta dall’intimazione a fermarsi, ma il peschereccio è riuscito ad evitare l’abbordaggio e, ieri mattina, è giunto a Lampedusa. I colpi hanno sforacchiato la fiancata e raggiunto la cabina di guida e un gommone utilizzato come tender. Nessun dei membri dell’equipaggio, una decina di persone, è rimasto ferito. “Siamo vivi per miracolo –ha riferito un marinaio-: hanno sparato all’impazzata”, rischiando di provocare l’esplosione delle bombole di gas a bordo.
La motovedetta libica era una delle sei unità della Guardia di Finanza che il governo italiano ha consegnato a Tripoli (tre nel maggio 2009 e tre a inizio 2010) nel quadro dell’accordo per contrastare con pattugliamenti congiunti l’immigrazione clandestina. Oggi, le sei unità sono libiche a tutti gli effetti e battono bandiera libica: i finanzieri a bordo fanno da osservatori e forniscono consulenza tecnica (chissà se avranno suggerito l’alzo da usare per tirare contro l’Ariete).
Mentre si scatenano le polemiche e l’opposizione chiede al governo di riferire in Parlamento, la Guardia Costiera conduce l’inchiesta, i cui atti andranno alla Procura di Agrigento per eventuali sviluppi giudiziari. Il comandante del peschereccio, Gaspare Marrone, è stato il primo a essere ascoltato: l’attacco è avvenuto a circa 30 miglia dalle coste libiche, vicino alle acque tunisine, mentre l’Ariete non stava pescando. La versione del comandante sarà confrontate con i dati della ‘blue box’, una sorta di ‘scatola nera’.
La ‘guerra’ tra pescatori mazaresi e autorità libiche, e pure tunisine, va avanti da molti anni. Prima dell’estate, il 10 giugno, i libici avevano sequestrato tre pescherecci mazaresi, rilasciandoli tre giorni dopo per intervento di Berlusconi. Il contenzioso di pesca nasce dalla pretesa di Gheddafi che tutte le acque del Golfo della Sirte siano libiche, ben oltre i limiti del diritto internazionale. Italia e Libia si sono impegnate a trovare un’intesa in materia di pesca, ma non l’hanno ancora raggiunta.
La Farnesina sta cercando di capire come sono andate davvero le cose e, intanto, prova a stringere i negoziati: stavolta è andata bene, la prossima potrebbe essere una tragedia. L'ambasciatore libico in Italia Abdulhafed Gaddur annuncia la creazione di "una commissione d'inchiesta sui motivi dell'incidente, aperto anche agli italiani".
In passato, l’Ariete aveva più volte soccorso barconi di migranti in difficoltà, contribuendo a salvare oltre 700 persone. Dopo un episodio, il comandante Marrone aveva detto: “La legge del mare ci impone di aiutare chi è in difficoltà. Abbiamo fatto il nostro dovere, torniamo al lavoro”. Gesti e parole che valsero a lui e all’equipaggio un premio del commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ora, l’amico Gheddafi li ha premiati a modo suo.
SPIGOLI: Benedetto XVI ultimo Papa in Londra cristiana?
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/09/2010
Per papa Benedetto XVI, la visita in Gran Bretagna, che inizierà domani, “sarà dura”: lo prevedono il Chicago Tribune e altri media Usa, che, pubblicando un dispaccio della Ap, confrontano questa missione papale con quella di Giovanni Paolo II, che “ebbe accoglienze da eroe” nel Regno Unito. Eppure, osserva il Guardian, “le sfide di Benedetto XVI impallidiscono di fronte a quelle del suo predecessore”, che arrivò mentre l’Inghilterra era in guerra nelle Falkland con la cattolica Argentina. Le premesse di questa visita sono così controverse che l’FT la giudica già “appannata” da polemiche e critiche, tra vicende di pedofilia e contrasti sul ruolo della donna nella Chiesa. L’ingresso a pagamento ad alcuni eventi non migliora il clima: proprio per questo, secondo l’Independent, la messa papale non sarà “tutta esaurita” (tra l’altro, chi ci sarà dovrà sorbirsi cinque ore tra attese e funzione). Il Daily Mail scrive che i vescovi inglesi temono che una guida alla visita li esponga al ridicolo e fa i conti in tasca alla sicurezza, che costerà alla polizia un milione e mezzo di sterline. L’Independent attizza i fedeli (“Cattolici, è su di voi che questo papa commette abusi!”), mentre lo spagnolo Abc vola alto: “Benedetto XVI a Londra difenderà la separazione tra Chiesa e Stato”. E, citando padre Piero Gheddo, Telegraph e Daily Mail prospettano un’Europa presto islamica per ragioni demografiche: per il prossimo papa, a Londra come a Islamabad.
Per papa Benedetto XVI, la visita in Gran Bretagna, che inizierà domani, “sarà dura”: lo prevedono il Chicago Tribune e altri media Usa, che, pubblicando un dispaccio della Ap, confrontano questa missione papale con quella di Giovanni Paolo II, che “ebbe accoglienze da eroe” nel Regno Unito. Eppure, osserva il Guardian, “le sfide di Benedetto XVI impallidiscono di fronte a quelle del suo predecessore”, che arrivò mentre l’Inghilterra era in guerra nelle Falkland con la cattolica Argentina. Le premesse di questa visita sono così controverse che l’FT la giudica già “appannata” da polemiche e critiche, tra vicende di pedofilia e contrasti sul ruolo della donna nella Chiesa. L’ingresso a pagamento ad alcuni eventi non migliora il clima: proprio per questo, secondo l’Independent, la messa papale non sarà “tutta esaurita” (tra l’altro, chi ci sarà dovrà sorbirsi cinque ore tra attese e funzione). Il Daily Mail scrive che i vescovi inglesi temono che una guida alla visita li esponga al ridicolo e fa i conti in tasca alla sicurezza, che costerà alla polizia un milione e mezzo di sterline. L’Independent attizza i fedeli (“Cattolici, è su di voi che questo papa commette abusi!”), mentre lo spagnolo Abc vola alto: “Benedetto XVI a Londra difenderà la separazione tra Chiesa e Stato”. E, citando padre Piero Gheddo, Telegraph e Daily Mail prospettano un’Europa presto islamica per ragioni demografiche: per il prossimo papa, a Londra come a Islamabad.
domenica 12 settembre 2010
Turchia: referendum su una fetta dell'eredità di Ataturk
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/09/2010
La posta in palio: una fetta dell’eredità di Ataturk, militare, politico, il fondatore della Turchia moderna e laica, di cui fu il primo presidente dal 1923 alla morte nel ’38. L’esito: estremamente incerto, con sondaggi che spaccano sì e no quasi al 50%. Circa 50 milioni di turchi vanno alle urne oggi per pronunciarsi con un referendum su una riforma della Costituzione che, se approvata, consoliderebbe il potere dell’attuale governo islamico-conservatore nei confronti dell’opposizione laica e nazionalista e cancellerebbe alcuni bastioni del laicismo istituzionale ‘ataturkiano’.
La consultazione è, inoltre, un test di popolarità per il premier Recep Tayyip Erdogan, il cui governo è al potere dal 2002 –una continuità eccezionale per la Turchia-. L’esecutivo progetta riforme liberali, che Ue e Fmi sollecitano, ma è anche portatore di germi d’integralismo islamico.
La riforma riguarda 26 articoli dell’attuale Costituzione, scritta nel 1982, sotto l’egida degli autori del colpo di Stato del 1980. Uno dei punti meno controversi è proprio la levata dell’impunità per i militari putschisti. Il voto, non a caso, cade trent’anni esatti dopo quegli eventi. Erdogan e il suo partito, l’Akp, dicono di volerla fare finita “con la tutela dei militari” sulla vita politica e hanno recentemente represso con teatrale durezza una presunta nuova trama putschista.
La riforma è giudicata dall’Ue un passo nella buona direzione, sulla via delle riforme istituzionali che avvicinerebbero l’adesione della Turchia all’Unione. Ma questo è un momento di stanchezza dell’opinione pubblica turca, come di politici e imprenditori, rispetto all’ingresso nell’Ue: sentimenti innescati dalla lentezza dei negoziati e dalla freddezza, se non ostilità, di molti dei 27, fra cui Francia e Germania (l’Italia di Berlusconi, invece, sta con Erdogan). Il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha denunciato, proprio ieri, che le trattative, avviate nel 2005 e giunte a un terzo del cammino, vanno avanti troppo piano.
Se vincono i sì, le prerogative della giustizia militare saranno limitate e le due istanze giudiziarie che sono bastioni della laicità dello Stato e coriacei avversari dell’attuale governo saranno ‘addomesticate’: la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura, che nomina i giudici e i procuratori. E, in questo senso, la vicenda turca ha assonanze con quella italiana. Inoltre, la dissoluzione dei partiti politici sarebbe soggetta all’autorità del Parlamento (nel 2008, l’Akp aveva rischiato di essere sciolto per attività contrarie alla laicità dello Stato e della società).
L’opposizione laica e nazionalista dice che la riforma compromette l’indipendenza della giustizia e la separazione dei poteri, in un Paese in cui i tribunali hanno contribuito a bloccare leggi islamiche come la soppressione della proibizione del velo nelle Università. Un successo dei no renderebbe più incerte le elezioni politiche dell’anno prossimo, dopo che l’Akp, che alle legislative 2007 s’avvicinò al 50% dei suffragi, era già sceso a meno di un terzo nelle amministrative 2009.
L’Akp presenta la riforma come un’occasione per allargare gli spazi di democrazia e avvicinarsi all’Ue. La campagna, segnata da accuse di attacchi alla libertà di stampa e di intercettazioni illecite –anche qui, un parallelo italiano-, ha messo sotto tiro oure la politica estera di Ankara: da bastione dell’Alleanza atlantica e migliore interlocutore musulmano di Israele, la Turchia di Erdogan è, ora, un cuneo islamico negli schieramenti occidentali, mentre i rapporti con Israele si sono raffreddati e quelli con l’Iran intensificati. E la guerra curda continua a fare vittime.
La posta in palio: una fetta dell’eredità di Ataturk, militare, politico, il fondatore della Turchia moderna e laica, di cui fu il primo presidente dal 1923 alla morte nel ’38. L’esito: estremamente incerto, con sondaggi che spaccano sì e no quasi al 50%. Circa 50 milioni di turchi vanno alle urne oggi per pronunciarsi con un referendum su una riforma della Costituzione che, se approvata, consoliderebbe il potere dell’attuale governo islamico-conservatore nei confronti dell’opposizione laica e nazionalista e cancellerebbe alcuni bastioni del laicismo istituzionale ‘ataturkiano’.
