Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/01/2011
E poi ci lamentiamo di quanta (poca) Italia c’è in Europa! Vero, ma mica è un’ingiustizia: la serie non è ‘Calimero’, ma ‘chi è causa del suo mal pianga se stesso’. Riflettiamoci un attimo, dati alla mano. Domani, a Bruxelles, è un giorno da segnare in rosso sul calendario: non tanto perché i ministri degli esteri dei 27 diranno la loro su un mondo che crolla, dalla Tunisia ai Paesi del Golfo, passando per la Bielorussia e l’Albania (oddio!, ci sarebbe pure l’Egitto, ma Lady Ashton, che non sempre è un fulmine di guerra, non l’ha messo all’ordine del giorno); quanto perché si rivedrà il ministro degli esteri italiano Franco Frattini, che manca dalla capitale dell’Ue dall’estate scorsa. Nell’occasione –rara, se non unica-, lo riceverà persino il presidente della Commissione europea Josè Maria Durao Barroso: se non lo becca al volo, gli tocca venire a Roma per parlargli. Quanto, poi, al ministro per lo sviluppo economico, quello non si vede da maggio, quando Claudio Scajola rassegnò le dimissioni: il suo successore Paolo Romani è venuto una volta, ma solo per bilaterali alla Commissione, non ancora per un Consiglio. E da oltre due mesi non c'è manco il ministro 'tappabuchi' delle politiche comunitarie, dopo le dimissioni di Stefano Ronchi, finiano. Hai voglia di piangere, poi, se gli altri decidono per te, se persino la Ashton trascura l’Italia, se sul brevetto ti dribblano manco se l’Italia fosse Invernizzi e loro Sivori. L'unico che c'è (sempre) è Tremonti, che, infatti, pesa ben più dei colleghi assenti.
domenica 30 gennaio 2011
sabato 29 gennaio 2011
Albania: torna la calma, ma è Rama contro Berisha
Scritto per Il fatto Quotidiano del 29/01/2011
La fiammata di violenza in Albania si stempera, proprio mentre la protesta popolare contro regimi corrotti e dispotici infiamma la Riva Sud del Mediterraneo ed incendia il Golfo, in una stagione di cambiamenti che ricorda la Caduta del Muro e il domino nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.
Dopo una settimana di tensione, a Tirana i toni del confronto rientrano nei confini della dialettica politica, senza ricorso alla forza. I due leader contrapposti, il premier Sali Berisha, un conservatore, e il capo dell’opposizione Edi Rama, un socialista, sembrano avere raccolto gli inviti alla moderazione venuti dall’Unione europea e dalla comunità internazionale.
Un appello in tal senso sarà rilanciato, lunedi’, dai ministri degli esteri dei 27, che si riuniranno a Bruxelles per discutere l’atteggiamento da assumere di fronte ai fermenti nel Grande Medio Oriente. Lady Ashton, la responsabile della diplomazia europea, non ha messo l’Egitto all’ordine del giorno della consultazione, ma sarà impossibile non parlarne discutendo di Tunisia e di Albania e di quanto sta accadendo tutto intorno.
La manifestazione convocata ieri a Tirana dall’opposizione al regime di Berisha era un omaggio alle tre persone inermi uccise dalla Guardia repubblicana il 21 gennaio, durante una protesta anti-governativa. Questa volta, tutto s’è svolto in modo pacifico: la folla s’è dispersa nella calma a metà pomeriggio. "Non vogliamo ritrovare i fantasmi della paura", ha detto Rama, a cose fatte.
Il segnale che la giornata potesse svolgersi senza incidenti l’aveva dato proprio Berisha, garantendo, in una conferenza stampa, «il pieno rispetto del diritto alle proteste pacifiche», pur avvertendo che «in caso di violenza» le forze di sicurezza avrebbero agito «con tutta la loro forza». Il premier parlava poco prima dell’inizio del corteo, mentre decine di autobus confluivano sulla capitale carichi di oppositori, Oltre mille agenti, molti in tenuta anti-sommossa, erano schierati a difesa della sede del governo, protetta anche con filo spinato e presidiata, all’interno, da reparti della Guardia repubblicana armati e con giubbotto antiproiettile. Tutti gli uffici pubblici, molti negozi, l'ambasciata americana erano chiusi.
Il corteo, guidato dal leader socialista Edi Rama, nemico giurato del premier Berisha, e forte di decine di migliaia di manifestanti -c'erano pure alcuni feriti del 21-, ha percorso silenzioso la via principale di Tirana, tra stendardi rossi e neri, i colori dei socialisti e del lutto, mentre gli altoparlanti diffondevano musica funebre. Proprio davanti alla sede del governo, grandi foto delle vittime del 21 gennaio campeggiavano su un enorme cartello.
La manifestazione di ieri, che non avrà oggi il controcanto, inizialmente progettato, d’un meeting a sostegno del governo, potrebbe chiudere una fase di scontro particolarmente concitata tra maggioranza e opposizione. Ma il clima politico resta acceso. Ieri, Berisha se l’è presa con il capo dello Stato Bamir Topi, che non è certo una figura di spicco, «l’unico -ha detto- a non vedere le violenze contro la polizia e le istituzioni » (la tesi del premier è che il 21 gennaio è statato sventato un tentativo di colpo di Stato). E l’opposizione, dal canto suo, promette «altre manifestazioni» per provocare «la fine del regime», mentre Rama chiede "al mondo democratico" di riconsiderare le proprie relazioni con il governo albanese.
La fiammata di violenza in Albania si stempera, proprio mentre la protesta popolare contro regimi corrotti e dispotici infiamma la Riva Sud del Mediterraneo ed incendia il Golfo, in una stagione di cambiamenti che ricorda la Caduta del Muro e il domino nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.
Dopo una settimana di tensione, a Tirana i toni del confronto rientrano nei confini della dialettica politica, senza ricorso alla forza. I due leader contrapposti, il premier Sali Berisha, un conservatore, e il capo dell’opposizione Edi Rama, un socialista, sembrano avere raccolto gli inviti alla moderazione venuti dall’Unione europea e dalla comunità internazionale.
Un appello in tal senso sarà rilanciato, lunedi’, dai ministri degli esteri dei 27, che si riuniranno a Bruxelles per discutere l’atteggiamento da assumere di fronte ai fermenti nel Grande Medio Oriente. Lady Ashton, la responsabile della diplomazia europea, non ha messo l’Egitto all’ordine del giorno della consultazione, ma sarà impossibile non parlarne discutendo di Tunisia e di Albania e di quanto sta accadendo tutto intorno.
La manifestazione convocata ieri a Tirana dall’opposizione al regime di Berisha era un omaggio alle tre persone inermi uccise dalla Guardia repubblicana il 21 gennaio, durante una protesta anti-governativa. Questa volta, tutto s’è svolto in modo pacifico: la folla s’è dispersa nella calma a metà pomeriggio. "Non vogliamo ritrovare i fantasmi della paura", ha detto Rama, a cose fatte.
Il segnale che la giornata potesse svolgersi senza incidenti l’aveva dato proprio Berisha, garantendo, in una conferenza stampa, «il pieno rispetto del diritto alle proteste pacifiche», pur avvertendo che «in caso di violenza» le forze di sicurezza avrebbero agito «con tutta la loro forza». Il premier parlava poco prima dell’inizio del corteo, mentre decine di autobus confluivano sulla capitale carichi di oppositori, Oltre mille agenti, molti in tenuta anti-sommossa, erano schierati a difesa della sede del governo, protetta anche con filo spinato e presidiata, all’interno, da reparti della Guardia repubblicana armati e con giubbotto antiproiettile. Tutti gli uffici pubblici, molti negozi, l'ambasciata americana erano chiusi.
Il corteo, guidato dal leader socialista Edi Rama, nemico giurato del premier Berisha, e forte di decine di migliaia di manifestanti -c'erano pure alcuni feriti del 21-, ha percorso silenzioso la via principale di Tirana, tra stendardi rossi e neri, i colori dei socialisti e del lutto, mentre gli altoparlanti diffondevano musica funebre. Proprio davanti alla sede del governo, grandi foto delle vittime del 21 gennaio campeggiavano su un enorme cartello.
La manifestazione di ieri, che non avrà oggi il controcanto, inizialmente progettato, d’un meeting a sostegno del governo, potrebbe chiudere una fase di scontro particolarmente concitata tra maggioranza e opposizione. Ma il clima politico resta acceso. Ieri, Berisha se l’è presa con il capo dello Stato Bamir Topi, che non è certo una figura di spicco, «l’unico -ha detto- a non vedere le violenze contro la polizia e le istituzioni » (la tesi del premier è che il 21 gennaio è statato sventato un tentativo di colpo di Stato). E l’opposizione, dal canto suo, promette «altre manifestazioni» per provocare «la fine del regime», mentre Rama chiede "al mondo democratico" di riconsiderare le proprie relazioni con il governo albanese.
venerdì 28 gennaio 2011
USA: Obama, lo Sputnik, Kennedy, e un Paese in rimonta
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/01/2011
A seguirlo in diretta, sono stati meno del solito, un record di audience negativo. Ma il discorso sullo stato dell’Unione 2011 non era una storia di guerra e pace: c’erano dietro le ansie e i dubbi di una potenza in crisi, che cerca di tirarsi su. Un copione mica da film d’azione: roba da Bergman del Michigan.
Pero’, a quasi tutti quelli che l’hanno sentito, il discorso del presidente Barack Obama è piaciuto. E lui, per battere il ferro di un consenso che torna a crescergli intorno, dopo la sconfitta nelle elezioni di midterm del 2 novembre, è subito andato a portare il suo messaggio nel cuore dell’America che vuole lavorare e produrre, partendo dal Wisconsin, nonostante maltempo e tempeste di neve.
Gli strateghi della comunicazione della Casa Bianca puntano di nuovo sui social media, già sfruttati per la vittoria nelle presidenziali del 2008. Ora si tratta di fare passare fra la gente l’agenda politica del presidente, nonostante il Congresso sia diviso, la Camera ai repubblicani, il Senato ai democratici. L’offensiva su internet, puntata sulle elezioni del 2012, parte da Facebook, Twitter e Youtube, con una serie di appuntamenti virtuali in cui i cittadini potranno commentare il discorso di martedi’ e rivolgere a Obama domande: una sorta di prova generale della prossima campagna.
Che cosa è rimasto, agli americani, del messaggio del presidente? Delle 6.955 parole pronunciate, quella che ha più colpito non è «speranza», o «futuro»,o «innovazione», ma «salmone»: una battuta sull’Amministrazione che diversifica le proprie competenze su questi pesci tra mare aperto, acque dolci e ‘affumicati’. Se è tutto qui, c’è da restare delusi.
Ma in realtà il presidente ha detto molte cose che gli americani pensano siano vere, o che, comunque, amano credere lo siano. E ha usato un sacco di volte il ‘noi’, quel senso di appartenenza a una Nazione che lo ‘io’, il ‘voi’ e il ‘loro’ messi insieme non danno.
E, poi, Obama, che parlava a metà del suo mandato –è alla Casa Bianca da 740 giorni, ci resterà certamente altri 720-, ha spruzzato il suo discorso di riferimenti kennediani, a 50 anni e pochi giorni dall’insediamento a presidente di John Fitzgerald Kennedy, e ha riproposto agli americani la sfida dello Sputnik. Allora, si trattava di recuperare il ritardo nella corsa allo spazio sull’Unione sovietica, prima a lanciare un satellite intorno alla Terra –appunto, lo Sputnik- e prima a mettere un uomo in orbita, Yuri Gagarin. L’impresa riusci’: neppure nove anni dopo, gli americani sbarcavano sulla Luna, dove i russi non sono mai arrivati.
Adesso, si tratta di recuperare il ritardo nella crescita e nella dinamicità dell’economia, sulla Cina, sull’India, su quei Paesi, che non stanno in Europa, che hanno una marcia in più nella flessibilità e nell’imprenditorialità. E bisogna farlo non aggrappandosi al passato di un’industria ormai delocalizzata, ma puntando sull’innovazione.
Obama ha anche detto cose dure, ai suoi ‘cari americani’ : in un Paese che viveva davanti alla tv e ora vive davanti al computer, dove gli insegnanti di matematica arrivano dall’India, perchè qui pochi la studiano ancora, ha chiesto ai genitori di spegnere gli schermi e di non lasciare credere ai loro figli che il successo è quello delle starlette della tv e dei campioni dello sport, ma sta nello studio, nell’impegno, magari proprio sulle materie scientifiche.
E già questo è un messaggio che, a noi italiani, dovrebbe dare un brivido, specie di questi tempi, che, se non sei una velina, non ti fila nessuno. Ma Obama ha fatto un’altra cosa che a noi suona strana : non ha vantato i risultati conseguiti, le cose fatte –e, pure, qualche coppa in bacheca, nell’ultimo anno, l’ha messa-, ma ha parlato delle cose da fare, non solo nell’anno che viene, non solo nella seconda metà del suo mandato, ma negli anni a venire. Altro che ‘cortotermismo’ e miopia della politica.
Dicono che il presidente si sia irritato perchè una fuga di notizie ha costretto la Casa Bianca ad anticipare la diffusione del suo discorso. Ma i Wikileaks di turno non hanno fatto danni reali. E un’adesione al suo progetto è venuta, a sorpresa, ma non troppo, da Mosca: da ieri il Trattato Start è ratificato e puo’ diventare operativo, innescando una riduzione degli arsenali nucleari strategici. Una cosa fatta in più. Bene. Ma “noi –dice Obama- siamo americani: guardiamo alle cose da fare, guardiamo avanti”.
A seguirlo in diretta, sono stati meno del solito, un record di audience negativo. Ma il discorso sullo stato dell’Unione 2011 non era una storia di guerra e pace: c’erano dietro le ansie e i dubbi di una potenza in crisi, che cerca di tirarsi su. Un copione mica da film d’azione: roba da Bergman del Michigan.
Pero’, a quasi tutti quelli che l’hanno sentito, il discorso del presidente Barack Obama è piaciuto. E lui, per battere il ferro di un consenso che torna a crescergli intorno, dopo la sconfitta nelle elezioni di midterm del 2 novembre, è subito andato a portare il suo messaggio nel cuore dell’America che vuole lavorare e produrre, partendo dal Wisconsin, nonostante maltempo e tempeste di neve.
Gli strateghi della comunicazione della Casa Bianca puntano di nuovo sui social media, già sfruttati per la vittoria nelle presidenziali del 2008. Ora si tratta di fare passare fra la gente l’agenda politica del presidente, nonostante il Congresso sia diviso, la Camera ai repubblicani, il Senato ai democratici. L’offensiva su internet, puntata sulle elezioni del 2012, parte da Facebook, Twitter e Youtube, con una serie di appuntamenti virtuali in cui i cittadini potranno commentare il discorso di martedi’ e rivolgere a Obama domande: una sorta di prova generale della prossima campagna.
Che cosa è rimasto, agli americani, del messaggio del presidente? Delle 6.955 parole pronunciate, quella che ha più colpito non è «speranza», o «futuro»,o «innovazione», ma «salmone»: una battuta sull’Amministrazione che diversifica le proprie competenze su questi pesci tra mare aperto, acque dolci e ‘affumicati’. Se è tutto qui, c’è da restare delusi.
Ma in realtà il presidente ha detto molte cose che gli americani pensano siano vere, o che, comunque, amano credere lo siano. E ha usato un sacco di volte il ‘noi’, quel senso di appartenenza a una Nazione che lo ‘io’, il ‘voi’ e il ‘loro’ messi insieme non danno.
E, poi, Obama, che parlava a metà del suo mandato –è alla Casa Bianca da 740 giorni, ci resterà certamente altri 720-, ha spruzzato il suo discorso di riferimenti kennediani, a 50 anni e pochi giorni dall’insediamento a presidente di John Fitzgerald Kennedy, e ha riproposto agli americani la sfida dello Sputnik. Allora, si trattava di recuperare il ritardo nella corsa allo spazio sull’Unione sovietica, prima a lanciare un satellite intorno alla Terra –appunto, lo Sputnik- e prima a mettere un uomo in orbita, Yuri Gagarin. L’impresa riusci’: neppure nove anni dopo, gli americani sbarcavano sulla Luna, dove i russi non sono mai arrivati.
Adesso, si tratta di recuperare il ritardo nella crescita e nella dinamicità dell’economia, sulla Cina, sull’India, su quei Paesi, che non stanno in Europa, che hanno una marcia in più nella flessibilità e nell’imprenditorialità. E bisogna farlo non aggrappandosi al passato di un’industria ormai delocalizzata, ma puntando sull’innovazione.
Obama ha anche detto cose dure, ai suoi ‘cari americani’ : in un Paese che viveva davanti alla tv e ora vive davanti al computer, dove gli insegnanti di matematica arrivano dall’India, perchè qui pochi la studiano ancora, ha chiesto ai genitori di spegnere gli schermi e di non lasciare credere ai loro figli che il successo è quello delle starlette della tv e dei campioni dello sport, ma sta nello studio, nell’impegno, magari proprio sulle materie scientifiche.
E già questo è un messaggio che, a noi italiani, dovrebbe dare un brivido, specie di questi tempi, che, se non sei una velina, non ti fila nessuno. Ma Obama ha fatto un’altra cosa che a noi suona strana : non ha vantato i risultati conseguiti, le cose fatte –e, pure, qualche coppa in bacheca, nell’ultimo anno, l’ha messa-, ma ha parlato delle cose da fare, non solo nell’anno che viene, non solo nella seconda metà del suo mandato, ma negli anni a venire. Altro che ‘cortotermismo’ e miopia della politica.
Dicono che il presidente si sia irritato perchè una fuga di notizie ha costretto la Casa Bianca ad anticipare la diffusione del suo discorso. Ma i Wikileaks di turno non hanno fatto danni reali. E un’adesione al suo progetto è venuta, a sorpresa, ma non troppo, da Mosca: da ieri il Trattato Start è ratificato e puo’ diventare operativo, innescando una riduzione degli arsenali nucleari strategici. Una cosa fatta in più. Bene. Ma “noi –dice Obama- siamo americani: guardiamo alle cose da fare, guardiamo avanti”.
SPIGOLI: Battisti, l'inchiostro c'è, manca il fiato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/01/2011
La stampa francese non lesina il proprio inchiostro per Cesare Battisti: ne versa a iosa, e talora un po’ a sproposito, mentre i responsabili europei non trovano un filo di fiato per parlarne. Le Monde dedica quasi una pagina al dibattito tra innocentisti, un po’ a priori, e colpevolisti. In polemica con Antonio Tabucchi, Fred Vargas, ricercatrice e scrittrice, afferma che Battisti è stato «mal giudicato» e che chi l’appoggia vuole «fare emergere la verità». Simonetta Greggio, scrittrice, le replica che l’Italia, come Stato di diritto, «non è la Libia» e che «amnistia non significa amnesia». Gli intellettuali fanno sul serio. Invece, Lady Ashton, impalpabile capo della diplomazia europea, fa ammoina: riceve a Bruxelles il nuovo ministro degli esteri brasiliano Antonio Patriota, che la sceglie come prima interlocutrice fuori dall’America latina, e gli parla di tutto, ma proprio di tutto, meno che dell’estradizione del terrorista omicida. Ora, è vero che la Commissione europea ha sempre sostenuto, a tutti i livelli, che la questione Battisti è «un affare bilaterale», perchè non c’è un trattato di estradizione tra l’Ue e il Brasile. Ma la baronessa poteva almeno ricordare a Patriota che il Parlamento di Strasburgo, una settimana fa, ha votato a stragrande maggioranza l’appoggio all’estradizione. Forse, lady Ashton non vuole mettere un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’organizzazione della visita in Brasile la prossima primavera, o del Vertice Ue/Brasile il 4 ottobre. Poco efficace nella politica dell’intervento, la baronessa è maestra nella politica delle omissioni.
La stampa francese non lesina il proprio inchiostro per Cesare Battisti: ne versa a iosa, e talora un po’ a sproposito, mentre i responsabili europei non trovano un filo di fiato per parlarne. Le Monde dedica quasi una pagina al dibattito tra innocentisti, un po’ a priori, e colpevolisti. In polemica con Antonio Tabucchi, Fred Vargas, ricercatrice e scrittrice, afferma che Battisti è stato «mal giudicato» e che chi l’appoggia vuole «fare emergere la verità». Simonetta Greggio, scrittrice, le replica che l’Italia, come Stato di diritto, «non è la Libia» e che «amnistia non significa amnesia». Gli intellettuali fanno sul serio. Invece, Lady Ashton, impalpabile capo della diplomazia europea, fa ammoina: riceve a Bruxelles il nuovo ministro degli esteri brasiliano Antonio Patriota, che la sceglie come prima interlocutrice fuori dall’America latina, e gli parla di tutto, ma proprio di tutto, meno che dell’estradizione del terrorista omicida. Ora, è vero che la Commissione europea ha sempre sostenuto, a tutti i livelli, che la questione Battisti è «un affare bilaterale», perchè non c’è un trattato di estradizione tra l’Ue e il Brasile. Ma la baronessa poteva almeno ricordare a Patriota che il Parlamento di Strasburgo, una settimana fa, ha votato a stragrande maggioranza l’appoggio all’estradizione. Forse, lady Ashton non vuole mettere un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’organizzazione della visita in Brasile la prossima primavera, o del Vertice Ue/Brasile il 4 ottobre. Poco efficace nella politica dell’intervento, la baronessa è maestra nella politica delle omissioni.
USA: 2009-'10, più militari suicidi che caduti
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 27/01/2011
Da due anni in qua, il fuoco amico ne uccide più del fuoco nemico, in Afghanistan e in Iraq: non sulla linea del fronte, dove l’errore è in agguato, ma lontano dal fragore dei combattimenti, nel buio della propria camerata, nel profondo del proprio animo, dove la paura e il senso di colpa, l’ansia e l’angoscia, non ti lasciano scampo.
Nel 2010, i militari americani in servizio permanente effettivo morti suicidi sono stati «almeno 468», contro i 462 complessivamente caduti in azione, senza contare incidenti e malattie. E, nel 2009, i militari suicidi erano stati 381, anche allora un po’ più dei caduti in azione. I suicidi sono aumentati di circa un quarto, nell’anno più cruento in assoluto per le truppe al fronte in Afghanistan dall’inizio del conflitto l’8 ottobre 2001.
I dati li prendiamo da un articolo di John Donnelly, su Congress.org, il sito di CQ Weekly, pubblicazione specializzata nel seguire i processi decisionali del Congresso
–del problema dei suicidi in uniforme, senatori e deputati degli Stati Uniti si sono occupati a più riprese-. Donnelly ritocca un po’ al rialzo, in base a proprie ricerche e valutazioni, i numeri ufficiali delle Forze Armate, che nel 2010 situano i suicidi a 434.
Il giornalista spiega perchè le cifre ufficiali non sono affidabili al cento per cento e peccano per difetto, non certo in eccesso: le statistiche non sono uniformi e talune strutture militari sono riluttanti a riferirle. E poi c’è chi non conta i soldati che si suicidano dopo essere stati congedati, ma per gli strascichi che le missioni di guerra hanno lasciato dentro di loro. E, ancora, gli uomini della Guardia Nazionale e della riserva vanno contati solo quando si suicidano durante le fasi di servizio o sempre?
Al di là del modo di compilare le statistiche, pero’, l’aumento del numero dei suicidi è una misura dello stress che dieci anni di guerre ininterrotte, e circa 7.500 caduti, ma anche centinaia di migliaia di nemici eliminati e ‘vittime collaterali’, cioè civili uccisi, hanno accumulato sui militari americani. Lo si vede al cinema, ma lo si misura pure nella realtà di tutti i giorni.
