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sabato 31 dicembre 2011

2012: salpare con il Titanic nell'anno dei Maya (e dell'euro)

Scritto in varie versioni per AffarInternazionali, l'Indro e Il Fatto Quotidiano

L’anno del rinnovamento. Oppure, l’anno del sovvertimento. O, ancora, come spesso accade, l’anno in cui può accadere di tutto, ma , alla fine, non succede (quasi) nulla. Hanno molteplici sfaccettature le predizioni del 2012, che a farle siano antichi aruspici od oracoli moderni, politologi e futurologi.

Salpare con il Titanic nell’anno della fine del mondo dei maya; o, per le cassandre più attuali, della fine dell’euro. Uno scenario da catastrofe, soprattutto per quanti parteciperanno alla Crociera del Centenario, che partirà da Southampton l’8 aprile, la domenica di Pasqua, con destinazione il luogo esatto del drammatico impatto tra il transatlantico e l’iceberg. La Titanic Memorial Cruise intende ripercorrere il percorso e ricreare l’atmosfera del fatale viaggio di cent’anni or sono, verso quello che è divenuto il più celebre naufragio di tutti i tempi. La notte tra il 14 e il 15 aprile, la crociera, puntuale all’appuntamento con la storia, sarà sulle coordinate precise di quella tragedia. Il copione non prevede, però, che altrettanto puntuale sia l’iceberg, che, anzi, è pregato di tenersi alla larga, nonostante i cambiamenti di clima e le diavolerie tecnologiche varie di cui l’uomo s’è nel frattempo dotato.

L’anniversario dell’affondamento del Titanic, per il quale il calendario delle celebrazioni è fitto, lungo la rotta –Dublino, Belfast, New York- e altrove nel Mondo, basta a evocare la fragilità dell’uomo e delle sue realizzazioni: se andò a picco quel transatlantico, figuriamoci se non possono andare a fondo Ue ed euro, costretti a navigare a vista fra gli iceberg della speculazione finanziaria e degli egoismi nazionali (senza essersi neppure dotati di paratie stagne). Ma il monito può forse indurre i leader europei a cambiare rotta il più presto possibile: la notte che il Titanic affondò, cent’anni or sono, l’Unione e la sua moneta potrebbero già solcare acque più tranquille, sempre che i vertici in programma a gennaio e a marzo siano stati positivi.

Se si sottrarrà al destino da tregenda sotto la cui stella pare nascere, il 2012 è un anno che può cambiare la leadership del Mondo: l’idea ha ispirato il numero di dicembre della rivista Formiche, aperto da un’analisi dubitativa di Vittorio Emanuele Parsi: dubitativa, perché è difficile che il cambiamento avvenga. Cercando di individuare temi e personaggi dell’Anno Nuovo, l’Ispi osserva che il Mondo vive una crisi di governante e che essa non si risolverà nei prossimi 12 mesi; anzi, si farà sentire “la tensione tra vecchi e nuovi protagonisti capaci di costruire insieme strumenti adatti a governare le nuove interazioni politiche ed economiche globali”.

L’anno che verrà sarà eccezionalmente denso di appuntamenti elettorali: presidenziali in Russia, Francia, Stati Uniti; e ancora in India, Messico, Venezuela e in numerosi altri Paesi. Ma, alla fine, le facce che contano resteranno le stesse, c’è –quasi- da scommetterci. Negli Stati Uniti, il 6 novembre, Barack Obama sarà confermato, nonostante un primo mandato al di sotto delle aspettative suscitate dal suo arrivo alla Casa Bianca nel 2009 (unica insidia, la ricaduta degli Usa nella crisi).

In Russia, il 4 marzo, Vladimir Putin si riprenderà il posto di presidente, provvisoriamente ceduto a Dmitri Medvedev (che tornerà a fare il premier). E, in Francia, Nicolas Sarkozy e la sua ‘première dame’ italiana Carla Bruni resteranno all’Eliseo, complice il harakiri dei socialisti che si sono scelti come candidato nel doppio voto di aprile e maggio François Hollande, un funzionario di partito senza smalto. Persino in Venezuela, Hugo Chavez resta il favorito il 7 ottobre: l’unico avversario che potrebbe sconfiggerlo è la malattia.

Così, la sola faccia nuova nel gotha dei potenti finirà con l’essere, fra un anno, Xi Jinping, presidente cinese in pectore, uomo di punta della quinta generazione dei comunisti cinesi, successore da tempo designato di Hu Jintao, destinato alla pensione, per limiti di età, in occasione del XVIII Congresso del Partito comunista cinese nell’autunno prossimo. Con Hu, uscirà di scena pure il premier Wen Jiabao (e pure lì non c’è pathos: il successore è già conosciuto, Li Kegiang). Sarà un avvicendamento generazionale importante: riguarderà sette dei nove membri dell’attuale comitato centrale del Pcc. E una Cina più giovane è un’incognita importante sulla scena mondiale (ma sono carte che si scopriranno soprattutto nel 2013).

Se i leader non cambieranno o cambieranno secondo copioni già scritti, la governante mondiale appare lo stesso in fase di transizione, se non altro perché il 2011 ha certificato l’inadeguatezza degli attuali organismi internazionale a gestire la crisi e, soprattutto, a tirarcene fuori. Così, l’Unione europea affronta mesi cruciali nello sforzo di arginale la crisi del debito e di salvare l’euro con presidenze di turno semestrali relativamente deboli –la Danimarca e l’esordiente Cipro- (e pure a rischio di tensioni, per quanto riguarda Cipro con la Turchia). Il G20 e il G8, unificati nel 2011 sotto presidenza francese, dividono i loro percorsi, e, quindi, probabilmente riducono ulteriormente il loro coordinamento, con il G20 sotto presidenza messicana e il G8 sotto presidenza statunitense –Obama riceverà i Grandi del Mondo nella sua Chicago il 19 maggio e lì organizzerà pure il Vertice della Nato-. Ma tutto il circo di appuntamenti internazionali politici e finanziari al massimo livello, comprese le riunioni del Fondo monetario internazionale, rischia solo di confermare la carenza di leadership economica mondiale, che ostacola l’uscita dell’economia globale dal suo disordine depressivo datato, ormai, 2008.

Un Mondo in crisi, ma almeno un Mondo in pace? Il tasso di conflittualità può apparire in calo, dopo la fine della guerra in Iraq –decretata dal ritiro dell’ultimo soldato combattente americano- e l’annuncio dell’inizio del disimpegno in Afghanistan: cessazioni o riduzioni delle ostilità ad uso dell’Occidente, più che a concreto beneficio delle popolazioni locali. E, vicino a noi, sulla riva sud del Mediterraneo, la riconciliazione fra israeliani e palestinesi non fa passi avanti e la democrazia si conquista a fatica spazi negli sviluppi della Primavera araba. Il 2012 ci porta certo un segno di pace: i Giochi di Londra. Ma questa storia della tregua olimpica è una balla moderna: sono le guerre che interrompono i Giochi, non viceversa.

2012: le date che contano nell'anno che sarà

Scritto in varie versioni per AffarInternazionali, L'Indro e Il Fatto Quotidiano

01/01 – G8, gli Stati Uniti assumono la presidenza per tutto l’anno. G20, il Messico assume la presidenza per tutto l’anno. Ue, la Danimarca assume la presidenza di turno per il primo semestre.
Onu, Consiglio di Sicurezza, entrano cinque nuovi membri per due anni, Azerbaigian, Guatemala, Marocco, Pakistan, Togo.
03/01 – Usa 2012, Iowa, caucuses, inizia il processo di ‘nomination’ del candidato repubblicano alla Casa Bianca.
04/01 – Egitto, proseguono le elezioni politiche (numerose altre scadenze successive).
14/01 – Taiwan, elezioni presidenziali (05/02, ballottaggio).
22/01 – Finlandia, elezioni presidenziali.
23/01 (fino al 30) – Unione africana, Addis Abeba, 18° Vertice.
24/01 – Usa, discorso sullo stato dell’Unione del presidente Barack Obama, l’ultimo del suo mandato.
30/01 – Ue, Bruxelles, Vertice europeo informale.
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12/02 – Turkmenistan, elezioni presidenziali.
19/02 – Grecia, elezioni politiche anticipate.
25/02 – Città del Messico, G20, riunione dei ministri delle finanze.
26/02 – Senegal, elezioni presidenziali.
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01/03 e seguente – Bruxelles, Ue, Vertice europeo.
02/03 – Iran, elezioni politiche
04/03 – Russia, elezioni presidenziali.
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14/04 – Cartagena (Colombia), VI Summit delle Americhe.
15/04 – Titanic, 100° anniversario del naufragio più celebre della storia.
20/04 (fino al 22) – Fmi, Washington, riunioni di primavera. G8 e G20, riunioni dei ministri delle finanze.
22/04 – Francia, elezioni presidenziali (06/05, ballottaggio).
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19/05 e seguente – G8, Chicago, Vertice.
20/05 e seguente – Nato, Chicago, Vertice atlantico.
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08/06 – Calcio, Varsavia, partita d’esordio campionati europei (01/07, finale a Kiev)
18/06 e seguente – Los Cabos (Messico), G20, Vertice.
28/06 e seguente – Bruxelles, Ue, Vertice europeo.
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Luglio – India, elezioni presidenziali.
01/07 - Ue, Cipro assume la presidenza di turno per il secondo semestre.
01/07 – Messico, elezioni presidenziali.
27/07 (fino al 12/08) – Londra, Giochi Olimpici.
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14/08 – Kenya, elezioni presidenziali e politiche.
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18/09 - Onu, New York, inizio Assemblea generale.
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07/10 – Venezuela, elezioni presidenziali.
12/10 (fino al 14) – Fmi, Tokyo, riunioni annuali. G8 e G20, riunioni dei ministri delle finanze.
18/10 (e seguente) – Ue, Bruxelles, Vertice europeo.
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06/11 – Usa, elezioni presidenziali.
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13/12 (e seguente) - Ue, Bruxelles, Vertice europeo.

Ue: leader cercansi, la 'miniera delle donne' danese

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/12/2012

Nell’Europa a caccia di leader, meglio se giovani, c’è una miniera di donne tutta da esplorare: sta in Danimarca, terra d’europeismo tiepido –l’euro accettato senza rinunciare alla corona, il Trattato di Maastricht ai suoi tempi mandato giù di traverso-, ma di grande concretezza. Il Paese che, all’ingresso nel 2012, assumerà la presidenza di turno semestrale del Consiglio dell’Ue è attualmente guidato da un poker di donne: non proprio tutte giovani, neppure nella concezione italiana dilatata di tale termine, ma tutte in gamba.

Il capo dello Stato è la regina Margherita II, che giovane non è né d’età –ha 72 anni- né di trono –vi siede dal 1972: praticamente, il suo regno coincide con il percorso europeo del suo Paese, entrato nell’allora Comunità nel 1973 insieme a Gran Bretagna e Irlanda. Il premier, da metà settembre, cioè da quando le elezioni politiche hanno segnato la sconfitta della coalizione di centro-destra guidata dal premier uscente Lars Lokke Rasmussen, è Helle Thorning-Schmidt, 44 anni, socialista, anzi socialdemocratica, come si dice in Danimarca, tutta d’un pezzo, nonostante vezzi da ‘Il diavolo veste Prada’ tipo tacchi a spillo e borse griffate che le hanno valso il soprannome poco rosso di Gucci-Helle (e anche l’ultimo sguardo lubrico europeo di Mr B, a un Vertice dell’Ue in autunno).

La Thorning-Schmidt è a capo di una coalizione di centro-sinistra i cui due altri partiti hanno pure donne leader: Mergrethe Vestager, 43 anni, social-liberale, ex ministro, madre di tre figli, presidente del partito da quand’era ancora trentenne, e Johanne Schmidt-Nielsen, 27 anni appena e già capo della sinistra radicale. Abilissima, Johanne in poco tempo è riuscita a dare una veste moderna e pragmatica alla Lista Unitaria, superando divisioni interne e anacronismi politici. Nel 2007, quando aveva 23 anni, si laureò in scienze sociali e venne eletta al Folketing, il Parlamento, dopo avere incentrato la sua campagna sui temi della sicurezza sociale e della lotta alle discriminazioni. Quell’anno, avrebbe lanciato 200 chili di pasta contro il ministero delle Finanze, per protestare contro i tagli alla scuola. Nelle politiche di settembre, è stata la più votata.

Gucci-Helle, Mergrethe e Johanne, ecco il trio di donne che, da gennaio, vuole lanciare, sulle note di Simon & Garfunkel, “un ponte sulle acque agitate” dell’Europa. La Danimarca, che riceve il testimone della presidenza dalla Polonia, di ponti s’intende, avendo costruito il più lungo d’Europa, quello di Oresund tra Copenaghen e Malmoe, quasi 16 chilometri. Ora, deve gettarne uno sulla crisi del debito per salvare l’euro, alla cui zona pure non appartiene a pieno, e deve, magari, gettarne uno sulla Manica, per ricongiungere la Gran Bretagna ai partner (Londra è rimasta separata dagli altri 26 Paesi sul Patto di Bilancio definito il 9 dicembre). Come Amleto delle tre Ofelie si offre il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble, che dà loro in viatico un tuffo nell’ottimismo, l’euro –dice- dovrebbe "stabilizzarsi" nel 2012.