La consultazione è, inoltre, un test di popolarità per il premier Recep Tayyip Erdogan, il cui governo è al potere dal 2002 –una continuità eccezionale per la Turchia-. L’esecutivo progetta riforme liberali, che Ue e Fmi sollecitano, ma è anche portatore di germi d’integralismo islamico.
La riforma riguarda 26 articoli dell’attuale Costituzione, scritta nel 1982, sotto l’egida degli autori del colpo di Stato del 1980. Uno dei punti meno controversi è proprio la levata dell’impunità per i militari putschisti. Il voto, non a caso, cade trent’anni esatti dopo quegli eventi. Erdogan e il suo partito, l’Akp, dicono di volerla fare finita “con la tutela dei militari” sulla vita politica e hanno recentemente represso con teatrale durezza una presunta nuova trama putschista.
La riforma è giudicata dall’Ue un passo nella buona direzione, sulla via delle riforme istituzionali che avvicinerebbero l’adesione della Turchia all’Unione. Ma questo è un momento di stanchezza dell’opinione pubblica turca, come di politici e imprenditori, rispetto all’ingresso nell’Ue: sentimenti innescati dalla lentezza dei negoziati e dalla freddezza, se non ostilità, di molti dei 27, fra cui Francia e Germania (l’Italia di Berlusconi, invece, sta con Erdogan). Il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha denunciato, proprio ieri, che le trattative, avviate nel 2005 e giunte a un terzo del cammino, vanno avanti troppo piano.
Se vincono i sì, le prerogative della giustizia militare saranno limitate e le due istanze giudiziarie che sono bastioni della laicità dello Stato e coriacei avversari dell’attuale governo saranno ‘addomesticate’: la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura, che nomina i giudici e i procuratori. E, in questo senso, la vicenda turca ha assonanze con quella italiana. Inoltre, la dissoluzione dei partiti politici sarebbe soggetta all’autorità del Parlamento (nel 2008, l’Akp aveva rischiato di essere sciolto per attività contrarie alla laicità dello Stato e della società).
L’opposizione laica e nazionalista dice che la riforma compromette l’indipendenza della giustizia e la separazione dei poteri, in un Paese in cui i tribunali hanno contribuito a bloccare leggi islamiche come la soppressione della proibizione del velo nelle Università. Un successo dei no renderebbe più incerte le elezioni politiche dell’anno prossimo, dopo che l’Akp, che alle legislative 2007 s’avvicinò al 50% dei suffragi, era già sceso a meno di un terzo nelle amministrative 2009.
L’Akp presenta la riforma come un’occasione per allargare gli spazi di democrazia e avvicinarsi all’Ue. La campagna, segnata da accuse di attacchi alla libertà di stampa e di intercettazioni illecite –anche qui, un parallelo italiano-, ha messo sotto tiro oure la politica estera di Ankara: da bastione dell’Alleanza atlantica e migliore interlocutore musulmano di Israele, la Turchia di Erdogan è, ora, un cuneo islamico negli schieramenti occidentali, mentre i rapporti con Israele si sono raffreddati e quelli con l’Iran intensificati. E la guerra curda continua a fare vittime.
SPIGOLI: Venezia batte Monza, gossip sbaraglia critiche
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/09/2010, non pubblicato
Se c’è un evento italiano di cui tutti parlano, ma proprio tutti, più del GP di Formula 1 di Monza, è la Mostra del Cinema di Venezia: i film, le star, le interviste, i pettegolezzi. Al confronto, la Biennale di Architettura è una parente povera, anche se Le Figaro la definisce “un sogno ad occhi aperti”, Les Echos trova che “non ha orrore del vuoto” e FT la dice “bella da vedere, pur se leggera nelle idee” (e sta pure sul NYT). Della Mostra, i protagonisti sono, sulla stampa internazionale, John Tuturro (al Guardian dice che Napoli gli ricorda un po' New York degli Anni 70) e Tarantino, o i film italiani su Vallanzasca e su Nassiriya. Ma s’è molto parlato pure della contestazione d’apertura, con le sagome dei poliziotti sul tappeto rosso. Oltre cronache e critiche, gossip che con Venezia c’entrano poco, ma ne traggono linfa: la villa nel Veneto di Brad Pitt e Angelina Jolie (El Pais e Daily Mail), il matrimonio che non si farà tra Elisabetta Canalis e George Clooney (El Mundo) e le fortune del villaggio abruzzese di Santo Stefano di Sessanio –Sextantio- indotte da ‘The American’ del generoso Clooney (Daily Mail e molti altri). Fra tanta gloria, uno smacco per il cinema italiano: in una delle sue classifiche un po’ demenziali, Time colloca Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato al terzo posto fra i film più ridicoli per la loro violenza (consoliamoci, al primo c’e’ la Passione di Cristo di Mel Gibson).
Se c’è un evento italiano di cui tutti parlano, ma proprio tutti, più del GP di Formula 1 di Monza, è la Mostra del Cinema di Venezia: i film, le star, le interviste, i pettegolezzi. Al confronto, la Biennale di Architettura è una parente povera, anche se Le Figaro la definisce “un sogno ad occhi aperti”, Les Echos trova che “non ha orrore del vuoto” e FT la dice “bella da vedere, pur se leggera nelle idee” (e sta pure sul NYT). Della Mostra, i protagonisti sono, sulla stampa internazionale, John Tuturro (al Guardian dice che Napoli gli ricorda un po' New York degli Anni 70) e Tarantino, o i film italiani su Vallanzasca e su Nassiriya. Ma s’è molto parlato pure della contestazione d’apertura, con le sagome dei poliziotti sul tappeto rosso. Oltre cronache e critiche, gossip che con Venezia c’entrano poco, ma ne traggono linfa: la villa nel Veneto di Brad Pitt e Angelina Jolie (El Pais e Daily Mail), il matrimonio che non si farà tra Elisabetta Canalis e George Clooney (El Mundo) e le fortune del villaggio abruzzese di Santo Stefano di Sessanio –Sextantio- indotte da ‘The American’ del generoso Clooney (Daily Mail e molti altri). Fra tanta gloria, uno smacco per il cinema italiano: in una delle sue classifiche un po’ demenziali, Time colloca Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato al terzo posto fra i film più ridicoli per la loro violenza (consoliamoci, al primo c’e’ la Passione di Cristo di Mel Gibson).
sabato 11 settembre 2010
Mr B lava i panni sporchi nel Volga e sciorina l'intimo italico
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11 settembre 2010
Giulio Andreotti, quando andava in missione all’estero da presidente del Consiglio, non parlava mai di politica interna. Bell’esempio!, dopo quello che ha appena detto sull’omicidio Ambrosoli. Va bene, ma fanno lo stesso, in genere, i presidenti degli Stati Uniti, democratici o repubblicani che siano, e pure i presidenti francesi, o i cancellieri tedeschi, senza parlare dei presidenti russi o cinesi, chè quelli problemi di politica interna ne hanno pochi per la natura dei loro sistemi, autocratica o comunista. Leader democratici o oligarchi accomunati da una preoccupazione comune: non andare a lavare lontano da casa i panni sporchi.
Silvio Berlusconi, invece, più alto è il podio più forte parla di tutto, così che più gente lo senta. E sciorina l’italico intimo dalla Russia all’America, ovunque gli capiti. Intendiamoci, non che sia l’unico né il primo a farlo: uno della stessa scuola, anzi uno che ha fatto scuola in tal senso, era Bettino Craxi, il suo mentore, che quando partiva non lo fermavi più.
Così, ieri, a Yaroslavl, 250 km a nord di Mosca, dove partecipava al Forum della Democrazia, uno dei tanti nuovi consessi internazionali di dubbia utilità, e dove il presidente russo Dmitri Medvedev ha giudicato “una catastrofe” per il suo Paese la democrazia parlamentare, Mr B, tra una battuta, una vanteria e una cena sul battello sul Volga, ha parlato di tutto e di più. Contro la magistratura, che “mette a rischio la governabilità”; e sul fisco, l’economia, la corruzione, l’opposizione (favorita, dice, da Mani Pulite). Poi è volato a Mosca, per incontrare, nella dacia di Novi Ogariovo, fuori città, il premier Putin, “l’amico Vladimir”, con il dittatore libico Muammar Gheddafi il più ostentato testimonial della politica estera italiana.
Massimo D’Alema, che era pure al Forum, e che in realtà la vigilia aveva indugiato del suo al vezzo della chiacchiera politica, rimprovera al premier “di aver abusato d’una sede internazionale per fare polemiche politiche interne”, “lanciare frecciate ai suoi alleati”, “criticare la magistratura” ed “esprimersi sulla natura democratica dei partiti del suo Paese”; e si augura che “un capo del governo del genere”, che “ha un’idea molto particolare della democrazia”, “se ne vada al più presto per il prestigio del Paese”.
Certo, il prestigio dell’Italia non è uscito rafforzato dal siparietto di Mr B, che attacca ad alzo zero e mente sulle sue vicende giudiziarie, suscitando –parole di D’Alema- “un palpabile imbarazzo" nella platea di oltre 500 politici ed esperti di 20 Paesi, "intellettuali e studiosi occidentali che sanno bene come stanno le cose". Berlusconi va a braccio: non legge il testo preparatogli, perché –spiega- "è fuori tema”: era stato mal informato su quel che doveva dire (ma sapeva benissimo quel che voleva dire).
Il resto della partecipazione al Forum è il consueto festival di gag e vanterie: lui scrisse “personalmente” l’accordo Nato-Russia del 2001; e lui fece fare al G8 la foto di Medvedev insieme ad Obama (''Ricordi, Dmitri, quando v’ho detto ‘dovete andare d’accordo’?”). C’è solo da sperare che i traduttori non gli tengano sempre dietro.
Giulio Andreotti, quando andava in missione all’estero da presidente del Consiglio, non parlava mai di politica interna. Bell’esempio!, dopo quello che ha appena detto sull’omicidio Ambrosoli. Va bene, ma fanno lo stesso, in genere, i presidenti degli Stati Uniti, democratici o repubblicani che siano, e pure i presidenti francesi, o i cancellieri tedeschi, senza parlare dei presidenti russi o cinesi, chè quelli problemi di politica interna ne hanno pochi per la natura dei loro sistemi, autocratica o comunista. Leader democratici o oligarchi accomunati da una preoccupazione comune: non andare a lavare lontano da casa i panni sporchi.