E non basta a lenire l’ansia sapere, o leggere, che a Kabul il presidente Hamid Karzai ha finalmente insediato il Parlamento; o che a Washington il presidente Barack Obama ha confermato, nel discorso sullo Stato dell’Unione , che il ritiro delle truppe comincerà a luglio. Il suicidio dei soldati, quasi sempre, non è un modo per scappare dall’Afghanistan, o da dove si combatte, ma per scappare da se stessi, dopo essere stati dentro quella violenza, averla subita e averla imposta. La guerra uccide anche chi non la combatte più.
Da due anni in qua, il fuoco amico ne uccide più del fuoco nemico, in Afghanistan e in Iraq: non sulla linea del fronte, dove l’errore è in agguato, ma lontano dal fragore dei combattimenti, nel buio della propria camerata, nel profondo del proprio animo, dove la paura e il senso di colpa, l’ansia e l’angoscia, non ti lasciano scampo.
Nel 2010, i militari americani in servizio permanente effettivo morti suicidi sono stati «almeno 468», contro i 462 complessivamente caduti in azione, senza contare incidenti e malattie. E, nel 2009, i militari suicidi erano stati 381, anche allora un po’ più dei caduti in azione. I suicidi sono aumentati di circa un quarto, nell’anno più cruento in assoluto per le truppe al fronte in Afghanistan dall’inizio del conflitto l’8 ottobre 2001.
I dati li prendiamo da un articolo di John Donnelly, su Congress.org, il sito di CQ Weekly, pubblicazione specializzata nel seguire i processi decisionali del Congresso
–del problema dei suicidi in uniforme, senatori e deputati degli Stati Uniti si sono occupati a più riprese-. Donnelly ritocca un po’ al rialzo, in base a proprie ricerche e valutazioni, i numeri ufficiali delle Forze Armate, che nel 2010 situano i suicidi a 434.
Il giornalista spiega perchè le cifre ufficiali non sono affidabili al cento per cento e peccano per difetto, non certo in eccesso: le statistiche non sono uniformi e talune strutture militari sono riluttanti a riferirle. E poi c’è chi non conta i soldati che si suicidano dopo essere stati congedati, ma per gli strascichi che le missioni di guerra hanno lasciato dentro di loro. E, ancora, gli uomini della Guardia Nazionale e della riserva vanno contati solo quando si suicidano durante le fasi di servizio o sempre?
Al di là del modo di compilare le statistiche, pero’, l’aumento del numero dei suicidi è una misura dello stress che dieci anni di guerre ininterrotte, e circa 7.500 caduti, ma anche centinaia di migliaia di nemici eliminati e ‘vittime collaterali’, cioè civili uccisi, hanno accumulato sui militari americani. Lo si vede al cinema, ma lo si misura pure nella realtà di tutti i giorni.
E non basta a lenire l’ansia sapere, o leggere, che a Kabul il presidente Hamid Karzai ha finalmente insediato il Parlamento; o che a Washington il presidente Barack Obama ha confermato, nel discorso sullo Stato dell’Unione , che il ritiro delle truppe comincerà a luglio. Il suicidio dei soldati, quasi sempre, non è un modo per scappare dall’Afghanistan, o da dove si combatte, ma per scappare da se stessi, dopo essere stati dentro quella violenza, averla subita e averla imposta. La guerra uccide anche chi non la combatte più.
giovedì 27 gennaio 2011
SPIGOLI: dall'Impero a Rubylandia, il Vallum e l'onore
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/01/2011
Ci fu un tempo che degli italiani, leggasi –a quell’epoca- romani, mica si rideva troppo in giro: dove andavano, erano guai. Arrivavano, vedevano, vincevano e manco per sogno che se ne andavano: restavano lì, a farla da padroni. E quando c’era da tenere lontano il nemico, da sbarrargli la strada, gli venisse mai in mente di dare fastidio, ti costruivano un bel fossato, ma grande e largo da essere più difficile da superare della Muraglia Cinese. Oggi, quei tempi sono lontani: dove i romani, leggasi –ora- italiani, arrivano, è tutto un ammiccare: siamo quelli di Rubylandia. Ma il Telegraph di Londra ci tira su il morale: il Vallum Adriani, lo sbarramento costruito dall’imperatore Adriano al confine tra l’Inghilterra romana e la Scozia barbara, ci sta per restituire un po’ dell’usato valore. E’ proprio il momento per andarci, anzi per programmare una visita: meglio arrivarci in primavera, chè lassù la stagione è inclemente. Sta per uscire un film di cui il Vallum è perno, nuovi scavi vengono intrapresi e nove delle tavolette di Vindolandia, rari esempi di scrittura a inchiostro romana su legno, ritrovano la loro collocazione nel Museo dedicato alle legioni romani, che riapre dopo essere stato rinnovato. Il film, che è tratto da un racconto per bambini di Rosemary Sutcliff, “L’Aquila della Nona” (sottinteso Legione), è la storia di un giovane centurione, Marcus Aquila, che nel 140 dC vuole riscattare l’onore e recuperare le insegne della Nona Legione, comandata da suo padre e scomparsa in Scozia vent’anni prima.
Ci fu un tempo che degli italiani, leggasi –a quell’epoca- romani, mica si rideva troppo in giro: dove andavano, erano guai. Arrivavano, vedevano, vincevano e manco per sogno che se ne andavano: restavano lì, a farla da padroni. E quando c’era da tenere lontano il nemico, da sbarrargli la strada, gli venisse mai in mente di dare fastidio, ti costruivano un bel fossato, ma grande e largo da essere più difficile da superare della Muraglia Cinese. Oggi, quei tempi sono lontani: dove i romani, leggasi –ora- italiani, arrivano, è tutto un ammiccare: siamo quelli di Rubylandia. Ma il Telegraph di Londra ci tira su il morale: il Vallum Adriani, lo sbarramento costruito dall’imperatore Adriano al confine tra l’Inghilterra romana e la Scozia barbara, ci sta per restituire un po’ dell’usato valore. E’ proprio il momento per andarci, anzi per programmare una visita: meglio arrivarci in primavera, chè lassù la stagione è inclemente. Sta per uscire un film di cui il Vallum è perno, nuovi scavi vengono intrapresi e nove delle tavolette di Vindolandia, rari esempi di scrittura a inchiostro romana su legno, ritrovano la loro collocazione nel Museo dedicato alle legioni romani, che riapre dopo essere stato rinnovato. Il film, che è tratto da un racconto per bambini di Rosemary Sutcliff, “L’Aquila della Nona” (sottinteso Legione), è la storia di un giovane centurione, Marcus Aquila, che nel 140 dC vuole riscattare l’onore e recuperare le insegne della Nona Legione, comandata da suo padre e scomparsa in Scozia vent’anni prima.
mercoledì 26 gennaio 2011
Albania: Rama, lo scontro con Berisha non finisce qui
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/01/2011
“La condanna da parte dell’Italia, dell’Ue, della comunità internazionale del terrorismo di Stato” del premier Sali Berisha “è importante non per quello che è successo, ma per quello che può succedere”. A 48 ore dalla manifestazione annunciata per venerdì prossimo, “che sarà nel segno della non violenza”, Edi Rama, il capo dell’opposizione albanese, osserva, con insofferenza, in tv il premier sostenere che “il colpo di Stato” dei socialisti “non è ancora finito” (“Ma quale colpo
di Stato? Eravamo in piazza con ombrelli e cartelli”); riunire a rapporto i generali; ricevere e baciare i capi della Guardia nazionale che si rifiuta di fare arrestare nonostante l’ordine della magistratura; e preparare la contro-manifestazione di sabato (“Fame, forche e feste”, preconizza Rama, citando Gide).
Nel suo ufficio nella sede del Partito socialista, non lontano dal luogo della strage di venerdì, lo stradone davanti alla sede del governo dove tre manifestanti sono stati ammazzati dalle pallottole della Guardia nazionale, Rama ammette che il suo appello all’Italia, all’Ue, perché condannino il terrorismo di Stato di Berisha (che non è violenza generica”, chiarisce), ha avuto scarsa eco: una dichiarazione della Farnesina, sollecitata dalle agenzie di stampa; un messaggio di solidarietà dal Pd (senza la firma d’un leader). Fuori dal suo studio, c’è Marco Pannella: “Sono venuto qui di corsa”, dice il vecchio leader radicale giunto a incoraggiare una ‘non violenza’ non imbelle.
“Capisco un atteggiamento di prudenza a livello internazionale –afferma Rama-: in questa fase, il riserbo è comprensibile. Ma, poi, ci vorrà chiarezza. Ed è naturale che ci aspettiamo una condanna di quanto avvenuto: quegli agenti che hanno sparato sono stati addestrati ed equipaggiati con soldi e istruttori italiani ed europei. Di recente, abbiamo visto proteste pure peggiori di quella albanese a Roma, a Londra, ad Atene, ma non ci sono stati morti, la polizia non ha sparato”.
Artista e figlio di artista, Rama, 47 anni, sindaco di Tirana, è di una generazione successiva a quella dei Berisha e dei Fatos Nano, che hanno egemonizzato la vita politica albanese nei vent’anni successivi alla caduta del regime comunista. Con Berisha, non parla direttamente da mesi, fatte salve le occasioni d’incontro collettive innescate da delegazioni internazionali: con il premier, i motivi d’astio, anche personali, non mancano e datano di oltre dieci anni or sono.
Italiano forbito, molto alto, barba curata, vestito elegante, gilet, scarpe nere d’un lucido brillante, Rama ripercorre le vicende più recenti dell’Albania, lo scandalo di corruzione che ha minato la coesione della compagine governativa e ha suscitato, il 20 gennaio, la protesta divenuta tragedia: “Quello di Berisha non è un governo, ma un regime, che ha rubato le elezioni, negato un’inchiesta sui risultati, bruciato le schede e secretato i verbali degli scrutini”. E poi rievoca la manifestazione di venerdì scorso, la “provocazione” –dice- delle forze dell’ordine” scattata quando lui era a poche centinaia di metri dal fronte della protesta e stava raggiungendolo, l’immagine “da regime canaglia” degli agenti della Guardia Nazionale che sparano.
“Non sono né deluso né scoraggiato dall’atteggiamento internazionale: so che l’Albania non è l’ombelico del mondo”. E un gesto di sostegno gli viene dagli Stati Uniti: l’ambasciatore di Washington dichiara pieno appoggio alla magistratura albanese, con un gesto che sconfessa l’atteggiamento di Berisha. E l’Italia? “E’ naturale, per noi, guardare all’Italia, che è stata la nostra America per tanti anni, quando conoscere i versi di una canzone di Celentano era un atto di dissidenza enorme e quando i notiziari radio e tv della Rai erano segnali di libertà. E l’Italia è poi sempre stata vicina all’Albania, quale che fosse il governo”. Rama vuole che lo resti anche nel ‘dopo Berisha’.
“La condanna da parte dell’Italia, dell’Ue, della comunità internazionale del terrorismo di Stato” del premier Sali Berisha “è importante non per quello che è successo, ma per quello che può succedere”. A 48 ore dalla manifestazione annunciata per venerdì prossimo, “che sarà nel segno della non violenza”, Edi Rama, il capo dell’opposizione albanese, osserva, con insofferenza, in tv il premier sostenere che “il colpo di Stato” dei socialisti “non è ancora finito” (“Ma quale colpo
di Stato? Eravamo in piazza con ombrelli e cartelli”); riunire a rapporto i generali; ricevere e baciare i capi della Guardia nazionale che si rifiuta di fare arrestare nonostante l’ordine della magistratura; e preparare la contro-manifestazione di sabato (“Fame, forche e feste”, preconizza Rama, citando Gide).
Nel suo ufficio nella sede del Partito socialista, non lontano dal luogo della strage di venerdì, lo stradone davanti alla sede del governo dove tre manifestanti sono stati ammazzati dalle pallottole della Guardia nazionale, Rama ammette che il suo appello all’Italia, all’Ue, perché condannino il terrorismo di Stato di Berisha (che non è violenza generica”, chiarisce), ha avuto scarsa eco: una dichiarazione della Farnesina, sollecitata dalle agenzie di stampa; un messaggio di solidarietà dal Pd (senza la firma d’un leader). Fuori dal suo studio, c’è Marco Pannella: “Sono venuto qui di corsa”, dice il vecchio leader radicale giunto a incoraggiare una ‘non violenza’ non imbelle.
“Capisco un atteggiamento di prudenza a livello internazionale –afferma Rama-: in questa fase, il riserbo è comprensibile. Ma, poi, ci vorrà chiarezza. Ed è naturale che ci aspettiamo una condanna di quanto avvenuto: quegli agenti che hanno sparato sono stati addestrati ed equipaggiati con soldi e istruttori italiani ed europei. Di recente, abbiamo visto proteste pure peggiori di quella albanese a Roma, a Londra, ad Atene, ma non ci sono stati morti, la polizia non ha sparato”.
Artista e figlio di artista, Rama, 47 anni, sindaco di Tirana, è di una generazione successiva a quella dei Berisha e dei Fatos Nano, che hanno egemonizzato la vita politica albanese nei vent’anni successivi alla caduta del regime comunista. Con Berisha, non parla direttamente da mesi, fatte salve le occasioni d’incontro collettive innescate da delegazioni internazionali: con il premier, i motivi d’astio, anche personali, non mancano e datano di oltre dieci anni or sono.
Italiano forbito, molto alto, barba curata, vestito elegante, gilet, scarpe nere d’un lucido brillante, Rama ripercorre le vicende più recenti dell’Albania, lo scandalo di corruzione che ha minato la coesione della compagine governativa e ha suscitato, il 20 gennaio, la protesta divenuta tragedia: “Quello di Berisha non è un governo, ma un regime, che ha rubato le elezioni, negato un’inchiesta sui risultati, bruciato le schede e secretato i verbali degli scrutini”. E poi rievoca la manifestazione di venerdì scorso, la “provocazione” –dice- delle forze dell’ordine” scattata quando lui era a poche centinaia di metri dal fronte della protesta e stava raggiungendolo, l’immagine “da regime canaglia” degli agenti della Guardia Nazionale che sparano.
“Non sono né deluso né scoraggiato dall’atteggiamento internazionale: so che l’Albania non è l’ombelico del mondo”. E un gesto di sostegno gli viene dagli Stati Uniti: l’ambasciatore di Washington dichiara pieno appoggio alla magistratura albanese, con un gesto che sconfessa l’atteggiamento di Berisha. E l’Italia? “E’ naturale, per noi, guardare all’Italia, che è stata la nostra America per tanti anni, quando conoscere i versi di una canzone di Celentano era un atto di dissidenza enorme e quando i notiziari radio e tv della Rai erano segnali di libertà. E l’Italia è poi sempre stata vicina all’Albania, quale che fosse il governo”. Rama vuole che lo resti anche nel ‘dopo Berisha’.
SPIGOLI: una telefonata con insulti val più d'una predica
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/01/2011
La telefonata con insulti in diretta di Silvio Berlusconi al talk show di Gad Lerner su La7 consente al Rubygate di restare alto nell’attenzione della stampa internazionale, persino più dell’intervento del presidente della Cei, il cardinale Bagnasco, che i corrispondenti esteri leggono con attenzione, ma senza deferenza. Dalle cronache della vicenda, dominate dalle ‘ragazze del bunga-bunga’, emergono qua e là personaggi di contorno come Emma Marcecaglia –“l’altra Italia che va a letto presto e che si alza presto per andare a lavorare” è molto piaciuto a Les Echos-, Emma Bonino (“L’Italia ha diritto a un premier rispettato”, dice alla Bbc), o Marina Berlusconi, cui, dopo la sortita anti-Saviano, Abc dedica un servizio in tandem con Martine Le Pen (“L’ambizione nasce in casa”). La piazzata televisiva del Cavaliere furioso ridà attualità al NYT di lunedì (“Una soap opera –titolava- con Berlusconi star”) e impressiona, soprattutto, la stampa spagnola: Abc, El Economista, El Mundo, che vede un “'Italia che si ribella”. Oltre la cronaca, El Pais ha un reportage ‘sinuoso’: “Le curve prima del curriculum”. Sull’intervento di Bagnasco, colpisce la differenza d’analisi tra media italiani e internazionali: i primi sezionano i passaggi del messaggio pro e contro; i secondi recepiscono solo “la censura della Chiesa” al premier, da cui “esige disciplina morale”: Bbc, Times, Telegraph, NouvelObs, i giornali spagnoli, l’Ap, il NYT, chi ne parla non ha dubbi. Diverso il tono del Guardian, che in un commento scrive: “Il premier è nello scandalo fino al collo, ma non lo si direbbe dai sondaggi. Il problema è chi potrebbe sostituirlo”. Un problema per noi; un atout per lui.
La telefonata con insulti in diretta di Silvio Berlusconi al talk show di Gad Lerner su La7 consente al Rubygate di restare alto nell’attenzione della stampa internazionale, persino più dell’intervento del presidente della Cei, il cardinale Bagnasco, che i corrispondenti esteri leggono con attenzione, ma senza deferenza. Dalle cronache della vicenda, dominate dalle ‘ragazze del bunga-bunga’, emergono qua e là personaggi di contorno come Emma Marcecaglia –“l’altra Italia che va a letto presto e che si alza presto per andare a lavorare” è molto piaciuto a Les Echos-, Emma Bonino (“L’Italia ha diritto a un premier rispettato”, dice alla Bbc), o Marina Berlusconi, cui, dopo la sortita anti-Saviano, Abc dedica un servizio in tandem con Martine Le Pen (“L’ambizione nasce in casa”). La piazzata televisiva del Cavaliere furioso ridà attualità al NYT di lunedì (“Una soap opera –titolava- con Berlusconi star”) e impressiona, soprattutto, la stampa spagnola: Abc, El Economista, El Mundo, che vede un “'Italia che si ribella”. Oltre la cronaca, El Pais ha un reportage ‘sinuoso’: “Le curve prima del curriculum”. Sull’intervento di Bagnasco, colpisce la differenza d’analisi tra media italiani e internazionali: i primi sezionano i passaggi del messaggio pro e contro; i secondi recepiscono solo “la censura della Chiesa” al premier, da cui “esige disciplina morale”: Bbc, Times, Telegraph, NouvelObs, i giornali spagnoli, l’Ap, il NYT, chi ne parla non ha dubbi. Diverso il tono del Guardian, che in un commento scrive: “Il premier è nello scandalo fino al collo, ma non lo si direbbe dai sondaggi. Il problema è chi potrebbe sostituirlo”. Un problema per noi; un atout per lui.
martedì 25 gennaio 2011
Albania: Tirana aspetta il prossimo round tra dubbi e paure
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/01/2011
Leonardo è un uomo non più giovane, ancora attivo, capelli bianchi e occhiali, l’aria un po’ da zio: forse, non un mite; certo, non un violento. Venerdì scorso, era in piazza a Tirana, a manifestare davanti alla sede del governo: “Eravamo tutta gente comune –racconta-, persone qualunque, non c’erano i leader politici: protestavamo contro la corruzione, ma il clima era tranquillo ... Poi ho sentito gli spari: pensavo fossero a salve, invece erano pallottole vere: hanno fatto tre morti, c’erano dei feriti”.
Ieri, Tirana era tesa, ma tranquilla: una pioggia battente, l’aria tagliente, il cielo basso che toccava terra a un giro d’orizzonte ravvicinatissimo, tutto avrebbe indotto la gente della capitale a starsene ben riparata, al caldo, anche se la manifestazione, inizialmente prevista per lunedì, non fosse stata rinviata a venerdì. E, allora, ci saranno i politici, in primo piano il leader socialista, Eli Rama, sindaco di Tirana, che oggi ha lanciato un appello all’Italia, all’Ue e alla comunità internazionale perché mostrino interesse e condannino la “violenza di Stato”: “I contestatori arrestati sono stati malmenati e non hanno potuto ricevere visite in carcere”. Sabato sarà il premier Sali Berisha a mobilitare i suoi sostenitori: “Non tollereremo altre violenze”, dice. E, dopo il video dell’agente che spara, ne spunta uno contrapposto di un facinoroso armato.
Ovunque in città, anche sui luoghi della sommossa, il traffico è normale, magari un po’ intasato causa maltempo. Poliziotti in giro pochi, comunque non più del solito: la città non vive uno stato d’assedio. Ma la gente non parla d’altro. E le opinioni sono vivaci. E diversissime. All’Università, gli studenti avanzano dubbi di natura diversa su tutto quanto è successo: loro in piazza non c’erano e qualcuno pare disilluso al limite del qualunquismo da vent’anni, i suoi vent’anni, di alternanza nella corruzione. C’è chi dubita della vicenda di bustarelle all’origine della manifestazione di venerdì –una messinscena?-; c’è chi rimprovera a Rama di avere organizzato la protesta, ma di non averla poi guidata; c’è chi parla di provocazione dei contestatori nei confronti delle forze dell’ordine; c’è chi denuncia una trappola delle Guardia repubblicana, i pretoriano del premier, nei confronti dei manifestanti. Sospetti, non fatti. Chiacchiere, non certezze.
E venerdì, e sabato, che cosa succederà? Più che di paura, l’attesa si carica di scetticismo: “In Albania, è facile fare scendere la gente in piazza”, dice un giovane, che si ricorda di avere già partecipato, sulle spalle del padre, quand’era piccino, ai cortei contro il regime comunista. “Noi albanesi –prosegue-, appena possiamo, protestiamo, contro Berisha e poi contro i socialisti e poi di nuovo contro Berisha”. Ma, alla fine, “le proteste non lasciano il segno: al potere, ci sono sempre gli stessi, sempre corrotti”.
Se i ragazzi sono confusi, pronti a scornarsi tra di loro, un’insegnante ha le idee chiare. Denuncia l’eclissi dello stato di diritto dietro la decisione del governo di non fare rispettare l’ordine emanato dalla magistratura di arresto dei responsabili degli spari di venerdì, sei elementi della Guardia repubblicana: “E’ un colpo di mano –dice-, un colpo di Stato”. E lamenta la disattenzione, o il disinteresse, delle organizzazioni internazionali.
Che di Albania e di albanesi, in realtà, si occupano: con dichiarazioni, ma anche nei tribunali. E, ieri, c’è stato un consulto di ambasciatori a Tirana. Berisha, giovedì, sarà a Strasburgo, al Consiglio d’Europa: andrà a difendere il premier kosovaro Hashim Thaci dalle accuse di traffico d’organi, davanti alla Corte dei diritti dell’uomo. Rispetto alla violenza assassina di venerdì, il clima di questo lunedì sembra più essere quello di una guerra di parole, come se dietro le quinte si stia negoziando una via d’uscitad a questo intreccio di tensioni e rivendicazioni, che nasce dalle elezioni politiche contestate del 2009, ma che in realtà attraversano tutta la storia dell’Albania repubblicana post-comunista.
Berisha non vuole l’arresto delle Guardie che hanno sparato, nonostante vi siano filmati che ne provano la responsabilità. Ma il punto, chiaramente, non è questo (o, almeno, non è solo questo): l’opposizione sente che l’equilibrio del potere potrebbe cambiare di campo, il governo lo teme. E gli uni e gli altri, a parole, s’arroccano.
Leonardo è un uomo non più giovane, ancora attivo, capelli bianchi e occhiali, l’aria un po’ da zio: forse, non un mite; certo, non un violento. Venerdì scorso, era in piazza a Tirana, a manifestare davanti alla sede del governo: “Eravamo tutta gente comune –racconta-, persone qualunque, non c’erano i leader politici: protestavamo contro la corruzione, ma il clima era tranquillo ... Poi ho sentito gli spari: pensavo fossero a salve, invece erano pallottole vere: hanno fatto tre morti, c’erano dei feriti”.