Solo danesi, nel calepino dei leader europei prossimi venturi?, per di più di sinistra? Se cercate proprio giovani, e proprio di sinistra, vi resta poco, nelle reti delle cronache politiche. La Spagna offre un valore sicuro, Carme Chacon Piqueras, 40 anni, ministro della difesa nello Zapatero II –incinta, visitò le truppe in Afghanistan e nel Kosovo-: candidata a succedere al premier alla guida del Psoe, le venne preferito il maturo Alfredo Perez Rubalcaba, votato, però, a sconfitta annunciata nelle elezioni politiche dello scorso anno. Per il resto, futuri leader europeisti di sinistra cercasi: Roberto Gualtieri, 45 anni, romano, si sta mettendo in luce al Parlamento europeo, dove fu eletto nel 2009 per la prima volta; e nell’Assemblea di Strasburgo si fanno pure valere il popolare tedesco Elmar Brok, che di anni ne ha già 65, il federalista irlandese Andrew Duff, 61, i verdi Eva Jolie, giudice, francese di nazionalità, norvegese di nascita, 68 anni, e Daniel Cohn-Bendit, franco-tedesco, che giovane non è, 66 anni, ma che è un simbolo del ’68. Però, la carta europea ‘pigliatutto’ è –o sarebbe, perché bisogna pur giocarla- un liberale fiammingo, Guy Verhofstad, 58 anni ‘appena’, premier belga per otto anni quand’era (molto) più snello.

2011: meglio e peggio, Osama ucciso, fine, o inizio, d'un mito

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/12/2011

Osama bin Laden, il fondatore e l’ideologo delle rete terroristica al Qaeda, la mente degli attacchi all’America dell’11 Settembre 2001 e l’ispiratore di molti altri, prima e dopo, muore in Pakistan, ad Abbottabad, il 1.o maggio, ucciso in un blitz delle forze speciali degli Stati Uniti. Quel giorno, scompare il simbolo della guerra dichiarata dall’integralismo musulmano all’Occidente, anche se l’uomo ammazzato dai Seals, il cui cadavere avvolto in una coperta viene fatto scomparire nell’Oceano Indiano, non era più un capo operativo, la primula rossa del male internazionale sempre capace di sottrarsi alla cattura e di ricomparire minacciando l’America. Sorpreso senza difese nel suo covo, Osama pare un terrorista baby-pensionato a 54 anni, più vecchio dei suoi anni, che guarda la tv in casa avvolto in una coperta e si tinge la barba per andare in video: una leggenda sopravvissuta al suo personaggio, più facile da alimentare e mitizzare ora, da morto, nel ricordo, che, prima, da vivo, col rito di video ripetitivi nei toni minacciosi e nei proclami apocalittici. (g.g.)

mercoledì 28 dicembre 2011

Missioni militari italiane all'esterno: Mr B = Monti, ma com'è diverso

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/12/2011

Forse, è meglio così. Ma, certo, la differenza è stridente. Sei mesi fa, il decreto di rifinanziamento delle missioni di pace militari dell’Italia all’estero fu motivo di forti tensioni: il centro-destra sfiorò la crisi, con la Lega che prima non ne voleva sapere, poi chiedeva un termine all’impegno in Libia e infine si contentò di una riduzione dei costi (scesi da 811 milioni di euro a 694 per un semestre). Gli allora ministri degli Esteri Frattini e della Difesa La Russa spesero fiumi di parole, con la stampa e in Parlamento.

Sei mesi dopo, l’Italia pare un altro mondo (e un po’ lo è): nell’ultima riunione prima di Natale, il 23 dicembre, il Consiglio dei Ministri ha varato –recita il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi- “un decreto che assicura la prosecuzione della partecipazione del personale delle Forze Armate e delle forze di polizia alle missioni internazionali e alle iniziative di cooperazione allo sviluppo, nonché il sostegno ai processi di ricostruzione e alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione in aree critiche”. Il decreto legge ha molti padri: la proposta viene dal presidente del Consiglio Monti e dai ministri degli Esteri, Terzi, della Difesa, Di Paola, dell'Interno, Cancellieri, della Giustizia, Severino, e per la cooperazione, Riccardi.

Politicamente, non se n’è accorto (quasi) nessuno. Quasi perché le cronache di quel giorno registrano una dichiarazione del portavoce dell’IdV Leoluca Orlando, per “razionalizzare e ridurre le spese militari”, riconsiderando soprattutto quella in Afghanistan, dove il contingente è già stato ridotto e lo sarà ulteriormente –del resto, nel 2012 cominceranno ad andarsene pure gli americani-. I ministri, anche i più coinvolti, Terzi e Di Paola, non hanno neppure detto una frase di plauso. Magari, il passaggio parlamentare sarà più animato.

Quale fosse il clima, l’aveva spiegato due giorni prima il presidente della Repubblica Napolitano, facendo gli auguri in videoconferenza ai militari all’estero: "E' nostra profonda convinzione che l’impegno delle missioni di pace all'estero restari un punto fermo della politica internazionale dell'Italia", che dannio “un contributo grandissimo al rinnovato prestigio e alla credibilità dell'Italia". E Napolitano aveva aggiunto: "Ci sono impegni che non sopportano soluzioni di continuità tra una fase politica e l'altra" (Mr B o Monti, insomma, nulla cambia).

E, in effetti, è difficile pensare che il premier Monti e i suoi ministri, attenti a restaurare l’immagine dell’Italia compromessa dai comportamenti e dalle amicizie del governo Berlusconi, potessero cominciare con un taglio alle presenze militari in Afghanistan o in Libano o nel Kosovo, creandosi frizioni con gli Stati Uniti e con i partner mediorientali e nei Balcani. E i risparmi? Una riduzione, rispetto agli stanziamenti del secondo semestre 2011, è assicurata dalla fine del conflitto in Libia: per le missioni in corso, potrebbe bastare mezzo miliardi di euro.

Il ministro della Difesa Di Paola, ammiraglio, già presidente del comitato militare della Nato, non ha mai ipotizzato allentamenti dell’impegno italiano nelle missioni internazionali. A fine gennaio, anzi, il comando della missione Unifil in Libano sarà italiano. Confermati anche i compiti di lotta alla pirateria marittima e di addestramento di forze di sicurezza di vari Paesi, come Somalia e Iraq (fino al 31 dicembre 2012). Nuovi ruoli di formazione potrebbero essere assunti in Libia.

martedì 27 dicembre 2011

Nigeria: Natale, strage di cristiani in nome della sharia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/12/2011

Un anno fa, i copti in Egitto e i cristiani di Nigeria. Ora, ancora i cristiani in Nigeria. Le feste di fine anno, dalla forte impronta cristiana, tra i riti del Natale e dell’Epifania, sono una volta di più l’occasione di stragi di credenti. Ma, nel 2001, gli attacchi ai cristiani hanno segnato le cronache dall’India al Pakistan, nel Mondo arabo e nel Sud delle Filippine, ennesima testimonianza dei rischi dell’intolleranza religiosa.

Se gli assalti ai copti in Egitto finirono con l’essere uno degli incubatoi della primavera araba, le bombe in Nigeria fanno finire sotto accusa il potere: Muhammadu Buhari, un ex leader militare, che in aprile perse le elezioni contro il presidente uscente GoodLuck Jonathan, chiama pubblicamente in causa i governanti, che non hanno –sostiene- la competenza necessaria a garantire la sicurezza nel Paese e che reagiscono con lentezza alle azioni dei terroristi.

Gli attacchi di Natale in Nigeria –cinque, tre contro chiese- sono stati condotti da militanti islamici e hanno ucciso una quarantina di persone. A rivendicarli, è stato il gruppo islamico Boko Haram, che mira ad imporre la legge della sharia, cioè la legge islamica, nel più popoloso Paese africano (oltre 140 milioni di abitanti): per la comunità cristiana, è il secondo Natale di sangue consecutivo denso di lutti e sofferenze.

Le forze di sicurezza nigeriane considerano, inoltre, Boko Haram responsabile di altri attentati nel Nord del paese: c’è il timore che il gruppo islamico stia cercando di innescare una guerra civile settaria in un Paese nettamente diviso tra cristiani (quasi il 40%) e musulmani (43%), ma dove le due comunità riescono, in genere, a coesistere in pace.

Dietro gli attacchi di Buhari, un uomo del nord, a Jonathan, un cristiano del sud, ci sono, certo, anche contrasti politici ed etnico-tribali. Ma che il potere sia in difficoltà appare evidente dall’impacciata reazione del presidente agli attacchi terroristici, definiti “incresciosi” e “ingiustificati”: Boko Haram –dice Jonathan, che ordina un’inchiesta- “non esisterà per sempre ... un giorno, cesserà di esserci”. Campa cavallo; e intanto becchiamoci le bombe. Anzi, che se le becchino i cristiani che vanno in chiesa per Natale.

Di ben altro tono le reazioni del Vaticano e della comunità internazionale. All’Angelus, papa Benedetto XVI esprime il proprio dolore per “un gesto assurdo” e afferma che i cristiani nel Mondo sono “esposti al martirio e alle persecuzioni”. Il pontefice, che ha sempre condannato il ricorso alla violenza in nome di dio, chiede che tutti cooperino per ritrovare “sicurezza e serenità”. Parole di deprecazione anche dall’Onu, dagli Usa e dall’Ue: lady Ashley, ‘ministro degli esteri’ europeo, è “turbata e rattristata”.

Gli attacchi di Natale –una bomba in una chiesa vicino ad Abuja, la capitale, ha fatto 27 vittime- hanno seguito di pochi giorni una serie di scontri tra forze di sicurezza ed elementi di Boko Haram, che avrebbero provocato una settantina di morti. Il bilancio complessivo di questo picco di sangue e violenza sfiora, dunque, le 110 vittime.

Le cronache indicano che i terroristi hanno strategia d’azione e capacità di coordinazione, quanto basta per creare allarme ad Abuja, ma anche nella comunità internazionale. L’episodio più grave s’è verificato a Madala, circa 40 chilometri da Abuja, dove è stata attaccata la chiesa cattolica di Santa Teresa. Poche ore dopo, sempre nel giorno di Natale, ci sono state esplosioni a Jos, nel centro del Paese, e a Gadaka, nel nord. Nel nord-est, invece, a Damaturu, un attacco suicida ha ucciso quattro funzionari durante una cerimonia civile; e, dopo, ci sarebbero stati saccheggi e incendi di negozi cristiani.

sabato 24 dicembre 2011

Un racconto di Natale: la vigilia alla Posta

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 24/12/2012

Vigilia di Natale: come al solito, mi sono ridotto all’ultimo momento a fare i versamenti che mettono in pace la coscienza a buon mercato, se si è pronti a spendere un po’ d’ipocrisia: l’Unicef, Amnesty, Medici senza frontiere, la lotta contro il cancro e compagnia bella. E’ sabato e, per essere a Roma, fa quasi freddo: spero che in posta ci sia poca gente e mi presento all’ufficio vicino a casa, a due passi da via Merulana, alle 9 del mattino. In effetti, c’è poca gente: davanti a me, invece della solita folla, solo una decina di numeri. Mi siedo e aspetto: organizzato, ho già comprato i giornali, così ho da leggere, e non ho ancora compilato i bollettini. Meglio che mi sbrighi, perché magari mi chiamano prima che abbia finito.

Però, i numeri vanno avanti con la lentezza della carrozza dell’Innominato. Che accade? E già, c’è poca gente, ma c’è ancora meno personale: solo due sportelli aperti. Le impiegate, poi, non sono proprio in gran forma: stare lì al lavoro la vigilia di Natale, e di sabato per di più, quando magari hai ancora compere da fare e stai a pensare ai pacchetti da preparare e alla cena da mettere in tavola… Guai a chi si presenta con il plico da spedire non fatto su a regola d’arte o con il bollettino mal compilato, anziano, suora o immigrato in difficoltà con l’italiano che sia.

Fortuna che, a un certo punto, compare una responsabile: uno si aspetta che il ritmo di lavoro aumenti, se non altro per gettare un po’ di fumo nell’occhio. Errore! La responsabile, consapevole della cattiva disposizione delle sue colleghe, si preoccupa solo di tenerne su il morale: “Un caffè?, o magari un the?”. Si apre un dibattito, cui finiscono per partecipare i clienti in attesa, se non altro nel tentativo di tagliare corto. Alla fine, la responsabile parte per il bar con l’ordinazione ben in testa. E la litania delle chiamate può riprendere.

Tocca a me. Ho un sacco di bollettini: chi sa che lavata di capo mi prendo adesso. L’impiegata, la più brusca, mi squadra con disapprovazione, biascica giaculatorie contro il destino baro (del tipo “Che me tocca fa’”), poi mette sotto il primo formulario. Un attimo di esitazione: il volto si distende, mi guarda meno ostile. E’ quello contro la sclerosi multipla: “Questo lo faccio anch’io”, dice; scorre gli altri: “Sono gli stessi che faccio io”. E sorride persino: ci siamo scoperti più buoni insieme. E’ andata, ho finito, vado: “Buon Natale”, ci diciamo all’unisono. E lo scorrere dei numerini diventa, per un istante, più rapido e più leggero.

venerdì 23 dicembre 2011

Libero taxi in libero Stato, e gratis, a Parigi, non a Roma

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/12/2012

Libero taxi in libero Stato; e, per di più, gratis. Salire e scendere dal taxi a piacimento, senza pagare una lira (e tanto meno un euro): E potendo, a bordo, acquistare un caffè, un maritozzo e magari pure il giornale. Mi fermo qui, che se no i miei amici taxisti romani, con cui litigo neppure troppo bonariamente più d’una volta al giorno, e pure Paolo il mio edicolante ci restano male.