Silvio Berlusconi, invece, più alto è il podio più forte parla di tutto, così che più gente lo senta. E sciorina l’italico intimo dalla Russia all’America, ovunque gli capiti. Intendiamoci, non che sia l’unico né il primo a farlo: uno della stessa scuola, anzi uno che ha fatto scuola in tal senso, era Bettino Craxi, il suo mentore, che quando partiva non lo fermavi più.
Così, ieri, a Yaroslavl, 250 km a nord di Mosca, dove partecipava al Forum della Democrazia, uno dei tanti nuovi consessi internazionali di dubbia utilità, e dove il presidente russo Dmitri Medvedev ha giudicato “una catastrofe” per il suo Paese la democrazia parlamentare, Mr B, tra una battuta, una vanteria e una cena sul battello sul Volga, ha parlato di tutto e di più. Contro la magistratura, che “mette a rischio la governabilità”; e sul fisco, l’economia, la corruzione, l’opposizione (favorita, dice, da Mani Pulite). Poi è volato a Mosca, per incontrare, nella dacia di Novi Ogariovo, fuori città, il premier Putin, “l’amico Vladimir”, con il dittatore libico Muammar Gheddafi il più ostentato testimonial della politica estera italiana.
Massimo D’Alema, che era pure al Forum, e che in realtà la vigilia aveva indugiato del suo al vezzo della chiacchiera politica, rimprovera al premier “di aver abusato d’una sede internazionale per fare polemiche politiche interne”, “lanciare frecciate ai suoi alleati”, “criticare la magistratura” ed “esprimersi sulla natura democratica dei partiti del suo Paese”; e si augura che “un capo del governo del genere”, che “ha un’idea molto particolare della democrazia”, “se ne vada al più presto per il prestigio del Paese”.
Certo, il prestigio dell’Italia non è uscito rafforzato dal siparietto di Mr B, che attacca ad alzo zero e mente sulle sue vicende giudiziarie, suscitando –parole di D’Alema- “un palpabile imbarazzo" nella platea di oltre 500 politici ed esperti di 20 Paesi, "intellettuali e studiosi occidentali che sanno bene come stanno le cose". Berlusconi va a braccio: non legge il testo preparatogli, perché –spiega- "è fuori tema”: era stato mal informato su quel che doveva dire (ma sapeva benissimo quel che voleva dire).
Il resto della partecipazione al Forum è il consueto festival di gag e vanterie: lui scrisse “personalmente” l’accordo Nato-Russia del 2001; e lui fece fare al G8 la foto di Medvedev insieme ad Obama (''Ricordi, Dmitri, quando v’ho detto ‘dovete andare d’accordo’?”). C’è solo da sperare che i traduttori non gli tengano sempre dietro.
Francia: Sarkozconismo non paga, solo Carlà rosa senza spine
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11 settembre 2010
Si direbbe che il ‘sarkozconismo’ non paghi, né in Italia, dove Mr B ha i suoi guai, né in Francia, dove il presidente Nicolas Sarkozy può solo essere contento che manchino quasi due anni pieni, oltre 21 mesi, alle prossime elezioni. Scandali di corruzione e inchieste su finanziamenti illeciti, ministri ‘saltati’ o che stanno per ‘saltare’, riforma delle pensioni contestatissima nelle piazze e pugno di ferro verso i rom con rimpatrii ‘compensati’ bocciato dall’Unione europea. L’immagine del presidente alto come Napoleone Bonaparte, in una Francia che nella V Repubblica ci ha abituato a figure ieratiche ed eleganti, il generale De Gaulle, Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand, lo stesso Jacques Chirac, è al suo punto più basso. L’Economist ne fa un Napoleone rimpicciolito: due gambette che zampettano sotto una feluca più grande di loro dietro la slanciata e prorompente Carlà, l’italiana appena divenuta un’eroina mondiale dopo avere subito gli insulti e le minacce dell’integralismo islamico per l’intervento a sostegno di Sakineh.
Eppure, il panorama politico ed economico francese non è solo una vandea devastata. Il premier François Fillon, uno che pare trasparente, rispetto al presidente, rivede al rialzo le stime di crescita del Pil nel 2010: 1,5%, rispetto all’1,4%, grazie a un secondo trimestre migliore del previsto. Certo, non è un tasso da Cina, ma è una buona performance europea e mondiale (ottima, se la si confronta con l’Italia, che l’Ocse giudica di fatto ferma, ultima fra i Grandi).
Sondaggi recenti danno Sarkozy sconfitto, se si votasse oggi, nonostante l’opposizione socialista non abbia un leader forte che coaguli il consenso a sinistra: Segolène Royal ha già perso una volta, Martine Aubry è brava ma non ha carisma, Dominique Straus-Kahn ha qualche scheletro nell’armadio degli Anni Novanta. E la destra xenofoba e nostalgica di Jean-Marie Le Pen fa, sotto la guida della figlia Martine, le prove di una sorta di ‘tea party’ europeo, populismo con una scorza di razzismo. Il tentativo del presidente di recuperare consensi sul fronte della sicurezza, colpendo duro i rom, appare troppo scoperto all’opinione pubblica francese ed è bocciato da quella europea. El Pais, ieri scriveva: “Brutto affare essere gitani nell'Europa democratica. Colpa delle politiche di Sarkozy e Berlusconi”.
Non giova alla credibilità di Sarkozy l’essere accostato, spesso, troppo spesso, proprio a Mr B. Sul Nouvel Obs, Olivier Duhamel, un docente di scienze politiche, dice che da tempo Sarkozy somiglia a Berlusconi per il modo di governare ‘videocratico’. E Le Monde, nel suo inserto Magazine, dedica un ritratto al premier italiano, in un servizio su “la destra senza complessi” in Europa. Raffaele Simoni, intellettuale italiano, rileva che “questa nuova destra rifiuta di tassare i più ricchi e flirta con il populismo e con certe tesi dell’estrema destra”. Sarkozy e Berlusconi “condividono una stressa strategia, onnipresenza nei media, vicinanza con il mondo degli affari, promozione del successo individuale”. Sarà, ma Sarkozy oggi pare in brache di tela e Berlusconi non è proprio all’apice del successo.
In Francia, le prossime settimane saranno cruciali: per la tenuta del governo, dove ci saranno novità; per la riforma delle pensioni –l’Assemblea nazionale deve pronunciarsi la prossima settimana-; e per l’inchiesta sull’ ‘affaire Bettencourt’. Il voto sui rom del Parlamento di Strasburgo, invece, lascia il tempo che trova: è uno schiaffo politico, ma non ha valore cogente.
Sulle pensioni, Sarkozy mantiene l’aumento progressivo dell’età pensionabile a 62 anni nel 2018, ma mostra qualche flessibilità. I sindacati, dopo lo sciopero di martedì, riuscito, si mobilitano per il voto dell’Assemblea e indicono manifestazioni per il 23 settembre.
Sull’ ‘affaire Bettencourt, si attendono sviluppi, dopo la perquisizione nella sede dell’Ump a Parigi. L’inchiesta è su presunte tangenti, o finanziamenti illeciti, dell’erede L’Oreal, Liliale Bettencourt, a uomini politici, fra cui lo stesso Sarkozy.
L’Eliseo nel marasma? Eh no, amici miei: la produzione del film di Woody Allen Midnight in Paris smentisce, scrive ParisMatch, che Carla Bruni sia stata sostituita nella pellicola da Lea Seydoux. E’ dunque falsa l’indiscrezione del Daily Mail, secondo cui la Bruni sarebbe stata ‘tagliata’ da Allen: nessuna umiliazione, dunque, per la Première Dame. Non al cinema, almeno.
Si direbbe che il ‘sarkozconismo’ non paghi, né in Italia, dove Mr B ha i suoi guai, né in Francia, dove il presidente Nicolas Sarkozy può solo essere contento che manchino quasi due anni pieni, oltre 21 mesi, alle prossime elezioni. Scandali di corruzione e inchieste su finanziamenti illeciti, ministri ‘saltati’ o che stanno per ‘saltare’, riforma delle pensioni contestatissima nelle piazze e pugno di ferro verso i rom con rimpatrii ‘compensati’ bocciato dall’Unione europea. L’immagine del presidente alto come Napoleone Bonaparte, in una Francia che nella V Repubblica ci ha abituato a figure ieratiche ed eleganti, il generale De Gaulle, Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand, lo stesso Jacques Chirac, è al suo punto più basso. L’Economist ne fa un Napoleone rimpicciolito: due gambette che zampettano sotto una feluca più grande di loro dietro la slanciata e prorompente Carlà, l’italiana appena divenuta un’eroina mondiale dopo avere subito gli insulti e le minacce dell’integralismo islamico per l’intervento a sostegno di Sakineh.
Eppure, il panorama politico ed economico francese non è solo una vandea devastata. Il premier François Fillon, uno che pare trasparente, rispetto al presidente, rivede al rialzo le stime di crescita del Pil nel 2010: 1,5%, rispetto all’1,4%, grazie a un secondo trimestre migliore del previsto. Certo, non è un tasso da Cina, ma è una buona performance europea e mondiale (ottima, se la si confronta con l’Italia, che l’Ocse giudica di fatto ferma, ultima fra i Grandi).
Sondaggi recenti danno Sarkozy sconfitto, se si votasse oggi, nonostante l’opposizione socialista non abbia un leader forte che coaguli il consenso a sinistra: Segolène Royal ha già perso una volta, Martine Aubry è brava ma non ha carisma, Dominique Straus-Kahn ha qualche scheletro nell’armadio degli Anni Novanta. E la destra xenofoba e nostalgica di Jean-Marie Le Pen fa, sotto la guida della figlia Martine, le prove di una sorta di ‘tea party’ europeo, populismo con una scorza di razzismo. Il tentativo del presidente di recuperare consensi sul fronte della sicurezza, colpendo duro i rom, appare troppo scoperto all’opinione pubblica francese ed è bocciato da quella europea. El Pais, ieri scriveva: “Brutto affare essere gitani nell'Europa democratica. Colpa delle politiche di Sarkozy e Berlusconi”.