Ieri, Tirana era tesa, ma tranquilla: una pioggia battente, l’aria tagliente, il cielo basso che toccava terra a un giro d’orizzonte ravvicinatissimo, tutto avrebbe indotto la gente della capitale a starsene ben riparata, al caldo, anche se la manifestazione, inizialmente prevista per lunedì, non fosse stata rinviata a venerdì. E, allora, ci saranno i politici, in primo piano il leader socialista, Eli Rama, sindaco di Tirana, che oggi ha lanciato un appello all’Italia, all’Ue e alla comunità internazionale perché mostrino interesse e condannino la “violenza di Stato”: “I contestatori arrestati sono stati malmenati e non hanno potuto ricevere visite in carcere”. Sabato sarà il premier Sali Berisha a mobilitare i suoi sostenitori: “Non tollereremo altre violenze”, dice. E, dopo il video dell’agente che spara, ne spunta uno contrapposto di un facinoroso armato.
Ovunque in città, anche sui luoghi della sommossa, il traffico è normale, magari un po’ intasato causa maltempo. Poliziotti in giro pochi, comunque non più del solito: la città non vive uno stato d’assedio. Ma la gente non parla d’altro. E le opinioni sono vivaci. E diversissime. All’Università, gli studenti avanzano dubbi di natura diversa su tutto quanto è successo: loro in piazza non c’erano e qualcuno pare disilluso al limite del qualunquismo da vent’anni, i suoi vent’anni, di alternanza nella corruzione. C’è chi dubita della vicenda di bustarelle all’origine della manifestazione di venerdì –una messinscena?-; c’è chi rimprovera a Rama di avere organizzato la protesta, ma di non averla poi guidata; c’è chi parla di provocazione dei contestatori nei confronti delle forze dell’ordine; c’è chi denuncia una trappola delle Guardia repubblicana, i pretoriano del premier, nei confronti dei manifestanti. Sospetti, non fatti. Chiacchiere, non certezze.
E venerdì, e sabato, che cosa succederà? Più che di paura, l’attesa si carica di scetticismo: “In Albania, è facile fare scendere la gente in piazza”, dice un giovane, che si ricorda di avere già partecipato, sulle spalle del padre, quand’era piccino, ai cortei contro il regime comunista. “Noi albanesi –prosegue-, appena possiamo, protestiamo, contro Berisha e poi contro i socialisti e poi di nuovo contro Berisha”. Ma, alla fine, “le proteste non lasciano il segno: al potere, ci sono sempre gli stessi, sempre corrotti”.
Se i ragazzi sono confusi, pronti a scornarsi tra di loro, un’insegnante ha le idee chiare. Denuncia l’eclissi dello stato di diritto dietro la decisione del governo di non fare rispettare l’ordine emanato dalla magistratura di arresto dei responsabili degli spari di venerdì, sei elementi della Guardia repubblicana: “E’ un colpo di mano –dice-, un colpo di Stato”. E lamenta la disattenzione, o il disinteresse, delle organizzazioni internazionali.
Che di Albania e di albanesi, in realtà, si occupano: con dichiarazioni, ma anche nei tribunali. E, ieri, c’è stato un consulto di ambasciatori a Tirana. Berisha, giovedì, sarà a Strasburgo, al Consiglio d’Europa: andrà a difendere il premier kosovaro Hashim Thaci dalle accuse di traffico d’organi, davanti alla Corte dei diritti dell’uomo. Rispetto alla violenza assassina di venerdì, il clima di questo lunedì sembra più essere quello di una guerra di parole, come se dietro le quinte si stia negoziando una via d’uscitad a questo intreccio di tensioni e rivendicazioni, che nasce dalle elezioni politiche contestate del 2009, ma che in realtà attraversano tutta la storia dell’Albania repubblicana post-comunista.
Berisha non vuole l’arresto delle Guardie che hanno sparato, nonostante vi siano filmati che ne provano la responsabilità. Ma il punto, chiaramente, non è questo (o, almeno, non è solo questo): l’opposizione sente che l’equilibrio del potere potrebbe cambiare di campo, il governo lo teme. E gli uni e gli altri, a parole, s’arroccano.
SPIGOLI: il veleno del boia negli Usa non sarà italiano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/01/2011
La fabbrica delle iniezioni della morte apre un impianto in Italia, ma assicura che i farmaci che vi saranno prodotti non saranno utilizzati nelle esecuzioni ‘indolori’ negli Stati Uniti. Lanciata dalla Ap, la storia finisce sul Washington Post e su molti altri siti Usa; e l’Italia si conferma prima della classe dell’abolizionismo mondiale della pena capitale. Sollecitata dalle autorità, la Hospira, che ha di recente inaugurato uno stabilimento a Liscate, nei pressi di Milano, ha annunciato che intende sospendervi la produzione di Pentothal, il potente anestetico utilizzato in molti Stati dell’Unione nelle iniezioni letali, il cui carattere ‘umano’ e indolore è stato di recente contestato da esperti e condannati –c’è chi preferisce finire sulla sedia elettrica, o essere fucilato-. Alle Nazioni Unite, l’Italia è il principale promotore della moratoria universale della pena di morte: sarebbe parso contraddittorio “rifornire i boia statunitensi della materia prima per eseguire le condanne”, rileva Galileo, giornale della scienza online. Per il governo, s’è mosso il ministro degli esteri Franco Frattini; ha chiesto alla Hospira garanzie che il pentothal prodotto in Italia non finisca nei penitenziari d’America. La risposta è stata chiara: “Hospira non intende incorrere nell'eventualità di risultare inadempiente verso le autorità italiane qualora il prodotto venisse infine utilizzato nelle procedure per la pena di morte. Hospira vuole assolutamente evitare di esporre i propri dipendenti e l'azienda nel suo complesso a questo rischio". Salvi i posti di lavoro; i condannati, no: loro moriranno con Pentothal d’altrove, o senza iniezione.
La fabbrica delle iniezioni della morte apre un impianto in Italia, ma assicura che i farmaci che vi saranno prodotti non saranno utilizzati nelle esecuzioni ‘indolori’ negli Stati Uniti. Lanciata dalla Ap, la storia finisce sul Washington Post e su molti altri siti Usa; e l’Italia si conferma prima della classe dell’abolizionismo mondiale della pena capitale. Sollecitata dalle autorità, la Hospira, che ha di recente inaugurato uno stabilimento a Liscate, nei pressi di Milano, ha annunciato che intende sospendervi la produzione di Pentothal, il potente anestetico utilizzato in molti Stati dell’Unione nelle iniezioni letali, il cui carattere ‘umano’ e indolore è stato di recente contestato da esperti e condannati –c’è chi preferisce finire sulla sedia elettrica, o essere fucilato-. Alle Nazioni Unite, l’Italia è il principale promotore della moratoria universale della pena di morte: sarebbe parso contraddittorio “rifornire i boia statunitensi della materia prima per eseguire le condanne”, rileva Galileo, giornale della scienza online. Per il governo, s’è mosso il ministro degli esteri Franco Frattini; ha chiesto alla Hospira garanzie che il pentothal prodotto in Italia non finisca nei penitenziari d’America. La risposta è stata chiara: “Hospira non intende incorrere nell'eventualità di risultare inadempiente verso le autorità italiane qualora il prodotto venisse infine utilizzato nelle procedure per la pena di morte. Hospira vuole assolutamente evitare di esporre i propri dipendenti e l'azienda nel suo complesso a questo rischio". Salvi i posti di lavoro; i condannati, no: loro moriranno con Pentothal d’altrove, o senza iniezione.
domenica 23 gennaio 2011
Albania: Berisha, un altro 'pappa e ciccia' con Mr B nei guai
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/01/2011
E’ davvero un momentaccio, per quelli ‘pappa e ciccia’ con il Cavaliere. Il tunisino Ben Ali cacciato dal suo Paese e spogliato dei propri beni dalla comunità internazionale (anche l’Ue s’appresta a bloccargli i beni) –ma intanto s’è capito che era un ‘amico del giaguaro’: stava nell’Internazionale socialista e Mr B può quindi fare il pilato. Il bielorusso Aleksander Lukashenko, dopo le elezioni di dicembre e la repressione dell’opposizione, sta per essere dichiarato ‘persona non grata’ dai 27, nonostante l’ammirazione dichiaratagli da Silvio nostro. L’albanese Sali Berisha, uno da vent’anni sempre dentro e fuori il potere, più o meno come Berlusconi in Italia, sull’orlo d’una crisi ancora indefinita: lui sempre pronto a scusare le cadute di stile del Cavaliere, di cui condivide il gusto per la teatralità dei gesti. Nella cerchia di satrapi, dittatori, oligarchi buoni amici di Mr B, tutti con l’aggravante della corruzione, se la passano bene, per ora, solo il libico Gheddafi e il russo Putin, perché Berlusconi stesso ha avuto –diciamocelo- momenti migliori.
Sali Berisha, 66 anni, fisico da attore tra Clark Gable e Harrison Ford, cardiologo, era fra i medici di Enver Oxha nell’epoca vetero-comunista, quando la maggiore attività economicaalbanese era la costruzione di una miriade di ‘bunker’ familiari, per ostacolare un’invasione che non sarebbe mai venuta. Prima della caduta del regime, alla fine del 1990, Berisha si scopre una vocazione anti-comunista, dopo essere stato responsabile della cellula del Partito del Lavoro nell’ospedale
di Tirana.
Le cose vanno in fretta: fonda il Partito democratico, diventa il leader del movimento di studenti e intellettuali contro l’ultimo governo comunista rimasto in Europa. Nel 1992, vince le elezioni; e, nel 1996, vince di nuovo. Sono gli anni dell’Italia come ‘Amerika’, dei gommoni e degli scafisti, della crisi e della miseria. Nel 1997, uno scandalo da catena di sant’Antonio finanziaria lo travolge: si torna alle urne e il suo rivale Fatos Nano, leader socialista, da lui fatto imprigionare con l’accusa di corruzione, lo batte e lo caccia dal potere.
L’esilio dura otto anni. Nel 2005, Berisha vince di nuovo: promette un governo dalle ‘mani pulite’, ma in realtà dove ci sono affari ha sempre le mani in pasta. Le comunali del 2007 vedono emergere il suo attuale rivale, il sindaco socialista di Tirana Edi Rama, 46 anni. Ma nelle politiche del 2009 vince ancora di misura, tra sospetti di brogli. Si apre una fase di tensioni mai sanate.
In Italia, Berisha è di casa. Quando lo riceve a Palazzo Chigi, un anno fa, il 12 febbraio, Berlusconi si propone come ‘pacificatore’ a Tirana, dove l’opposizione diserta il Parlamento; e ipotizza, scherzando, un’eccezione alla moratoria degli sbarchi per “le belle ragazze”. Mr B e “l’amico Sali” si fanno fotografare “con le giovani croniste”, tanto –dice il nostro- “si sa che io sono single”. Ci sono polemiche, ma Berisha assolve il “grande amico”: “Era solo un complimento alle graziose giornaliste giunte da Tirana”.
Berisha era a Roma anche il 15 dicembre, per celebrare l’abolizione dei visti per gli albanesi nell’area Schengen, uno dei suoi successi internazionali, con l’adesione dell’Albania alla Nato e l’avvio del percorso di adesione all’Ue. Ed era a Milano in settimana, per un Forum economico, mentre a Tirana covava la rivolta.
E’ davvero un momentaccio, per quelli ‘pappa e ciccia’ con il Cavaliere. Il tunisino Ben Ali cacciato dal suo Paese e spogliato dei propri beni dalla comunità internazionale (anche l’Ue s’appresta a bloccargli i beni) –ma intanto s’è capito che era un ‘amico del giaguaro’: stava nell’Internazionale socialista e Mr B può quindi fare il pilato. Il bielorusso Aleksander Lukashenko, dopo le elezioni di dicembre e la repressione dell’opposizione, sta per essere dichiarato ‘persona non grata’ dai 27, nonostante l’ammirazione dichiaratagli da Silvio nostro. L’albanese Sali Berisha, uno da vent’anni sempre dentro e fuori il potere, più o meno come Berlusconi in Italia, sull’orlo d’una crisi ancora indefinita: lui sempre pronto a scusare le cadute di stile del Cavaliere, di cui condivide il gusto per la teatralità dei gesti. Nella cerchia di satrapi, dittatori, oligarchi buoni amici di Mr B, tutti con l’aggravante della corruzione, se la passano bene, per ora, solo il libico Gheddafi e il russo Putin, perché Berlusconi stesso ha avuto –diciamocelo- momenti migliori.
Sali Berisha, 66 anni, fisico da attore tra Clark Gable e Harrison Ford, cardiologo, era fra i medici di Enver Oxha nell’epoca vetero-comunista, quando la maggiore attività economicaalbanese era la costruzione di una miriade di ‘bunker’ familiari, per ostacolare un’invasione che non sarebbe mai venuta. Prima della caduta del regime, alla fine del 1990, Berisha si scopre una vocazione anti-comunista, dopo essere stato responsabile della cellula del Partito del Lavoro nell’ospedale
di Tirana.
Le cose vanno in fretta: fonda il Partito democratico, diventa il leader del movimento di studenti e intellettuali contro l’ultimo governo comunista rimasto in Europa. Nel 1992, vince le elezioni; e, nel 1996, vince di nuovo. Sono gli anni dell’Italia come ‘Amerika’, dei gommoni e degli scafisti, della crisi e della miseria. Nel 1997, uno scandalo da catena di sant’Antonio finanziaria lo travolge: si torna alle urne e il suo rivale Fatos Nano, leader socialista, da lui fatto imprigionare con l’accusa di corruzione, lo batte e lo caccia dal potere.
L’esilio dura otto anni. Nel 2005, Berisha vince di nuovo: promette un governo dalle ‘mani pulite’, ma in realtà dove ci sono affari ha sempre le mani in pasta. Le comunali del 2007 vedono emergere il suo attuale rivale, il sindaco socialista di Tirana Edi Rama, 46 anni. Ma nelle politiche del 2009 vince ancora di misura, tra sospetti di brogli. Si apre una fase di tensioni mai sanate.
In Italia, Berisha è di casa. Quando lo riceve a Palazzo Chigi, un anno fa, il 12 febbraio, Berlusconi si propone come ‘pacificatore’ a Tirana, dove l’opposizione diserta il Parlamento; e ipotizza, scherzando, un’eccezione alla moratoria degli sbarchi per “le belle ragazze”. Mr B e “l’amico Sali” si fanno fotografare “con le giovani croniste”, tanto –dice il nostro- “si sa che io sono single”. Ci sono polemiche, ma Berisha assolve il “grande amico”: “Era solo un complimento alle graziose giornaliste giunte da Tirana”.
Berisha era a Roma anche il 15 dicembre, per celebrare l’abolizione dei visti per gli albanesi nell’area Schengen, uno dei suoi successi internazionali, con l’adesione dell’Albania alla Nato e l’avvio del percorso di adesione all’Ue. Ed era a Milano in settimana, per un Forum economico, mentre a Tirana covava la rivolta.
SPIGOLI: le Ferrari del padre del campione è oro per l'Italia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/01/2011
E brava la polizia di Alassio, la località del Muretto, sulla Riviera, in provincia di Savona: quando John Button, 65 anni, pilota di rally in pensione, cittadino di Sua Maestà, ma soprattutto padre di Jenson, campione del Mondo di F1 nel 2009, s’è presentato a denunciare il furto della sua Ferrari, non è stata con le mani in mano: allarme a tutte le auto, perché quella 550 Maranello rossa con la targa del Principato di Monaco non poteva passare inosservata. Ma John, che era in giro per fare acquisti e per spassarsela un po’, era ripartito ugualmente abbacchiato per MonteCarlo, dove vive con Jenson, che lo aspettava per festeggiare il 31.o compleanno. E, invece, il giorno dopo, ecco la telefonata che non t’aspetto e che vale oro –quell’auto, nuova, vale più di 150mila euro-: la sua Ferrari era stata ritrovata, intatta, chiusa a chiave. Proprio come, e dove, lui l’aveva parcheggiata, sul lungomare, non esattamente di fronte all’hotel, il lussuoso 5 stelle Grand Hotel Mediterranée, ma un chilometro più in là. Solo che John l’aveva poi cercata altrove e, non trovandola, aveva subito pensato al furto. La disavventura a lieto fine del vecchio pilota, che ha ovviamente conquistato la stampa britannica, in primo luogo il Daily Mail, s’è risolta in una doppia buona pubblicità italica: una polizia reattiva ed efficace; e una Ferrari capace di affascinare anche il padre del campione del Mondo con la Brawn poi passato alla McLaren.
E brava la polizia di Alassio, la località del Muretto, sulla Riviera, in provincia di Savona: quando John Button, 65 anni, pilota di rally in pensione, cittadino di Sua Maestà, ma soprattutto padre di Jenson, campione del Mondo di F1 nel 2009, s’è presentato a denunciare il furto della sua Ferrari, non è stata con le mani in mano: allarme a tutte le auto, perché quella 550 Maranello rossa con la targa del Principato di Monaco non poteva passare inosservata. Ma John, che era in giro per fare acquisti e per spassarsela un po’, era ripartito ugualmente abbacchiato per MonteCarlo, dove vive con Jenson, che lo aspettava per festeggiare il 31.o compleanno. E, invece, il giorno dopo, ecco la telefonata che non t’aspetto e che vale oro –quell’auto, nuova, vale più di 150mila euro-: la sua Ferrari era stata ritrovata, intatta, chiusa a chiave. Proprio come, e dove, lui l’aveva parcheggiata, sul lungomare, non esattamente di fronte all’hotel, il lussuoso 5 stelle Grand Hotel Mediterranée, ma un chilometro più in là. Solo che John l’aveva poi cercata altrove e, non trovandola, aveva subito pensato al furto. La disavventura a lieto fine del vecchio pilota, che ha ovviamente conquistato la stampa britannica, in primo luogo il Daily Mail, s’è risolta in una doppia buona pubblicità italica: una polizia reattiva ed efficace; e una Ferrari capace di affascinare anche il padre del campione del Mondo con la Brawn poi passato alla McLaren.
sabato 22 gennaio 2011
SPIGOLI: c'è più Padania in America che in Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2011
Sorpresa: c’è più Padania in America che in Europa. O, almeno, si dà più credito là che qua alle velleità d’indipendenza leghiste. Magari, è solo una prova in più che gli americani sono degli ingenuotti: se gli dici una cosa, ci credono. In una delle sue settimanali classifiche (un po’) demenziali, il Time mette la Padania al nono posto nell’elenco delle dieci ‘aspiranti nazioni’ più significative al Mondo, mentre uno studio internazionale portato a Bruxelles da eurodeputati catalani la trascura. Il Time apre la sua ‘hit parade’ delle indipendenze prossime venture con la Scozia, seguita da Paesi Baschi, Tibet, Ossezia del Sud, Kurdistan, Quebec e Sahara occidentale. Fin qui, tutto bene, per quanto improbabile. Ma poi l’elenco diventa goliardico, con la Repubblica di Cascadia (dove sta ?, sul Pacifico, tra l’Oregon negli Usa e la Columbia in Canada, una sorta di ‘federazione’ tra Seattle e Vancouver di cui, sinceramente, non avevo mai sentito parlare) e la Repubblica del Vermont, dall’impronta ostinatamente libertaria, nel New England. Tra Cascadia e Vermont, c’è la Padania, cui manca una tradizione d’indipendenza. Ed, infatti, lo studio condotto da 21 Atenei di tutto il Mondo e presentato al Parlamento europeo preconizza “una quarta ondata” di indipendenze e cita il Quebec e, nell’Ue, Scozia, Fiandre, Paesi Baschi e Catalogna, ma non la Padania: le mancano due elementi di coesione fiudicati necessari, l’avere già avuto in passato istituzioni indipendenti e l’avere una propria lingua. E sfido un bergamasco a capire un occitano (e viceversa).
Sorpresa: c’è più Padania in America che in Europa. O, almeno, si dà più credito là che qua alle velleità d’indipendenza leghiste. Magari, è solo una prova in più che gli americani sono degli ingenuotti: se gli dici una cosa, ci credono. In una delle sue settimanali classifiche (un po’) demenziali, il Time mette la Padania al nono posto nell’elenco delle dieci ‘aspiranti nazioni’ più significative al Mondo, mentre uno studio internazionale portato a Bruxelles da eurodeputati catalani la trascura. Il Time apre la sua ‘hit parade’ delle indipendenze prossime venture con la Scozia, seguita da Paesi Baschi, Tibet, Ossezia del Sud, Kurdistan, Quebec e Sahara occidentale. Fin qui, tutto bene, per quanto improbabile. Ma poi l’elenco diventa goliardico, con la Repubblica di Cascadia (dove sta ?, sul Pacifico, tra l’Oregon negli Usa e la Columbia in Canada, una sorta di ‘federazione’ tra Seattle e Vancouver di cui, sinceramente, non avevo mai sentito parlare) e la Repubblica del Vermont, dall’impronta ostinatamente libertaria, nel New England. Tra Cascadia e Vermont, c’è la Padania, cui manca una tradizione d’indipendenza. Ed, infatti, lo studio condotto da 21 Atenei di tutto il Mondo e presentato al Parlamento europeo preconizza “una quarta ondata” di indipendenze e cita il Quebec e, nell’Ue, Scozia, Fiandre, Paesi Baschi e Catalogna, ma non la Padania: le mancano due elementi di coesione fiudicati necessari, l’avere già avuto in passato istituzioni indipendenti e l’avere una propria lingua. E sfido un bergamasco a capire un occitano (e viceversa).
venerdì 21 gennaio 2011
Battisti: Ue, Parlamento con Italia, Commissione pilato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/01/2011
Nell’aula semi-deserta, c’erano soprattutto gli euro-deputati italiani. Anche per questo, il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza -83 si’, un no, due astensioni- una risoluzione presentata da tutti i partiti politici italiani, che chiede all’Unione europea un sostegno politico ai passi dell’Italia per ottenere dal Brasile l’estradizione di Cesare Battisti, il terrorista condannato in via definitiva all’ergastolo per quattro omicidi. Prima del voto, cui hanno assistito alcuni familiari delle vittime di Battisti, il commissario europeo Stefan Fule ha ribadito che l’UE «non ha modo d’intervenire in questa vicenda»: c’è un trattato di estradizione tra il Brasile e l’Italia, non ce n’è uno tra il Brasile e l’Unione. Il dibattito è stato vivace, a tratti polemico: agli interventi degli italiani, facevano contrappunto voci scettiche sull’urgenza dell’iniziativa e sull’impatto. Mario Mauro, Pdl, ha detto: «Bisogna che giustizia sia fatta e che Battisti sia estradato». David Sassoli, Pd, ha affermato che «il Parlamento deve essere vicino alle vittime del terrorismo e deve far valere la giustizia»: «L’atteggiamento del Brasile è difficile da capire», tanto più che le autorità di Brasilia non hanno concesso al terrorista italiano lo statuto di rifugiato politico.