Mica stiamo a parlare dell’Italia, e figuriamoci se di Roma. Al posto di lira, leggete franco. E al posto di maritozzo ‘croissant’. La novità dei taxi gratis è francese, parigina: l’idea l’ha avuta un imprenditore d’origine extra-comunitaria, Kheir Mazri, che, dall’inizio della settimana, schiera la sua flotta di risciò elettrici, perfettamente eco-compatibili, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, lungo gli itinerari di 12 autobus della Ville Lumière (150 punti di salita e discesa).

L’iniziativa si chiama, senza lasciare nulla all’immaginazione, ‘Taxi gratuit’, papale papale. Come l’hanno presa i taxisti parigini? Male -tutto il mondo è paese-, anche se Mazri cerca di rabbonirli spiegando,a destra e a manca, che i suoi risciò non fanno concorrenza ai taxi veri e propri, quelli –tanto per intendersi- che si pagano, perché, muovendosi lungo percorsi fissi, non ti portano proprio dove vuoi, ma ti avvicinano solo alla meta. E poi le vetture classiche sono più confortevoli quando piove, nevica, tira vento o fa un freddo boia.

La risposta del pubblico, i primi giorni, è stata entusiastica. Se il successo si manterrà nel tempo, Mazri vuole esportare i suoi risciò in altre città europee e pure a Roma e a Milano (sempre che, nel frattempo, il professor Monti sia riuscito a liberalizzare qualcosa in Italia). Ma ci dev’essere un trucco: se tutto è gratuito, chi paga? La pubblicità –spiega l’imprenditore-, oltre al ricavato delle vendite a bordo. Venga a prendere il the da noi, sul risciò: per un euro, ti danno pure un pasticcino.

martedì 20 dicembre 2011

Nord Corea: morte Kim Jong-il, le retroguardie della dittatura

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 19/12/2011

Nel 2002, George W. Bush coniò l’espressione ‘asse del male’. collocandovi Iran, Iraq e Corea del Nord. Nel 2005, Condoleezza Rice, allora segretario di Stato Usa, denunciò gli ‘avamposti della tirannia’, riferendosi alle sei nazioni del mondo "più pericolose e anti-americane": Iran, Bielorussia, Birmania, Cuba, Zimbabwe e, naturalmente, Corea del Nord. Quale che sia la lista dei ‘cattivi del Mondo’, il regime di Pyongyank vi figura invariabilmente in buona posizione, nonostante una diplomazia altalenante tra i negoziati inconcludenti –stile le trattative a sei, Cina, Russia, l’altra Corea, Giappone e Usa- sui programmi nucleari e le provocazioni militari.

La scomparsa a 69 anni di Kim Jong-il, figlio del dittatore Kim Il-sung, fondatore di un’inedita dinastia familiare ‘comunista’, e padre del nuovo leader, il figlio terzogenito Kim Jong-un, subito denominato Grande Successore, non cambia molto al quadro e alle prospettive e non fa di sicuro avanzare nell’immediato la democrazia nel Mondo.

Ma più che di ‘avamposti della tirannia’ bisognerebbe parlare di ‘retroguardie della dittatura’ che nel Mondo non sono, però, così ridotte come la retorica, anzi l’ipocrisia, delle democrazie lascerebbe talvolta supporre: mica facile, altrimenti, giustificare le buone relazioni mantenute per convenienza diplomatica, politica o, più spesso, economica con Paesi che violano tutte le regole della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo.

Così, la ‘retroguardia della dittatura’ non è un drappello sparuto, ma un reparto robusto presente su (quasi) tutti i Continenti, eccezion forse fatta per l’Oceania, anche se non c’è proprio da scommettere sulla democrazia di tutti gli Stati arcipelago del Pacifico.

Fanno la parte del padrone l’Asia, con la Corea del Nord e la Cambogia e anche i Paesi rimasti politicamente comunisti ma divenuti economicamente capitalisti –come la Cina e il Vietnam- e ancora i Paesi ex sovietici dell’Asia Centrale, a partire dal Kazakhstan; e l’Africa con lo Zimbabwe del ‘vecchio’ Mugabe e il Congo del ‘nuovo’ Kabila e vari altri Paesi ancora che, 50 anni dopo la decolonizzazione, devono ancora completare la transizione alla democrazia, nonostante i progressi innegabili degli ultimi tempi. E c’è il Mondo islamico, dove la Primavera ha innervato di democrazia alcuni Paesi, ma dove restano roccaforti della dittatura intatte come l’Arabia Saudita e l’Iran.

L’America latina ha i suoi dittatori ‘classici’, i Castro e Chavez. E l’Europa? Non può certo gettare la prima pietra, con la Bielorussia di Lukashenko, per non parlare degli scricchiolii d’autoritarismo in Russia e in Ucraina. Kim Jong-un è giovane, ma i cattivi maestri di sicuro non gli mancano, se gli insegnamenti del nonno e del padre non dovessero bastargli.

domenica 18 dicembre 2011

Crisi: Ue, l'Europa alla prova dei 9. Ma non sono pochi?

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 17/12/2011

L’Europa alla prova del nove: partono nell’incertezza, e un po’ nella confusione, ma almeno partono subito, i negoziati per tradurre in pratica presto le decisioni sul Patto di Bilancio del Vertice di Bruxelles dell’8 e 9 dicembre. In meno d’una settimana, una bozza di testo è pronta e le trattative sono avviate: obiettivo, molto ottimistico, chiuderle anche prima di marzo.

Certo, alcuni degli elementi di partenza, messi su un tavolo intorno a cui siedono in 27 –c’è anche la Gran Bretagna, che pure il Patto non l’accetta-, possono apparire bislacchi e sono probabilmente destinati a evolvere cammin facendo. Uno su tutti: basterebbe il sì di 9 dei 17 Paesi dell’euro per fare partire il Patto, che sarà però valido a quel momento per tutti i Paesi dell’euro e per tutti i Paesi che l’hanno accettato.

Ora, 9 è la maggioranza di 17 –ma bisognerà pure pesare i Paesi: mica che, tanto per dire, Slovacchia, Lituania, Estonia, i tre del Benelux, la Grecia, Cipro e Malta, che sono nove, potranno dettare legge a Francia, Germania, Italia, Spagna e altri dicendo-. E nove è solo un terzo di 27 (o 26 che siano gli aderenti al Patto).

Certo, dire che ne bastano 9 perché l’intesa scatti accorcia i tempi e avvicina l’entrata in vigore del Patto, che appare a tutti urgente, ma non contempo insufficiente. Vediamo che cosa ne hanno detto, in settimana, alcuni dei leader alle prese con la crisi del debito nella eurozona.

Parlando al Parlamento europeo, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha ammesso che l’intesa per rendere più rigide le regole sui disavanzi di bilancio non basta: bisogna fare ripartire –ha detto, e gli eurodeputati hanno condiviso- la crescita e l’occupazione.

Il cancelliere tedesco Angela Merkel prevede che la crisi durerà anni e dice che non c’è soluzione “facile o veloce”, anche se la scelta del Patto di Bilancio è irreversibile. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico David Cameron hanno proseguito a distanza la loro pantomima di litigio europeo.

E Mario Monti ha difeso i risultati del Vertice di fronte al Parlamento italiano, insistendo, però, sul fatto che la crescita è il problema principale e dando un colpo al cerchio e una alla botte delle relazioni europee dell’Italia: da una parte, bisogna evitare il dominio franco-tedesco; dall’altra, la posizione di Londra era inaccettabile.

Se i leader provano a coniugare pressione e ottimismo, le agenzie di rating, bontà loro, ci mettono solo la pressione e condizionano i mercati: ci fanno sapere che la recessione dell’eurozona potrebbe essere più grave del previsto. Ma, almeno, la ricetta che ci propinano coincide con quella dei leader: bisogna che l’Ue si concentri sulla crescita. Come farlo, però, Merkel e Sarkozy, Monti e Barroso non ce l’hanno ancora spiegato. Cercasi un Roosevelt europeo, ma quello giusto, Franklyn Delano.

sabato 17 dicembre 2011

Libia: l'Italia rigioca sul tavolo di Tripoli il Trattato d'Amicizia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/12/2011

L’Italia e la Libia si rigiocano la carta del Trattato d’Amicizia: adesso, sono pronte a ‘riattivare’ il patto firmato nell’agosto 2008 da Gheddafi e Berlusconi, poi sospeso, con una dichiarazione unilaterale italiana, durante la rivolta in Libia e quindi ripristinato, sempre a parole, a regime (di Gheddafi) rovesciato e conflitto finito. Anche questa volta, parole sono: la volontà emerge dall’incontro, ieri, a Roma, tra il presidente del Consiglio italiano Mario Monti e il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico Mustafa Abdel Jalil. Tutto, pare, a costo zero: nessun cenno a passaggi da rinegoziare, come ventilato alla vigilia da parte libica.

Abdel Jalil è stato pure ricevuto al Quirinale dal presidente Giorgio Napolitano. Negli incontri, il leader libico ha persino ringraziato l’ex premier Berlusconi e il suo governo che –ha detto- “fin dall’inizio hanno sostenuto in modo determinante” l’insurrezione anti-Gheddafi. C’è da chiedersi fin dove la “nuova Libia” sia sincera. Monti farà una visita a Tripoli in gennaio: l’Italia sta cercando di confermarsi principale partner commerciale della sua ex colonia.

“Abbiamo deciso –ha detto Monti, a colloqui conclusi- di riattivare il Trattato e abbiamo esaminato come concentrarci sulle priorità della nuova Libia”. Per Abdel Jalil, la riattivazione degli accordi “è nell’interesse
dei due Paesi”. Il patto prevedeva, fra l’altro, investimenti italiani in Libia per cinque miliardi di dollari, ricavati da un’addizionale d’imposta a carico dell’Eni, beneficiaria di grossi contratti energetici libici, come compensazione per il periodo coloniale. Dal canto suo, il regime di Tripoli aveva messo sotto stretto controllo la partenza di immigrati verso l’Italia dalle proprie coste.

L’intreccio di interessi fra i due Paesi è fittissimo: energetici, ma anche finanziari. L’Italia intende “sbloccare con la massima velocità possibile i fondi libici congelati” sul territorio italiano, dove il regime di Gheddafi aveva investito somme importanti in grandi aziende, e ha già liberato 600 milioni di euro (la Francia, mercoledì, aveva annunciato lo sblocco di quasi 300 milioni). Non è una coincidenza che proprio oggi l’assemblea di Unicredit, che ha deciso un aumento di capitale, abbia confermato le quote dei soci libici: la Banca Centrale libica ha il 4,98%, la Lybian Investment Authority il 2,59%; la loro partecipazione all’aumento del capitale, che era subordinata allo scongelamento dei fondi, sarà pari a 375 milioni di euro.

Come segnali di normalizzazione della situazione, Abdel Jalil ha citato il ripristino al 70% della produzione di petrolio in Libia e ha insistito sulla volontà di evitare vendette, in uno spirito di riconciliazione nazionale. Il capo del Cnt non ha escluso ulteriori crediti a imprese italiane “se legittimi”.

Usa: 2012, tanti i rivali del presidente, ma nessuno buono

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/12/2011

Barack Obama mantiene una delle sue promesse elettorali, la fine della guerra in Iraq e il ritiro, entro fine anno, di tutte le truppe da combattimento Usa da quel Paese, mentre la competizione per la nomination repubblicana alla Casa Bianca pare osservare una battuta d’arresto, in attesa del via alle primarie in gennaio. ‘Tutti i Rivali del Presidente’, un volume appena pubblicato dagli Editori Riuniti, si propone come un manuale per seguire e capire le presidenziali 2012 negli Stati Uniti, una competizione che, al momento, vede Obama favorito per manifesta inferiorità dei suoi rivali.

A meno di un anno dall’ Election Day, i repubblicani non hanno ancora espresso un chiaro favorito nella corsa alla nomination 2012. Il candidato più costante nelle posizioni di testa dei sondaggi è Mitt Romney, che però non ha, o non ha ancora, una credibilità presidenziale, mentre gli altri suscitano fiammate d’entusiasmo quando scendono in campo –volta a volta, Michele Bachmann, Richard Perry, Herman Cain-, ma poi, nel giro di qualche settimana, mostrano crepe e debolezze che li fanno calare nella considerazione degli elettori.

La gamma dei candidati è però ampia e qualcuno, come, in particolare, Jon Huntsman e Ron Paul, non ha forse ancora espresso tutto il proprio potenziale, mentre Newt Gingrich sta emergendo. Ma, in questo contesto incerto e senza ‘cavalli di razza’, non è neppure escluso chi ha rinunciato, o si è finora tenuto in disparte, come Sarah Palin o Mike Huckabee o lo speaker della Camera John Boehner possa ripensarci o emergere. …

Così come si presentano le cose oggi, il campo repubblicano, più indebolito che rafforzato dall’emergere del Tea Party, pare destinato alla sconfitta, se la crisi economica non condurrà al disastro l’America e Obama. Il Tea Party non è abbastanza forte da portare un proprio presidente alla Casa Bianca, neppure se alleato con l’informale ma fortissimo ‘partito evangelico’ che fu determinante nel 2000 e nel 2004 per l’elezione di George W. Bush, ma può condizionare la scelta del candidato repubblicano; e un candidato troppo conservatore e troppo qualunquista faticherebbe a motivare l’elettorato di centro, pur deluso da Obama.