Non giova alla credibilità di Sarkozy l’essere accostato, spesso, troppo spesso, proprio a Mr B. Sul Nouvel Obs, Olivier Duhamel, un docente di scienze politiche, dice che da tempo Sarkozy somiglia a Berlusconi per il modo di governare ‘videocratico’. E Le Monde, nel suo inserto Magazine, dedica un ritratto al premier italiano, in un servizio su “la destra senza complessi” in Europa. Raffaele Simoni, intellettuale italiano, rileva che “questa nuova destra rifiuta di tassare i più ricchi e flirta con il populismo e con certe tesi dell’estrema destra”. Sarkozy e Berlusconi “condividono una stressa strategia, onnipresenza nei media, vicinanza con il mondo degli affari, promozione del successo individuale”. Sarà, ma Sarkozy oggi pare in brache di tela e Berlusconi non è proprio all’apice del successo.
In Francia, le prossime settimane saranno cruciali: per la tenuta del governo, dove ci saranno novità; per la riforma delle pensioni –l’Assemblea nazionale deve pronunciarsi la prossima settimana-; e per l’inchiesta sull’ ‘affaire Bettencourt’. Il voto sui rom del Parlamento di Strasburgo, invece, lascia il tempo che trova: è uno schiaffo politico, ma non ha valore cogente.
Sulle pensioni, Sarkozy mantiene l’aumento progressivo dell’età pensionabile a 62 anni nel 2018, ma mostra qualche flessibilità. I sindacati, dopo lo sciopero di martedì, riuscito, si mobilitano per il voto dell’Assemblea e indicono manifestazioni per il 23 settembre.
Sull’ ‘affaire Bettencourt, si attendono sviluppi, dopo la perquisizione nella sede dell’Ump a Parigi. L’inchiesta è su presunte tangenti, o finanziamenti illeciti, dell’erede L’Oreal, Liliale Bettencourt, a uomini politici, fra cui lo stesso Sarkozy.
L’Eliseo nel marasma? Eh no, amici miei: la produzione del film di Woody Allen Midnight in Paris smentisce, scrive ParisMatch, che Carla Bruni sia stata sostituita nella pellicola da Lea Seydoux. E’ dunque falsa l’indiscrezione del Daily Mail, secondo cui la Bruni sarebbe stata ‘tagliata’ da Allen: nessuna umiliazione, dunque, per la Première Dame. Non al cinema, almeno.
SPIGOLI: sull'aereo come al rodeo, una sella per sedile
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/9/2010
Se in futuro vi capiterà di viaggiare in aereo più scomodi di quanto non viaggiate ora, potrete ringraziare un italiano, Gaetano Perugini, che progetta di trasformare i passeggeri dei voli low cost in cowboys da rodeo, con sedili a forma di selle. Lo rivela, o meglio lo ricorda, perché la stampa specializzata ne ha già parlato, USAToday, giornale d’aereo per eccellenza: SkyRider, come si chiama il nuovo sedile, sarà presentato la prossima settimana a una fiera a Long Beach. Viaggiare come stare in sella sarà, o sarebbe, comunque meglio che viaggiare in piedi, come hanno già ipotizzato alcune compagnie aeree low cost (per i viaggi brevi, bontà loro). I 57,5 cm di spazio che SkyRider consente tra due sedili hanno già attirato l’interesse di numerose compagnie, anche se nessuna ha finora concluso l’acquisto con l’azienda produttrice, la Aviointeriors di Latina, specializzata in sedili aerei. Il direttore generale, Dominique Menoud, pensa che SkyRider possa generare una classe a sé di posti ed essere utilizzata per voli fino a tre ore: “I cowboys –nota- cavalcano otto ore” e più. Già, ma loro li pagano, a montare in sella, mentre qui si tratta di pagare per trovarcisi su. Perugini spiega: “Non è come stare in piedi: è un sedile, ma un sedile speciale”, che deve ottenere il via libera delle autorità aeronautiche europee ed americane: un burocrate, forse, ci aiuterà, negando un timbro.
Se in futuro vi capiterà di viaggiare in aereo più scomodi di quanto non viaggiate ora, potrete ringraziare un italiano, Gaetano Perugini, che progetta di trasformare i passeggeri dei voli low cost in cowboys da rodeo, con sedili a forma di selle. Lo rivela, o meglio lo ricorda, perché la stampa specializzata ne ha già parlato, USAToday, giornale d’aereo per eccellenza: SkyRider, come si chiama il nuovo sedile, sarà presentato la prossima settimana a una fiera a Long Beach. Viaggiare come stare in sella sarà, o sarebbe, comunque meglio che viaggiare in piedi, come hanno già ipotizzato alcune compagnie aeree low cost (per i viaggi brevi, bontà loro). I 57,5 cm di spazio che SkyRider consente tra due sedili hanno già attirato l’interesse di numerose compagnie, anche se nessuna ha finora concluso l’acquisto con l’azienda produttrice, la Aviointeriors di Latina, specializzata in sedili aerei. Il direttore generale, Dominique Menoud, pensa che SkyRider possa generare una classe a sé di posti ed essere utilizzata per voli fino a tre ore: “I cowboys –nota- cavalcano otto ore” e più. Già, ma loro li pagano, a montare in sella, mentre qui si tratta di pagare per trovarcisi su. Perugini spiega: “Non è come stare in piedi: è un sedile, ma un sedile speciale”, che deve ottenere il via libera delle autorità aeronautiche europee ed americane: un burocrate, forse, ci aiuterà, negando un timbro.
venerdì 10 settembre 2010
Rom: Strasburgo boccia Francia per rimpatrii, chiede stop
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/09/2010
Il Parlamento europeo chiede che la Francia blocchi i rimpatrii dei rom e coinvolge l'Italia in una mozione che censura le politiche restrittive dei diritti umani degli immigrati. La risoluzione votata in plenaria esprime “grande preoccupazione per le misure di espulsione prese dalle autorità francesi e di altri Paesi verso i Rom e ne sollecita l’immediata sospensione”.
Il documento del centro-sinistra (Pse, liberaldemocratici, verdi e sinistra radicale) passa con 337 sì, 245 no e 51 astensioni. Il Ppe vota contro, in barba ai principi cristiani. Il riferimento all’Italia e' nelle premesse: si ricorda che “il ministro dell’Interno italiano ha annunciato l’intenzione di promuovere regole europee più restrittive sull’immigrazione e sulla libertà di movimento, in particolare per i rom”.
In concreto, non cambia nulla, perche' il voto di ieri vale solo come monito morale e non ha potere cogente. Ma non è proprio un buon momento, per il presidente Nicolas Sarkozy: contestato sulle piazze di Francia, per la riforma delle pensioni; braccato dalla magistratura, che fa perquisire la sede del suo partito; condannato da Strasburgo. E se poi dovesse risultare vera l’indiscrezione del Daily Mail, secondo cui Carla Bruni sara' 'tagliata' dal film di Woody Allen ‘Midnight in Paris’ (un'umiliazione per la Premiere Dame), il quadro sarebbe devastante. Ne' migliora l’umore il ‘mal comune mezzo gaudio’ di vedere l’Italia associata alla Francia nella denuncia degli europarlamentari.
Che il clima nell'Assemblea Ue fosse critico sull’atteggiamento della Francia e di altri Paesi contro i rom, lo si era capito martedì' dal discorso sullo stato dell’Unione del presidente della Commissione Jose' Manuel Barroso e dal successivo dibattito. La denuncia di Barroso delle venature di razzismo che affiorano nelle politiche di alcuni governi europei non ha messo l'Esecutivo al riparo delle critiche del Parlamento: Bruxelles s'e' mossa poco e tardi.
E, mercoledì, il governo di Parigi aveva dovuto chiedere spiegazioni al commissariato per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che aveva fatto un parallelo tra la politica di Parigi sui Rom e quella dei nazisti.
Il voto di Strasburgo s’intrecciava, ieri, con lo scoop di Paris Match, confermato da fonti ufficiali, della perquisizione della sede dell’Ump a Parigi, nell’inchiesta su tangenti, o finanziamenti illeciti, dell’erede L’Oreal, Liliale Bettencourt, a politici, fra cui lo stesso Sarkozy. Segno che l’indagine va avanti
Come va avanti la mobilitazione contro la riforma delle pensioni: Sarkozy non fa marcia indietro sull’aumento progressivo dell’età pensionabile fino a 62 anni nel 2018. I sindacati, dopo lo sciopero di martedì, riuscito, indicono proteste il 23 settembre. Sarkozy non mostra rigidità assoluta e promette, ad esempio, attenzione ai lavori usuranti, ma ai sindacati non basta.
Il Parlamento europeo chiede che la Francia blocchi i rimpatrii dei rom e coinvolge l'Italia in una mozione che censura le politiche restrittive dei diritti umani degli immigrati. La risoluzione votata in plenaria esprime “grande preoccupazione per le misure di espulsione prese dalle autorità francesi e di altri Paesi verso i Rom e ne sollecita l’immediata sospensione”.
Il documento del centro-sinistra (Pse, liberaldemocratici, verdi e sinistra radicale) passa con 337 sì, 245 no e 51 astensioni. Il Ppe vota contro, in barba ai principi cristiani. Il riferimento all’Italia e' nelle premesse: si ricorda che “il ministro dell’Interno italiano ha annunciato l’intenzione di promuovere regole europee più restrittive sull’immigrazione e sulla libertà di movimento, in particolare per i rom”.
In concreto, non cambia nulla, perche' il voto di ieri vale solo come monito morale e non ha potere cogente. Ma non è proprio un buon momento, per il presidente Nicolas Sarkozy: contestato sulle piazze di Francia, per la riforma delle pensioni; braccato dalla magistratura, che fa perquisire la sede del suo partito; condannato da Strasburgo. E se poi dovesse risultare vera l’indiscrezione del Daily Mail, secondo cui Carla Bruni sara' 'tagliata' dal film di Woody Allen ‘Midnight in Paris’ (un'umiliazione per la Premiere Dame), il quadro sarebbe devastante. Ne' migliora l’umore il ‘mal comune mezzo gaudio’ di vedere l’Italia associata alla Francia nella denuncia degli europarlamentari.
Che il clima nell'Assemblea Ue fosse critico sull’atteggiamento della Francia e di altri Paesi contro i rom, lo si era capito martedì' dal discorso sullo stato dell’Unione del presidente della Commissione Jose' Manuel Barroso e dal successivo dibattito. La denuncia di Barroso delle venature di razzismo che affiorano nelle politiche di alcuni governi europei non ha messo l'Esecutivo al riparo delle critiche del Parlamento: Bruxelles s'e' mossa poco e tardi.