Nell’aula semi-deserta, c’erano soprattutto gli euro-deputati italiani. Anche per questo, il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza -83 si’, un no, due astensioni- una risoluzione presentata da tutti i partiti politici italiani, che chiede all’Unione europea un sostegno politico ai passi dell’Italia per ottenere dal Brasile l’estradizione di Cesare Battisti, il terrorista condannato in via definitiva all’ergastolo per quattro omicidi. Prima del voto, cui hanno assistito alcuni familiari delle vittime di Battisti, il commissario europeo Stefan Fule ha ribadito che l’UE «non ha modo d’intervenire in questa vicenda»: c’è un trattato di estradizione tra il Brasile e l’Italia, non ce n’è uno tra il Brasile e l’Unione. Il dibattito è stato vivace, a tratti polemico: agli interventi degli italiani, facevano contrappunto voci scettiche sull’urgenza dell’iniziativa e sull’impatto. Mario Mauro, Pdl, ha detto: «Bisogna che giustizia sia fatta e che Battisti sia estradato». David Sassoli, Pd, ha affermato che «il Parlamento deve essere vicino alle vittime del terrorismo e deve far valere la giustizia»: «L’atteggiamento del Brasile è difficile da capire», tanto più che le autorità di Brasilia non hanno concesso al terrorista italiano lo statuto di rifugiato politico.
SPIGOLI: per trovare l'Imperatore, cercate la donna (o il ladro)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/01/2011
Una volta si diceva ‘Cherchez la femme’, per cercare di spiegare una situazione poco decifrabile. E lo si continua a dire anche adesso; anzi, oggi sarebbe meglio dire ‘Cherchez les femmes’, come, se ce ne fosse bisogno, stanno a dimostrare le lascive vicende nostrane di questi giorni, sempre seguite con meticolosa attenzione dalla stampa mondiale. Ma, talora, per mettersi sulla pista giusta, più che la donna conviene seguire il ladro: la stampa britannica, e in particolare il Daily Mail, è affascinata da come la polizia italiana sia riuscita a scoprire la tomba di Caligola, di cui s’erano perdute le tracce, a quasi 2000 anni ormai dalla sua morte, avvenuta nel 41 dC, all’età di soli 28 anni, per mano di uno dei suoi pretoriani –complici, pero’, senatori e boiardi di palazzo : vatti a fidare di quelli !-. Non che la si cercasse molto, la tomba dell’imperatore che è rimasto nella storia romana, oltre che per avere nominato senatore il suo cavallo, per la crudeltà, la promiscuità e la pazzia: figuratevi che giaceva con le sorelle e aveva reso un bordello il pâlazzo imperiale -che cosa inaudita!-. Ma quando la polizia ha arrestato, nei pressi di Nemi, dove Caligola aveva villa e annessi, un tombarolo con una statua dell’imperatore alta 2,5 metri e del valore stimato di almeno un milione di euro, arrivare al sito della tomba, è stato facile: gli scavi, che sono iniziati mercoledi’, ci restituiranno, magari, frammenti di verità sul personaggio, se i tombaroli non si sono già portati via tutto.
Una volta si diceva ‘Cherchez la femme’, per cercare di spiegare una situazione poco decifrabile. E lo si continua a dire anche adesso; anzi, oggi sarebbe meglio dire ‘Cherchez les femmes’, come, se ce ne fosse bisogno, stanno a dimostrare le lascive vicende nostrane di questi giorni, sempre seguite con meticolosa attenzione dalla stampa mondiale. Ma, talora, per mettersi sulla pista giusta, più che la donna conviene seguire il ladro: la stampa britannica, e in particolare il Daily Mail, è affascinata da come la polizia italiana sia riuscita a scoprire la tomba di Caligola, di cui s’erano perdute le tracce, a quasi 2000 anni ormai dalla sua morte, avvenuta nel 41 dC, all’età di soli 28 anni, per mano di uno dei suoi pretoriani –complici, pero’, senatori e boiardi di palazzo : vatti a fidare di quelli !-. Non che la si cercasse molto, la tomba dell’imperatore che è rimasto nella storia romana, oltre che per avere nominato senatore il suo cavallo, per la crudeltà, la promiscuità e la pazzia: figuratevi che giaceva con le sorelle e aveva reso un bordello il pâlazzo imperiale -che cosa inaudita!-. Ma quando la polizia ha arrestato, nei pressi di Nemi, dove Caligola aveva villa e annessi, un tombarolo con una statua dell’imperatore alta 2,5 metri e del valore stimato di almeno un milione di euro, arrivare al sito della tomba, è stato facile: gli scavi, che sono iniziati mercoledi’, ci restituiranno, magari, frammenti di verità sul personaggio, se i tombaroli non si sono già portati via tutto.
giovedì 20 gennaio 2011
Usa-Cina: diritti dell'uomo e affari, i mutui interessi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/01/2011
Per dare il benvenuto alla Casa Bianca al presidente cinese Hu Jintao, Barack Obama sciorina il tappeto rosso delle grandi occasioni: gli inni e i pifferi della Guerra d’Indipendenza del 1776. Ma non esita a evocare subito, fin dai discorsi di benvenuto, il tema delicato dei diritti dell’uomo. “La storia mostra –dice il presidente americano- che le società sono più armoniose e che prosperano di più e che il mondo è più giusto, quando i diritti e le responsabilità di tutti i Paesi e di tutti i popoli sono rispettati”.
Per una visita di Stato carica di simboli e di obiettivi, poteva essere un avvio coraggioso, ma scivoloso. Ma Hu non è stato certo colto di sorpresa dalla notazione. Come non ha poi battuto ciglio quando, in conferenza stampa, Obama gli ha chiesto d’aggiustare il valore dello yuan, che gli americani considerano sottovalutato, e di fare in modo che le imprese americane possano battersi ad armi pari con quelle cinesi.
Nell’incontro con i giornalisti, Hu non ha neppure potuto schivare la domanda diretta di un reporter americano: “Come giustifica il mancato rispetto dei diritti dell’uomo?” da parte della Cina. Un problema di traduzione quanto mai opportuno gli consente, all’inizio, di stendere un’intercapedine di silenzio sull’argomento. Ma, poi, sollecitato da un’altra domanda, riconosce che “molto resta da fare in Cina sul fronte dei diritti dell’uomo”, ma mette la questione nel contesto delle “molte sfide” che il suo Paese deve affrontare.
Per il loro ottavo incontro nei neppure due anni trascorsi da Obama alla Casa Bianca –in media, uno ogni tre mesi-, i due presidenti hanno badato al sodo: risultati concreti e parole chiare. “Quando Usa e Cina cooperano ne ricavano sostanziali benefici”, dice Obama, senza pero’ nascondere l’ “amichevole concorrenza” fra i due Paesi. Hu auspica una maggiore cooperazione fra le forze armate cinese e statunitense. Obama gli chiede di dialogare con il Dalai Lama, capo spirituale dei tibetani in esilio.
A Washington, è in gioco il riequilibrio strategico tra le due potenze, dopo i parziali e non del tutto felici esiti degli incontri precedenti. Molti i punti ‘caldi’ sull’agenda, a cominciare proprio dalle politiche monetarie e commerciali: gli Usa e la Cina non vogliono compromettere la stabilità del loro quadro economico nazionale, ma neppure vogliono mettere a repentaglio l’equilibrio globale. Cosi’, Pechino sarebbe interessata a salvare e a sostenere l’area dell’euro e ad incoraggiare l’unificazione europea, che funzionerebbe da contrappeso anche politico nei confronti degli Stati Uniti, ma non vuole mutare radicalmente l’attuale registro politico ed economico minando il dollaro.
Più che molte parole, in questa visita contano alcune cifre. Usa e Cina firmano nell’occasione accordi commerciali per un valore di 45 miliardi di dollari, che permetteranno di mantenere 235 mila posti di lavoro americani. La commessa più grossa riguarda l’acquisto di 200 aerei Boeing –soprattutto B737 e B777, da consegnare di qui al 2013-, per un valore stimato di 19 miliardi di dollari. Il resto è ripartito in una settantina di contratti che riguardano grandi aziende –fra le altre, General Electric, Caterpillar, Alcoa-, ma anche un numero crescente di piccole e medie imprese.
Ma non c’è solo l’economia. Obama e Hu vogliono che la Corea del Nord s’astenga da ogni “ulteriore provocazione” ed auspicano la denuclearizzazione della penisola (e il segretario di Stato Hillary Clinton auspica “maggiore cooperazione” da parte cinese contro gli “atteggiamenti provocatori” di Piongyang). E Washington e Pechino sono d’accordo per evitare che l’Iran si doti dell’atomica, anche se i cinesi non percorrono la via delle sanzioni bilaterali; che gli americani potrebbero invece inasprire. Infine, sempre in materia nucleare, Obama e Hu concludono un accordo di cooperazione sulla sicurezza, con la creazione in Cina di un centro finanziato congiuntamente. "Questa relazione sino-americana –afferma la Clinton- determinerà in molti modi pace, stabilità e prosperità del XXI Secolo".
Per Hu a Washington, pero’, non sono solo schermaglie verbali e intese sostanziose, cenetta intima alla Casa Bianca –martedi’ sera- e pranzo di Stato –ieri sera-. La visita diventa pure spunto di scaramucce politiche fra democratici e repubblicani: l’opposizione a Obama fa la voce grossa (“la pazienza con Pechino è quasi finita”) e, per non restare indietro, il capo dei democratici al Senato Harry Reid diserta la cena “con un dittatore” (salvo poi correggere un po’ il tiro).
Per dare il benvenuto alla Casa Bianca al presidente cinese Hu Jintao, Barack Obama sciorina il tappeto rosso delle grandi occasioni: gli inni e i pifferi della Guerra d’Indipendenza del 1776. Ma non esita a evocare subito, fin dai discorsi di benvenuto, il tema delicato dei diritti dell’uomo. “La storia mostra –dice il presidente americano- che le società sono più armoniose e che prosperano di più e che il mondo è più giusto, quando i diritti e le responsabilità di tutti i Paesi e di tutti i popoli sono rispettati”.
Per una visita di Stato carica di simboli e di obiettivi, poteva essere un avvio coraggioso, ma scivoloso. Ma Hu non è stato certo colto di sorpresa dalla notazione. Come non ha poi battuto ciglio quando, in conferenza stampa, Obama gli ha chiesto d’aggiustare il valore dello yuan, che gli americani considerano sottovalutato, e di fare in modo che le imprese americane possano battersi ad armi pari con quelle cinesi.
Nell’incontro con i giornalisti, Hu non ha neppure potuto schivare la domanda diretta di un reporter americano: “Come giustifica il mancato rispetto dei diritti dell’uomo?” da parte della Cina. Un problema di traduzione quanto mai opportuno gli consente, all’inizio, di stendere un’intercapedine di silenzio sull’argomento. Ma, poi, sollecitato da un’altra domanda, riconosce che “molto resta da fare in Cina sul fronte dei diritti dell’uomo”, ma mette la questione nel contesto delle “molte sfide” che il suo Paese deve affrontare.
Per il loro ottavo incontro nei neppure due anni trascorsi da Obama alla Casa Bianca –in media, uno ogni tre mesi-, i due presidenti hanno badato al sodo: risultati concreti e parole chiare. “Quando Usa e Cina cooperano ne ricavano sostanziali benefici”, dice Obama, senza pero’ nascondere l’ “amichevole concorrenza” fra i due Paesi. Hu auspica una maggiore cooperazione fra le forze armate cinese e statunitense. Obama gli chiede di dialogare con il Dalai Lama, capo spirituale dei tibetani in esilio.
A Washington, è in gioco il riequilibrio strategico tra le due potenze, dopo i parziali e non del tutto felici esiti degli incontri precedenti. Molti i punti ‘caldi’ sull’agenda, a cominciare proprio dalle politiche monetarie e commerciali: gli Usa e la Cina non vogliono compromettere la stabilità del loro quadro economico nazionale, ma neppure vogliono mettere a repentaglio l’equilibrio globale. Cosi’, Pechino sarebbe interessata a salvare e a sostenere l’area dell’euro e ad incoraggiare l’unificazione europea, che funzionerebbe da contrappeso anche politico nei confronti degli Stati Uniti, ma non vuole mutare radicalmente l’attuale registro politico ed economico minando il dollaro.
Più che molte parole, in questa visita contano alcune cifre. Usa e Cina firmano nell’occasione accordi commerciali per un valore di 45 miliardi di dollari, che permetteranno di mantenere 235 mila posti di lavoro americani. La commessa più grossa riguarda l’acquisto di 200 aerei Boeing –soprattutto B737 e B777, da consegnare di qui al 2013-, per un valore stimato di 19 miliardi di dollari. Il resto è ripartito in una settantina di contratti che riguardano grandi aziende –fra le altre, General Electric, Caterpillar, Alcoa-, ma anche un numero crescente di piccole e medie imprese.
Ma non c’è solo l’economia. Obama e Hu vogliono che la Corea del Nord s’astenga da ogni “ulteriore provocazione” ed auspicano la denuclearizzazione della penisola (e il segretario di Stato Hillary Clinton auspica “maggiore cooperazione” da parte cinese contro gli “atteggiamenti provocatori” di Piongyang). E Washington e Pechino sono d’accordo per evitare che l’Iran si doti dell’atomica, anche se i cinesi non percorrono la via delle sanzioni bilaterali; che gli americani potrebbero invece inasprire. Infine, sempre in materia nucleare, Obama e Hu concludono un accordo di cooperazione sulla sicurezza, con la creazione in Cina di un centro finanziato congiuntamente. "Questa relazione sino-americana –afferma la Clinton- determinerà in molti modi pace, stabilità e prosperità del XXI Secolo".
Per Hu a Washington, pero’, non sono solo schermaglie verbali e intese sostanziose, cenetta intima alla Casa Bianca –martedi’ sera- e pranzo di Stato –ieri sera-. La visita diventa pure spunto di scaramucce politiche fra democratici e repubblicani: l’opposizione a Obama fa la voce grossa (“la pazienza con Pechino è quasi finita”) e, per non restare indietro, il capo dei democratici al Senato Harry Reid diserta la cena “con un dittatore” (salvo poi correggere un po’ il tiro).
Rubygate: Mr B batte Hu 5 a 1, lo scandalo meglio del G2
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/01/2011
Mr B batte Hu 5 colonne a una: una roba da urlo, se fosse il risultato di un derby
tra Milan e Inter. Sulla prima pagina dell’Herald Tribune, versione internazionale dell’informazione di qualità americana del New York Times, l’attesissimo incontro alla Casa Bianca tra i presidenti americano e cinese ha la colonna d’apertura e l’ennesimo scandalo sesso-politico italico ha la colonna di spalla. Ma Berlusconi straccia il cinese con un’enorme foto a quattro colonne sotto la testata, lui cereo accanto al busto diafano d’un’antica romana, in un giardino di Roma (il Quirinale?).
Il servizio di Rachel Donadio, che trova spazio in prima anche sul giornale ‘madre’,
il prestigioso NYT, è proprio ‘americano’: fattuale fin dal titolo, “Un nuovo scandalo s’aggiunge alla lista” di quelli che già minano la credibilità del premier; e “le ultime rivelazioni sessuali” gli tagliano un po’ di più l’erba politica sotto i piedi. Pero’, “nessuno può dire se l’ondata di notizie sui tabloid lo spazzerà via”, anche se “gli italiani sono preoccupati in misura crescente dal divario tra i mali che affliggono il Paese e le priorità del loro premier”. L’attenzione del NYT non è isolata: da quando il ‘Rubygate’ è esploso la stampa estera gli dedica ogni giorno minuziosa attenzione, senza aggiungere nulla a quanto scrive la stampa italiana, ma senza neppure trascurare nulla. Le Monde di ieri dava il tono: “Il cerchio si stringe intorno a Berlusconi”; e l’FT , il giorno prima, azzardava un paragone “con l’agonia politica di Bill Clinton dopo il caso di Monica Lewinsky” –il che, pero’, vorrebbe dire che Mr B resterà al suo posto fino al 2013-.
Mr B batte Hu 5 colonne a una: una roba da urlo, se fosse il risultato di un derby
tra Milan e Inter. Sulla prima pagina dell’Herald Tribune, versione internazionale dell’informazione di qualità americana del New York Times, l’attesissimo incontro alla Casa Bianca tra i presidenti americano e cinese ha la colonna d’apertura e l’ennesimo scandalo sesso-politico italico ha la colonna di spalla. Ma Berlusconi straccia il cinese con un’enorme foto a quattro colonne sotto la testata, lui cereo accanto al busto diafano d’un’antica romana, in un giardino di Roma (il Quirinale?).
Il servizio di Rachel Donadio, che trova spazio in prima anche sul giornale ‘madre’,
il prestigioso NYT, è proprio ‘americano’: fattuale fin dal titolo, “Un nuovo scandalo s’aggiunge alla lista” di quelli che già minano la credibilità del premier; e “le ultime rivelazioni sessuali” gli tagliano un po’ di più l’erba politica sotto i piedi. Pero’, “nessuno può dire se l’ondata di notizie sui tabloid lo spazzerà via”, anche se “gli italiani sono preoccupati in misura crescente dal divario tra i mali che affliggono il Paese e le priorità del loro premier”. L’attenzione del NYT non è isolata: da quando il ‘Rubygate’ è esploso la stampa estera gli dedica ogni giorno minuziosa attenzione, senza aggiungere nulla a quanto scrive la stampa italiana, ma senza neppure trascurare nulla. Le Monde di ieri dava il tono: “Il cerchio si stringe intorno a Berlusconi”; e l’FT , il giorno prima, azzardava un paragone “con l’agonia politica di Bill Clinton dopo il caso di Monica Lewinsky” –il che, pero’, vorrebbe dire che Mr B resterà al suo posto fino al 2013-.
mercoledì 19 gennaio 2011
Usa-Cina: prove di G2, con accumulo di Nobel per la Pace
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/01/2011
Mi piace pensare che Barack Obama, ricevendo, oggi, alla Casa Bianca, il presidente cinese Hu Jintao, gli mostri il Nobel per la Pace vinto nel 2009, francamente prima di meritarselo. Mi piace pensarlo, anche se, probabilmente, non avverrà: nessun portavoce, del resto, avalla questa ipotesi. Per Obama, sarebbe un modo di guadagnarsi un po’ del premio già ricevuto: un modo per contestare al suo ospite il trattamento riservato a Liu Xiaobo, dissidente cinese imprigionato, Nobel per la Pace 2010 cui è stato impedito di recarsi a Oslo a ritirare il riconoscimento; e un modo per evocare un convitato di pietra di tutti gli incontri Usa-Cina, il Dalai Lama, Nobel per la Pace 1989, motivo spesso di tensione fra Washington e Pechino perchè la sua figura evoca l’indipendenza del Tibet e la libertà religiosa.
Ma l’Amministrazione americana sembra collocare la visita di Hu negli Stati Uniti, la prima da quando Obama è presidente, in un’ottica più concreta e prammatica, meno idealista e ideologica: Usa e Cina rifanno le prove di G2 già tentate almeno a tre riprese negli ultimi 18 mesi, a margine di Vertici internazionali multilaterali o quando, nel novembre 2009, Barack Obama ando’ a Pechino. Il contesto dell’incontro lo conferma: una cena privata alla Casa Bianca, ieri sera, in un gruppo ristretto; e, oggi, un’intera giornata di colloqui politici e poi una cena di Stato, evento raro nell’etichetta a stelle e strisce.
Ma, nonostante l’intensità dei contatti –è l’ottava volta in due anni che Obama e Hu si vedono-, le relazioni tra Washington e Pechino non vanno in linea retta: vi sono incidenti di percorso, arretramenti, incomprensioni. Un anno fa, di questi tempi, i rapporti tra Usa e Cina erano, probabilmente, al punto più basso della presidenza Obama: il Congresso americano aveva autorizzato una vendita di armi a Taiwan –una sorta di rituale che si ripete ogni 12 mesi-; e il presidente premio Nobel aveva sfidato le diffide cinesi accogliendo il Premio Nobel Dalai Lama.
Se le beghe fossero tutte li’, il G2 potrebbe anche funzionare, in un mondo globalizzato alla ricerca di una governance mondiale credibile, mai garantita dall’Onu e dal Consiglio di Sicurezza, non più impersonata dal G8 e-non ancora?- interpretata dal G20, un gruppo giovane che, pero’, non cresce abbastanza in fretta.
Ma su economia, politica, diritti dell'uomo, le incomprensioni non mancano. Ai giornalisti americani, Hu, prima di partire, ha detto, quasi in tono di sfida: “Il sistema monetario internazionale basato sul dollaro è un prodotto del passato... in Corea, vi sono segnali di distensione tra Nord e Sud... Non si puo’ negare che fra di noi vi siano problemi sensibili e divergenze”. E americani e cinesi le snocciolano: la debolezza artificiale dello yuan, che favorisce l’export cinese e altera i rapporti di forze con il dollaro e l’euro; i contenziosi commerciali; persino il conflitto sulle ‘terre rare’; la libertà di internet, la cyberguerra su Google e i contrasti sul copyright; l’aggressività della Corea del Nord, in qualche modo ‘pilotata’ da Pechino; il ‘build up’ militare cinese, con la recente acquisizione di un caccia invisibile; le rivalità nel Pacifico e in Africa.
“Speriamo che la missione del presidente –dicono a Pechino- rafforzi il dialogo, la comunicazione e la reciproca fiducia strategica tra le due Nazioni”. C’è l’impegno a migliorare i rapporti bilaterali che, “nel bene o nel male, condizionano il Mondo in quest’inizio di XXI Secolo”, scrive Francesco Sisci. Ma i cinesi ci credono poco: più di uno su due ne denuncia il deterioramento nell’ultimo anno.
Hu resterà in America quattro giorni: dopo Washington, andrà a Chicago, la città di Obama, per incontri d’affari. Secondo media cinesi, la visita potrebbe condurre alla firma di contratti nei settori aeronautico –vendita di Boeing a compagnie cinesi-, ferroviario, energetico, ambientale, culturale.
Un fatto nuovo, nella galleria dei contatti Obama – Hu, è la forza politica del presidente americano, che, dopo lo smacco del voto di ‘midterm’ del 2 novembre, continua a risalire nei sondaggi : Abc e Cnn gli attribuiscono il tasso di gradimento più alto da dieci mesi a questa parte, rispettivamente 53 e 54%. Si direbbe che la sconfitta, ma soprattutto la strage di Tucson, frutto, anche, del clima d’intolleranza e d’animosità alimentato dall’opposizione qualunquista del Tea Party, hanno restituito grinta e credibilità all’Amministrazione democratica.
Mi piace pensare che Barack Obama, ricevendo, oggi, alla Casa Bianca, il presidente cinese Hu Jintao, gli mostri il Nobel per la Pace vinto nel 2009, francamente prima di meritarselo. Mi piace pensarlo, anche se, probabilmente, non avverrà: nessun portavoce, del resto, avalla questa ipotesi. Per Obama, sarebbe un modo di guadagnarsi un po’ del premio già ricevuto: un modo per contestare al suo ospite il trattamento riservato a Liu Xiaobo, dissidente cinese imprigionato, Nobel per la Pace 2010 cui è stato impedito di recarsi a Oslo a ritirare il riconoscimento; e un modo per evocare un convitato di pietra di tutti gli incontri Usa-Cina, il Dalai Lama, Nobel per la Pace 1989, motivo spesso di tensione fra Washington e Pechino perchè la sua figura evoca l’indipendenza del Tibet e la libertà religiosa.
Ma l’Amministrazione americana sembra collocare la visita di Hu negli Stati Uniti, la prima da quando Obama è presidente, in un’ottica più concreta e prammatica, meno idealista e ideologica: Usa e Cina rifanno le prove di G2 già tentate almeno a tre riprese negli ultimi 18 mesi, a margine di Vertici internazionali multilaterali o quando, nel novembre 2009, Barack Obama ando’ a Pechino. Il contesto dell’incontro lo conferma: una cena privata alla Casa Bianca, ieri sera, in un gruppo ristretto; e, oggi, un’intera giornata di colloqui politici e poi una cena di Stato, evento raro nell’etichetta a stelle e strisce.