La strada, però è ancora lunga, intessuta di ritiri e, come sempre, di sorprese. Mesi di schermaglie, di test di prova, di dibattiti di riscaldamento, che pure sono già serviti a diradare il campo, saranno azzerati quando, a gennaio, nello Iowa, s’inizieranno a contare i voti della corsa alla nomination…

Gli aspiranti alla nomination repubblicana arriveranno alle prime prove conoscendosi bene, essendosi già affrontati in una decina di dibattiti … . Non c’è stato un chiaro dominatore e, anzi, Romney e Perry, la Bachmann e Cain, persino Gingrich che partiva da lontano, ma ha avuto un buon autunno, si sono aggiudicati alcune tappe. Altri, come Huntsman e Paul, non hanno magari mai vinto, ma hanno evitato grosse topiche, in cui invece sono caduti, in particolare, Perry e Cain.

Il dibattito sull’economia, il nono della serie, è stato il programma più seguito nella fascia oraria delle ore 20.00 … Gingrich è stato il migliore ed è subito risalito nel gruppo di testa, dietro Romney, mentre Cain, coinvolto in accuse di violenze sessuali, subiva l’erosione del sostegno (fino al punto da sospendere, in dicembre, la propria candidatura, ndr).

Proprio l’incertezza dei repubblicani, che, l’uno dopo l’altro, paiono ‘divorare’ i loro potenziali favoriti costituisce un vantaggio per Obama. A un anno dal voto, i candidati ufficialmente in lizza per la nomination erano otto: in ordine alfabetico, Bachmann, l’unica donna, Cain, Huntsman, Gingrich, Paul, Perry, Romney, Santorum (l’unico che appare ai margini dei giochi).... Ma nessuno degli otto appare un trascinatore, né per le idee né per l’oratoria. … I repubblicani paiono quasi rassegnati a scegliere come sfidante alla Casa Bianca un personaggio senza carisma.

giovedì 15 dicembre 2011

Libia: dopo Gheddafi (e Mr B) prove di negoziato con l'Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/12/2011

Sembrava blindato, ma non lo è: la Libia esprime riserve su vari punti del Trattato di Amicizia con l’Italia firmato nel 2008 e vuole discuterne. I nodi di un rapporto in bilico tra l’esagerata amicizia di Gheddafi e Berlusconi e il cambio di campo repentino a favore degli insorti di Bengasi contro il regime di Tripoli stanno per venire al pettine, con la visita a Roma oggi del leader del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico Mustafa Abdel Jalil: vedrà il presidente Giorgio Napolitano e il premier Mario Monti.

Le affermazioni del vice-ministro degli esteri libico Mohamed Abdelaziz (“la visione della cooperazione con l’Italia della nuova Libia è diversa da quella del regime deposto”) agitano la vigilia dell’arrivo di Abdel Jalil. La Farnesina sdrammatizza il contenzioso e lo colloca nel quadro “della normale dialettica democratica interna al nuovo esecutivo libico”: sarebbe, cioè, più un problema libico-libico che libico-italiano. Vedremo, ma le riserve di tripoli hanno qualcosa del fulmine a ciel sereno. Pochi giorni or sono, il ministro degli esteri italiano Giulio Terzi evocava, infatti, senza prudenze, l’intenzione di riattivare quanto prima le intese.

Da parte italiana, adesso, c’è la disponibilità a parlare “senza preclusioni” e “in spirito di collaborazione”. E, da parte libica, del resto, s’era già detto che il Trattato restava valido, ma che alcuni punti potevano essere ridiscussi. La visita di Abdel Jalil sarà solo una tappa delle relazioni tra la nuova Libia e l’Italia, nuova anch’essa, nella compagine governativa. Il premier Monti potrebbe recarsi a Tripoli il 15 gennaio, ma l’indiscrezione non trova, al momento, conferme ufficiali.
Il Trattato di Amicizia italo-libico fu firmato il 30 agosto 2008 da Gheddafi e da Berlusconi. Durante il conflitto in Libia, nella primavera scorsa, venne unilateralmente dichiarato sospeso da parte italiana.

L’intenzione finora prestata da Roma alle nuove autorità libiche era quella di riattivare l’accordo, che prevede, tra l’altro, una stretta cooperazione in campo economico-energetico e nel contrasto all’immigrazione clandestina, oltre a una serie di risarcimenti da parte italiana a titolo di riparazione del passato coloniale (5 miliardi di dollari spalmati su vent’anni, fra cui la costruzione di un’autostrada litoranea lunga 1.700 km e stimata circa tre miliardi di dollari).

Abdel Jalil sbarca a Roma mentre la situazione in Libia non è affatto tranquilla: martedì, Bengasi ha visto manifestazioni contrapposte, pro e contro quello che i neo-oppositori hanno definito “il nuovo regime”, denunciando la scarsa trasparenza del Cnt e delle sue attività e anche l’inclinazione a perdonare i seguaci del dittatore abbattuto.

La visita in Italia di Abdel jalil è parallela a una missione a Tripoli del ministro degli esteri francese Juppé, per la seconda volta in Libia dopo la caduta del regime a fine ottobre. La Francia ha nuovi progetti di cooperazione. L’Italia risponde con un contributo di 1,5 milioni di euro per l’assistenza ai minori in Libia. E diffonde il bilancio dell’impegno militare in sette mesi nell’operazione alleata Unified Protector: 1.182 missioni dell’aeronautica sulla Libia, 1900 sortite, 7300 ore di volo, 48 aerei ; la Marina ci ha messo 30 elicotteri e 1921 ore di volo, 14 unità di superficie e due sommergibili. Manca solo il dato dei colpi sparati.

mercoledì 14 dicembre 2011

SPIGOLI: l'America in crisi si consola con i Baci italiani

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/12/2011

Come avranno mai fatto gli americani a restare per oltre vent’anni senza Baci Perugina?, o, almeno, senza la loro pubblicità? Se lo chiede il New York Times, che annuncia, quasi con un sospiro di sollievo, che la Perugina sta lanciando la sua prima campagna nazionale negli Stati Uniti dagli Anni Ottanta, tutta concentrata sui Baci, che –specifica il giornale- “si traduce ‘kisses’”. La campagna punta sullo slogan ‘Say ‘I love you’ the italian way’, cioè ‘Di ‘ti amo’ all’italiana’: gli spot mostrano una coppia in momenti romantici in contesti italiani; ed enfatizzano le ‘love notes’ che accompagnano ogni cioccolatino. Il revival Usa dei Baci ripropone un legame forte fin quando la Nestlè non acquistò la Perugina nel 1988: i Baci erano stati, fino ad allora, fra i cioccolatini preferiti dai consumatori americani, anche grazie a campagne di pubblicità televisive e stampa dagli Anni Sessanta fino alla metà degli Anni Ottanta. Contemporaneamente, la Perugina ricorreva a un volto e a una voce americani, anzi a the Voice, per propagandare i Baci in Italia (i Caroselli di Frank Sinatra, però, non sono entrati nella hit parade della leggendaria trasmissione). Dopo l’ ‘88, cessarono le campagne televisive e calarono d’intensità quelle stampa, sospese del tutto negli Anni Novanta. Perché un ritorno ora? La crisi esalta in America il ruolo consolatorio del cioccolato: negli Usa, le vendite sono salite di quasi il 15% in cinque anni, dai 15,78 miliardi di dollari del 2006 agli oltre 18 miliardi nel 2011, mentre in Italia tra il 2008 e il 2010 le vendite sono scese quasi del 10%.

Belgio: Liegi, sangue e morte sugli acquisti di Natale

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/12/2011

Sangue sugli acquisti di Natale nella città dei principi vescovi: un uomo di 33 anni, che avrebbe agito solo, ha sparato all’impazzata e lanciato granate sulla folla della piazza più animata di Liegi, ammazzando almeno tre persone e ferendone un centinaio, prima di restare a sua volta ucciso in circostanze ancora imprecisate.

Secondo il ministro dell’interno belga Joelle Milquet, la strage non ha moventi terroristici. Smentita anche l’ipotesi di un collegamento con un tentativo di evasione, la mattina, dal Palazzo di Giustizia. Ma non è chiaro che cosa abbia spinto ad agire Nordine Amrani, 33 anni, già noto alla polizia, più volte arrestato, imprigionato, condannato per possesso di armi e ricettazione, traffico di stupefacenti e altri reati. L’uomo doveva presentarsi alla polizia per essere interrogato, dopo che, durante una perquisizione al suo domicilio, in una retata anti-droga, erano state trovate armi e munizioni.

Invece di rispettare l’ingiunzione, Amrani ha indossato una tuta mimetica e,dotato d’un fucile automatico tipo Kalashnikov, d’un revolver e d’una bisaccia di granate, s’è avviato verso la piazza Saint-Lambert, dove sorge il Palazzo di Giustizia, nei pressi di un mercato di Natale molto frequentato. Liegi, con i suoi 200 mila abitanti circa, è la maggiore città della Vallonia, il sud francofono del Belgio, un centinaio di km a sud-est di Bruxelles.

Giunto sulla piazza, l’uomo, che un testimone descrive “sicuro di sé” e “metodico nei movimenti”, prima ha disinnescato alcune granate e le ha lanciate sulla gente che aspettava l’autobus sotto una pensilina; poi, ha sparato: quattro esplosioni, decine di colpi d’arma da fuoco. Il bilancio è pesante: un ragazzo di 15 anni è stato ucciso sul colpo, un altro di 17 e una donna di 75 sono deceduti all’ospedale -i due giovani erano studenti appena usciti di scuola-. Decine d’altre persone, circa un centinaio, sono rimaste ferite, qualcuna gravemente –fra queste, un bambino di due anni-. La notizia del decesso di un altro giovane di 20 anni è circolata, ma non è stata confermata.

L’area della sparatoria è stata evacuata. Sulla piazza, sono intervenuti gli sminatori, che hanno esaminato oggetti e borse sospette: tutte cose risultate, però, abbandonate dalla folla in fuga in preda al panico, mentre sull’area volteggiavano gli elicotteri della polizia.

Il procuratore del re di Liegi, Danielle Reynders, non s’è pronunciata sulle cause del decesso di Amrani, che qualche testimone avrebbe visto spararsi una pallottola alla testa. Il re Alberto II e la moglie Paola si sono recati sul luogo della strage, come il premier Elio Di Rupo, un socialista francofono da poco insediatosi, dopo una crisi di governo durata quasi 550 giorni. Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, un ex premier belga, cattolico e fiammingo, s’è detto “sconvolto” dall’accaduto.

Non è la prima volta che il Belgio viene scosso da atti di violenza inauditi: le stragi nei supermercati, mai chiarite, degli ‘assassini folli’ negli Anni Ottanta, i delitti di pedofili successivamente. La carneficina di Liegi evoca, però, più il massacro di luglio sull’isola di Utoya, a Oslo, che quei precedenti, anche se il profilo e i precedenti di Amrani sono quelli di un piccolo delinquente comune, mentre l’assassino norvegese Anders Behring Breivik –ritenuto incapace d’intendere e di volere- era un ideologo della violenza razzista e politica.

lunedì 12 dicembre 2011

Crisi: Ue, a Londra e a Parigi si discute d'Europa. E a Roma?

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 12/12/2012

Toh! Ci sono Paesi dove l’Europa torna a essere argomento di dibattito politico, magari in chiave di alleanze di governo oppure elettorale. A cominciare dai due Paesi agli antipodi nel Vertice europeo di Bruxelles dell’8 e 9 dicembre: la Gran Bretagna e la Francia. Nel primo, rimasto isolato col suo ‘no’ al Patto di Bilancio, il dibattito è interno alla coalizione al governo. Nel secondo, che, insieme alla Germania, ha innescato l’intesa a 26, il dibattito entra nella campagna per le presidenziali della prossima primavera. E in Italia? Mi chiedo se, quando si tornerà a votare, ci sarà fra i partiti un confronto sull’Europa. Intanto, vediamo quel che accade altrove.

Gran Bretagna - A Londra, il premier conservatore David Cameron ha l’appoggio del 62% dei suoi cittadini, ma si attira critiche dall’alleato di governo Nick Clegg, vice-premier, liberal-democratico, e suscita remore nel cancelliere dello scacchiere del suo partito, John Osborne. Clegg, in un’intervista all’Independent, spara a zero sulla posizione isolata di Cameron al Vertice europeo: parla di un “fallimento spettacolare”, d’una “cattiva decisione” che lo ha “amaramente deluso”. Clegg l’ ‘europeista’ non arriva però a minacciare la rottura della coalizione perché –dice- “il collasso de governo sarebbe un disastro per l’economia”: chiede però che Londra “riannodi i fili” del negoziato europeo, perché “fuori dall’Europa la Gran Bretagna sarebbe un pigmeo”.