E, mercoledì, il governo di Parigi aveva dovuto chiedere spiegazioni al commissariato per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che aveva fatto un parallelo tra la politica di Parigi sui Rom e quella dei nazisti.
Il voto di Strasburgo s’intrecciava, ieri, con lo scoop di Paris Match, confermato da fonti ufficiali, della perquisizione della sede dell’Ump a Parigi, nell’inchiesta su tangenti, o finanziamenti illeciti, dell’erede L’Oreal, Liliale Bettencourt, a politici, fra cui lo stesso Sarkozy. Segno che l’indagine va avanti
Come va avanti la mobilitazione contro la riforma delle pensioni: Sarkozy non fa marcia indietro sull’aumento progressivo dell’età pensionabile fino a 62 anni nel 2018. I sindacati, dopo lo sciopero di martedì, riuscito, indicono proteste il 23 settembre. Sarkozy non mostra rigidità assoluta e promette, ad esempio, attenzione ai lavori usuranti, ma ai sindacati non basta.
PENSIERI: rischio fischi, sì a Roma per ministri francesi
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 09/09/2010
Fanno la fila per venirsi a sposare in Italia, a Roma, i ministri di Sarkozy: un po’ perché la città di Alemanno è accogliente, verso chi manda a casa i rom; e un po’ perché qui non rischiano i fischi che toccherebbero loro a Parigi. Proprio il ministro dell’immigrazione, Eric Besson, 52 anni, bersaglio delle polemiche per i rimpatri, ha espresso al sindaco Alemanno il desiderio di ‘dire sì’ nella Città Eterna. Il matrimonio con Yasmine Tordjman, 23 anni appena, tunisina di una famiglia dalle molte aderenze, è previsto a Parigi il 16 settembre e coagula iniziative di contestazione. E l’Afp svela che pure Bernard Kouchner, 70 anni, ministro degli esteri, in disgrazia con Sarkozy perché ancora traversato da venature umanitarie, vuole sposare a Roma Christine Ockrent, 66 anni, già giornalista star della tv francese. La Francia della politica guarda all’Italia come rifugio. E la Francia dei media continua a cercare di decifrare l’Italia della politica, forse con ‘fini’ consolatori: c’è chi sta peggio. Le Monde resta attentissimo: “L'Italia prepara il dopo Berlusconi –scrive sul sito in homepage-. Il premier è prudente: sa che chi, agli occhi degli italiani, provocherà la crisi, ne subirà le conseguenze alle urne”. E Les Echos “accetta scommesse” su chi vincerà tra Mr B e Fini. Anche la Spagna ci segue, ma El Pais è colpito dalle parole dell’onorevole Angela Napoli: "Ci sono senatrici e deputate che per diventarlo si sono prostituite".
Fanno la fila per venirsi a sposare in Italia, a Roma, i ministri di Sarkozy: un po’ perché la città di Alemanno è accogliente, verso chi manda a casa i rom; e un po’ perché qui non rischiano i fischi che toccherebbero loro a Parigi. Proprio il ministro dell’immigrazione, Eric Besson, 52 anni, bersaglio delle polemiche per i rimpatri, ha espresso al sindaco Alemanno il desiderio di ‘dire sì’ nella Città Eterna. Il matrimonio con Yasmine Tordjman, 23 anni appena, tunisina di una famiglia dalle molte aderenze, è previsto a Parigi il 16 settembre e coagula iniziative di contestazione. E l’Afp svela che pure Bernard Kouchner, 70 anni, ministro degli esteri, in disgrazia con Sarkozy perché ancora traversato da venature umanitarie, vuole sposare a Roma Christine Ockrent, 66 anni, già giornalista star della tv francese. La Francia della politica guarda all’Italia come rifugio. E la Francia dei media continua a cercare di decifrare l’Italia della politica, forse con ‘fini’ consolatori: c’è chi sta peggio. Le Monde resta attentissimo: “L'Italia prepara il dopo Berlusconi –scrive sul sito in homepage-. Il premier è prudente: sa che chi, agli occhi degli italiani, provocherà la crisi, ne subirà le conseguenze alle urne”. E Les Echos “accetta scommesse” su chi vincerà tra Mr B e Fini. Anche la Spagna ci segue, ma El Pais è colpito dalle parole dell’onorevole Angela Napoli: "Ci sono senatrici e deputate che per diventarlo si sono prostituite".
giovedì 9 settembre 2010
SPIGOLI: Mr B e Fini giù insieme, viene a galla Nichi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/09/2010
Vivere nell’Italia di Berlusconi non è facile. Ma come sarebbe vivere in un’Italia senza Mr B? Forse, più difficile ancora. Se lo chiede, e lo ipotizza, in una ‘lettera dall’Italia’, intitolata proprio ‘Come vivere senza Berlusconi?’, il corrispondente di Le Monde Philippe Ridet. Magari, la vita sarebbe più difficile per i corrispondenti esteri, che avrebbero meno storie pruriginose o becere. Mentre Le Monde s’interroga, FT come molti altri quotidiani esteri racconta che “Berlusconi alza la posta nella battaglia con Fini”, chiedendone le dimissioni da presidente della Camera, e preconizza in Italia “un prolungato periodo di incertezza politica”. Nouvel Obs, come la Reuters, ritengono che la crisi politica vada aggravandosi in Italia. Ed El Pais critica che “Berlusconi e Bossi coinvolgano il presidente” della Repubblica. Gli sviluppi del match nella maggioranza sono seguiti soprattutto dalla stampa francese e spagnola (pure Le Figaro, Libération e altri), mentre la stampa britannica attende che accada qualcosa di concreto. El Mundo argomenta che “Fini reclama il diritto a pensare in forma differente”, pur continuando ad appoggiare Berlusconi. Se a destra i media esteri sono focalizzati sulla ‘strana coppia’, a sinistra cresce la curiosità per Nichi Vendola. Al governatore della Puglia FT dedicava martedì un servizio: “Nell’Italia che va verso le elezioni, il ruolo di Vendola nella sinistra è cruciale”.
Vivere nell’Italia di Berlusconi non è facile. Ma come sarebbe vivere in un’Italia senza Mr B? Forse, più difficile ancora. Se lo chiede, e lo ipotizza, in una ‘lettera dall’Italia’, intitolata proprio ‘Come vivere senza Berlusconi?’, il corrispondente di Le Monde Philippe Ridet. Magari, la vita sarebbe più difficile per i corrispondenti esteri, che avrebbero meno storie pruriginose o becere. Mentre Le Monde s’interroga, FT come molti altri quotidiani esteri racconta che “Berlusconi alza la posta nella battaglia con Fini”, chiedendone le dimissioni da presidente della Camera, e preconizza in Italia “un prolungato periodo di incertezza politica”. Nouvel Obs, come la Reuters, ritengono che la crisi politica vada aggravandosi in Italia. Ed El Pais critica che “Berlusconi e Bossi coinvolgano il presidente” della Repubblica. Gli sviluppi del match nella maggioranza sono seguiti soprattutto dalla stampa francese e spagnola (pure Le Figaro, Libération e altri), mentre la stampa britannica attende che accada qualcosa di concreto. El Mundo argomenta che “Fini reclama il diritto a pensare in forma differente”, pur continuando ad appoggiare Berlusconi. Se a destra i media esteri sono focalizzati sulla ‘strana coppia’, a sinistra cresce la curiosità per Nichi Vendola. Al governatore della Puglia FT dedicava martedì un servizio: “Nell’Italia che va verso le elezioni, il ruolo di Vendola nella sinistra è cruciale”.
mercoledì 8 settembre 2010
Ue: no ai razzismi, e a Francia e Italia fischiano orecchie
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/09/2010
Nel giorno in cui, per la prima volta, un presidente della Commissione europea pronuncia il discorso ‘sullo stato dell’Unione’ di fronte al Parlamento europeo, l’Italia, un tempo campione d’europeismo e di solidarietà, finisce implicitamente sotto accusa per la politica sull’emigrazione e sui rom. Josè Luis Durao Barroso non la cita per nome, come non chiama direttamente in causa la Francia, ma afferma che “in Europa non c'e' posto per il razzismo” e invita tutti “ad agire con sensibilità” su “questioni così delicate” come i diritti degli emigrati, specie quando sono cittadini comunitari, senza risvegliare “fantasmi del passato”. Barroso è già chiaro del suo, ma i capigruppo che commentano il suo discorso lo sono ancora di più: puntano il dito sulla Francia, che camuffa da partenze volontarie il rimpatrio dei rom verso i Paesi d’origine, ma pensano anche all’Italia della Lega o all’Olanda dove un partito xenofobo è divenuto la seconda forza politica nazionale.
Ogni forma di discriminazione “è puramente inaccettabile”, avverte Barroso: tutti i cittadini hanno “diritti e doveri” e ci vuole “equilibrio” tra il rispetto del principio della libera circolazione e quello della sicurezza, evitando “strumentalizzazioni populiste”. Parole che fischiano nelle orecchie del presidente Sarkozy e dei leader leghisti.
Il capogruppo socialista Martin Schulz, quello cui Berlusconi un giorno diede del kapò in aula, include “il governo francese di Sarkozy e Fillon” fra xenofobi e razzisti di questa Europa. E il capogruppo dei liberal-democratici, il belga Guy Verhofstadt, definisce “inaccettabile” quello che sta accadendo in Francia e aggiunge: “purtroppo non è un caso isolato”, perché “diversi altri governi piombano nelle tentazioni del populismo, della xenofobia e del razzismo … e strumentalizzano le paure e le inquietudini”.
Nella scia del dibattito, la Commissione annuncia la creazione di una task force per valutare l’uso fatto nei vari Paesi dei fondi Ue per l’integrazione dei rom. La task force, composta da esperti dell’Esecutivo, presenterà i primi risultati del proprio lavoro entro fine anno.
Il discorso di Barroso non ha (ancora?) il fascino e l’autorità del discorso sullo stato dell’Unione che il presidente Usa fa ogni anno a fine gennaio a Congresso riunito. Ma l’emiciclo di Strasburgo è gremito per il ‘primo giorno
di scuola’ delle istituzioni comunitarie dopo la pausa estiva. E non c’è bisogno di minacciare multe agli eurodeputati renitenti: il progetto, contestatissimo, viene abbandonato, ma pochi seggi restano vuoti. Il presidente delinea priorità, ma inanella soprattutto slogan (“Agire compatti per il successo”, “O nuotiamo insieme o affondiamo insieme”, “Più scienza e meno burocrazia”, bisogna “lavorare di più”).