Ma, nonostante l’intensità dei contatti –è l’ottava volta in due anni che Obama e Hu si vedono-, le relazioni tra Washington e Pechino non vanno in linea retta: vi sono incidenti di percorso, arretramenti, incomprensioni. Un anno fa, di questi tempi, i rapporti tra Usa e Cina erano, probabilmente, al punto più basso della presidenza Obama: il Congresso americano aveva autorizzato una vendita di armi a Taiwan –una sorta di rituale che si ripete ogni 12 mesi-; e il presidente premio Nobel aveva sfidato le diffide cinesi accogliendo il Premio Nobel Dalai Lama.
Se le beghe fossero tutte li’, il G2 potrebbe anche funzionare, in un mondo globalizzato alla ricerca di una governance mondiale credibile, mai garantita dall’Onu e dal Consiglio di Sicurezza, non più impersonata dal G8 e-non ancora?- interpretata dal G20, un gruppo giovane che, pero’, non cresce abbastanza in fretta.
Ma su economia, politica, diritti dell'uomo, le incomprensioni non mancano. Ai giornalisti americani, Hu, prima di partire, ha detto, quasi in tono di sfida: “Il sistema monetario internazionale basato sul dollaro è un prodotto del passato... in Corea, vi sono segnali di distensione tra Nord e Sud... Non si puo’ negare che fra di noi vi siano problemi sensibili e divergenze”. E americani e cinesi le snocciolano: la debolezza artificiale dello yuan, che favorisce l’export cinese e altera i rapporti di forze con il dollaro e l’euro; i contenziosi commerciali; persino il conflitto sulle ‘terre rare’; la libertà di internet, la cyberguerra su Google e i contrasti sul copyright; l’aggressività della Corea del Nord, in qualche modo ‘pilotata’ da Pechino; il ‘build up’ militare cinese, con la recente acquisizione di un caccia invisibile; le rivalità nel Pacifico e in Africa.
“Speriamo che la missione del presidente –dicono a Pechino- rafforzi il dialogo, la comunicazione e la reciproca fiducia strategica tra le due Nazioni”. C’è l’impegno a migliorare i rapporti bilaterali che, “nel bene o nel male, condizionano il Mondo in quest’inizio di XXI Secolo”, scrive Francesco Sisci. Ma i cinesi ci credono poco: più di uno su due ne denuncia il deterioramento nell’ultimo anno.
Hu resterà in America quattro giorni: dopo Washington, andrà a Chicago, la città di Obama, per incontri d’affari. Secondo media cinesi, la visita potrebbe condurre alla firma di contratti nei settori aeronautico –vendita di Boeing a compagnie cinesi-, ferroviario, energetico, ambientale, culturale.
Un fatto nuovo, nella galleria dei contatti Obama – Hu, è la forza politica del presidente americano, che, dopo lo smacco del voto di ‘midterm’ del 2 novembre, continua a risalire nei sondaggi : Abc e Cnn gli attribuiscono il tasso di gradimento più alto da dieci mesi a questa parte, rispettivamente 53 e 54%. Si direbbe che la sconfitta, ma soprattutto la strage di Tucson, frutto, anche, del clima d’intolleranza e d’animosità alimentato dall’opposizione qualunquista del Tea Party, hanno restituito grinta e credibilità all’Amministrazione democratica.
martedì 18 gennaio 2011
Libano: il processo Hariri avvita il paese nella crisi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/01/2011
Forse, l’onda della sommossa in Tunisia non c’entra nulla. Ma il Libano, il paese più fragile del Medio Oriente, quello dagli equilibri interni più delicati, è attraversato da fremiti d’incertezza e da forti tensioni. Le consultazioni per la designazione del nuovo premier, che dovevano cominciare ieri, dopo la caduta del governo di Saad Hariri, sono state rinviate di una settimana, proprio mentre un gruppo di Paesi della Regione lanciava un appello per rilanciare la mediazione siro-saudita. La crisi è legata agli sviluppi dell’inchiesta del Tribunale Speciale per il Libano, che indaga sull’assassinio nel 1995 del primo ministro Rafic Hariri, il padre del dimissionario Saad, e che è ormai giunto a formulare un atto d’accusa.
Gli sviluppi della crisi, precipitata dopo che i ministri del movimento Hezbollah, sostenuto dall’Iran, e dei suoi alleati hanno lasciato il governo Hariri, fanno temere un ritorno della violenza in un paese composito dal punto di vista etnico e religioso e dove la comunità internazionale, inquieta, schiera forze a tutela della pace lungo il confine con Israele.
E mentre il Libano s’avvita nella sua crisi, fermenti di protesta, nella scia degli eventi in Tunisia, emergono dove te lo aspetti, come al Cairo, e dove non sai che cosa aspettarti, come a Nouakchott: nelle capitali egiziana e mauritana, due uomini si danno fuoco di fronte a edifici governativi, in segno di protesta. Entrambi sopravvivono al loro gesto. L’egiziano è il proprietario di un ristorante della provincia di Ismailia chiuso dalle autorità: s’è dato fuoco davanti all’Assemblea del Popolo, dopo avere tentato di entrarvi per chiedere ‘giustizia’. Il mauritano è un imprenditore di ricca famiglia, che protestava contro un torto subito dalla sua tribu. Si è cosparso di benzina nell’auto e s’è dato fuoco prima che i soccorritori lo estraessero dal veicolo.
Gli sviluppi libanesi si sono scritti, ieri, a Damasco e all’Aja. Nella capitale siriana, il premier turco Recep Tayyip Erdogan, l’emiro del Qatar sceicco Ahmad ben Khalifa al-Thani e il presidente siriano Bachar al-Assad hanno sollecitato una nuova mediazione siro-saudita per risolvere la crisi a Beirut, secondo quanto ha riferito l’agenzia siriana Sana. Da Ryad, il governo siriano ha messo in guardia le forze politiche libanesi dei rischi di sedizione e di disordini: in un comunicato, il governo saudita invita «i fratelli del Libano a lavorare insieme per preservare l’unità, la sicurezza e la stabilità» del loro Paese. Oggi il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu sarà a Beirut, insieme al collega del Qatar, per tentare di sciogliere i nodi della crisi, dopo avere incontrato, ieri sera, ad Ankara, il ministro iraniano Ali Akbar Salehi. La Francia propone un ‘gruppo di contatto’ dei Paesi disposti a fare fronte comune per aiutare il Libano a uscire dalla crisi.
Ma i fermenti e le tensioni sono alimentate dalla notizia che all’Aja il procuratore del Tribunale Speciale ha depositato ieri l’atto di accusa, con i documenti a sostegno delle sue conclusioni, che restano, per il momento, segrete. Ci vorranno «tra sei e dieci settimane» perchè vengano emanati mandati d’arresto internazionali o citazioni a comparire, se il giudice competente avallerà le conclusioni del procuratore. Altrimenti, l’inchiesta potrebbe proseguire, o ripartire.
Ma gli Hezbollah, che temono di essere additati come responsabili dell’omicidio Hariri, avevano fatto inutilmente pressione sul figlio, Saad, perchè sconfessasse a priori le conclusioni del Tribunale Speciale. E, davanti al rifiuto di Saad, gli Hezbollah hanno fatto cadere il governo. La crisi minaccia la stabilità del Paese e la pace nella Regione, ma mette in forse pure la crescita economica e la solidità finanziaria del Libano, come avverte, in un’intervista all’Afp, il governatore della banca centrale Riad Salamé.
Forse, l’onda della sommossa in Tunisia non c’entra nulla. Ma il Libano, il paese più fragile del Medio Oriente, quello dagli equilibri interni più delicati, è attraversato da fremiti d’incertezza e da forti tensioni. Le consultazioni per la designazione del nuovo premier, che dovevano cominciare ieri, dopo la caduta del governo di Saad Hariri, sono state rinviate di una settimana, proprio mentre un gruppo di Paesi della Regione lanciava un appello per rilanciare la mediazione siro-saudita. La crisi è legata agli sviluppi dell’inchiesta del Tribunale Speciale per il Libano, che indaga sull’assassinio nel 1995 del primo ministro Rafic Hariri, il padre del dimissionario Saad, e che è ormai giunto a formulare un atto d’accusa.
Gli sviluppi della crisi, precipitata dopo che i ministri del movimento Hezbollah, sostenuto dall’Iran, e dei suoi alleati hanno lasciato il governo Hariri, fanno temere un ritorno della violenza in un paese composito dal punto di vista etnico e religioso e dove la comunità internazionale, inquieta, schiera forze a tutela della pace lungo il confine con Israele.
E mentre il Libano s’avvita nella sua crisi, fermenti di protesta, nella scia degli eventi in Tunisia, emergono dove te lo aspetti, come al Cairo, e dove non sai che cosa aspettarti, come a Nouakchott: nelle capitali egiziana e mauritana, due uomini si danno fuoco di fronte a edifici governativi, in segno di protesta. Entrambi sopravvivono al loro gesto. L’egiziano è il proprietario di un ristorante della provincia di Ismailia chiuso dalle autorità: s’è dato fuoco davanti all’Assemblea del Popolo, dopo avere tentato di entrarvi per chiedere ‘giustizia’. Il mauritano è un imprenditore di ricca famiglia, che protestava contro un torto subito dalla sua tribu. Si è cosparso di benzina nell’auto e s’è dato fuoco prima che i soccorritori lo estraessero dal veicolo.
Gli sviluppi libanesi si sono scritti, ieri, a Damasco e all’Aja. Nella capitale siriana, il premier turco Recep Tayyip Erdogan, l’emiro del Qatar sceicco Ahmad ben Khalifa al-Thani e il presidente siriano Bachar al-Assad hanno sollecitato una nuova mediazione siro-saudita per risolvere la crisi a Beirut, secondo quanto ha riferito l’agenzia siriana Sana. Da Ryad, il governo siriano ha messo in guardia le forze politiche libanesi dei rischi di sedizione e di disordini: in un comunicato, il governo saudita invita «i fratelli del Libano a lavorare insieme per preservare l’unità, la sicurezza e la stabilità» del loro Paese. Oggi il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu sarà a Beirut, insieme al collega del Qatar, per tentare di sciogliere i nodi della crisi, dopo avere incontrato, ieri sera, ad Ankara, il ministro iraniano Ali Akbar Salehi. La Francia propone un ‘gruppo di contatto’ dei Paesi disposti a fare fronte comune per aiutare il Libano a uscire dalla crisi.
Ma i fermenti e le tensioni sono alimentate dalla notizia che all’Aja il procuratore del Tribunale Speciale ha depositato ieri l’atto di accusa, con i documenti a sostegno delle sue conclusioni, che restano, per il momento, segrete. Ci vorranno «tra sei e dieci settimane» perchè vengano emanati mandati d’arresto internazionali o citazioni a comparire, se il giudice competente avallerà le conclusioni del procuratore. Altrimenti, l’inchiesta potrebbe proseguire, o ripartire.
Ma gli Hezbollah, che temono di essere additati come responsabili dell’omicidio Hariri, avevano fatto inutilmente pressione sul figlio, Saad, perchè sconfessasse a priori le conclusioni del Tribunale Speciale. E, davanti al rifiuto di Saad, gli Hezbollah hanno fatto cadere il governo. La crisi minaccia la stabilità del Paese e la pace nella Regione, ma mette in forse pure la crescita economica e la solidità finanziaria del Libano, come avverte, in un’intervista all’Afp, il governatore della banca centrale Riad Salamé.
SPIGOLI: la Fiat, gli operai, l'Italia che "merita meglio"
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/01/2011
Nonostante tutto, ci sono pezzi, e personaggi, di questa Italia che all’estero piacciono, anche quando qui risultano controversi o divisori. La Fiat e Sergio Marchionne, già lo abbiamo visto una volta, appartengono alla mitologia dell’Italia che vale. Ma in fondo anche i metalmeccanici, i colletti blu, suscitano universale solidarietà, da Dearborn, Michigan, a Mirafiori , Torino, da Norma Rae a Susanna Camusso. Tutti i giovani della mia generazione, quella che ‘la classe operaia va in paradiso’, si ringalluzzivano a berci insieme un bicchiere di vino all’osteria. Ora che sono divenuti rari, una specie quasi in via di estinzione, è più difficile farlo. Ma la stampa estera, che ha ben seguito il referendum, celebra la vittoria di Marchionne e insieme il senso di responsabilità dei lavoratori del si’ e l’orgoglio di quelli del no. Nell’Italia che «merita di meglio», scrive FT in un editoriale, pensando alla politica nostrana e alle sue adiacenze, la Fiat e i metalmeccanici fanno bene la loro parte. Secondo Ft, il risultato del referendum «aumenta le speranze di dialogo» fra azienda e sindacati. E il principale giornale economico europeo nota che Marchionne, il ‘cattivo’ a Torino, è un ‘eroe’ a Detroit, perchè ha dato alla Chrysler una nuova vita. Il referendum a Mirafiori ha titoli e spazio sulla stampa americana (WSJ e Chicago Tribune puntano sul concetto di «si’ alla flessibilità»), ma anche in Europa l’attenzione è alta : Bbc ed El Pais, Le Monde e Les Echos, la stampa tedesca, spesso lungo il doppio binario, la forza di Marchionne e il coraggio degli operai.
Nonostante tutto, ci sono pezzi, e personaggi, di questa Italia che all’estero piacciono, anche quando qui risultano controversi o divisori. La Fiat e Sergio Marchionne, già lo abbiamo visto una volta, appartengono alla mitologia dell’Italia che vale. Ma in fondo anche i metalmeccanici, i colletti blu, suscitano universale solidarietà, da Dearborn, Michigan, a Mirafiori , Torino, da Norma Rae a Susanna Camusso. Tutti i giovani della mia generazione, quella che ‘la classe operaia va in paradiso’, si ringalluzzivano a berci insieme un bicchiere di vino all’osteria. Ora che sono divenuti rari, una specie quasi in via di estinzione, è più difficile farlo. Ma la stampa estera, che ha ben seguito il referendum, celebra la vittoria di Marchionne e insieme il senso di responsabilità dei lavoratori del si’ e l’orgoglio di quelli del no. Nell’Italia che «merita di meglio», scrive FT in un editoriale, pensando alla politica nostrana e alle sue adiacenze, la Fiat e i metalmeccanici fanno bene la loro parte. Secondo Ft, il risultato del referendum «aumenta le speranze di dialogo» fra azienda e sindacati. E il principale giornale economico europeo nota che Marchionne, il ‘cattivo’ a Torino, è un ‘eroe’ a Detroit, perchè ha dato alla Chrysler una nuova vita. Il referendum a Mirafiori ha titoli e spazio sulla stampa americana (WSJ e Chicago Tribune puntano sul concetto di «si’ alla flessibilità»), ma anche in Europa l’attenzione è alta : Bbc ed El Pais, Le Monde e Les Echos, la stampa tedesca, spesso lungo il doppio binario, la forza di Marchionne e il coraggio degli operai.
domenica 16 gennaio 2011
Tunisia: la caduta delle Sfingi e il bivio dell'effetto domino
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/01/2011
Il rovesciamento in Tunisia del regime di Ben Ali, provocato da una sommossa popolare, potrebbe innescare, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, un effetto domino, in regimi guidati da satrapi che governano praticamente a vita. Le situazioni sono diverse Paese per Paese e le tessere del domino, soprattutto, possono cadere in direzioni diverse: può partire una catena della democrazia, ma pochi ci credono, in un’area che ne ha scarsissima esperienza; ma può anche diffondersi il contagio dell’integralismo, specie là dove i rais hanno anche fatto da ‘tappo’ alle pulsioni fondamentaliste (forse, il rischio più grosso è l’Egitto) e alle mene di al Qaida. La disperazione della miserie è humus per l’integralismo: giovani senza certezza di futuro, ceti medi sempre più poveri, governi lontani dalla gente e l’Europa chiusa nell’egoismo della crisi.
Sull’ipotesi ‘effetto domino’, s’interroga la stampa occidentale. Il più entusiasta è Anonymous, network di hacker pro-Wikileaks, che manda un messaggio via twitter: “Buongiorno, Tunisia: oggi, festeggi l’inizio della democrazia”. Il New York Times parla di "una lezione ai leader arabi" e dice: "La rivolta in Tunisia ha elettrizzato la regione" e "i più entusiasti sostengono che è la Danzica araba", la città dei cantieri polacca da cui nel 1980 partì la rivolta di Solidarnosc, i cui germogli, un decennio dopo, provocarono la caduta del muro di Berlino.La speranza è forse prematura, ammette il NYT, ma la Tunisia offre "un nuovo modello di dissenso in una regione dove l'opposizione e' stata” spesso “monopolizzata dagli estremisti islamici". Le Monde si chiede in un editoriale se si vada verso "una primavera democratica araba": la fuga di Ben Ali è, comunque, la fine "dell'eccezione arabo-musulmana" nel tramonto delle dittature che aveva segnato la fine XX Secolo nell'Europa orientale e in America latina. I Paesi arabi che dispongono di risorse petrolifere possono superare meglio le rivolte, avendo i "mezzi per comprare una temporanea pace sociale".
La fuga di Ben Ali e le violenze in Tunisia sono il titolo principale in Medio Oriente e sulle tv satellitari panarabe. Ma, in Egitto, il quotidiano filo-governativo al Ahram si limita a riferirne senza commenti (e senza immagini della sommossa). Proprio l’Egitto del vecchio (e malato) presidente Hosni Mubarak, al potere dall’uccisione nel 1981 di Anwar al-Sadat, è la possibile seconda tessera del domino democratico (o integralista) di quest’area: la candidatura alla successione di Mubarak del figlio Gamal sa di dinastia più che di democrazia, in una partita in cui i Fratelli Musulmani, più che l’ex capo dell’Aiea, Mohammad el Baradei, diranno la loro. Il ministero degli esteri del Cairo esprime “rispetto” per le scelte “del popolo di Tunisia” e fiducia che si possa evitare il caos.
Il ‘contagio’ ha già investito l’Algeria, il cui presidente Abdelazif Bouteflika è però in carica ‘solo’ al 1999 e ha una legittimità da eroe della guerra d’indipendenza contro la Francia, che ora lo tiene su. E le onde d’urto potrebbero toccare le monarchie dell’area: la Giordania, dove Abdallah II, più di casa a Washington che ad Amman, ha già introdotto elementi di democrazia e modernizzazione, e il Marocco, dove Mohammed VI è, invece, più legato a formule tradizionali.
Due tessere del domino potrebbero pure essere la Palestina prossima ventura e il fragile Libano. A Gaza, Hamas rispetta la volontà del popolo tunisino e denuncia il rischio di "ingerenze straniere"; e la Jihad indice una manifestazione di solidarietà. In Libano, la crisi di governo in atto dà spazio alle manovre del movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah, sostenuto dal regime iraniano.
Il rovesciamento in Tunisia del regime di Ben Ali, provocato da una sommossa popolare, potrebbe innescare, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, un effetto domino, in regimi guidati da satrapi che governano praticamente a vita. Le situazioni sono diverse Paese per Paese e le tessere del domino, soprattutto, possono cadere in direzioni diverse: può partire una catena della democrazia, ma pochi ci credono, in un’area che ne ha scarsissima esperienza; ma può anche diffondersi il contagio dell’integralismo, specie là dove i rais hanno anche fatto da ‘tappo’ alle pulsioni fondamentaliste (forse, il rischio più grosso è l’Egitto) e alle mene di al Qaida. La disperazione della miserie è humus per l’integralismo: giovani senza certezza di futuro, ceti medi sempre più poveri, governi lontani dalla gente e l’Europa chiusa nell’egoismo della crisi.
Sull’ipotesi ‘effetto domino’, s’interroga la stampa occidentale. Il più entusiasta è Anonymous, network di hacker pro-Wikileaks, che manda un messaggio via twitter: “Buongiorno, Tunisia: oggi, festeggi l’inizio della democrazia”. Il New York Times parla di "una lezione ai leader arabi" e dice: "La rivolta in Tunisia ha elettrizzato la regione" e "i più entusiasti sostengono che è la Danzica araba", la città dei cantieri polacca da cui nel 1980 partì la rivolta di Solidarnosc, i cui germogli, un decennio dopo, provocarono la caduta del muro di Berlino.La speranza è forse prematura, ammette il NYT, ma la Tunisia offre "un nuovo modello di dissenso in una regione dove l'opposizione e' stata” spesso “monopolizzata dagli estremisti islamici". Le Monde si chiede in un editoriale se si vada verso "una primavera democratica araba": la fuga di Ben Ali è, comunque, la fine "dell'eccezione arabo-musulmana" nel tramonto delle dittature che aveva segnato la fine XX Secolo nell'Europa orientale e in America latina. I Paesi arabi che dispongono di risorse petrolifere possono superare meglio le rivolte, avendo i "mezzi per comprare una temporanea pace sociale".
La fuga di Ben Ali e le violenze in Tunisia sono il titolo principale in Medio Oriente e sulle tv satellitari panarabe. Ma, in Egitto, il quotidiano filo-governativo al Ahram si limita a riferirne senza commenti (e senza immagini della sommossa). Proprio l’Egitto del vecchio (e malato) presidente Hosni Mubarak, al potere dall’uccisione nel 1981 di Anwar al-Sadat, è la possibile seconda tessera del domino democratico (o integralista) di quest’area: la candidatura alla successione di Mubarak del figlio Gamal sa di dinastia più che di democrazia, in una partita in cui i Fratelli Musulmani, più che l’ex capo dell’Aiea, Mohammad el Baradei, diranno la loro. Il ministero degli esteri del Cairo esprime “rispetto” per le scelte “del popolo di Tunisia” e fiducia che si possa evitare il caos.
Il ‘contagio’ ha già investito l’Algeria, il cui presidente Abdelazif Bouteflika è però in carica ‘solo’ al 1999 e ha una legittimità da eroe della guerra d’indipendenza contro la Francia, che ora lo tiene su. E le onde d’urto potrebbero toccare le monarchie dell’area: la Giordania, dove Abdallah II, più di casa a Washington che ad Amman, ha già introdotto elementi di democrazia e modernizzazione, e il Marocco, dove Mohammed VI è, invece, più legato a formule tradizionali.
Due tessere del domino potrebbero pure essere la Palestina prossima ventura e il fragile Libano. A Gaza, Hamas rispetta la volontà del popolo tunisino e denuncia il rischio di "ingerenze straniere"; e la Jihad indice una manifestazione di solidarietà. In Libano, la crisi di governo in atto dà spazio alle manovre del movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah, sostenuto dal regime iraniano.
sabato 15 gennaio 2011
SPIGOLI: Riace, sindaco maestro fa scuola d'integrazione
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/01/2011
Riace? I Bronzi. E che altro? Se lo volete sapere, andate sul sito della Bbc o sfogliate il Daily Mail, che le va dietro. Domenico Lucano, sindaco della località calabrese che, se non fosse per i bronzi, pochi italiani conoscerebbero, è stato capace di trasformare l’arrivo di sventurati alla ricerca d’asilo, l’approdo di una nave con 250 uomini, donne, bambini, in una ‘win-win situation’ per gli emigrati e per la popolazione locale: “Il sindaco che salva il suo villaggio integrando i rifugiati”, titolano la tv e il quotidiano, quasi all’unisono. Maestro di scuola prima che sindaco, Lucano è riuscito a creare posti di lavoro e, nello stesso tempo, ad arrestare l’esodo da Riace -1700 abitanti, non più in calo-, aprendo le porte del paese a immigrati alla ricerca di asilo. Oggi, oltre 200 rifugiati, provenienti da una dozzina di Paesi diversi, vivono e lavorano fianco a fianco e in armonia con i locali. E nella scuola ospitata a Palazzo Pinnaro, dalle cui finestre si vedono i tetti del paese e lo Ionio, bimbi somali e iracheni, albanesi e eritrei imparano insieme l’italiano: una scuola che nel 2000 doveva essere chiusa, causa mancanza d’allievi. I nuovi arrivati, provenienti soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente, hanno portato nuova vita a una località che stava “lentamente morendo in piedi”. E l’esperienza è tanto più stupefacente perché, in tempi di crisi, gli emigrati sono spesso i primi a perdere il posto e a fare le spese della frustrazione dei locali: Rosarno non è lontano di qui, anche se paiono esserci anni luce. Il sindaco Lucano ha il senso delle proporzioni, ma guarda lontano: “La nostra è una piccola storia, ma può essere un piccolo passo verso un mondo diverse”. E migliore.