La replica del ministro degli esteri William Hague nega l’evidenza (“Non siamo marginali”), ma rimanda pure le critiche al mittente (“I lib-dem sapevano”, cioè Clegg, se voleva, poteva parlare prima). Timori, però, ce ne sono: quelli della City li esprime il cancelliere dello scacchiere Osborne, pur sostenendo che il no di Londra protegge gli interessi finanziari britannici. Osborne puntualizza che le regole sul mercato unico europeo, anche quelle finanziarie, devono essere discusse e decise da tutti i 27 Paesi Ue: la preoccupazione evidentemente è quella di una fuga in avanti dei partner che lasci la borsa di Londra costretta ad adeguarsi a norme decise altrove. E mentre il governo britannico trova una linea comune su un “rapporto costruttivo” con l’Unione europea, il responsabile dell’economia della Commissione europea Olli Rehn ricorda che il no di Londra venerdì “non esenta la City dal rispetto delle regole”.

Francia – A Parigi, invece, i due probabili protagonisti della sfida presidenziale, Nicolas Sarkozy, ex gollista, conservatore e un po’ populista, alla ricerca di un secondo mandato, e François Hollande, socialista, che mira a scalzarlo, tengono concioni europee ai loro elettori per interviste contrapposte. Hollande annuncia alla radio che, se sarà eletto, intende “rinegoziare” l’accordo sul Patto di Bilancio appena tratteggiato, “aggiungendovi ciò che vi manca”, cioè, magari, un capitolo solidarietà, sotto forma di “libertà d’intervento sui mercati della Bce, varo degli eurobond e creazione di un fondo di soccorso finanziario”, sperando –aggiunge velenosamente- che “a quel punto non ci avranno declassato”. E Hollande propina una ovvietà spesso taciuta: si possono approvare tutte le regole d’oro sulla parità di bilancio, ma, se non ci sarà crescita, nessuna regola potrà essere rispettata e nessun obiettivo di risanamento e rilancio potrà essere raggiunto.

La replica di Sarkozy arriva via Le Monde: lui, e la Merkel, sono i demiurghi di “un’altra Europa, quella dell’euro”, che, a dire il vero, uno poteva pure pensare fosse già nata una decina d’anni or sono; l’accordo sul Patto di Bilancio “crea le condizioni per uscire dalla crisi”, ma il rischio di “un’esplosione” dell’Ue e dell’euro, già evocato giovedì dal presidente francese, “non è del tutto scartato”; e fin quando la rottura con Londra resta, l’Europa “viaggia a due velocità”. Quanto alla perdita della tripla A da parte della Francia, essa –dovesse mai esserci- “non sarebbe insormontabile”. Meglio mettere le mani avanti, se no poi Hollande t’accusa di avere fatto lo struzzo.

domenica 11 dicembre 2011

Crisi: Ue, una botta da toro dopo Vertice, ma Obama frena

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/12/2011

Sarà che le borse sono chiuse e che la ‘botta da toro’ dopo le conclusioni del Vertice europeo durerà tutto il week-end. O sarà che le valutazioni della stampa ‘continentale’ sono sostanzialmente positivi, O sarà, pure, che il lavoro fatto, per quanto fragile e parziale, è davvero un buon inizio.

Fatto sta che l’atmosfera del giorno dopo il Vertice europeo che ha, o dovrebbe avere, salvato l’Ue e l’euro con un Patto di Bilancio fra 26 Paesi –fuori la Gran Bretagna-, anticipando a marzo 2012 l’operatività del fondo salva Stati e affidandone la gestione alla Bce, non è certo quella dell’alba dopo una catastrofe.

Anzi, la Germania è ottimista sul futuro dell’Europa, nonostante lo strappo di Londra. Gli accordi di Bruxelles risolveranno la crisi del debito, dice il ministro delle finanze Schauble: "Sono completamente convinto che le misure concordate per condurre in porto riforme istituzionali riusciranno a placare la crisi del debito", dichiara il ministro al settimanale Focus. "L’Europa è sempre uscita rafforzata dalle crisi", aggiunge, evocando la necessità che l’Unione agisca compatta per mantenere la propria influenza.

Le reazioni internazionali sono in linea con i commenti positivi tedeschi e, più in generale, europei. La Cina esprime la speranza che le decisioni del Vertice stabilizzino i mercati e rafforzino la fiducia. Negli Usa, il presidente Obama, dopo avere promosso con una larga sufficienza l’esito del Vertice, pur avvertendo che “resta molto da fare”, dedica il discorso del sabato alle difficoltà economiche americane: ci vorranno anni –ammette- per risolverle; e ci vuole un progetto a lungo termine per affrontare i problemi strutturali (vero, ma tocca a lui lavorarci). Anche il papa sembra echeggiare le conclusioni del Vertice, quando esorta a che “economia e mercato non siano mai disgiunti dalla solidarietà” e invita a “cercare l’equilibrio tra la tutela dei diritti del singolo e il bene comune” –pare quasi un rimprovero del papa tedesco alla cancelliera Merkel-.

L’entusiasmo tedesco non è però universale. Anzi, proprio un tedesco che nell’Ue conta (non quanto la Merkel, per carità), Martin Schulz, capogruppo socialista e futuro presidente del Parlamento europeo, paragona il Vertice di Bruxelles al Congresso di Vienna: ''Che cosa fanno Merkel e Sarkozy? Danno ordini agli altri Paesi aspettandosi che li eseguano. Questo non è il metodo comunitario”.

La battuta arriva da Firenze, dove c’è un seminario del gruppo. L’attacco di Schulz alla Merkel è fondato (le procedure tracciate a Bruxelles sono inter-governative, non comunitarie), ma ha anche motivazioni politiche: i socialisti sono all’opposizione in Germania e governano solo una manciata dei 27 Paesi Ue. Schulz comprende “l'irritazione verso la Merkel”, ma si chiede perché gli europei non ce l’abbiano allo stesso modo con Sarkozy: “Tra i due –spiega- è lei che decide. Lui spesso fa solo sue le posizioni della cancelliera”.

E a Londra? Il premier Cameron è l’eroe degli euro-scettici, ma è bersaglio di critiche della stampa per avere portato la Gran Bretagna all’isolamento. Il cancelliere dello scacchiere Osborne corre ai ripari: va bene il patto a 26, ma le regole del mercato unico, anche quelle dei servizi finanziari, vanno discusse a 27. Mica si può lasciare la City in balia del Continente.

sabato 10 dicembre 2011

Crisi: Ue, Vertice, l'Europa vara Patto Bilancio e va senza Gb

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/12/2011

Arrivederci. O, forse, addio. Senza darsi la mano, perché Sarkozy e Cameron manco si salutano. Ma senza piangere. L’Unione con dentro la Gran Bretagna è forse finita, dopo una parentesi di ambiguità durata quasi 40 anni; e sono definitivamente caduti due tabù già violati in passato, ma che facevano ancora velo all’integrazione: quello dell’unanimità, per cui o si decide tutti insieme o non si decide; e quello di un’Europa blocco compatto, soppiantata dalle due o più velocità, con un mosaico d’iniziative. Del resto, alcune tappe di grande successo dell’integrazione comunitaria sono partite lasciandosi inizialmente qualcuno indietro (e sempre la Gran Bretagna): Schengen, Maastricht, l’euro.

Il problema, qui, non è che Londra resti fuori. Il problema è se le conclusioni del Vertice di Bruxelles, il ‘patto di bilancio’, bastino ad arginare e superare la crisi del debito: i tempi sono stretti –di qui a marzo, per mettere in bella copia accordi appena tratteggiati-, la pressione dei mercati e dei partner è fortissima. I primi echi sono positivi: borse su, spread giù –ma sono dati labili-; e la Casa Bianca, che da settimane mette fretta, avalla l’esito del Vertice, senza badare alla diserzione britannica, ma nota che “resta del lavoro da fare”.

Al gioco di chi vince e chi perde, vinceremo tutti se l’intesa consentirà di tenere in piedi, più che di tenere insieme, una costruzione che rischiava di sfasciarsi, l’Unione con dentro l’euro. Il metodo scelto, inter-governativo, non piace ai puristi dell’europeismo. Ma se l’Unione va avanti, ci sarà spazio per il metodo comunitario e le ambizioni federaliste. Se si smonta, no.

Al tavolo delle trattative, passa la linea della Merkel: prima il rigore, poi la solidarietà (e, forse, gli eurobond, pegno forte della coesione europea). Ma la cancelliera e Sarkozy non sono soli a menare la danza: forte di una ritrovata credibilità, l’Italia di Monti ha già riavuto il suo posto tra i grandi Paesi fondatori. La via del Patto di Bilancio da sigillare a marzo passa, a gennaio, per un nuovo Vertice triangolare, a Roma, tra Francia, Germania e Italia.

Crisi: Ue, Vertice, 26 sì, Gb fuori è cartina di tornasole

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/12/2011

La cartina di tornasole dell’integrazione europea è (quasi) infallibile: se la Gran Bretagna non ci sta, se esita, se si chiama fuori, salvo poi ripensarci quando vede che le cose girano nel verso giusto, vuol dire che la direzione presa è quella di un rafforzamento dell’integrazione. E poco importa, qui e per ora, che il metodo adottato per andare avanti sia inter-governativo e non comunitario: l’importante, adesso, è tirarsi fuori dalla crisi del debito, che minaccia l’euro e l’Unione: tutti insieme, tutti quelli che ci stanno.

Rimasto isolato, il premier conservatore David Cameron finisce subito sotto la pioggia delle critiche della stampa britannica: non tanto perché ha detto no, quanto perché è rimasto senza appoggi nè alleati: anche la Svezia e la Rep. Ceca e da ultimo l’Ungheria con venature nazionaliste e illiberali del premier Orban hanno avallato il ‘patto del bilancio’ degli altri 23 Paesi Ue (tutti i 17 dell’euro più sei aspiranti alla moneta unica), sia pure ‘ad referendum’, cioè previa l’approvazione dei rispettivi Parlamenti nazionali.

Arrivato a Bruxelles brandendo l’ascia del veto, il premier britannico s’è reso conto tardi che la sua lama non era affilata: poteva bloccare un’intesa nell’ambito dei Trattati, non un’intesa extra Trattati.

Del resto, le critiche a Cameron sarebbero state peggiori se avesse detto sì. E, così, l’emulo della Thatcher, la ‘dama di ferro’ che paralizzò per quattro anni, dal 1980 al 1984, l’allora Comunità, perché voleva riequibrare il dare ed avere di Londra sul bilancio Cee, ha sfidato il gelo nei rapporti con la Francia e la Germania. E questo, ai britannici, in fondo piace: loro leggono quel 26 a 1 come “il Continente è isolato”, mentre il presidente francese Nicolas Sarkozy pronuncia la formula blasfema, ma già praticata nella storia dell’integrazione, di un’Europa a due velocità.

La stella polare della politica europea del governo di Sua Maestà è sempre stato e resta l’interesse nazionale: dei Paesi Ue fuori dall’euro, la Gran Bretagna è l’unico ad avere sia una propria moneta forte, come la Svezia e la Danimarca, sia una piazza finanziaria d’impatto mondiale. Alla Bbc, subito dopo il vertice, Cameron parla di una “scelta difficile”, ma giudica “buona” la posizione presa, perché “un accordo a 27 non fa il nostro interesse”. Il Vertice, aggiunge il premier, “rappresenta un cambiamento” nei rapporti con l’Ue, anche se “è nell’interesse di Londra restare nell’Unione”, intesa, però, come mercato unico, “quello di cui noi abbiamo bisogno”.

Proprio per questo, più volte in passato Londra è rimasta alla finestra: adottò il progetto di completamento del grande mercato nella seconda metà degli Anni Ottanta, ma accettò con riserve il Trattato di Maastricht, si tenne inizialmente fuori dagli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, non aderì alla moneta unica.

I suoi partner non enfatizzano di sicuro la diserzione britannica. La cancelliera tedesca Angela Merkel nega che l’accordo di Bruxelles sia “di bassa lega” e dice che l’euro ne esce “più credibile”. Il premier italiano Mario Monti parla di “intesa di vasta portata”, in cui un’Italia “ora più credibile”, ha fatto “la sua parte”. E, per uno che sbatte la porta, ma se la lascia aperta dietro, ce ne sono altri che fanno la coda per entrare: la Croazia firma il Trattato di adesione e diventerà il 28.o Stato il 1.o luglio 2013, pronta a mettersi in fila per l’euro; e l’Islanda sta per concludere i negoziati, mentre la Serbia scalpita per iniziarli.

Anche i mercati non drammatizzano l’impatto del no britannico. Le borse europee che aprono in calo, con lo spread a 460, chiudono alla toro: Milano, con un + 3,37%, è in testa ai listini europei, con lo spread a 421; e pure Wall Street apre forte.

venerdì 9 dicembre 2011

Crisi: Ue, Vertice, inizio da sudori freddi (forse, solo tattica)

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/12/2011

Sono da sudori freddi, le ultime battute prima del Vertice di Bruxelles, che tutti indicano come decisivo per il futuro dell’Ue e la sopravvivenza dell’euro presi nel vortice della crisi del debito. Dichiarazioni pessimistiche o oltranziste dei leader europei, mercati a picco, dall’America raffiche d’inviti a fare in fretta. Facciamoci pure un po’ la tara perché, quando ci si siede al tavolo delle trattative, si tengono sempre le carte in mano e s’alza la posta. Ma lo scenario di grande incertezza del Consiglio europeo non induce certo all’ottimismo: persino il programma è incerto, al di là della cena d’apertura: discussioni nella notte a 27?, o a 17?, o confessionali?;e, oggi, conclusione dei lavori a metà giornata?, o prosecuzione ad oltranza?, o riconvocazione a breve, prima della fine dell’anno?