Punti concreti ve ne sono. Barroso rilancia l’idea di eurobond per finanziare le grandi infrastrutture europee; vuole tassare le transazioni finanziarie e “bandire le vendite allo scoperto”. Si delineano conflitti con i governi dei 27. Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble, a Bruxelles per l’Ecofin, dice: “Sono idee che, lontano da qui, appaiono un po’ irrealistiche”. Nonostante divisioni su tasse e banche, l’Ecofin vara il semestre europeo per coordinare le finanziarie nazionali e porta avanti la riforma della vigilanza finanziaria.
Nel giorno in cui, per la prima volta, un presidente della Commissione europea pronuncia il discorso ‘sullo stato dell’Unione’ di fronte al Parlamento europeo, l’Italia, un tempo campione d’europeismo e di solidarietà, finisce implicitamente sotto accusa per la politica sull’emigrazione e sui rom. Josè Luis Durao Barroso non la cita per nome, come non chiama direttamente in causa la Francia, ma afferma che “in Europa non c'e' posto per il razzismo” e invita tutti “ad agire con sensibilità” su “questioni così delicate” come i diritti degli emigrati, specie quando sono cittadini comunitari, senza risvegliare “fantasmi del passato”. Barroso è già chiaro del suo, ma i capigruppo che commentano il suo discorso lo sono ancora di più: puntano il dito sulla Francia, che camuffa da partenze volontarie il rimpatrio dei rom verso i Paesi d’origine, ma pensano anche all’Italia della Lega o all’Olanda dove un partito xenofobo è divenuto la seconda forza politica nazionale.
Ogni forma di discriminazione “è puramente inaccettabile”, avverte Barroso: tutti i cittadini hanno “diritti e doveri” e ci vuole “equilibrio” tra il rispetto del principio della libera circolazione e quello della sicurezza, evitando “strumentalizzazioni populiste”. Parole che fischiano nelle orecchie del presidente Sarkozy e dei leader leghisti.
Il capogruppo socialista Martin Schulz, quello cui Berlusconi un giorno diede del kapò in aula, include “il governo francese di Sarkozy e Fillon” fra xenofobi e razzisti di questa Europa. E il capogruppo dei liberal-democratici, il belga Guy Verhofstadt, definisce “inaccettabile” quello che sta accadendo in Francia e aggiunge: “purtroppo non è un caso isolato”, perché “diversi altri governi piombano nelle tentazioni del populismo, della xenofobia e del razzismo … e strumentalizzano le paure e le inquietudini”.
Nella scia del dibattito, la Commissione annuncia la creazione di una task force per valutare l’uso fatto nei vari Paesi dei fondi Ue per l’integrazione dei rom. La task force, composta da esperti dell’Esecutivo, presenterà i primi risultati del proprio lavoro entro fine anno.
Il discorso di Barroso non ha (ancora?) il fascino e l’autorità del discorso sullo stato dell’Unione che il presidente Usa fa ogni anno a fine gennaio a Congresso riunito. Ma l’emiciclo di Strasburgo è gremito per il ‘primo giorno
di scuola’ delle istituzioni comunitarie dopo la pausa estiva. E non c’è bisogno di minacciare multe agli eurodeputati renitenti: il progetto, contestatissimo, viene abbandonato, ma pochi seggi restano vuoti. Il presidente delinea priorità, ma inanella soprattutto slogan (“Agire compatti per il successo”, “O nuotiamo insieme o affondiamo insieme”, “Più scienza e meno burocrazia”, bisogna “lavorare di più”).
Punti concreti ve ne sono. Barroso rilancia l’idea di eurobond per finanziare le grandi infrastrutture europee; vuole tassare le transazioni finanziarie e “bandire le vendite allo scoperto”. Si delineano conflitti con i governi dei 27. Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble, a Bruxelles per l’Ecofin, dice: “Sono idee che, lontano da qui, appaiono un po’ irrealistiche”. Nonostante divisioni su tasse e banche, l’Ecofin vara il semestre europeo per coordinare le finanziarie nazionali e porta avanti la riforma della vigilanza finanziaria.
SPIGOLI: R.I.P: su tomba Italia, suicida demografica
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/09/2010
R.I.P.(Requiescat in Pace, Riposi In Pace) sulla tomba di marmo dell’Italia, come sulle croci di legno delle tombe dei pionieri lungo i sentieri delle carovane del West o sulle croci bianche dei cimiteri di guerra: è l’epigrafe del WSJ sull’Italia che “sta morendo demograficamente”, anzi che sta commettendo “un suicidio demografico”. “Entro il 2050 –scrive il giornale- il 60% di italiani non avranno fratelli o sorelle, né zii o zie”. Né li aiuterà a colmare le lacune l’artificio, che colpisce il Daily Mail, di quel catanese che conserva la salma della zia in freezer per un anno per poterne continuare a incassare la pensione. La debolezza demografica dell’Italia, così come il fenomeno dei ‘bamboccioni’, attirano talora l’attenzione della stampa estera. Ma il WSJ stavolta ci dedica una sorta di necrologio (almeno un po’) prematuro: la bassa natalità “minaccia di avere conseguenze sociali ed economiche catastrofiche”, scrive Giulio Meotti, affermando, in base a stime dell’istituto di ricerca Max Planck, che, di questo passo, la popolazione italiana scenderà a 10 milioni di persone entro la fine del secolo, senza tenere conto dei flussi migratori, che potrebbero ridurrci a minoranza a casa nostra. Il 22% della popolazione è già fatto da pensionati e il 15% del pil va in previdenza. C’è una cura? La fede, pare, non serve, perchè in Occidente i Paesi laici sono più prolifici di quelli religiosi. Forse, un po’ d’ottimismo e di fiducia in un futuro migliore. Ma, se questo è il presente, come si fa?
R.I.P.(Requiescat in Pace, Riposi In Pace) sulla tomba di marmo dell’Italia, come sulle croci di legno delle tombe dei pionieri lungo i sentieri delle carovane del West o sulle croci bianche dei cimiteri di guerra: è l’epigrafe del WSJ sull’Italia che “sta morendo demograficamente”, anzi che sta commettendo “un suicidio demografico”. “Entro il 2050 –scrive il giornale- il 60% di italiani non avranno fratelli o sorelle, né zii o zie”. Né li aiuterà a colmare le lacune l’artificio, che colpisce il Daily Mail, di quel catanese che conserva la salma della zia in freezer per un anno per poterne continuare a incassare la pensione. La debolezza demografica dell’Italia, così come il fenomeno dei ‘bamboccioni’, attirano talora l’attenzione della stampa estera. Ma il WSJ stavolta ci dedica una sorta di necrologio (almeno un po’) prematuro: la bassa natalità “minaccia di avere conseguenze sociali ed economiche catastrofiche”, scrive Giulio Meotti, affermando, in base a stime dell’istituto di ricerca Max Planck, che, di questo passo, la popolazione italiana scenderà a 10 milioni di persone entro la fine del secolo, senza tenere conto dei flussi migratori, che potrebbero ridurrci a minoranza a casa nostra. Il 22% della popolazione è già fatto da pensionati e il 15% del pil va in previdenza. C’è una cura? La fede, pare, non serve, perchè in Occidente i Paesi laici sono più prolifici di quelli religiosi. Forse, un po’ d’ottimismo e di fiducia in un futuro migliore. Ma, se questo è il presente, come si fa?
martedì 7 settembre 2010
Salvate Sakineh: vivano i condannati, ma senza liberatutti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/09/2010
“Salvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata –non sempre con successo, anzi- per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper –uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne- o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas.
Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia nel Mondo ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di qualche Paese specifico: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che c’indignano più di altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima che i talebani prendessero il potere, in Arabia e negli Emirato o in Nigeria).Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione. Nell’Islam, si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri.
Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.
Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.
Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph D’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia
e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.
Nel caso di Sakineh, la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi –ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta-. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione televisiva –si presume estorta, magari con la tortura, ma per certo non si sa-.
Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo ‘Libera subito’, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese.
Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.
“Salvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata –non sempre con successo, anzi- per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper –uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne- o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas.
Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia nel Mondo ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di qualche Paese specifico: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che c’indignano più di altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima che i talebani prendessero il potere, in Arabia e negli Emirato o in Nigeria).Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione. Nell’Islam, si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri.
Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.
Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.
Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph D’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia
e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.
Nel caso di Sakineh, la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi –ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta-. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione televisiva –si presume estorta, magari con la tortura, ma per certo non si sa-.
Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo ‘Libera subito’, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese.
Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.
SPIGOLI: Fini uccide Pdl, non legislatura, fa Bossi kingmaker
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/09/2010
Diventa un evento globale, il discorso di Mirabello: se ne occupa la stampa di tutto il Mondo. Delle parole del leader di Futuro e Libertà Gianfranco Fini, la lettura prevalente è quella avallata da Afp e Reuters: “il partito di Berlusconi è morto” –Le Monde, Le Figaro, Libération, NouvelObs, Les Echos, Times, El Pais, El Economista, etc.-, ma la legislatura non è a rischio immediato, in quanto Fini non vuole elezioni anticipate –chè, se fossero subito, ci arriverebbe in brache di tela -. L’attenzione è alta soprattutto in Francia, dove a destra c’è chi cerca un Fini anti-Sarkozy. Alcuni media offrono angoli di lettura diversi, o parziali: El Pais, ad esempio, afferma che “Fini promette a Berlusconi il voto di fiducia, ma reclama un patto di legislatura nuovo”, in un “discorso pieno di invettive che avrà serie conseguenze”; Le Monde giudica Fini “conciliante su guai giudiziari” di Mr B; il Telegraph afferma che “Fini lancia un aspro attacco al premier accusandolo di ‘genuflettersi a Gheddafi’”. L’FT, a Cernobbio, intervista Tremonti e indica a il ministro dell’economia come successore di Berlusconi, qualora ci fosse la crisi: "La rottura con Fini –azzarda, prima del discorso- significa che il premier non può più contare sulla maggioranza in Parlamento". Infine, in un servizio sul "tea party" europeo di Martine Le Pen, Newsweek rileva che la rottura tra Fini e Berlusconi fa di Bossi il kingmaker della politica italiana.