Riace? I Bronzi. E che altro? Se lo volete sapere, andate sul sito della Bbc o sfogliate il Daily Mail, che le va dietro. Domenico Lucano, sindaco della località calabrese che, se non fosse per i bronzi, pochi italiani conoscerebbero, è stato capace di trasformare l’arrivo di sventurati alla ricerca d’asilo, l’approdo di una nave con 250 uomini, donne, bambini, in una ‘win-win situation’ per gli emigrati e per la popolazione locale: “Il sindaco che salva il suo villaggio integrando i rifugiati”, titolano la tv e il quotidiano, quasi all’unisono. Maestro di scuola prima che sindaco, Lucano è riuscito a creare posti di lavoro e, nello stesso tempo, ad arrestare l’esodo da Riace -1700 abitanti, non più in calo-, aprendo le porte del paese a immigrati alla ricerca di asilo. Oggi, oltre 200 rifugiati, provenienti da una dozzina di Paesi diversi, vivono e lavorano fianco a fianco e in armonia con i locali. E nella scuola ospitata a Palazzo Pinnaro, dalle cui finestre si vedono i tetti del paese e lo Ionio, bimbi somali e iracheni, albanesi e eritrei imparano insieme l’italiano: una scuola che nel 2000 doveva essere chiusa, causa mancanza d’allievi. I nuovi arrivati, provenienti soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente, hanno portato nuova vita a una località che stava “lentamente morendo in piedi”. E l’esperienza è tanto più stupefacente perché, in tempi di crisi, gli emigrati sono spesso i primi a perdere il posto e a fare le spese della frustrazione dei locali: Rosarno non è lontano di qui, anche se paiono esserci anni luce. Il sindaco Lucano ha il senso delle proporzioni, ma guarda lontano: “La nostra è una piccola storia, ma può essere un piccolo passo verso un mondo diverse”. E migliore.
giovedì 13 gennaio 2011
SPIGOLI: l'Ue santifica tutte le feste (meno le cristiane)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/01/2011
Va bene il ‘politically correct’, va bene la tolleranza delle religioni altrui e persino l’apertura alle altrui divinità. Ma questa volta la Commissione europea ha esagerato (e ammette d’averlo fatto): ha dato il suo avallo alla distribuzione di 3,2 milioni di copie di un’agenda destinata agli studenti dell’Ue d’età compresa fra i 12 e i 16 anni, che annovera, nel calendario, le feste ebraiche e musulmane, indu e sikhs, ma dimentica quelle cristiane: niente Natale (la Pasqua c’è, solo perchè la festeggiano pure gli ebrei, anche se con un significato diverso). Di questi tempi di cristiani ‘perseguitati’ là dove non sono maggioranza, la cosa non poteva passare inosservata : pazienza che non ci siano i santi, che non usano più tanto, ma il Natale… A lanciare l’allarme sono stati due euro-deputati francesi del Partito popolare europeo, Philippe Juvin e Constance LeGrip, che hanno chiesto alla Commissione di «ritirare l’agenda» e ne hanno preteso delle scuse «in nome dei 2000 anni di storia dell’Europa dalle radici cristiane». E l’organizzazione degli Espiscopati dell’Ue non ha tardato a reagire contro «la strana omissione». La Commissione ha riconosciuto l’errore, se n’è scusata, ma non manderà al macero le agende costate 5 milioni di euro e ricche d’informazioni sull’Ue: «La prossima edizione sarà rivista», assicurano i portavoce, mentre il commissario responsabile, John Dalli, maltese, si rammarica dell’incoerenza e assicura che prenderà «immediatamente le misure necessarie». Immediatamente, cioè l’anno prossimo. Per quest’anno, niente Natale.
Va bene il ‘politically correct’, va bene la tolleranza delle religioni altrui e persino l’apertura alle altrui divinità. Ma questa volta la Commissione europea ha esagerato (e ammette d’averlo fatto): ha dato il suo avallo alla distribuzione di 3,2 milioni di copie di un’agenda destinata agli studenti dell’Ue d’età compresa fra i 12 e i 16 anni, che annovera, nel calendario, le feste ebraiche e musulmane, indu e sikhs, ma dimentica quelle cristiane: niente Natale (la Pasqua c’è, solo perchè la festeggiano pure gli ebrei, anche se con un significato diverso). Di questi tempi di cristiani ‘perseguitati’ là dove non sono maggioranza, la cosa non poteva passare inosservata : pazienza che non ci siano i santi, che non usano più tanto, ma il Natale… A lanciare l’allarme sono stati due euro-deputati francesi del Partito popolare europeo, Philippe Juvin e Constance LeGrip, che hanno chiesto alla Commissione di «ritirare l’agenda» e ne hanno preteso delle scuse «in nome dei 2000 anni di storia dell’Europa dalle radici cristiane». E l’organizzazione degli Espiscopati dell’Ue non ha tardato a reagire contro «la strana omissione». La Commissione ha riconosciuto l’errore, se n’è scusata, ma non manderà al macero le agende costate 5 milioni di euro e ricche d’informazioni sull’Ue: «La prossima edizione sarà rivista», assicurano i portavoce, mentre il commissario responsabile, John Dalli, maltese, si rammarica dell’incoerenza e assicura che prenderà «immediatamente le misure necessarie». Immediatamente, cioè l’anno prossimo. Per quest’anno, niente Natale.
mercoledì 12 gennaio 2011
SPIGOLI: direttore di BankItalia presidente in Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/01/2011
Se c’è un’Italia che piace in Europa, questa è BankItalia: il governatore Mario Draghi non riuscirà, forse, a succedere al francese Jean-Claude Trichet alla guida della Banca centrale europea, perchè quel posto fa gola alla Germania, ma intanto un suo direttore, Andrea Enria, capo del Servizio Normativa e Politiche di Vigilanza, sta per diventare presidente dell’Autorità bancaria europea, una delle tre Autorità di supervisione create dall’Ue dopo la crisi e attive dal 1o gennaio –le altre due riguardano le assicurazioni e i mercati finanziari-. Sui nomi dei tre futuri presidenti, la stampa azzarda ipotesi, ma Les Echos scommette senza esitazione su Enria -ed ha ragione-. Le cose stanno cosi’: la Commissione europea vara oggi le cosiddette ‘short lists’, al massimo tre papabili per ciascuna Autorità, selezionati fra oltre 300 candidati iniziali. Le liste stilate dall’Esecutivo comunitario saranno poi oggetto della scelta definitiva (e i prescelti dovranno ancora passare l’esame di un’audizione pubblica al Parlamento europeo). Ma i patemi, per Enria, potrebbero già finire oggi: il suo nome, infatti, dovrebbe essere l’unico proposto per l’Autorità bancaria europea, dopo che il suo concorrente più accreditato, un britannico, s’è fatto da parte, avendo subodorato la sconfitta. Per i servizi finanziari rimarranno in corsa un belga e un olandese; per quelli assicurativi, un italiano potrebbe ritrovarsi nella terna con un portoghese e un belga. Sorpresa!, nessuna delle tre Autorità andrà, quindi, a un francese o a un tedesco, a un britannico o a uno spagnolo: Italia a parte, i Grandi d’Europa paiono avere un po’ snobbato queste corse.
Se c’è un’Italia che piace in Europa, questa è BankItalia: il governatore Mario Draghi non riuscirà, forse, a succedere al francese Jean-Claude Trichet alla guida della Banca centrale europea, perchè quel posto fa gola alla Germania, ma intanto un suo direttore, Andrea Enria, capo del Servizio Normativa e Politiche di Vigilanza, sta per diventare presidente dell’Autorità bancaria europea, una delle tre Autorità di supervisione create dall’Ue dopo la crisi e attive dal 1o gennaio –le altre due riguardano le assicurazioni e i mercati finanziari-. Sui nomi dei tre futuri presidenti, la stampa azzarda ipotesi, ma Les Echos scommette senza esitazione su Enria -ed ha ragione-. Le cose stanno cosi’: la Commissione europea vara oggi le cosiddette ‘short lists’, al massimo tre papabili per ciascuna Autorità, selezionati fra oltre 300 candidati iniziali. Le liste stilate dall’Esecutivo comunitario saranno poi oggetto della scelta definitiva (e i prescelti dovranno ancora passare l’esame di un’audizione pubblica al Parlamento europeo). Ma i patemi, per Enria, potrebbero già finire oggi: il suo nome, infatti, dovrebbe essere l’unico proposto per l’Autorità bancaria europea, dopo che il suo concorrente più accreditato, un britannico, s’è fatto da parte, avendo subodorato la sconfitta. Per i servizi finanziari rimarranno in corsa un belga e un olandese; per quelli assicurativi, un italiano potrebbe ritrovarsi nella terna con un portoghese e un belga. Sorpresa!, nessuna delle tre Autorità andrà, quindi, a un francese o a un tedesco, a un britannico o a uno spagnolo: Italia a parte, i Grandi d’Europa paiono avere un po’ snobbato queste corse.
martedì 11 gennaio 2011
Strage Tucson: lobbies e integralismi le radici della violenza
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/01/2011
La più famosa è la Nra, la National Rifle Association, la lobby che vuole ‘libera arma in libero Stato’: la Costituzione me l’ha data, in un emendamento, il secondo, che risale alla Guerra d’Indipendenza, e nessuno me la toglie. Il possesso di un fucile, o una pistola, da parte dei cittadini, era l'unico strumento che i patriotti americani avevano, allora, per difendere territori, case e famiglie. Il tempo è passato, ma l’emendamento resta: la Corte Suprema l’ha a più riprese avallato, l’ultima nel 2008.
L’uomo immagine della Nra fu per molti anni Charlton Heston, alias Ben Hur, che Michael Moore mise alla berlina nel suo ‘Bowling for Columbine’, docufilm sulla strage a scuola più tragica negli Usa. Intendiamoci, la maggioranza degli americani percepi’ l’irruzione di Moore nella casa di Heston come una violenza all’attore ormai anziano: il diritto al possesso delle armi, cosi’ come la pena di morte, resta largamente maggioritario negli Stati Uniti (e neppure il più liberal dei presidenti, non Carter, non Clinton, non Obama, ha mai provato a scalfirlo).
La Nra non è l’unica lobby dell’America più profonda. Nel film del 2005 ‘Thank You for Smoking’, più ironico che cattivo, i ‘mercanti di morte’, cioè i rappresentanti delle lobbies del tabacco, dell’alcool e, appunto, delle armi, si riuniscono e contare, come misura del loro successo, le vittime che fanno.
Eppure, non sono loro, i ‘mercanti di morte’ di Jason Reitman, a fertilizzare l’humus politico, sociale, religioso che produce, spesso, molto spesso, stragi da ordinaria follia o delitti ispirati dal fanatismo religioso o politico. Certo, le armi che puoi portarti addosso e, soprattutto, puoi acquistare, in qualche Stato, appena hai 18 anni, mentre per farti una birra devi aspettare i 21, c’entrano: se gli esaltati assassini se le potessero procurare meno facilmente, forse le stragi sarebbero meno frequenti.
Oggi, e non è la prima volta, l’America che non riesce a uscire dalla crisi e che va dietro ai pifferai qualunquisti del Tea Party, meno Stato, meno tasse, meno regole, come se questo volesse dire più libertà, più giustizia, più benessere, alza i toni del confronto e fa dell’antagonista un nemico. Certo, chi mette una deputata democratica ‘colpevole’ di essere abortista –‘pro scelta’, contrapposto a ‘pro vita’, si dice qui- e d’avere un approccio timidamente critico alla ‘libera arma’ sulla lista degli obiettivi da abbattere non vuole farle sparare e innescare una strage. Ma il messaggio d’odio, raccolto dalla mente instabile di un ragazzo sbandato, diventa un ordine di morte.
L’integralismo religioso anti-abortista, alimentato dai predicatori evangelici, ha già ucciso negli Stati Uniti: medici che praticavano l’aborto assassinati a freddo, gesti senza carità cristiana nè forza salvifica, crimini e basta. Ma anche il terrorismo cieco del qualunquismo esasperato ha già ucciso: il 19 aprile 1995, Timothy McVeigh, un estremista di destra anti-governo federale, fece esplodere un camion-bomba davanti a un edificio federale di Oklahoma City, uccidendo 168 persone. L’azione di McVeigh nasceva nel clima di esasperazione dell’avanzata repubblicana contro il presidente democratico Bill Clinton: il leader del Congresso era Newt Gingrich, uno che potrebbe cercare di nuovo la nomination alla Casa Bianca l’anno prossimo.
La strage di Timothy contribui’ a cambiare il clima. Clinton invocò la convivenza in nome di Dio e della Bibbia e si scagliò contro chi "sparge odio o ritiene accettabile il ricorso alla violenza". Per Politico.com, la strage di Tucson potrebbe avere un effetto simile: Barack Obama ha parlato di “una tragedia per tutta la nazione”, denunciando “atti di violenza insensati e terribili che non hanno posto alcuno in una società libera”. L’America di Sara Palin lo starà a sentire?
La più famosa è la Nra, la National Rifle Association, la lobby che vuole ‘libera arma in libero Stato’: la Costituzione me l’ha data, in un emendamento, il secondo, che risale alla Guerra d’Indipendenza, e nessuno me la toglie. Il possesso di un fucile, o una pistola, da parte dei cittadini, era l'unico strumento che i patriotti americani avevano, allora, per difendere territori, case e famiglie. Il tempo è passato, ma l’emendamento resta: la Corte Suprema l’ha a più riprese avallato, l’ultima nel 2008.
L’uomo immagine della Nra fu per molti anni Charlton Heston, alias Ben Hur, che Michael Moore mise alla berlina nel suo ‘Bowling for Columbine’, docufilm sulla strage a scuola più tragica negli Usa. Intendiamoci, la maggioranza degli americani percepi’ l’irruzione di Moore nella casa di Heston come una violenza all’attore ormai anziano: il diritto al possesso delle armi, cosi’ come la pena di morte, resta largamente maggioritario negli Stati Uniti (e neppure il più liberal dei presidenti, non Carter, non Clinton, non Obama, ha mai provato a scalfirlo).
La Nra non è l’unica lobby dell’America più profonda. Nel film del 2005 ‘Thank You for Smoking’, più ironico che cattivo, i ‘mercanti di morte’, cioè i rappresentanti delle lobbies del tabacco, dell’alcool e, appunto, delle armi, si riuniscono e contare, come misura del loro successo, le vittime che fanno.
Eppure, non sono loro, i ‘mercanti di morte’ di Jason Reitman, a fertilizzare l’humus politico, sociale, religioso che produce, spesso, molto spesso, stragi da ordinaria follia o delitti ispirati dal fanatismo religioso o politico. Certo, le armi che puoi portarti addosso e, soprattutto, puoi acquistare, in qualche Stato, appena hai 18 anni, mentre per farti una birra devi aspettare i 21, c’entrano: se gli esaltati assassini se le potessero procurare meno facilmente, forse le stragi sarebbero meno frequenti.
Oggi, e non è la prima volta, l’America che non riesce a uscire dalla crisi e che va dietro ai pifferai qualunquisti del Tea Party, meno Stato, meno tasse, meno regole, come se questo volesse dire più libertà, più giustizia, più benessere, alza i toni del confronto e fa dell’antagonista un nemico. Certo, chi mette una deputata democratica ‘colpevole’ di essere abortista –‘pro scelta’, contrapposto a ‘pro vita’, si dice qui- e d’avere un approccio timidamente critico alla ‘libera arma’ sulla lista degli obiettivi da abbattere non vuole farle sparare e innescare una strage. Ma il messaggio d’odio, raccolto dalla mente instabile di un ragazzo sbandato, diventa un ordine di morte.
L’integralismo religioso anti-abortista, alimentato dai predicatori evangelici, ha già ucciso negli Stati Uniti: medici che praticavano l’aborto assassinati a freddo, gesti senza carità cristiana nè forza salvifica, crimini e basta. Ma anche il terrorismo cieco del qualunquismo esasperato ha già ucciso: il 19 aprile 1995, Timothy McVeigh, un estremista di destra anti-governo federale, fece esplodere un camion-bomba davanti a un edificio federale di Oklahoma City, uccidendo 168 persone. L’azione di McVeigh nasceva nel clima di esasperazione dell’avanzata repubblicana contro il presidente democratico Bill Clinton: il leader del Congresso era Newt Gingrich, uno che potrebbe cercare di nuovo la nomination alla Casa Bianca l’anno prossimo.
La strage di Timothy contribui’ a cambiare il clima. Clinton invocò la convivenza in nome di Dio e della Bibbia e si scagliò contro chi "sparge odio o ritiene accettabile il ricorso alla violenza". Per Politico.com, la strage di Tucson potrebbe avere un effetto simile: Barack Obama ha parlato di “una tragedia per tutta la nazione”, denunciando “atti di violenza insensati e terribili che non hanno posto alcuno in una società libera”. L’America di Sara Palin lo starà a sentire?
Strage Tucson: Arizona, il Far West dei pensionati
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/01/2011
Nella geografia politica degli Stati Uniti, l’Arizona è uno Stato anomalo: stretto tra il New Mexico e le Montagne Rocciose, è incastonato nel mitico Far West dell’epopea western, ma, nel giro di una generazione, ha vissuto un duplice flusso migratorio, che ne ha modificato le radici. Quello ispanico, che penetra spesso illegalmente dalla lunga frontiera con il Messico e che è sovente solo in transito qui, diretto verso Stati più popolosi. E quello interno: una ‘carovana’ di pensionati relativamente agiati, provenienti spesso dal freddo (ed ‘europeo’) New England, che hanno scoperto i vantaggi per la salute del clima –secco, anche se d’estate il caldo di Phoenix è acquoso- e per il portafoglio dei costi delle case (con quello che a New York ti basta per un loft, qui ti compri una casa con terreno intorno). Cosi’, l’Arizona è diventata un’alternativa rispetto alle mete tradizionali della Terza Età negli Stati Uniti, California e Florida. Anche l’identità delle vittime della strage di Tucson lo conferma: tre su sei sono persone anziane, fuori dal lavoro, ma ancora socialmente attive.
Una superficie grande quasi quanto quella dell’Italia, 295mila kmq contro 316mila; ma una popolazione di poco più di 6 milioni di abitanti, circa un decimo dell’Italia, due terzi dei quali concentrati nell’agglomerato urbano di Phoenix, la capitale e la città dei Suns di Steve Nash e Vince Carter, una delle squadre più toste dell’Nba –ma questa non è la sua stagione-; l’Arizona è lo Stato del Grand Canyon, la più popolare meta turistica naturale degli Stati Uniti, e della cinematograficamente mitica Yuma –che, pero’, agli americani non dice molto: ‘Quel treno per Yuma’, Delmer Daves, 1957, da loro s’intitola più ellitticamente ‘3.10 to Yuma’).
Ma l’Arizona non è solo grandi spazi vuoti e meraviglie della natura. L’uomo, qui, ha lasciato segni importanti: Frank Lloyd Wright, il più grande architetto statunitense, venne a realizzarvi la sua ultima utopia, a Taliesin West, Scottsdale; e, un italiano, Paolo Soleri, lavora tuttora al progetto di Arcosanti, destinato a restare incompiuto, una cattedrale dell’utopia nel deserto.
Politicamente, l’Arizona è uno stato tendenzialmente repubblicano, ma moderato, capace di rispecchiarsi nel senatore repubblicano John MCCain, un eroe di guerra, prigioniero per setti anni in Vietnam, l’unico vero antagonista di George W. Bush nelle primarie del 2000 e, poi, la voce del dissenso all’interno del partito negli otto anni della sua sciagurata presidenza, candidato alla Casa Bianca nel 2008 (sconfitto da Barack Obama). E, contemporaneamente, in una governatrice democratica, donna e progressista, Janet Napolitano, oggi ‘ministro dell’interno’ del presidente Obama.
Nell’Arizona delle chiome d’argento, alcuni dei ‘cavalli di battaglia’ repubblicani, come i temi della sicurezza e, soprattutto, dell’immigrazione, vanno forte. E, infatti, Gabrielle Giffords, la deputata democratica obiettivo della strage di sabato a Tucson, era impegnata su quei fronti, sia pure alla ricerca di una sua Terza Via tra il pugno di ferro repubblicano e il guanto di velluto democratico. Ma fanno meno presa gli integralismi cristiani, che pure avrebbero ispirato lo sparatore, un giovane instabile. E non attecchiscono le isterie anti-governo del Tea Party, un cui candidato proprio la Giffords aveva battuto, e non d’un pelo, nelle elezioni di midterm del 2 novembre.
Nella geografia politica degli Stati Uniti, l’Arizona è uno Stato anomalo: stretto tra il New Mexico e le Montagne Rocciose, è incastonato nel mitico Far West dell’epopea western, ma, nel giro di una generazione, ha vissuto un duplice flusso migratorio, che ne ha modificato le radici. Quello ispanico, che penetra spesso illegalmente dalla lunga frontiera con il Messico e che è sovente solo in transito qui, diretto verso Stati più popolosi. E quello interno: una ‘carovana’ di pensionati relativamente agiati, provenienti spesso dal freddo (ed ‘europeo’) New England, che hanno scoperto i vantaggi per la salute del clima –secco, anche se d’estate il caldo di Phoenix è acquoso- e per il portafoglio dei costi delle case (con quello che a New York ti basta per un loft, qui ti compri una casa con terreno intorno). Cosi’, l’Arizona è diventata un’alternativa rispetto alle mete tradizionali della Terza Età negli Stati Uniti, California e Florida. Anche l’identità delle vittime della strage di Tucson lo conferma: tre su sei sono persone anziane, fuori dal lavoro, ma ancora socialmente attive.
Una superficie grande quasi quanto quella dell’Italia, 295mila kmq contro 316mila; ma una popolazione di poco più di 6 milioni di abitanti, circa un decimo dell’Italia, due terzi dei quali concentrati nell’agglomerato urbano di Phoenix, la capitale e la città dei Suns di Steve Nash e Vince Carter, una delle squadre più toste dell’Nba –ma questa non è la sua stagione-; l’Arizona è lo Stato del Grand Canyon, la più popolare meta turistica naturale degli Stati Uniti, e della cinematograficamente mitica Yuma –che, pero’, agli americani non dice molto: ‘Quel treno per Yuma’, Delmer Daves, 1957, da loro s’intitola più ellitticamente ‘3.10 to Yuma’).