Paradossalmente, l’unico punto sicuro è la firma del trattato di adesione all’Ue della Croazia: l’Unione cresce ancora, proprio mentre rischia di frantumarsi. Fuori c’è una domanda d’Europa cui, dentro, non corrisponde una volontà d’Europa. Ad alimentare dubbi e timori, la mancanza di una bozza di dichiarazione finale credibile su cui discutere, cioè di un testo di riferimento accettato come base del negoziato: quello preparato da eurocrati e diplomatici è acqua fresca; e quella concordata, lunedì, a Parigi dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel è una proposta di massima, anche se la trattativa finirà per articolarsi intorno a essa. Su questo sfondo, le parole del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso (“Il vertice dimostri l’irreversibilità dell’euro”) suonano solo auspicio.

Proprio Sarkozy, che giunge a Bruxelles scuro in volto, dà il tono alla vigilia, con dichiarazioni pesanti: senza un’intesa, non ci sarà una seconda occasione per rifondare l’Unione. Sarkozy aveva già parlato di “rischio di esplosione dell’euro e di dissoluzione dell’Ue, senza riforma del Trattato”. La Merkel è più positiva, ma non meno rigida sulle sue posizioni: troveremo una buona soluzione, sono convinta che ce la faremo. Fuori dai giochi, come sempre, il premier britannico David Cameron, che il presidente del Consiglio Mario Monti vede prima della cena: Londra è pronta a mettere il veto, anche se, a ben guardare, l’opzione 2 del duo Merkozy, accordo a 17 e non a 27, lo lascerebbe ai margini. Ma l’Olanda ricorda che l’Unione è a 27, non a 17, e molti hanno riserve a imboccare la via della doppia velocità. Invece, il premier lussemburghese, e presidente dell’eurogruppo, Jean-Claude Juncker, giudica migliore un’intesa a 17 che una più ampia.

Il Vertice del Ppe, a Marsiglia, che precede l’appuntamento di Bruxelles, non è un buon viatico. Neppure lì c’è accordo: l’ex premier italiano Silvio Berlusconi lo constata, dicendo che la “situazione è grave”, senza, poi, esimersi dall’affermare che “l’Italia è un Paese che sta bene”.

L’idea che gira e che Parigi e Berlino portano avanti è quella di una riforma del Trattato di Lisbona, da fare entro marzo, in tempi strettissimi per i riti comunitari, che renda vincolante il rispetto delle regole sul debito e automatiche le sanzioni a chi ‘sgarra’. Ma il giro di vite non è, per ora, accompagnato da sforzi di solidarietà, al di là del rafforzamento del fondo salva Stati, né da un allentamento dei freni agli interventi sui mercati della Bce, né dal varo degli eurobonds. Se i Merkozy saranno ascoltati, l’Ue, o l’eurozona, farà passi avanti verso una migliore governance economico-finanziaria, ma l’euro resterà una moneta senza un referente politico ed economico.

C’è una banca, la Bce, che però non ha tutti i poteri di una banca centrale statale. Mario Draghi, presidente da poco più di un mese, prova a migliorare il clima dei mercati, riducendo, per la seconda volta consecutiva, il tasso d’interesse principale: ora è all’1%, il minimo di sempre. Ma, mentre sollecita i governi a lavorare per “ripristinare la fiducia” e a stringere “un patto sul bilancio” e rifiuta l’ipotesi di una fine dell’euro, Draghi deve constatare che i mercati non reagiscono alla sua decisione: le borse, dopo una buona apertura, chiudono in forte caso (Milano a -4,29%) e lo spread italiano torna ad allargarsi oltre quota 400. E ciò nonostante S&P faccia un po’ marcia indietro sulla minaccia di declassamento dell’eurozona (“Non ci sarà un’esplosione dell’euro”) et Fitch allenti la tensione sul rating e dia più credibilità all’Italia. L’Autorità bancaria europea, l'Eba, peggiora il quadro in serata stimando che le banche europee hanno un fabbisogno di capitale di quasi 115 miliardi di euro (le italiane 15,4).

Il governo Monti e la sua manovra continuano a ricevere, a livello internazionale, echi positivi: Draghi avalla le misure prese, ma chiede uno sforzo per la crescita; e il segretario al tesoro Usa Timothy Geithner, che incontra Monti a Milano, esprime sostegno e fiducia negli sforzi dell’Italia, dopo avere girato l’Europa elogiando il piano franco-tedesco e ripetendo che “l’euro ce la farà”. Lo dice pure Hillary Clinton e lo auspica Barack Obama. I leader dell’Ue, chiusi al Justus Lipsius, affrontano la trattativa più difficile dei 18 anni dell’Unione e dei 10 dell’euro.

Usa-Russia: opportunismi elettorali e (qualche) grana vera

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/12/2011

C’è anche un intreccio di opportunismi elettorali, dietro il rialzo di tensione di questi giorni tra Usa e Russia. A pronta casa, esigibili quasi immediatamente, gli interessi del premier, e futuro ri-presidente russo, Vladimir Putin. A medio termine, e forse mai esigibili, quelli del presidente statunitense Barack Obama. E c’è pure una diffidenza quasi personale. Obama e la sua squadra, che avevano ereditato dall’Amministrazione Bush un rapporto con la Russia andato gradatamente deteriorandosi, hanno fatto un reset delle relazioni bilaterali in gran parte basato sulla buona intesa tra i presidente americano e russo: Dmitri Medvedev suscita, a Washington, eno riserve di Putin, contro cui giocano il passato da agente del Kgb, gli esibizionismi ‘machisti’, i comportamenti da oligarca e gli atteggiamenti antidemocratici verso la stampa libera e gli oppositori politici.

Il successo inferiore alle previsioni di Putin e del suo partito nelle elezioni politiche di domenica hanno dato la stura a scambi di accuse. Il segretario di Stato americano Hillary Clinton denuncia rischi di brogli e chiede rispetto della libertà di manifestare. Putin la attacca e la accusa: “Gli Usa fomentano le proteste –dice- e hanno speso centinaia di milioni di dollari per influire sul risultato del voto”. Una replica da Guerra Fredda: “Ci fanno barcollare –gli Stati Uniti, ndr-, per ricordarci chi comanda”.

Agitare lo spettro d’un nemico esterno e riproporre in chiave ora nazionalista, non più ideologica, la contrapposizione fondamentale per tre generazioni di cittadini russi tra Washington e Mosca, può aiutare Putin a compattare la propria base e a ritrovare un largo sostegno, in vista delle presidenziali di marzo, quando sarà candidato a un terzo mandato, mentre Medvedev, che è stato un po’ più della sua controfigura per quattro anni al Cremlino, dovrebbe tornare al ruolo di premier.

Per Obama, la scadenza elettorale è più lontana –6 novembre, 11 mesi esatti- e l’utilità per lui d’un’eco di Guerra Fredda è dubbia. Gli americani hanno il nemico in casa, la crisi economica, ed appare difficile distrarli alimentando preoccupazioni internazionali. Ma, in genere, le tensioni giovano al presidente in carica perché inducono alla solidarietà nazionale.

Il che non vuol dire che il rialzo di tensione sia tutto fittizio. I motivi di contrasto tra Washington e Mosca non mancano di certo: il contenzioso sullo scudo anti-missile, che prevede l’installazione di radar e batterie su territori dell’ex blocco comunista e che è stato percepito come un’iniziativa ostile da Putin, non s’è mai sopito del tutto. E, sia all’Onu che nei contatti bilaterali, Usa e Russia hanno sempre mantenuto atteggiamenti diversi verso, per esempio, l’Iran, la Siria, la Libia.

Mosca contribuisce ai programmi nucleari civili iraniani e non condivide le preoccupazioni occidentali, e israeliane, per un loro utilizzo a fini militari: è contraria ad azioni di forza e non è neppure disposta a inasprire le sanzioni dell’Onu. Anche verso la Siria, l’atteggiamento russo è meno severo di quello americano. E, verso la Libia, Mosca, dopo essersi astenuta sulla risoluzione dell’Onu che autorizzava il ricorso alla forza a protezione dei civili, non ha preso parte all’azione e ha criticato l’interpretazione estensiva del mandato delle Nazioni Unite degli Usa e dei loro alleati.

Al Consiglio Nato-Russia, ieri a Bruxelles, i contrasti sui programmi anti-missile atlantici sono emersi, nonostante l’Alleanza abbia ribadito che il sistema di difesa “non è volto contro la Russia”. Due anni fa, al vertice di Lisbona, Nato e Russia avevano firmato un patto di non aggressione e posto le basi per collaborare contro le nuove sfide della difesa, inclusa la minaccia missilistica. A Bruxelles, c’era, per l’Italia, il ministro degli esteri Giulio Terzi, che,martedì, a Bonn, alla Conferenza sull’Afghanistan, aveva avuto un colloquio con il collega russo Serguiei Lavrov: un’occasione per richiamare “l’agenda bilaterale estremamente ricca” delle relazioni bilaterali.

mercoledì 7 dicembre 2011

Crisi: Ue, S&P grida al lupo, i Merkozy tirano dritto

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 07/12/2011

Se, la Federazione italiana gioco calcio decidesse un giorno di sanzionare una serie d’irregolarità sportive togliendo un punto in classifica a tutte le squadre, che cosa pensereste? Che, oltre a essere diventati, se possibile, più pilateschi di quanto già non siano, i signori del calcio si sono pure rincitrulliti: un punto in meno a tutti non cambia nulla a nessuno, chi è primo resta primo e chi è ultimo resta ultimo.

Se la stessa trovata, invece, ce l’ha qualche finanziere, di quelli che parlano e nessuno li capisce, la misura, appena annunciata, suscita allarme e sgomento: “Dio mio, che succede ora?”. Tranquilli!, nulla, proprio come nel calcio, che è meno esoterico, perché abbassare il punto di riferimento non cambia di fatto nulla: penalizzare tutti allo stesso modo non indebolisce nessuno.

Eppure, nell’imminenza del Vertice europeo di giovedì e venerdì, appuntamento cruciale per l’Ue, per l’euro e, quindi, pure per l’Italia, Standard & Poor, una delle agenzie di rating che, con le loro pagelle, condizionano i mercati, fa sapere che tutti i Paesi dell’euro, anche la Germania e la Francia, rischiano il declassamento dell’affidabilità del proprio debito: rischiano, cioè, di perdere, quelli che ancora ce l’hanno, la mitica tripla A. Un’umiliazione già inflitta, ai primi di agosto, proprio da S&P agli Stati Uniti, bollati AA+.

L’avvertimento appare una provocazione: a leggerlo in positivo, e si fa fatica a farlo, è una spinta ai leader dell’Ue che stanno per riunirsi a Bruxelles a prendere provvedimenti che mettano l’euro in salvo; a leggerlo come appare, è un agguato alla moneta unica, mentre il segretario al tesoro Timothy Geithner va in giro per l’Europa a dare lezione (ma di che?, vista che la crisi dagli Usa ci arriva) e la Casa Bianca ammonisce di nuovo l’Ue ad agire in fretta, perché “i problemi dell’Europa frenano l'economia dell’America”.

Il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker giudica la decisione ddi S&P di mettere sotto osservazione tutta l’eurozona “esagerata e scorretta": “La minaccia è un colpo da ko per i Paesi" che stanno consolidando i loro bilanci, dice a una radio tedesca. "E’ una esagerazione, un fulmine a ciel sereno alla vigilia del vertice Ue: non può essere una coincidenza". E, infatti, molti parlano, o pensano, a un annuncio inficiato da interessi. Il cancelliere tedesco Angela Merkel non si lascia smuovere: “Germania e Francia andranno avanti sulla strada tracciata”, quella di una revisione del Trattato di Lisbona e di un giro di vite alla tutela del rispetto delle regole, sanzionando chi le viola. E aggiunge: “Al Vertice, prenderemo decisioni importanti”. Il ministro degli esteri francese Alain Juppé conferma: “Miglioreremo la governance” perché l’Unione monetaria diventi pure economica.

Per una volta, i mercati mostrano sale in zucca: danno più retta alla Merkel che ai guru d’America. La minaccia di declassamento turba le borse, ma non le squassa, con rossi moderati. E l’asta dei titoli quinquennali tedeschi va bene, anzi benissimo. Speculatori sì, ma mica fessi, quelli che giocano in borsa. Per chi vuole andare liscio, sul sicuro, Svizzera a parte, che c’è di meglio della Germania? Con buona pace di S&P e delle sue sorelle cassandre.

martedì 6 dicembre 2011

Crisi: Monti, Merkozy sdogana manovra, avanti con euro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/12/2011

I Signori dell’Euro e le istituzioni europee sdoganano la manovra di Mario Monti e del suo governo: bene così, avanti tutta a barra dritta. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel, che si vedono a Parigi, promuovono a buoni voti la manovra italiana. Il vice-presidente della Commissione di Bruxelles Olli Rehn, l’angelo custode dell’economia italiana, benedice le misure per la riduzione del deficit, ma non è del tutto appagato: “La credibilità dell’Italia esce rafforzata” dalle decisioni del governo, “ma bisogna fare di più per la crescita”.

I mercati non aspettano la benedizione della politica: fin dal mattino, le borse di tutta l’Europa vanno su; e Milano ne è maglia rosa, con alla chiusura listini in recupero di quasi il 3%. Lo spread scende sotto la soglia di 400 a quota 375. E il duo Merkozy separa il grano italiano e spagnolo dal loglio greco: “La Grecia è un caso particolare” nell’eurozona, perché “non si possono paragonare economie grandi come le italiana e spagnola alla greca”.