Diventa un evento globale, il discorso di Mirabello: se ne occupa la stampa di tutto il Mondo. Delle parole del leader di Futuro e Libertà Gianfranco Fini, la lettura prevalente è quella avallata da Afp e Reuters: “il partito di Berlusconi è morto” –Le Monde, Le Figaro, Libération, NouvelObs, Les Echos, Times, El Pais, El Economista, etc.-, ma la legislatura non è a rischio immediato, in quanto Fini non vuole elezioni anticipate –chè, se fossero subito, ci arriverebbe in brache di tela -. L’attenzione è alta soprattutto in Francia, dove a destra c’è chi cerca un Fini anti-Sarkozy. Alcuni media offrono angoli di lettura diversi, o parziali: El Pais, ad esempio, afferma che “Fini promette a Berlusconi il voto di fiducia, ma reclama un patto di legislatura nuovo”, in un “discorso pieno di invettive che avrà serie conseguenze”; Le Monde giudica Fini “conciliante su guai giudiziari” di Mr B; il Telegraph afferma che “Fini lancia un aspro attacco al premier accusandolo di ‘genuflettersi a Gheddafi’”. L’FT, a Cernobbio, intervista Tremonti e indica a il ministro dell’economia come successore di Berlusconi, qualora ci fosse la crisi: "La rottura con Fini –azzarda, prima del discorso- significa che il premier non può più contare sulla maggioranza in Parlamento". Infine, in un servizio sul "tea party" europeo di Martine Le Pen, Newsweek rileva che la rottura tra Fini e Berlusconi fa di Bossi il kingmaker della politica italiana.
lunedì 6 settembre 2010
PENSIERI: l'Obama italiano e le lezioni progressiste
Scritto per il Blog de Il Fatto Quotidiano il 06/09/2010
Con un bell’articolo su Il Fatto Quotidiano di venerdì scorso, 3 settembre, il professor Maurizio Viroli, invitava il Pd a trovare il proprio Obama, per battere alle urne, quando verrà il momento, Berlusconi e la sua coalizione. Ora s’è definitivamente chiarito che l’Obama del Pd non può essere Fini, nonostante l’attesa quasi messianica del discorso di Mirabello: Fini non è uomo di sinistra e non si propone come tale.
Dunque, la ricerca del Pd, se mai dovesse cominciare, dovrebbe svolgersi senza equivoci e senza tentazioni nell’area della sinistra. Già, ma orientarsi lì dentro, un guazzabuglio dove i confini sono labili e gli Obama non si sprecano – né lì né altrove, a dire la verità -, mica è facile. Muoversi potrebbe essere più semplice usando come bussola un libro che John Podesta, capo dello staff della Casa Bianca di Bill Clinton – stava a Clinton come Letta sta a Berlusconi, tanto per intenderci – e artefice della transizione di Barack Obama, ha da poco pubblicato in Italia. Podesta è venuto a presentarlo su varie piazze delle Feste del Pd, a Torino – dove ha incontrato Bersani – e a Genova la scorsa settimana, finendo poi sulla piazza della Festa dell’Api a Labro.
Con una sintesi tutta anglossassone, l’autore racconta in meno di 200 pagine agili e piane da leggere ‘L’America del progresso’, un secolo di sinistra americana da Roosevelt a Obama. Lo fa in modo chiaro, perché questo figlio di emigrati – padre italiano, madre greca, anche lui interprete, in ottavo rispetto a Obama, del ‘sogno americano’ (in due generazioni dalla nave della speranza alla stanza del potere alla Casa Bianca) – ha le idee chiare. Essere progressisti, cioè, diremmo noi, essere di sinistra, significa quattro cose: primo, “i progressisti si schierano con il popolo, non con i privilegi”, con la gente, non con la casta, meritocrazia e pari opportunità; secondo, “i progressisti credono nell’interesse generale e in un governo che dà una mano alla gente”, praticano la solidarietà; terzo, “per i progressisti tutti sono uguali, agli occhi di Dio e della Legge”, sono per lagiustizia; quarto, “i progressisti sono a favore dei diritti umani universali e della cooperazione in materia di sicurezza globale”, difendono i diritti dell’uomo e il diritto allo sviluppo e alla sicurezza. Insomma, essere progressisti, o di sinistra, è semplice, più dell’uovo di Colombo, ed è anche facile dirlo: quelle idee hanno una forza tale che, se espresse, vanno avanti (quasi) da sole: la via che porta al successo – diceva, mi pare di ricordare, un progressista ante-litteram, illuminista e massone,Benjamin Franklin - è larga e piana, come quella che porta al mercato, ma è lunga e richiede forza e costanza. Per arrivare fino in fondo, basta non farsi tentare dalle scorciatoie, cioè non impegolarsi a priori in patteggiamenti di alleanze e non ingarbugliarsi in intrighi politichesi o elettorali. Certo, il professor Viroli ha ragione: se c’è un Obama, è meglio. Ma anche senza ‘Yes, we can’.
Con un bell’articolo su Il Fatto Quotidiano di venerdì scorso, 3 settembre, il professor Maurizio Viroli, invitava il Pd a trovare il proprio Obama, per battere alle urne, quando verrà il momento, Berlusconi e la sua coalizione. Ora s’è definitivamente chiarito che l’Obama del Pd non può essere Fini, nonostante l’attesa quasi messianica del discorso di Mirabello: Fini non è uomo di sinistra e non si propone come tale.
Dunque, la ricerca del Pd, se mai dovesse cominciare, dovrebbe svolgersi senza equivoci e senza tentazioni nell’area della sinistra. Già, ma orientarsi lì dentro, un guazzabuglio dove i confini sono labili e gli Obama non si sprecano – né lì né altrove, a dire la verità -, mica è facile. Muoversi potrebbe essere più semplice usando come bussola un libro che John Podesta, capo dello staff della Casa Bianca di Bill Clinton – stava a Clinton come Letta sta a Berlusconi, tanto per intenderci – e artefice della transizione di Barack Obama, ha da poco pubblicato in Italia. Podesta è venuto a presentarlo su varie piazze delle Feste del Pd, a Torino – dove ha incontrato Bersani – e a Genova la scorsa settimana, finendo poi sulla piazza della Festa dell’Api a Labro.
Con una sintesi tutta anglossassone, l’autore racconta in meno di 200 pagine agili e piane da leggere ‘L’America del progresso’, un secolo di sinistra americana da Roosevelt a Obama. Lo fa in modo chiaro, perché questo figlio di emigrati – padre italiano, madre greca, anche lui interprete, in ottavo rispetto a Obama, del ‘sogno americano’ (in due generazioni dalla nave della speranza alla stanza del potere alla Casa Bianca) – ha le idee chiare. Essere progressisti, cioè, diremmo noi, essere di sinistra, significa quattro cose: primo, “i progressisti si schierano con il popolo, non con i privilegi”, con la gente, non con la casta, meritocrazia e pari opportunità; secondo, “i progressisti credono nell’interesse generale e in un governo che dà una mano alla gente”, praticano la solidarietà; terzo, “per i progressisti tutti sono uguali, agli occhi di Dio e della Legge”, sono per lagiustizia; quarto, “i progressisti sono a favore dei diritti umani universali e della cooperazione in materia di sicurezza globale”, difendono i diritti dell’uomo e il diritto allo sviluppo e alla sicurezza. Insomma, essere progressisti, o di sinistra, è semplice, più dell’uovo di Colombo, ed è anche facile dirlo: quelle idee hanno una forza tale che, se espresse, vanno avanti (quasi) da sole: la via che porta al successo – diceva, mi pare di ricordare, un progressista ante-litteram, illuminista e massone,Benjamin Franklin - è larga e piana, come quella che porta al mercato, ma è lunga e richiede forza e costanza. Per arrivare fino in fondo, basta non farsi tentare dalle scorciatoie, cioè non impegolarsi a priori in patteggiamenti di alleanze e non ingarbugliarsi in intrighi politichesi o elettorali. Certo, il professor Viroli ha ragione: se c’è un Obama, è meglio. Ma anche senza ‘Yes, we can’.
domenica 5 settembre 2010
SPIGOLI: Vesuvio e Ferrari, un'Italia che fa fuoco e fiamme
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/09/2010
C’è un’Italia che fa fuoco e fiamme sulla stampa internazionale: Vesuvio e Ferrari, agli onori (non sempre desiderati) della cronaca. Magari ci avreste scommesso, ma il Vesuvio è il vulcano più famoso di tutti i tempi: lo riconosce Time, che, ogni tanto, s’inventa una classifica mondiale un po’ arbitraria dei ‘Top Ten’ di qualche cosa. Il Vesuvio si merita il primo posto non solo e non tanto per essersi svegliato e avere eruttato una trentina di volte a memoria d’uomo, ma soprattutto per avere distrutto e, nel contempo, contribuito a conservare così bene Pompei ed Ercolano, nel 79 dC. Il Vesuvio batte il Krakatoa, che vale il secondo posto, e il Mount St. Helens, che invece usurpa il terzo, con un’eruzioncina che anni fa fece tanto fumo –neppure troppo- e nessun danno. Appena sesto, invece, il vulcano islandese dal nome scioglilingua, l’ Eyjafjallajokull, capace in primavera di mandare in tilt l’universo mondo dei trasporti aerei con i suoi sbuffi. E, poi, manca l’Etna, che un posticino verso il fondo lo meritava. La classifica dei vulcani è un giochino, mentre le Ferrari in fiamme sono uno smacco per il ‘made in Italy’: il richiamo di 1200 esemplari delle 458 Italia trova spazio su FT, Les Echos, Daily Mail e molti altri e su tutte le agenzie internazionali. A pagarlo come pubblicità, tanto spazio così sarebbe costato un sacco di soldi.