Ma l’Arizona non è solo grandi spazi vuoti e meraviglie della natura. L’uomo, qui, ha lasciato segni importanti: Frank Lloyd Wright, il più grande architetto statunitense, venne a realizzarvi la sua ultima utopia, a Taliesin West, Scottsdale; e, un italiano, Paolo Soleri, lavora tuttora al progetto di Arcosanti, destinato a restare incompiuto, una cattedrale dell’utopia nel deserto.
Politicamente, l’Arizona è uno stato tendenzialmente repubblicano, ma moderato, capace di rispecchiarsi nel senatore repubblicano John MCCain, un eroe di guerra, prigioniero per setti anni in Vietnam, l’unico vero antagonista di George W. Bush nelle primarie del 2000 e, poi, la voce del dissenso all’interno del partito negli otto anni della sua sciagurata presidenza, candidato alla Casa Bianca nel 2008 (sconfitto da Barack Obama). E, contemporaneamente, in una governatrice democratica, donna e progressista, Janet Napolitano, oggi ‘ministro dell’interno’ del presidente Obama.
Nell’Arizona delle chiome d’argento, alcuni dei ‘cavalli di battaglia’ repubblicani, come i temi della sicurezza e, soprattutto, dell’immigrazione, vanno forte. E, infatti, Gabrielle Giffords, la deputata democratica obiettivo della strage di sabato a Tucson, era impegnata su quei fronti, sia pure alla ricerca di una sua Terza Via tra il pugno di ferro repubblicano e il guanto di velluto democratico. Ma fanno meno presa gli integralismi cristiani, che pure avrebbero ispirato lo sparatore, un giovane instabile. E non attecchiscono le isterie anti-governo del Tea Party, un cui candidato proprio la Giffords aveva battuto, e non d’un pelo, nelle elezioni di midterm del 2 novembre.
SPIGOLI: tutto sulla Gioconda, una Sforza in Val di Trebbia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 11/01/2011
I misteri di Monna Lisa svelati, tutti (o quasi) in una volta da due quotidiani britannici attraverso i lavori di due studiosi italiani: chi era nella realtà la Gioconda del ritratto più enigmatico nella storia della pittura?, e lo sfondo in cui accenna il suo sorriso è immaginario o reale? Il Telegraph e il Daily Mail danno «risposte definitive» a questi secolari quesiti, grazie alle ricerche di Carla Glori, una storica dell’arte di Savona, e Silvano Vinceti, presidente del comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici e culturali. Ma la storia non finisce di certo qui, perchè gli stessi due quotidiani britannici citano altri studiosi che confutano le conclusioni della Glori e di Vinceti. Dunque, Monna Lisa era, o sarebbe stata, Bianca Giovanna Sforza, figlia di Ludovico il Moro (e non come altri pensano Lisa Gherardini, moglie di un commerciante di seta fiorentino); e lo sfondo del ritratto sarebbe la valle del Trebbia, a Bobbio, nel Piacentino, terra del Moro, con il Ponte Gobbo, o ‘del diavolo’, dalle caratteristiche arcate diseguali. Naturalmente, il tutto s’intreccia con simboli esoterici che sarebbero celati nel dipinto (ma che potrebbero, pero’, essere solo crepe nella pittura causate dal tempo), con le suggestioni religiose del ‘Codice da Vinci’ di Dan Brown e, se proprio vogliamo riempire la misura, con la dotta narrativa di Umberto Eco, la cui abbazia de Il Nome della Rosa, almeno nella ricostruzione cinematografica, domina proprio la Valle del Trebbia.
I misteri di Monna Lisa svelati, tutti (o quasi) in una volta da due quotidiani britannici attraverso i lavori di due studiosi italiani: chi era nella realtà la Gioconda del ritratto più enigmatico nella storia della pittura?, e lo sfondo in cui accenna il suo sorriso è immaginario o reale? Il Telegraph e il Daily Mail danno «risposte definitive» a questi secolari quesiti, grazie alle ricerche di Carla Glori, una storica dell’arte di Savona, e Silvano Vinceti, presidente del comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici e culturali. Ma la storia non finisce di certo qui, perchè gli stessi due quotidiani britannici citano altri studiosi che confutano le conclusioni della Glori e di Vinceti. Dunque, Monna Lisa era, o sarebbe stata, Bianca Giovanna Sforza, figlia di Ludovico il Moro (e non come altri pensano Lisa Gherardini, moglie di un commerciante di seta fiorentino); e lo sfondo del ritratto sarebbe la valle del Trebbia, a Bobbio, nel Piacentino, terra del Moro, con il Ponte Gobbo, o ‘del diavolo’, dalle caratteristiche arcate diseguali. Naturalmente, il tutto s’intreccia con simboli esoterici che sarebbero celati nel dipinto (ma che potrebbero, pero’, essere solo crepe nella pittura causate dal tempo), con le suggestioni religiose del ‘Codice da Vinci’ di Dan Brown e, se proprio vogliamo riempire la misura, con la dotta narrativa di Umberto Eco, la cui abbazia de Il Nome della Rosa, almeno nella ricostruzione cinematografica, domina proprio la Valle del Trebbia.
domenica 9 gennaio 2011
BIELORUSSIA: l'Ue contro Lukashenko, l'amico di Mr B
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/01/2011
Se c’è una cosa che l’Ue del 27 non fa mai, è prendere decisioni precipitose. E, così, le ci vorranno sei settimane, oltre 40 giorni, per varare sanzioni contro la Bielorussia del presidente dittatore Aleksander Lukashenko, dopo le accuse di brogli, gli arresti di candidati e di manifestanti e la chiusura di sedi di organizzazioni internazionali che hanno seguito le presidenziali del 19 dicembre. Il varo delle sanzioni spetterà al Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Ue, convocato a Bruxelles il 31 gennaio, sotto la presidenza della responsabile della diplomazia europea, Lady Ashton, una che ha la flemma nel dna. Tra le misure allo studio, discusse venerdì a da un comitato d’esperti, dopo un rapporto del capo della delegazione dell’Ue a Minsk, c’è anche la sospensione del visto a decine di ‘gerarchi’, fra cui lo stesso Lukashenko: gli era già stato ritirato nel 2008 (ma il provvedimento era poi stato’congelato’). Così, il presidente bielorusso sarà ‘persona non grata’ nell’Unione europea.
Dopo le contestate elezioni presidenziali, Lady Ashton ha espresso, a due riprese, prima di Natale e all’inizio del 2011, la condanna dell’Ue e, in comunicati congiunti con Hillary Clinton, il segretario di Stato americano, ha avvertito Lukashenko che le relazioni con la Bielorussia potrebbero cambiare nel tono e nella sostanza, se il regime non libera i candidati arrestati –cinque- e gli oppositori fermati –inizialmente, circa 600, una metà dei quali è ancora in carcere-. Le forze di sicurezza bielorusse intervennero quando migliaia di manifestanti cercarono d’invadere la sede del governo.
Però, l’unità dei 27 sulle sanzioni va costruita e Lukashenko ha qualche amico fra i leader dei 27, magari pochi, anzi uno solo, ma buono, il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Dopo il voto, il Cavaliere ha taciuto, mentre il ministro degli esteri Franco Frattini si diceva “preoccupato per gli episodi di repressione e violenza: gli arresti sono inaccettabili''. Pochi giorni dopo il voto, Frattini riceveva alla Farnesina il collega bielorusso Sergei Martynov, cui ha ribadito le sue ansie, ma con cui ha poi parlato di un centinaio di adozioni di bimbi bielorussi da parte di coppie italiane.
Roma non è stata, però, l’unica ad abboccare, per interesse, non certo per ingenuità, alle lusinghe del regime di Lukashenko. Un mese prima delle presidenziali, il commissario Ue all’allargamento e alle politiche di vicinato Stefan Fule esprimeva l’auspicio che la delegazione a Minsk potesse essere elevata al rango di ambasciata. E, infatti, Frattini colloca “nel quadro dell’Ue” l’appoggio dell’Italia “alla politica di apertura e graduale reintegrazione della Bielorussia nella comunità internazionale”, ammettendo che la vicenda post-elettorale “non aiuta a costruire il clima di fiducia necessario” e “non è negli interessi della stessa Bielorussia''.
Chiaro che la strada per giungere a sanzioni è lunga, se si parte con tanta prudenza. Ora, però, la via pare imboccata. Lady Ashton, galvanizzata dalla buona compagnia di Hillary Clinton, serra i tempi dei preparativi, anche se non ha mai preso in esame l’ipotesi di anticipare la riunione dei ministri. E gli ambasciatori dei 27 a Minsk chiedono, con una nota, di incontrare i candidati detenuti. A nome dei colleghi, l’ungherese Ferenc Kontra -l'Ungheria esercita la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue- spiega che vogliono verificare le condizioni di salute degli incarcerati, proprio in vista della riunione del 31 gennaio.
Se c’è una cosa che l’Ue del 27 non fa mai, è prendere decisioni precipitose. E, così, le ci vorranno sei settimane, oltre 40 giorni, per varare sanzioni contro la Bielorussia del presidente dittatore Aleksander Lukashenko, dopo le accuse di brogli, gli arresti di candidati e di manifestanti e la chiusura di sedi di organizzazioni internazionali che hanno seguito le presidenziali del 19 dicembre. Il varo delle sanzioni spetterà al Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Ue, convocato a Bruxelles il 31 gennaio, sotto la presidenza della responsabile della diplomazia europea, Lady Ashton, una che ha la flemma nel dna. Tra le misure allo studio, discusse venerdì a da un comitato d’esperti, dopo un rapporto del capo della delegazione dell’Ue a Minsk, c’è anche la sospensione del visto a decine di ‘gerarchi’, fra cui lo stesso Lukashenko: gli era già stato ritirato nel 2008 (ma il provvedimento era poi stato’congelato’). Così, il presidente bielorusso sarà ‘persona non grata’ nell’Unione europea.
Dopo le contestate elezioni presidenziali, Lady Ashton ha espresso, a due riprese, prima di Natale e all’inizio del 2011, la condanna dell’Ue e, in comunicati congiunti con Hillary Clinton, il segretario di Stato americano, ha avvertito Lukashenko che le relazioni con la Bielorussia potrebbero cambiare nel tono e nella sostanza, se il regime non libera i candidati arrestati –cinque- e gli oppositori fermati –inizialmente, circa 600, una metà dei quali è ancora in carcere-. Le forze di sicurezza bielorusse intervennero quando migliaia di manifestanti cercarono d’invadere la sede del governo.
Però, l’unità dei 27 sulle sanzioni va costruita e Lukashenko ha qualche amico fra i leader dei 27, magari pochi, anzi uno solo, ma buono, il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Dopo il voto, il Cavaliere ha taciuto, mentre il ministro degli esteri Franco Frattini si diceva “preoccupato per gli episodi di repressione e violenza: gli arresti sono inaccettabili''. Pochi giorni dopo il voto, Frattini riceveva alla Farnesina il collega bielorusso Sergei Martynov, cui ha ribadito le sue ansie, ma con cui ha poi parlato di un centinaio di adozioni di bimbi bielorussi da parte di coppie italiane.
Roma non è stata, però, l’unica ad abboccare, per interesse, non certo per ingenuità, alle lusinghe del regime di Lukashenko. Un mese prima delle presidenziali, il commissario Ue all’allargamento e alle politiche di vicinato Stefan Fule esprimeva l’auspicio che la delegazione a Minsk potesse essere elevata al rango di ambasciata. E, infatti, Frattini colloca “nel quadro dell’Ue” l’appoggio dell’Italia “alla politica di apertura e graduale reintegrazione della Bielorussia nella comunità internazionale”, ammettendo che la vicenda post-elettorale “non aiuta a costruire il clima di fiducia necessario” e “non è negli interessi della stessa Bielorussia''.
Chiaro che la strada per giungere a sanzioni è lunga, se si parte con tanta prudenza. Ora, però, la via pare imboccata. Lady Ashton, galvanizzata dalla buona compagnia di Hillary Clinton, serra i tempi dei preparativi, anche se non ha mai preso in esame l’ipotesi di anticipare la riunione dei ministri. E gli ambasciatori dei 27 a Minsk chiedono, con una nota, di incontrare i candidati detenuti. A nome dei colleghi, l’ungherese Ferenc Kontra -l'Ungheria esercita la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue- spiega che vogliono verificare le condizioni di salute degli incarcerati, proprio in vista della riunione del 31 gennaio.
giovedì 6 gennaio 2011
Copti: dopo le stragi, Natale di minacce e di ansia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/01/2011
Cresce anche in Italia l'allerta per il Natale copto, domani 7 gennaio, dopo l'attentato del 31 dicembre alla chiesa dei Santi ad Alessandria d'Egitto (21 le vittime). In una circolare inviata a prefetti e questori, il dipartimento della Pubblica Sicurezza chiede di alzare la vigilanza sui luoghi di culto copti nella Penisola, dove la comunità conta 50 mila fedeli. Sui siti integralisti, appaiono presagi, poi ritrattati, di nuovo sangue: il «cane del Vaticano», cioè il Papa, e Barack Obama, ma anche l’Onu, Hamas, ovviamente i copti, persino i Fratelli Musulmani, sono accumunati nelle minacce da ‘Mujahedin’, il sito che aveva già messo la chiesa dei Santi fra gli obiettivi da colpire. E ‘Mujahedin’ rilancia la richiesta di liberazione di due donne copte che si sarebbero convertite all’Islam e che sarebbero prigioniere in monasteri copti : «Liberatele per evitarvi nuove catastrofi ! Abbiamo già ucciso centinaia di vostri fedeli ».
E, intanto, sotto la spinta dell’Italia e della Francia, prende forma l’idea d’un’azione dell’Europa per la protezione delle comunità cristiane d’Oriente, dopo la serie di crimini perpetrati contro i cristiani nelle Filippine, in Iraq, in Nigeria e da ultimo in Egitto (li’, forse, ad opera d’un kamikaze afghano). Il presidente della Commissione europea, José Manuel Durao Barroso, auspica azioni che possano evitare l’escalation della violenza contro i cristiani, anche se non è chiaro quali strumenti l’Ue possa usare. E i ministri degli esteri dei 27 potrebbero discutere, il 31 gennaio, quando si riuniranno a Bruxelles, «una risposta concertata» alle minacce che «al Qaida fa planare sui cristiani d’Oriente» (le citazioni sono tratte da una lettera co-firmata dai ministri degli esteri italiano Franco Frattini e francese Michèle Alliot-Marie).
Per ora, la minaccia ci sfiora, almeno secondo i servizi di sicurezza italiani. La circolare invita le autorità locali a censire le chiese copte presenti in Italia, considerate obiettivi sensibili, e a valutare misure di vigilanza e prevenzione adeguate nei pressi degli edifici, nell’imminenza del Natale copto. Le misure di prevenzione sono in parte già in atto visto che la festività si celebra domani: il 7 gennaio è considerato il giorno in cui nacque Gesù anche dai i cristiani ortodossi e segna la fine di un periodo di digiuno lungo più di 40 giorni. La circolare del Dipartimento fa seguito a disposizioni già inviate a prefetti e questori, nelle quali si chiedeva di alzare in ogni caso il livello d'attenzione dopo l'attentato di Alessandria.
Le misure di prevenzione, in Egitto, in Italia, ovunque le comunità copte sono presenti, s’intrecciano con le iniziative di solidarietà verso i copti e, in genere, verso le minoranze religiose, perchè nel mondo va crescendo l’intolleranza violenta ed estremista. Nel mirino, anche musulmani moderati, come dimostra l’assassinio, martedi’, a Islamabad, del governatore della provincia del Punjab, la più popolosa del Pakistan: Salman Taseer, 66 anni, è stato ucciso da una guardia del corpo, perchè si opponeva alla legge sulla blasfermia, sostenuta da numerose organizzazioni integraliste musulmane, ed era favorevole alla liberazione di Asia Bibi, la giovane pakistana di fede cristiana condannata a morte proprio per blasfemia. L’omicidio è stato rivendicato da Tehrik-i Taliban, il principale gruppo talebano del Pakistan.
E l’intolleranza alimenta l’intolleranza. In Egitto, ieri, sono stati liberati 23 copti arrestati a novembre per le violenze al Cairo dopo lo stop alla costruzione d’una chiesa nella capitale egiziana (dei 154 allora fermati, erano gli ultimi ancora detenuti). Ma, parallelamente, cresce in Europa l’ostilità alla costruzione di nuove moschee.
Cresce anche in Italia l'allerta per il Natale copto, domani 7 gennaio, dopo l'attentato del 31 dicembre alla chiesa dei Santi ad Alessandria d'Egitto (21 le vittime). In una circolare inviata a prefetti e questori, il dipartimento della Pubblica Sicurezza chiede di alzare la vigilanza sui luoghi di culto copti nella Penisola, dove la comunità conta 50 mila fedeli. Sui siti integralisti, appaiono presagi, poi ritrattati, di nuovo sangue: il «cane del Vaticano», cioè il Papa, e Barack Obama, ma anche l’Onu, Hamas, ovviamente i copti, persino i Fratelli Musulmani, sono accumunati nelle minacce da ‘Mujahedin’, il sito che aveva già messo la chiesa dei Santi fra gli obiettivi da colpire. E ‘Mujahedin’ rilancia la richiesta di liberazione di due donne copte che si sarebbero convertite all’Islam e che sarebbero prigioniere in monasteri copti : «Liberatele per evitarvi nuove catastrofi ! Abbiamo già ucciso centinaia di vostri fedeli ».
E, intanto, sotto la spinta dell’Italia e della Francia, prende forma l’idea d’un’azione dell’Europa per la protezione delle comunità cristiane d’Oriente, dopo la serie di crimini perpetrati contro i cristiani nelle Filippine, in Iraq, in Nigeria e da ultimo in Egitto (li’, forse, ad opera d’un kamikaze afghano). Il presidente della Commissione europea, José Manuel Durao Barroso, auspica azioni che possano evitare l’escalation della violenza contro i cristiani, anche se non è chiaro quali strumenti l’Ue possa usare. E i ministri degli esteri dei 27 potrebbero discutere, il 31 gennaio, quando si riuniranno a Bruxelles, «una risposta concertata» alle minacce che «al Qaida fa planare sui cristiani d’Oriente» (le citazioni sono tratte da una lettera co-firmata dai ministri degli esteri italiano Franco Frattini e francese Michèle Alliot-Marie).
Per ora, la minaccia ci sfiora, almeno secondo i servizi di sicurezza italiani. La circolare invita le autorità locali a censire le chiese copte presenti in Italia, considerate obiettivi sensibili, e a valutare misure di vigilanza e prevenzione adeguate nei pressi degli edifici, nell’imminenza del Natale copto. Le misure di prevenzione sono in parte già in atto visto che la festività si celebra domani: il 7 gennaio è considerato il giorno in cui nacque Gesù anche dai i cristiani ortodossi e segna la fine di un periodo di digiuno lungo più di 40 giorni. La circolare del Dipartimento fa seguito a disposizioni già inviate a prefetti e questori, nelle quali si chiedeva di alzare in ogni caso il livello d'attenzione dopo l'attentato di Alessandria.
Le misure di prevenzione, in Egitto, in Italia, ovunque le comunità copte sono presenti, s’intrecciano con le iniziative di solidarietà verso i copti e, in genere, verso le minoranze religiose, perchè nel mondo va crescendo l’intolleranza violenta ed estremista. Nel mirino, anche musulmani moderati, come dimostra l’assassinio, martedi’, a Islamabad, del governatore della provincia del Punjab, la più popolosa del Pakistan: Salman Taseer, 66 anni, è stato ucciso da una guardia del corpo, perchè si opponeva alla legge sulla blasfermia, sostenuta da numerose organizzazioni integraliste musulmane, ed era favorevole alla liberazione di Asia Bibi, la giovane pakistana di fede cristiana condannata a morte proprio per blasfemia. L’omicidio è stato rivendicato da Tehrik-i Taliban, il principale gruppo talebano del Pakistan.
E l’intolleranza alimenta l’intolleranza. In Egitto, ieri, sono stati liberati 23 copti arrestati a novembre per le violenze al Cairo dopo lo stop alla costruzione d’una chiesa nella capitale egiziana (dei 154 allora fermati, erano gli ultimi ancora detenuti). Ma, parallelamente, cresce in Europa l’ostilità alla costruzione di nuove moschee.
SPIGOLI: la tassa 'guasta feste' e l'utopica rivoluzione
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/01/2011
Come ti rovino le vacanze a Roma! Il Guardian e il Telegraph si lamentano entrambi, lo stesso giorno, e con titoli analoghi, della nuova tassa comunale sugli hotel, che dovrebbe portare all’amministrazione capitolina 82 milioni di euro l’anno, destinati, in larga parte, a migliorare il decoro cittadino (e il 5% servirà a promuovere Roma nel mondo come meta turistica). Il Guardian afferma che « la tassa sugli hotel rovina il clima di festa » nella Città Eterna e il Telegraph constata che "i turisti sono colpiti dalla nuova tassa» (ovvio, visto che la pagano: da un euro a tre euro a persona e per notte, a seconda del livello degli alberghi in cui alloggiano). Sulle colonne dei due giornali britannici, protestano tutti : i turisti che pagano, gli albergatori che non ci guadagnano nulla –e che devono spiegare ai clienti quel balzello supplementare-e persino gli operatori turistici, che pure godono di qualche (contestata) esenzione. E’ proprio tutto da rifare?, come vuole la tradizione dell’Italia dei Bartali. A risollevarci il morale, ci pensa, o almeno ci prova, il Chicago Tribune, che dalle rive del Michigan, annuncia una ‘rivoluzione italiana’ sul Tevere nel 2011: i visitatori pagheranno, magari, la tassa sugli hotel, ma troveranno un’Italia «meno anarchica», a tratti persino «germanica», con il Colosseo ripulito, i Musei Vaticani meglio organizzati, la stazione Tiburtina trasformata e funzionale, i negozi aperti ‘non stop’. E la rivoluzione dell’efficienza contagia Firenze, Pisa, Milano, Venezia. Un sogno!, appunto…
Come ti rovino le vacanze a Roma! Il Guardian e il Telegraph si lamentano entrambi, lo stesso giorno, e con titoli analoghi, della nuova tassa comunale sugli hotel, che dovrebbe portare all’amministrazione capitolina 82 milioni di euro l’anno, destinati, in larga parte, a migliorare il decoro cittadino (e il 5% servirà a promuovere Roma nel mondo come meta turistica). Il Guardian afferma che « la tassa sugli hotel rovina il clima di festa » nella Città Eterna e il Telegraph constata che "i turisti sono colpiti dalla nuova tassa» (ovvio, visto che la pagano: da un euro a tre euro a persona e per notte, a seconda del livello degli alberghi in cui alloggiano). Sulle colonne dei due giornali britannici, protestano tutti : i turisti che pagano, gli albergatori che non ci guadagnano nulla –e che devono spiegare ai clienti quel balzello supplementare-e persino gli operatori turistici, che pure godono di qualche (contestata) esenzione. E’ proprio tutto da rifare?, come vuole la tradizione dell’Italia dei Bartali. A risollevarci il morale, ci pensa, o almeno ci prova, il Chicago Tribune, che dalle rive del Michigan, annuncia una ‘rivoluzione italiana’ sul Tevere nel 2011: i visitatori pagheranno, magari, la tassa sugli hotel, ma troveranno un’Italia «meno anarchica», a tratti persino «germanica», con il Colosseo ripulito, i Musei Vaticani meglio organizzati, la stazione Tiburtina trasformata e funzionale, i negozi aperti ‘non stop’. E la rivoluzione dell’efficienza contagia Firenze, Pisa, Milano, Venezia. Un sogno!, appunto…
mercoledì 5 gennaio 2011
Ue: Ungheria, bavaglio e tasse, un esordio da incubo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/01/2011
Un esordio da incubo: peggio di cosi’, l’Ungheria non poteva davvero cominciare. E’ già sotto di un autogol, alla prima azione. E la squadra non è certo quella di Grosics e Kocsis dei Mondiali 1954. I magiari hanno appena avviato il semestre di presidenza del Consiglio dell’Ue, e non hanno ancora gestito un solo dossier, ma sono già finiti nel tritacarne delle critiche. O, meglio, ci si sono infilati da soli, approvando, sotto Natale, una legge –entrata in vigore il 1.o gennaio, proprio in coincidenza con l’inizio della presidenza- che per molti versi evoca il bavaglio minacciato alla stampa italiana.