La “settimana cruciale” per l’euro e per l’Europa –l’espressione è ricorrente- inizia quasi in fanfara, non ci fossero le lacrime di Elsa Fornero a ricordarci che l’Ue sta distribuendo sacrifici, non dividendi. “Il futuro della moneta unica –dice Monti in Parlamento- dipende anche da noi: abbattiamo il debito o c’è l’abisso” per l’Italia, che il WSJ fino a ieri considerava “la più grande singola minaccia alla sopravvivenza dell’euro”: “senza la manovra crolliamo”.

Ma adesso che ha fatto la sua parte, l’Italia vuole avere un ruolo, accanto a Germania e Francia, nella governance europea. E arriva pure la Spagna, a reclamare un posto al tavolo dei Grandi dell’Unione: il nuovo premier Mariano Rajoy vedrà il duo Merkozy al congresso del Partito popolare europeo a Marsiglia, prima del Vertice europeo giovedì e venerdì a Bruxelles. Monti ha già superato il rito di riammissione fra i Grandi, a Strasburgo, il 24 novembre.

E’ quello l’appuntamento senza appello: o i leader dell’Ue prendono decisioni che testimoniano la volontà di salvare l’euro, e con esso il processo d’integrazione; oppure, si aprono scenari apocalittici e imprevedibili. A Parigi, la Merkel e Sarkozy trovano l’intesa su una riforma del Trattato di Lisbona da attuare “a tappe forzate”, che rafforzi il coordinamento fra le economie dei Paesi dell’euro: vogliono introdurre sanzioni automatiche, in caso di violazione delle regole sul deficit –ma l’Ue non potrà “annullare” i bilanci statali-, e chiedono d’inserire l’obiettivo del pareggio di bilancio nelle Costituzioni dei singoli Stati; e dicono di nuovo no agli eurobonds, che Berlino, in particolare, non vuole nell’attuale situazione.

Non c’è ancora chiarezza sul ruolo della Banca centrale europea: tutti la vogliono “indipendente” e dichiarano fiducia nell’azione dell’istituto presieduto da Mario Draghi; ma alcuni auspicano che la Bce compia un massiccio intervento sul mercato dei titoli pubblici, così da fermare l’esodo dei capitali privati e da ribaltare l’andamento dei costi d’indebitamento saliti a livelli rovinosi.

Germania e Francia puntano a una modifica del Trattato approvata da tutti i 27, senza creare un club ristretto di Paesi. Ma non escludono neppure un nuovo Trattato, ipotizzando, se non c’è l’accordo a 27, un’intesa a 17, cioè fra i Paesi dell’euro. Resta dunque aperta la porta a un’Europa a geometria variabile, o a due velocità: formule che, fino agli Anni Ottanta, facevano insorgere i puristi dell’integrazione, ma che hanno già trovato applicazioni di successo, dal Trattato di Schengen all’euro, senza contare la politica spaziale e vari esperimenti di cooperazione militare. Ora il Trattato di Lisbona istituzionalizza la possibilità, definendo le modalità delle cosiddette cooperazioni rinforzate.

L’Italia che ha fatto i compiti a casa intende, ora, “partecipare al dibattito sulla revisione” del Trattato –l’affermazione è di Monti-, anche se non mette ancora le carte in tavola. Si parte “dalla considerazione e dal rispetto” che la Merkel e Sarkozy hanno sempre avuto per l’Italia –parola del professore-, anche se “nella gestione dei rapporti possono esserci stati alti e bassi”. Il calendario ideale di Berlino e Parigi prevede che il nuovo Trattato sia pronto a marzo, cioè prima delle elezioni presidenziali francese: la salvezza dell’euro e quella del secondo mandato di Sarkozy s’intrecciano.

Crisi: Monti, viatico stampa estera per lungo viaggio

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/12/2011

L’Italia della manovra di Monti non conquista tutte le prime pagine della stampa estera, come faceva spesso l’Italia del bunga bunga di Berlusconi. La serietà val meno del folklore al borsino delle notizie. Le analisi sono, in genere, positive, ma caute: un ‘bene, però’, perché molti commentatori giudicano carenti le misure per la crescita. Il Financial Times scrive che il governo Monti, invece che sull’austerità, dovrebbe concentrarsi sulle riforme per stimolare l’economia; e l’autorevole Lex Column titola “Italia, il lungo viaggio comincia”.

Un viaggio che è anche europeo. La Bbc e gran parte dei media internazionali sono già focalizzati sull’incontro a Parigi tra Sarkozy e la Merkel e sul vertice di giovedì e venerdì
a Bruxelles: “L’eurozona sta entrando in una fase decisiva”, si legge sul sito della Bbc, che cita Monti (“non ci sarà spazio per errori al summit”, perché “i mercati finanziari puniranno l’inazione”).

Colpiscono la stampa estera la rinuncia di Monti alla retribuzione da premier e le lacrime della Fornero. Le Monde, fra i pochi a mettere il piano d’austerità italiano in forte rilievo, sul suo sito, afferma che il Professore “vuole agire in fretta per tranquillizzare i partner” e propone un “rigore draconiano”, dove il dossier più difficile è la riforma delle pensioni, annunciata “in lacrime” dalla ministra, presa dall’emozione.

El Pais annuncia “il primo grande aggiustamento economico dell’era Monti”. Ma la foto sulla homepage è della Fornero in lacrime: “L’Italia ha aperto la porta al sacrificio”, osserva Pablo Ordaz. La filosofia della manovra è riassunta in una frase del premier: “Nessuno deve sentirsi soddisfatto”.

“Il piano italiano apre settimana cruciale per l’euro” titola il Wall Street Journal in apertura del suo sito: “Lo sfilacciamento del mercato dei titoli italiani è ormai la più grande singola minaccia alla sopravvivenza dell’euro”; per questo, le misure di Monti saranno sottoposte, in sede europea, a un esame approfondito”.

Ma il WSJ, come altri media esteri, è cauto: “non sarà facile” per il governo fare approvare rapidamente le proposte. “I partiti politici italiani sono profondamente divisi su come tirare fuori l’economia da un decennio di stallo … E i sindacati italiani sono fortemente contrari a ogni cambiamento radicale del costoso sistema pensionistico”.

Considerazioni analoghe su Guardian e Figaro, New York Times e le agenzie mondiali e su molti altri media esteri. Chiudendo il cerchio, FT invita a riflettere su due punti: “Primo, l’Italia ha più bisogno di crescita che di austerità”.Secondo, il Parlamento potrebbe annacquare le misure.

lunedì 5 dicembre 2011

Crisi: Monti, la diserzione della Rai e del suo giornalismo

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 05/12/2011

Raramente un programma televisivo ha avuto l’intensità, la teatralità, la drammaticità, la veridicità, l’universalità della conferenza stampa di domenica sera del professor Monti e del suo governo: il tema interessava tutti; le cose, anche le più difficili, erano quasi sempre spiegate in modo piano e semplice, talora con una punta di spirito –Monti-, talora con una concessione al sentimento –Fornero-; nessuno interveniva sopra le righe. Roba da dibattito per la presidenza degli Stati Uniti, altro che i talk show spesso confusi urlati sudati maleducati di casa nostra. Chi l’ha seguita, l’ha seguita fino in fondo.

Già, ma chi l’ha seguita? Chi stava su La7 o su Sky o, magari, su RaiNews24; oppure, chi stava al computer e ha intercettato le dirette online. Perché le grandi reti delle grandi televisioni, la Rai e Mediaset, non hanno trovato spazio nelle loro programmazioni per quello spettacolo. Passi per Mediaset, che è una tv privata e che fa gli interessi commerciali suoi (e quelli politici del suo padrone). Ma la Rai dovrebbe tuttora essere servizio pubblico; e l’evento non era improvviso, inatteso, imprevedibile, perché tutti potevano ben immaginare che, alla fine del Consiglio dei Ministri, uno dei più importanti nella storia repubblicana, ci sarebbe stata una conferenza stampa.

Ora, è vero che c’è una programmazione da rispettare e che ci sono i serial da valorizzare con il loro carico pubblicitario. Ma davvero non c’era modo e tempo di riorganizzare almeno una rete?, e di trasmettere, sulle altre, un avviso dicendo dove la conferenza stampa andava in diretta? Oppure non c’è stata la volontà di farlo, perché, magari, gli italiani scoprivano la differenza fra il prima e l’adesso e che cosa si sono persi, per colpa loro, negli ultimi anni?

La latitanza della Rai è stata, più che una sconfitta, una diserzione dal terreno dell’informazione da parte dei servizio pubblico e del suo giornalismo.

E, parlando di giornalismo, nella sala stampa di Palazzo Chigi non c’era, salvo sviste, di cui mi scuso a priori, manco un tenore del giornalismo politico o economico italiano: tanti bravi colleghi spesso giovani, cronisti d’agenzia, qualche corrispondente estero. I tenori ce li ritroveremo –c’è da scommetterci- a commentare, con indubbia competenza, e con qualche rissosa gigioneria, al prossimo talk show. Professor Monti, tenersene alla larga sarebbe un segnale di discontinuità forte, come lo sono state le sue parole di ieri sull’Europa che siamo noi.

sabato 3 dicembre 2011

Ue: crisi, la Merkel carica sull'Italia il peso dell'euro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/12/2011

Angela Merkel carica sulle spalle dell’Italia il peso dell’Europa e mette pressione al professor Monti e ai suoi ministri: l’Italia, dice la cancelliera tedesca, parlando al Bundestag, è responsabile del futuro suo e di quello dell’euro. Molto, se non tutto, dipenderà dalle misure che il governo italiano varerà lunedì nel segno del rigore, della crescita e dell’equità.

I Grandi d’Europa alzano i toni, in vista di quelli che Mario Draghi, governatore della Banca centrale europea, ha definito, giovedì, di fronte al Parlamento europeo, “i dieci giorni decisivi per l’eurozona”. Il presidente francese Nicolas Sarkozy mette paura ai francesi, avvertendoli che l’Europa rischia di essere “spazzata via” e che bisogna “rifondarla”. E la Merkel rincara: l’Europa –dice- è seduta su una polveriera.

Per evitare che salti in aria, la strada da imboccare è quella di un’Unione fiscale, che integri l’Unione monetaria che c’è e quella economica appena sbozzata a livello di governance: Angela chiarisce che “la questione è sull’agenda”, sicuramente su quella franco-tedesca. Ci vuole, però, una riforma dei Trattatii, che la Merkel e Sarkozy prepareranno vedendosi tre volte in pochi giorni la prossima settimana: prima, al Parigi; poi, a Marsiglia, al congresso del Ppe; e, infine, al Vertice europeo di Bruxelles l’8 e 9 dicembre.

Ma il salvataggio dell’euro e l’approfondimento dell’integrazione hanno come presupposto che l’Italia faccia i suoi compiti. Draghi osserva che, finora, “dai cambi di governo” in Italia e in Grecia sono venuto “pochi risultati”. E’ il momento di fare sul serio. Alla Merkel, non fa eco Monti, impegnato a preparare le misure, ma il presidente Napolitano, nel giorno in cui il Censis traccia l’identikit di un Paese fragile e prigioniero della finanza, disorientato e quasi impaurito nella stretta tra spread e default.: in Italia, ammette Napolitano, ci sono ritardi strutturali e servono misure per conciliare il rigore con l’equità e promuovere la crescita.

Il discorso della Merkel dà una prospettiva al Vertice della prossima settimana e vuole anche scrollare di dosso alla Germania le accuse d’indecisione sulla via dell’Europa. Le borse e i mercati, che, però, sono banderuole che cambiano orientamento a ogni vento, reagiscono bene: tutte in crescita le europee e positiva in partenza pure Wall Street. Eppure, la cancelliera chiuda di nuovo la porta a interventi della Bce a favore degli Stati in difficoltà e pure agli ‘eurobond’, o come si vogliano chiamare ‘project bond’: inutile parlarne, dice, almeno per ora. Una volta stretti i vincoli dell’Unione economica e monetaria e fatta quella fiscale con regole rigide e da rispettare pena sanzioni, dando alle istituzioni comunitarie poteri d’intervento maggiori degli attuali–ma ci vorranno anni, avverte-, chissà…

Per il momento, però, la responsabilità dei bilanci resta nazionale e non c’è motivo di sondare con un referendum i tedeschi sulle modifiche al Trattato: uno shock che l’attuale eurozona, fragile e contrastata, non sarebbe probabilmente capace di affrontare. Poiché i leader dell’Ue non hanno la pozione magica anti-crisi, ci vorrà del tempo per rimettere l’Unione in sesto. E se i conti in ordine sono essenziali, metterli a posto comporta sacrifici e innesca, quindi, tensioni sociali: l’equità degli interventi può attenuarle, non eliminarle.

venerdì 2 dicembre 2011

Belgio: è la volta buona? Il governo c'è, pare, dopo 535 giorni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/12/2011

E' la volta buona. Pare. Dopo 535 giorni, il Belgio s'appresta ad avere un governo a parte intera, politico e non tecnico. Yves Leterme, cattolico, fiammingo, premier in carica per gli affari correnti, può andarsene tranquillo all'Ocse, dove guadagnerà di più e avrà meno grane. Ed Elio Di Rupo, socialista, francofono, origini italiane, può insediarsi al 16 di rue de la Loi, che è l'equivalente belga di Palazzo Chigi.