C’è un’Italia che fa fuoco e fiamme sulla stampa internazionale: Vesuvio e Ferrari, agli onori (non sempre desiderati) della cronaca. Magari ci avreste scommesso, ma il Vesuvio è il vulcano più famoso di tutti i tempi: lo riconosce Time, che, ogni tanto, s’inventa una classifica mondiale un po’ arbitraria dei ‘Top Ten’ di qualche cosa. Il Vesuvio si merita il primo posto non solo e non tanto per essersi svegliato e avere eruttato una trentina di volte a memoria d’uomo, ma soprattutto per avere distrutto e, nel contempo, contribuito a conservare così bene Pompei ed Ercolano, nel 79 dC. Il Vesuvio batte il Krakatoa, che vale il secondo posto, e il Mount St. Helens, che invece usurpa il terzo, con un’eruzioncina che anni fa fece tanto fumo –neppure troppo- e nessun danno. Appena sesto, invece, il vulcano islandese dal nome scioglilingua, l’ Eyjafjallajokull, capace in primavera di mandare in tilt l’universo mondo dei trasporti aerei con i suoi sbuffi. E, poi, manca l’Etna, che un posticino verso il fondo lo meritava. La classifica dei vulcani è un giochino, mentre le Ferrari in fiamme sono uno smacco per il ‘made in Italy’: il richiamo di 1200 esemplari delle 458 Italia trova spazio su FT, Les Echos, Daily Mail e molti altri e su tutte le agenzie internazionali. A pagarlo come pubblicità, tanto spazio così sarebbe costato un sacco di soldi.
sabato 4 settembre 2010
MO: il rebus della pace, i + e i - della trattativa ripartita
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/09/2010
Nemici e ostacoli della pace mediorientale sono dovunque. Ne trovi dove meno te li aspetti, persino nei gelidi corridori della Commissione europei. Un esempio: Karel de Gucht, commissario europeo al commercio estero, belga, fiammingo, se ne viene fuori a denunciare “il potere” della lobbry ebraica nel Congresso Usa e la difficoltà “anche per gli ebrei più moderati” di essere “razionali”. Imbarazzo dell’Esecutivo comunitario e denunce di antisemitismo: ne nasce un putiferio.
Il giorno dopo la ripartenza, a Washington, dei negoziati israelo-palestinesi (obiettivo un accordo entro un anno, con appuntamenti quindicinali), il cauto ottimismo della stampa ebraica s’intreccia col pessimismo minaccioso iraniano: “La trattativa è nata morta” ed è “destinata a fallire”, dice il presidente Ahmadinejad. E 13 gruppi armati palestinesi decidono di coordinare gli attacchi contro Israele.
La trattativa è complessa, difficile, appesa a un filo, ma, nello stesso tempo, solidissima. Alcuni elementi di fragilità ne sono punti di forza; e viceversa. Vediamo il perché, sapendo che la prima trappola arriva subito, il 26 settembre, quando scadrà la moratoria israeliana in atto da 10 mesi sui nuovi insediamenti nei Territori. Israele non intende rinnovarla. E, senza rinnovo, i palestinesi non intendono proseguire i negoziati.
Il groviglio dei nodi – I temi della trattativa, cioè i confini tra Israele e la futura Palestina, l’assetto di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la colonizzazione, la sicurezza, sono ognuno in sè complesso e tutti fra di loro intrecciati; e le parti sono attestate su posizioni rigide. E’ un handicap. Ma se Netanyahu e Abu Mazen siedono al tavolo, vuol dire che concessioni, magari condizionate, sono disposti a farla, magari con soluzioni in cui ciascuno mascheri i cedimenti dietro i successi. Un’ipotesi: al ritorno dei palestinesi da dove furono cacciati 40 anni or sono e più pochissimi credono davvero, ma la rinuncia potrebbe ricevere compensazioni economiche e dare loro il diritto di vivere da cittadini dove oggi sono rifugiati. E ancora, gli insediamenti: Israele, almeno per ora, potrebbe non rinunciarvi formalmente, ma evitare di attuarne di nuovi.
La mancanza di una scadenza – L’impegno è di trovare un accordo entro un anno. Ma non c’è una scadenza diplomatica o istituzionale cogente –non prima delle elezioni presidenziali Usa 2012-. Male, perché nessuno avrà fretta; ma pure bene, perché nessuno si sentirà soffocato dal trascorrere dei giorni. Né è pensabile che israeliani e palestinesi vogliano puntare sul successore di Obama.
Il numero dei protagonisti – Israeliani e palestinesi sono gli attori principali, egiziani e giordani i ‘facilitatori’, gli Stati Uniti e il Quartetto (Onu, Usa, Ue e Russia) i mediatori e i garanti. Ma la trattativa non riuscirà senza il coinvolgimento di Siria e Libano, che non hanno ancora fatto la pace con lo Stato ebraico; e sullo statuto di Gerusalemme, città santa delle tre religioni monoteiste, dirà la sua anche la Santa Sede. Le tessere del puzzle sono così numerose che comporre tutto il mosaico è un rompicapo, ma le possibilità che qualcuna vada a posto sono maggiori.
La debolezza dei leader – Netanyahu e Abu Mazen sono entrambi leader deboli, l’uno condizionato dalla destra religiosa, l’altro poco rappresentativo della sua gente. Antonio Ferrari, acuto esperto di Medio Oriente, sostiene, sul Corriere della Sera, che il prodotto di due debolezze può fare una forza. Algebricamente, è vero. Ma se si conta la debolezza di Obama, in difficoltà verso il voto di midterm, allora l’algebra ci gioca contro. Il fattori e le incognite sono numerosi: difficile dire se il prodotto sarà un + o un -
La molteplicità dei nemici – De Gucht a parte, che non incide, i nemici dei negoziati sono ovunque: con le armi o con le parole, musulmani ed ebrei, sul terreno e nei media, ideologi o politici, cercheranno di ‘farli saltare’ ogni giorno. Ma la virulenza, che li rende pericolosi, li rende pure prevedibili: israeliani e palestinesi, se sono in buona fede, saranno immuni alle provocazioni.
L’ineluttabilità della pace – Se è ineluttabile, allora perché fare sforzi, e soprattutto, concessioni per ottenerla? La convinzione è un handicap, non una molla. Ma è pur vero che anche il conflitto è ineluttabile, fin quando la pace non è garantita. E, allora, meglio trovare una quadra.
Nemici e ostacoli della pace mediorientale sono dovunque. Ne trovi dove meno te li aspetti, persino nei gelidi corridori della Commissione europei. Un esempio: Karel de Gucht, commissario europeo al commercio estero, belga, fiammingo, se ne viene fuori a denunciare “il potere” della lobbry ebraica nel Congresso Usa e la difficoltà “anche per gli ebrei più moderati” di essere “razionali”. Imbarazzo dell’Esecutivo comunitario e denunce di antisemitismo: ne nasce un putiferio.
Il giorno dopo la ripartenza, a Washington, dei negoziati israelo-palestinesi (obiettivo un accordo entro un anno, con appuntamenti quindicinali), il cauto ottimismo della stampa ebraica s’intreccia col pessimismo minaccioso iraniano: “La trattativa è nata morta” ed è “destinata a fallire”, dice il presidente Ahmadinejad. E 13 gruppi armati palestinesi decidono di coordinare gli attacchi contro Israele.
La trattativa è complessa, difficile, appesa a un filo, ma, nello stesso tempo, solidissima. Alcuni elementi di fragilità ne sono punti di forza; e viceversa. Vediamo il perché, sapendo che la prima trappola arriva subito, il 26 settembre, quando scadrà la moratoria israeliana in atto da 10 mesi sui nuovi insediamenti nei Territori. Israele non intende rinnovarla. E, senza rinnovo, i palestinesi non intendono proseguire i negoziati.
Il groviglio dei nodi – I temi della trattativa, cioè i confini tra Israele e la futura Palestina, l’assetto di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la colonizzazione, la sicurezza, sono ognuno in sè complesso e tutti fra di loro intrecciati; e le parti sono attestate su posizioni rigide. E’ un handicap. Ma se Netanyahu e Abu Mazen siedono al tavolo, vuol dire che concessioni, magari condizionate, sono disposti a farla, magari con soluzioni in cui ciascuno mascheri i cedimenti dietro i successi. Un’ipotesi: al ritorno dei palestinesi da dove furono cacciati 40 anni or sono e più pochissimi credono davvero, ma la rinuncia potrebbe ricevere compensazioni economiche e dare loro il diritto di vivere da cittadini dove oggi sono rifugiati. E ancora, gli insediamenti: Israele, almeno per ora, potrebbe non rinunciarvi formalmente, ma evitare di attuarne di nuovi.
La mancanza di una scadenza – L’impegno è di trovare un accordo entro un anno. Ma non c’è una scadenza diplomatica o istituzionale cogente –non prima delle elezioni presidenziali Usa 2012-. Male, perché nessuno avrà fretta; ma pure bene, perché nessuno si sentirà soffocato dal trascorrere dei giorni. Né è pensabile che israeliani e palestinesi vogliano puntare sul successore di Obama.
Il numero dei protagonisti – Israeliani e palestinesi sono gli attori principali, egiziani e giordani i ‘facilitatori’, gli Stati Uniti e il Quartetto (Onu, Usa, Ue e Russia) i mediatori e i garanti. Ma la trattativa non riuscirà senza il coinvolgimento di Siria e Libano, che non hanno ancora fatto la pace con lo Stato ebraico; e sullo statuto di Gerusalemme, città santa delle tre religioni monoteiste, dirà la sua anche la Santa Sede. Le tessere del puzzle sono così numerose che comporre tutto il mosaico è un rompicapo, ma le possibilità che qualcuna vada a posto sono maggiori.
La debolezza dei leader – Netanyahu e Abu Mazen sono entrambi leader deboli, l’uno condizionato dalla destra religiosa, l’altro poco rappresentativo della sua gente. Antonio Ferrari, acuto esperto di Medio Oriente, sostiene, sul Corriere della Sera, che il prodotto di due debolezze può fare una forza. Algebricamente, è vero. Ma se si conta la debolezza di Obama, in difficoltà verso il voto di midterm, allora l’algebra ci gioca contro. Il fattori e le incognite sono numerosi: difficile dire se il prodotto sarà un + o un -
La molteplicità dei nemici – De Gucht a parte, che non incide, i nemici dei negoziati sono ovunque: con le armi o con le parole, musulmani ed ebrei, sul terreno e nei media, ideologi o politici, cercheranno di ‘farli saltare’ ogni giorno. Ma la virulenza, che li rende pericolosi, li rende pure prevedibili: israeliani e palestinesi, se sono in buona fede, saranno immuni alle provocazioni.
L’ineluttabilità della pace – Se è ineluttabile, allora perché fare sforzi, e soprattutto, concessioni per ottenerla? La convinzione è un handicap, non una molla. Ma è pur vero che anche il conflitto è ineluttabile, fin quando la pace non è garantita. E, allora, meglio trovare una quadra.
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