I sei partiti che negoziavano la formazione di una nuova coalizione hanno raggiunto un'intesa di massima su un documento programmatico di 185 pagine. L'ultimo scoglio su cui s'era temuto che la trattativa naufragasse, i tagli alla spesa pubblica, è stato superato. Se non ci saranno intoppi in extremis, il Belgio uscirà dalla lunga crisi apertasi dopo le elezioni del 13 giugno 2010, che videro l'avanzata dei nazionalisti fiamminghi, tenuti, però, fuori dall'alleanza di governo.

Dopo i congressi dei partiti nel week-end, il giuramento della nuova compagine -15 ministri, i nomi ancora da definire- e la fiducia del Parlamento sono attesi all'inizio della prossima settimana.

Di Rupo sarà il primo ministro francofono e vallone dal 1974: i fiamminghi sono i due terzi della popolazione. Pochi giorni or sono, il leader socialista, gay dichiarato, pipa e papillon, pareva sul punto di gettare la spugna. Poi, re Alberto l'ha convinto a riprendere in mano le fila della trattativa.

Dopo mesi di negoziati a vuoto, l'impasse è stata superata in fretta, quando l'agenzia di rating Standard & Poor's ha declassato l'affidabilità del debito belga. Il campanello d'allarme è stato sufficiente a riportato i partiti al tavolo della trattativa, dopo avere sfiorato l'ennesima rottura.

L'intesa resta però fragile e gli equilibri nella coalizione precari. Le tre principali famiglie politiche belghe, i cattolici, i liberali e i socialisti, sono presenti, ma i fiamminghi non vi sono adeguatamente rappresentati. Gli incidenti di percorso e forse nuove elezioni sono dietro l'angolo.

giovedì 1 dicembre 2011

Iran: tra risiko e gioco dell'oca, bomba, minacce, sanzioni

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/12/2011

Un risiko internazionale, dove si rischia un conflitto che può incendiare il Grande Medio oriente. O un gioco dell’oca fatto in casa, dove, alla fine, si torna alla casella di partenza dei contrasti fra i due galli nel pollaio del regime, la guida suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmud Ahmadinejad. O, forse, l’uno e l’altro. L’escalation di reazioni all’irruzione nell’ambasciata di Londra a Teheran, martedì, acuisce la tensione fra l’Occidente e l’Iran, ravvivatasi dopo che un rapporto dell’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica ha avallato l’ipotesi che i piani nucleari di Teheran abbiano finalità militari.

Ieri, la Gran Bretagna ha chiuso l’ambasciata in Iran e ha imposto la chiusura entro 48 ore di quella di Teheran a Londra. Ai Comuni, il ministro degli esteri Hague, fra le acclamazioni dei deputati, ha così motivato la rappresaglia: i manifestanti che hanno invaso e devastato l’ambasciata britannica non potevano agire “senza un qualche consenso” delle autorità iraniane. L’irruzione è stata ripresa in diretta televisiva, mentre le forze dell’ordine presenti restavano passive. Il ministero degli esteri se n’è poi scusato e dissociato, assicurando “conseguenze giudiziarie” per i responsabili dell’azione: la polizia iraniana avrebbe compiuto numerosi arresti Ma il presidente del Parlamento Ali Larijani acuisce la sensazione di una frattura nel regime, giustificando la collera dei manifestanti, che nasce dall’inasprimento delle sanzioni contro l’Iran da parte di Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, gesto non condiviso da Mosca e Pechino.

Le decisioni di Londra riducono i rapporti con Teheran “al livello più basso” compatibile con il mantenimento delle relazioni diplomatiche: tutto il personale del Foreign Office ha già lasciato l’Iran. E altri Paesi europei imitano, in tutto o in parte, la Gran Bretagna. L’Italia, dice il ministro Terzi, che convoca alla Farnesina per spiegazioni l’ambasciatore dell’Iran a Roma, “sta valutando” il da farsi e auspica una riflessione a livello europeo, nella convinzione che l’opzione militare “sarebbe devastante”. Francia e Germania richiamano l’ambasciatore a Teheran per consultazioni. La Norvegia chiude temporaneamente l’ambasciata. Tutte le capitali occidentali esprimono la più ferma condanna di quanto avvenuto.

Gli sviluppi diplomatici s’intrecciano con le rivelazioni del Times di Londra: l’esplosione avvertita lunedì a Isfahan, la seconda nell’arco di un mese, avrebbe interessato gli impianti di arricchimento dell’uranio della locale centrale. Secondo fonti israeliane, lo scoppio non sarebbe stato un incidente, ma un sabotaggio preventivo per impedire, o almeno ritardare, i progressi dell’Iran verso l’atomica. La scoppio, di cui gli abitanti hanno udito il botto e visto poi colonne di fumo levarsi nella zona della centrale, avrebbe causato danni allo stabilimento, specie dove sono stoccati i materiali grezzi.

C’è dietro Israele, che avrebbe scelto una via più discreta d’un attacco aereo per impedire all’Iran di farsi la Bomba? Al Times, una fonte dice sibillina: “Vi sono molti attori interessati a costringere Teheran a interrompere il suo programma di armamento nucleare”.

mercoledì 30 novembre 2011

Iraq: gli americani partono, rock, coca e slang restano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2011

Ovunque vadano, qualcosa lasciano, a parte distruzioni, lutti, sofferenze. Invasori o liberatori che siano, è una regola che vale nei secoli per chi s’installa in un Paese con la forza delle armi. Se ci resta a lungo, lascia, magari, la lingua, l’organizzazione sociale e l’ordinamento istituzionale –pensiamo ai romani e, poi, agli arabi-; se ci resta per poco tempo, qualche moda passeggera e, magari, qualche abitudine alimentare e qualche consumo culturale adattati ai gusti locali. Oggi, i soldati americani, rispetto agli eserciti delle potenze imperiali o coloniali dei tempi andati, possono pure contare sull’impatto massiccio dei media di massa, sull’infiltrazione di una cultura che è pervasiva e contagiosa a livello globale, prima ancora del loro arrivo.

Succede, magari, che i militari a stelle e strisce si dimentichino di lasciarsi dietro proprio quello che erano venuti a portare: così, in Iraq, e presto in Afghanistan, se ne vanno senza avere solidamente impiantato quella democrazia che erano partiti per esportare una volta si sarebbe detto sulla punta delle baionette e oggi sarebbe meglio (non dover mai) dire sulla canna dei carri armati. La democrazia, però, non è qualcosa che attecchisce con le armi e non prende neppure ovunque allo stesso modo: in Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ce la lasciarono, ma in fondo c’era già prima: loro erano venuti per ristabilirla, dopo l’esperienza devastante e aggressiva dei totalitarismi nazista e fascista; in Giappone, e più tardi nella Corea del Sud, se la lasciarono dietro.

Bushra Juhi, giornalista dell’Ap,racconta, in un reportage da Baghdad, che, dopo otto anni di presenza sofferta e contrastata –quasi 4.500 caduti, altri 500 circa della coalizione-, le truppe da combattimento statunitensi americane che stanno partendo dall’Iraq lasciano dietro di sé una democrazia zoppicante, e che s’ignora se e come e quanto sopravvivrà, e “amari ricordi di guerra”. Ai più giovani, restano “musica rap, tatuaggi e slang”. E chi scrivesse oggi da Kabul potrebbe offrire una testimonianza analoga-. In Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli americani ci lasciarono la Coca Cola, il boogie woogie, i jeans –e ancora resistono, adattati ai tempi. In Vietnam, da dove scapparono dopo dieci anni di conflitto e oltre 58mila perdite, il lascito, invece, fu poca cosa, o almeno rimase invisibile per molti anni. Ma sotto sotto i germi dell’americanizzazione hanno funzionato se oggi Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City, è la più americana delle città vietnamite e, probabilmente, non piacerebbe affatto all’eroe dell’indipendenza di cui porta il nome.

Le dinamiche e le geografie dell’esportazione militare di mode e costumi sono spesso indecifrabili. Pensiamo allo sport, che non ha risvolti politici diretti. Gli americani hanno lasciato in Giappone e nella Corea del Sud il baseball, che ha pure attecchito ad Anzio e in Romagna e in Olanda, ma altrove in Italia o in Europa poco o punto, mentre non sono riusciti a innestare, in nessun Paese, il loro football (a essere sinceri, uno dei riti più noiosi ed esoterici fra i giochi moderni), mentre il calcio dilaga ovunque nel Mondo, nonostante gli inglesi, all’epoca delle colonie, promuovessero più l’aristocratico cricket che il popolare soccer. Il baseball, poi, ha sue ‘basi’ anche in Paesi ‘anti-americani’, come Cuba e il Venezuela, dove era però arrivato prima delle ‘rivoluzioni’ castrista e chavista.

Certo, rispetto a 60 anni or sono, oggi è molto difficile distinguere l’influenza indotta dalla presenza militare da quella, più sottile e più pervasiva, della preesistente colonizzazione culturale compiuta dalle produzioni ‘made in Usa’ d’ogni tipo: chewingum e Coca Cola, jeans e Tshirts, musica, film e serie tv sono testimoni universali e indelebili d’una avvenuta conquista.

Juhi ci racconta Baghdad prima della partenza, il 31 dicembre, dell’ultimo soldato combattente americano. La loro influenza è fortissima sui circa 16 milioni di iracheni ‘under 19’ (la metà della popolazione, 8 milioni nati dopo l’invasione), calcola Brett McGurk, ricercatore del Council on Foreign Relations di New York e prima consigliere dell’Ambasciata degli Usa in Iraq. Teen-agers che si chiamano ‘punky’ o ‘hustlers’ e hanno abitudini e consumi del tutto simili a quelli dei loro coetanei americani o europei: ascoltano 50 Cent o Eminem, guardano i film di vampiri della serie Twilight, mangiano pizza e hamburger, girano sui rollerblade e si rasano i capelli alla marine. Mode che resisteranno in Iraq?, o traballanti come la democrazia?

L'Italia e il Terzi Mondo, attivismo per riemergere e priorità

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2011

Ha giurato in ritardo, un giorno dopo i colleghi. Ma poi s’è subito messo in moto, mentre quasi tutti gli altri restavano al palo della crisi e delle misure da prendere per contenere il debito e rilanciare la crescita. Lui, Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore di professione, ministro –un po’ a sorpresa- per chiamata, ha già collezionato telefonate, incontri e missioni: un attivismo apparentemente scollegato dall'azione del governo sui dossier più critici e in parte imposto da impegni già assunti, ma che può consentire all'Italia di essere presente su fronti diversi da quello dell’emergenza economica.

Insomma, non tutto è bot e spread: se l’Italia vuole recuperare credibilità sulla scena internazionale, deve pure occuparsi di Medio Oriente e di Primavera araba, di Libia e Siria e Iran. E deve farlo coltivando contatti e amicizie giuste, tenendosi lontana dagli oligarchi sopravvissuti all’ex Unione sovietica, i Putin e, peggio ancora, i Lukashenko e i Nazarbayev, l’ultima cerchia d’amici concessi a Mr B e al suo giro.

Terzi, che oggi presenta le sue linee d’azione alle commissioni esteri congiunte di Camera e Senato, ha ereditato, all’esordio, un percorso fortunato: la missione in Kuwait per un foro del G8 e quella a Istanbul, per un incontro italo-turco, erano nel solco delle priorità del nuovo governo.

Alla Farnesina, si è realisti: l’azione di politica estera deve tenere conto della prospettiva temporale di questo esecutivo, che è al massimo di un anno e mezzo. In questo periodo, l’Europa sarà sempre in primo piano: si tratta, in particolare, di ristabilire i rapporti con la Francia, desiderosa di avere nell’Italia un interlocutore valido, che contribuisca a riequilibrare il rapporto con la Germania.

Qui, qualche risultato è già venuto, con il Vertice triangolare di Strasburgo e il desiderio condiviso da Sarkozy e Merkel di associare l’Italia a una politica europea comune forte ed energica. Di questo, però, si occupa soprattutto il premier Monti, anche se Terzi ha avuto contatti diretti o telefonici con tutti i maggiori colleghi europei.

Punto secondo, Terzi deve riagganciare l’Italia agli Stati Uniti –era ambasciatore a Washington, ha i contatti e le percezioni giuste-, a partire dagli sviluppi –punto terzo- in Medio Oriente e in Afghanistan. Il ministro, di cui è nota l’attenzione alle posizioni israeliane, ha fatto una delle prime telefonate al collega Lieberman, cui ha assicurato la “piena continuità” della linea italiana. Naturalmente, ci potranno essere dei distinguo tra Roma e Washington, ad esempio sull’Iran.

Ue, Usa, MO e Mediterraneo: ecco le priorità dell’Italia. Resta da puntare su alcuni singoli Paesi. La Turchia, con cui i rapporti sono ottimi, è il primo della lista, anche in funzione degli sviluppi in Siria. E’ stato un caso, ma è caduto bene, che il ministro Terzi, nel fine settimana, abbia seguito a Istanbul con il collega Davutoglu un foro italo-turco da tempo fissato.

Infine, si potrà cercare di rafforzare le relazioni con un grande Paese latino-americano: il Brasile, se il caso Battisti non continuerà a costituire un ostacolo, oppure l’Argentina o il Messico. Impossibile, infine, riparare in fretta al vuoto di presenza in Asia, ma un rilancio dei rapporti con la Cina e un rafforzamento di quelli con l’India o con singoli Paesi potrà essere tentato.