E le autorità di Bruxelles, che non hanno certo soggezione di Budapest, fra i ‘parenti poveri’ economicamente e politicamente di questa Unione, fanno la voce grossa. Un portavoce della Commissione assicura: il fatto che l’Ungheria eserciti la presidenza di turno del Consiglio non impedirà all’Esecutivo di aprire una procedura d’infrazione se la legge sui media risulterà incompatibile con la direttiva 2007 sui servizi audiovisivi. Ci sono esempi del passato che mostrano come il calendario delle infrazioni non sia ‘sincronizzato’ con quello delle presidenze.
Anzi, la Commissione s’è già mossa, anche se l’analisi giuridica del controverso testo deve ancora cominciare, perchè Budapest l’ha appena trasmesso a Bruxelles tradotto in inglese, ma senza condiscendenze. Il governo non intende cambiare la legge nonostante le numerose sollecitazioni. Anche i giornali ungheresi non filo-governativi sono insorti : in un titolo in prima, tradotto in tutte le 23 lingue dell’Unione, Nepszabadsag denunciava «La libertà di stampa ha cessato d’esistere in Ungheria». Ma il vice-premier Tibor Nevracsics contesta «l’isteria» dell’opposizione: «Se emergeranno problemi nella pratica, non esiteremo a modificare la legge».
In una lettera spedita il 24 dicembre al premier ungherese Viktor Orban, conservatore e alleato con la destra nazionalista, la vice-presidente dell’Esecutivo Neelie Kroes, olandese, responsabile del dossier, esprime le sue « inquietudini » per la nuova legge, che, fra l’altro, compromette l’indipendenza della stampa dal potere politico. La Kroes chiedeva «chiarimenti immediati», che stanno per arrivare. Il nuovo ‘Consiglio dei Media’ ungherese, i cui membri provengono in maggioranza dal partito al potere, il Fidesz, puo’ sanzionare in modo severo gli organi di stampa la cui produzione non sia «politicamente equilibrata» o che non rispettano «la dignità umana». La legge potrebbe pure essere in contrasto con l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che tutela la libertà d’espressione di ogni cittadino europeo e, più in generale, la libertà dei media e il loro pluralismo.
E la legge sulla stampa non è tutto. La Commissione europea ha già manifestato dubbi sulle nuove misure fiscali ungheresi, mentre 13 grandi gruppi industriali dell’Ue, specie tedeschi, hanno messo per iscritto le loro riserve sull’ ‘imposta di crisi’ introdotta da Budapest.
I dossiers controversi, la legge sui media e l’ ‘imposta di crisi’, saranno certamente discussi nella tradizionale riunione di concertazione tra la presidenza entrante e la Commissione, in programma venerdi’ a Budapest: di solito, è una formalità; stavolta, acquista rilievo. Se ne resterà il tempo, l’incontro sarà l’occasione per stilare un piano di lavoro per i prossimi sei mesi : sulla via della ripresa dell’economia e della difesa dell’euro, l’Unione non puo’ essere frenata da una presidenza claudicante e inesperta, dopo essere stata guidata nel 2010 da due Paesi esperti, la Spagna e il Belgio.
Un esordio da incubo: peggio di cosi’, l’Ungheria non poteva davvero cominciare. E’ già sotto di un autogol, alla prima azione. E la squadra non è certo quella di Grosics e Kocsis dei Mondiali 1954. I magiari hanno appena avviato il semestre di presidenza del Consiglio dell’Ue, e non hanno ancora gestito un solo dossier, ma sono già finiti nel tritacarne delle critiche. O, meglio, ci si sono infilati da soli, approvando, sotto Natale, una legge –entrata in vigore il 1.o gennaio, proprio in coincidenza con l’inizio della presidenza- che per molti versi evoca il bavaglio minacciato alla stampa italiana.
E le autorità di Bruxelles, che non hanno certo soggezione di Budapest, fra i ‘parenti poveri’ economicamente e politicamente di questa Unione, fanno la voce grossa. Un portavoce della Commissione assicura: il fatto che l’Ungheria eserciti la presidenza di turno del Consiglio non impedirà all’Esecutivo di aprire una procedura d’infrazione se la legge sui media risulterà incompatibile con la direttiva 2007 sui servizi audiovisivi. Ci sono esempi del passato che mostrano come il calendario delle infrazioni non sia ‘sincronizzato’ con quello delle presidenze.
Anzi, la Commissione s’è già mossa, anche se l’analisi giuridica del controverso testo deve ancora cominciare, perchè Budapest l’ha appena trasmesso a Bruxelles tradotto in inglese, ma senza condiscendenze. Il governo non intende cambiare la legge nonostante le numerose sollecitazioni. Anche i giornali ungheresi non filo-governativi sono insorti : in un titolo in prima, tradotto in tutte le 23 lingue dell’Unione, Nepszabadsag denunciava «La libertà di stampa ha cessato d’esistere in Ungheria». Ma il vice-premier Tibor Nevracsics contesta «l’isteria» dell’opposizione: «Se emergeranno problemi nella pratica, non esiteremo a modificare la legge».
In una lettera spedita il 24 dicembre al premier ungherese Viktor Orban, conservatore e alleato con la destra nazionalista, la vice-presidente dell’Esecutivo Neelie Kroes, olandese, responsabile del dossier, esprime le sue « inquietudini » per la nuova legge, che, fra l’altro, compromette l’indipendenza della stampa dal potere politico. La Kroes chiedeva «chiarimenti immediati», che stanno per arrivare. Il nuovo ‘Consiglio dei Media’ ungherese, i cui membri provengono in maggioranza dal partito al potere, il Fidesz, puo’ sanzionare in modo severo gli organi di stampa la cui produzione non sia «politicamente equilibrata» o che non rispettano «la dignità umana». La legge potrebbe pure essere in contrasto con l’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che tutela la libertà d’espressione di ogni cittadino europeo e, più in generale, la libertà dei media e il loro pluralismo.
E la legge sulla stampa non è tutto. La Commissione europea ha già manifestato dubbi sulle nuove misure fiscali ungheresi, mentre 13 grandi gruppi industriali dell’Ue, specie tedeschi, hanno messo per iscritto le loro riserve sull’ ‘imposta di crisi’ introdotta da Budapest.
I dossiers controversi, la legge sui media e l’ ‘imposta di crisi’, saranno certamente discussi nella tradizionale riunione di concertazione tra la presidenza entrante e la Commissione, in programma venerdi’ a Budapest: di solito, è una formalità; stavolta, acquista rilievo. Se ne resterà il tempo, l’incontro sarà l’occasione per stilare un piano di lavoro per i prossimi sei mesi : sulla via della ripresa dell’economia e della difesa dell’euro, l’Unione non puo’ essere frenata da una presidenza claudicante e inesperta, dopo essere stata guidata nel 2010 da due Paesi esperti, la Spagna e il Belgio.
Battisti: Brasile sempre amico, l'Ue tace, e l'Italia resta sola
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/01/2011
Contro il no del Brasile all’estradizione di Cesare Battisti, assassino e terrorista, l’Italia del Cavaliere getta il sasso della protesta in piazza, tutti insieme, maggioranza e opposizione, ma già ritira la mano e prepara la resa. Ignazio La Russa, ministro della difesa, uno degli ‘incendiari’ nelle dichiarazioni a caldo, ammette che «i rapporti con il Brasile potranno anche restare gli stessi»: la strategia dell’Italia è stata «vincente», la decisione del presidente Lula è stata tutta condizionata «dalla politica interna» e noi «mica rompiamo le relazioni diplomatiche». La Russa parla, poi va a manifestare: a Piazza Navona e altrove in Italia, da Bari a Milano, ministri e sostenitori del governo partecipano ai sit-in «contro lo Stato Canaglia» -il Brasile, non l’Iran, o la Libia-.
In realtà, l’Italia ha già misurato la sua solitudine internazionale, in questa battaglia, che pure è giusta, perchè Battisti sconti la pena dei suoi delitti (e, ancor più, se possibile, della mancanza di pentimento). Il ministro deegli esteri Franco Frattini prima ha ipotizzato la via della Corte dell’Aja, percorribile seguendo il tracciato dell’accordo di estradizione bilaterale; poi ha sondato, ricevendo ieri alla Farnesina gli ambasciatori in Brasile e presso l’Ue, «le ripercussioni del caso in ambito europeo».
La notizia arriva a Bruxelles durante il ‘rendez-vous de midi’, l’appuntamento quotidiano della Commissione europea con la stampa accreditata. Interrogato dai giornalisti, il portavoce di turno non esita a dichiarare: «La Commissione non ha competenza per esercitare pressioni sul Brasile, perchè l’Ue non ha un accordo d’estradizione con il Brasile ». E aggiunge: «E’ una questione strettamente bilaterale e, nel caso, spetta al Brasile decidere».
E a chi gli chiedeva delle mosse del ministro Frattini, il portavoce risponde di «non esserne al corrente». Ora, l’Italia ha già mostrato in passato di sapere essere arrogante con i portavoce della Commissione: Mr B, stufo di essere smentito, chiese che venisse loro tappata la bocca perché sono funzionari e non politici (come se le loro attendibilità e professionalità avessero qualcosa da invidiare a quelle dei Bonaiuti o Capezzone di casa nostra). E la Farnesina dimentica la sua vocazione diplomatica e accusa il portavoce, «presumibilmente di turno per il periodo festivo», quindi –è sottinteso- incompetente, di avere espresso «con superficialità» «la sua valutazione sulla natura meramente bilaterale» del ‘caso Battisti’. E, invece, «il caso é assai più complesso» e «non si esclude, nelle prossime ore, un’iniziativa europea promossa dall’Italia».
Quale forma essa possa avere non è ancora chiaro. Palazzo Chigi annuncia una conferenza stampa a Bruxelles, entro il mese, di Silvio Berlusconi, nell’ambito dell’attività del Ppe, il Partito popolare europeo. Ma questa non puo’ esaurire l’offensiva europea italiana.
Di fatto, l’Europa, su questa vicenda, ha finora taciuto e ha lasciato l’Italia sola. E qualche ragione d’irritazione e d’ironia la Farnesina ce l’ha: il portavoce kamikaze sarebbe forse stato più prudente, se l’annuncio di un’iniziativa fosse venuto da Parigi, o da Berlino, o anche da Londra. Ma la credibilità uno se la deve costruire: mica la puo’ pretendere da un giorno all’altro, solo perchè questa volta ha ragione da vendere.
A chiedere che l’Europa, se c’è, batta un colpo sul ‘caso Battisti’ sono state solo voci italiane: il più attivo è l’immarcescibile deputato europeo leghista Mario Borghezio. Ma non c’è stato finora un solo deputato europeo non italiano che sia intervenuto, o un solo commissario che si sia indignato, o un solo capo di Stato dei 27 che abbia espresso il suo sdegno. Eppure, ogni giorno, feste o non feste, le caselle delle mail dei giornalisti di Bruxelles si riempiono di prese di posizione sulle cause più disparate.
Certo, mettersi contro il Brasile richiede un certo coraggio e, magari, un certo spregio degli interessi economici. Ma possibile che tutti se ne stiano cosi’ allineati e coperti ?, possibile che nessuno si senta più vicino all’Italia che al Brasile? Dietro il silenzio, c’è la solitudine internazionale dell’Italia di Mr B. E poi chiediamocelo onestamente: che cosa avremmo fatto noi, governo, diplomazia, gente in piazza, se il Brasile avesse negato l’estradizione a un terrorista dell’Eta?, o della Raf?, o di Action Directe?
Contro il no del Brasile all’estradizione di Cesare Battisti, assassino e terrorista, l’Italia del Cavaliere getta il sasso della protesta in piazza, tutti insieme, maggioranza e opposizione, ma già ritira la mano e prepara la resa. Ignazio La Russa, ministro della difesa, uno degli ‘incendiari’ nelle dichiarazioni a caldo, ammette che «i rapporti con il Brasile potranno anche restare gli stessi»: la strategia dell’Italia è stata «vincente», la decisione del presidente Lula è stata tutta condizionata «dalla politica interna» e noi «mica rompiamo le relazioni diplomatiche». La Russa parla, poi va a manifestare: a Piazza Navona e altrove in Italia, da Bari a Milano, ministri e sostenitori del governo partecipano ai sit-in «contro lo Stato Canaglia» -il Brasile, non l’Iran, o la Libia-.
In realtà, l’Italia ha già misurato la sua solitudine internazionale, in questa battaglia, che pure è giusta, perchè Battisti sconti la pena dei suoi delitti (e, ancor più, se possibile, della mancanza di pentimento). Il ministro deegli esteri Franco Frattini prima ha ipotizzato la via della Corte dell’Aja, percorribile seguendo il tracciato dell’accordo di estradizione bilaterale; poi ha sondato, ricevendo ieri alla Farnesina gli ambasciatori in Brasile e presso l’Ue, «le ripercussioni del caso in ambito europeo».
La notizia arriva a Bruxelles durante il ‘rendez-vous de midi’, l’appuntamento quotidiano della Commissione europea con la stampa accreditata. Interrogato dai giornalisti, il portavoce di turno non esita a dichiarare: «La Commissione non ha competenza per esercitare pressioni sul Brasile, perchè l’Ue non ha un accordo d’estradizione con il Brasile ». E aggiunge: «E’ una questione strettamente bilaterale e, nel caso, spetta al Brasile decidere».
E a chi gli chiedeva delle mosse del ministro Frattini, il portavoce risponde di «non esserne al corrente». Ora, l’Italia ha già mostrato in passato di sapere essere arrogante con i portavoce della Commissione: Mr B, stufo di essere smentito, chiese che venisse loro tappata la bocca perché sono funzionari e non politici (come se le loro attendibilità e professionalità avessero qualcosa da invidiare a quelle dei Bonaiuti o Capezzone di casa nostra). E la Farnesina dimentica la sua vocazione diplomatica e accusa il portavoce, «presumibilmente di turno per il periodo festivo», quindi –è sottinteso- incompetente, di avere espresso «con superficialità» «la sua valutazione sulla natura meramente bilaterale» del ‘caso Battisti’. E, invece, «il caso é assai più complesso» e «non si esclude, nelle prossime ore, un’iniziativa europea promossa dall’Italia».
Quale forma essa possa avere non è ancora chiaro. Palazzo Chigi annuncia una conferenza stampa a Bruxelles, entro il mese, di Silvio Berlusconi, nell’ambito dell’attività del Ppe, il Partito popolare europeo. Ma questa non puo’ esaurire l’offensiva europea italiana.
Di fatto, l’Europa, su questa vicenda, ha finora taciuto e ha lasciato l’Italia sola. E qualche ragione d’irritazione e d’ironia la Farnesina ce l’ha: il portavoce kamikaze sarebbe forse stato più prudente, se l’annuncio di un’iniziativa fosse venuto da Parigi, o da Berlino, o anche da Londra. Ma la credibilità uno se la deve costruire: mica la puo’ pretendere da un giorno all’altro, solo perchè questa volta ha ragione da vendere.
A chiedere che l’Europa, se c’è, batta un colpo sul ‘caso Battisti’ sono state solo voci italiane: il più attivo è l’immarcescibile deputato europeo leghista Mario Borghezio. Ma non c’è stato finora un solo deputato europeo non italiano che sia intervenuto, o un solo commissario che si sia indignato, o un solo capo di Stato dei 27 che abbia espresso il suo sdegno. Eppure, ogni giorno, feste o non feste, le caselle delle mail dei giornalisti di Bruxelles si riempiono di prese di posizione sulle cause più disparate.
Certo, mettersi contro il Brasile richiede un certo coraggio e, magari, un certo spregio degli interessi economici. Ma possibile che tutti se ne stiano cosi’ allineati e coperti ?, possibile che nessuno si senta più vicino all’Italia che al Brasile? Dietro il silenzio, c’è la solitudine internazionale dell’Italia di Mr B. E poi chiediamocelo onestamente: che cosa avremmo fatto noi, governo, diplomazia, gente in piazza, se il Brasile avesse negato l’estradizione a un terrorista dell’Eta?, o della Raf?, o di Action Directe?
SPIGOLI: Fiat, i titoli in borsa valgono più degli operai
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/01/2011
L’informazione economica e finanziaria ha i suoi tabù e le sue icone, che sia italiana o internazionale. Cosi’, la stampa estera, relativamente disinteressata, forse perchè c’era di mezzo il Capodanno, alle vicende della Fiat tra Pomigliano e Mirafiori (la frattura nel sindacato e il dibattito a sinistra tra ‘chi sta con l’azienda’ e ‘chi con i lavoratori in fabbrica’), è tutta alle velette, invece, per l’esordio in borsa del nuovo assetto del gruppo torinese («Una giornata storica » titolava a priori Les Echos), «ormai separato –constata Le Figaro- in due attività: automobili e mezzi pesanti». L’attenzione inglese e soprattutto americana é comprensibilmente puntata sull’alleanza con Chrysler : FT annuncia con enfasi il desiderio della Fiat di aumentare la quota salendo oltre il 51%, ma senza puntare alla fusione (un analista afferma, pero’, che la Fiat non riuscirà ad andare oltre il 35%), mentre l’Independent gioca con le parole: «Una Fiat più snella vuole mangiarsi la fetta più grossa di Chrysler». L’opinione diffusa è che l’operazione finanziaria sia stata un successo, il che accresce l’ammirazione per Sergio Marchionne e l’incomprensione per lo "smarrimento" degli operai –quelli, almeno, che non sono contenti di lavorare con cotanto ‘condottiero’-. Ma il WSJ colloca Marchionne fra i ‘capitani d’azienda’ che nel 2011 dovranno passare gli esami di riparazione, perchè «la forza della partnership Fiat-Chrysler sarà messa alla prova». Altri titoli su NYT, WP, Time, Chicago Tribune e molti siti Usa: «Fiat scinde operazioni auto e industriali, Marchionne vede il controllo di maggioranza della Chrysler possibile».
L’informazione economica e finanziaria ha i suoi tabù e le sue icone, che sia italiana o internazionale. Cosi’, la stampa estera, relativamente disinteressata, forse perchè c’era di mezzo il Capodanno, alle vicende della Fiat tra Pomigliano e Mirafiori (la frattura nel sindacato e il dibattito a sinistra tra ‘chi sta con l’azienda’ e ‘chi con i lavoratori in fabbrica’), è tutta alle velette, invece, per l’esordio in borsa del nuovo assetto del gruppo torinese («Una giornata storica » titolava a priori Les Echos), «ormai separato –constata Le Figaro- in due attività: automobili e mezzi pesanti». L’attenzione inglese e soprattutto americana é comprensibilmente puntata sull’alleanza con Chrysler : FT annuncia con enfasi il desiderio della Fiat di aumentare la quota salendo oltre il 51%, ma senza puntare alla fusione (un analista afferma, pero’, che la Fiat non riuscirà ad andare oltre il 35%), mentre l’Independent gioca con le parole: «Una Fiat più snella vuole mangiarsi la fetta più grossa di Chrysler». L’opinione diffusa è che l’operazione finanziaria sia stata un successo, il che accresce l’ammirazione per Sergio Marchionne e l’incomprensione per lo "smarrimento" degli operai –quelli, almeno, che non sono contenti di lavorare con cotanto ‘condottiero’-. Ma il WSJ colloca Marchionne fra i ‘capitani d’azienda’ che nel 2011 dovranno passare gli esami di riparazione, perchè «la forza della partnership Fiat-Chrysler sarà messa alla prova». Altri titoli su NYT, WP, Time, Chicago Tribune e molti siti Usa: «Fiat scinde operazioni auto e industriali, Marchionne vede il controllo di maggioranza della Chrysler possibile».
martedì 4 gennaio 2011
Sakineh: una, nessuna, centomila, i volti dell'inganno
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/01/2011
Chissà se il regista iraniano, il ‘grande burattinaio’ di questa che è ormai diventata una recita a soggetto in salsa integralista, ha presente gli intrecci pirandelliani del ‘Cosi’ è, se vi pare’ e dei ‘Sei personaggi in cerca d’autore’. Ma l’alternarsi continuo dei piani dell’apparenza e della realtà, subito destinata a rivelarsi illusione, trasforma Sakineh Mohammadi-Ashtiani, più si mostra e più compare, in una sorta di fantasma senza volto.
Il personaggio principale in scena è uno solo, ma i ruoli che recita sono molteplici. Sakineh, 43 anni, la donna iraniana condannata a morte, è stata volta a volta simbolo della rigidità del regime contro le adultere, condannata a morte per lapidazione; poi, è servita al regime a mostrare la sua duttilità: sempre condannata a morte, ma ‘solo’ per impiccagione, e non più per adulterio, bensi’ per complicità nell’assassinio del martito; in questa veste, è stata esibita dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad come ‘alter ego’ dell’americana Teresa Lewis, messa a morte, lei si’ senza ripensamenti, dalla giustizia della Virginia, nonostante un quoziente intellettivo appena legale, per avere tramato l’uccisione del marito; e ancora interprete di se stessa in una sorta d’ingenua fiction girata nella casa del delitto (e servita a ingannare l’opinione pubblica occidentale, che esultava per la liberazione prima di subodorare l’inganno); infine, alleata del regime in un’ennesima versione della sua confessione che coinvolge i due giornalisti tedeschi presi il 10 ottobre nello studio del suo legale, mentre il figlio, che l’ha sempre difesa, ora la dichiara colpevole, pur chiedendo clemenza.
A questo punto, è giusto ammettere che chi sia davvero Sakineh, donna, moglie, madre, adultera, omicida, innocente, colpevole, martire del regime, o collusa, pur d’avere salva la vita, con gli ayatollah, noi non lo sappiamo. Nè le autorità di Teheran paiono avere davvero a cuore la credibilità delle loro versioni successive e contraddittorie. Ogni volta, la vicenda giudiziaria viene ricostruita in modo diverso. E, ora, un magistrato avanza l’ipotesi che la sentenza di lapidazione, già sospesa a luglio, possa essere annullata, perchè «l’accusata nega … e ci sono punti oscuri nelle prove». Ma come ?, non aveva già confessato prima in tv ?, e nella fiction del 10 dicembre?, e poi di nuovo adesso? La sensazione è che il regime sfrutti la storia su tutti i fronti, pure nei negoziati nucleari con i Cinque Grandi più la Germania.
Lei, Sakineh, comparendo davanti ai giornalisti della stampa estera, chiede di essere "lasciata in pace" e minaccia querela contro i due cronisti tedeschi, contro l’ amante / omicida, contro il proprio legale. E mentre ci s’interroga su sincerità e attendibilità delle dichiarazioni, il regime piccona la credibilità delle organizzazioni che la difendono: sabato 1.o gennaio, prima dei colpi di scena a raffica delle ultime 48 ore, l’opposizione in esilio dava l’esecuzione per imminente.
E, invece, proprio sabato, Sakineh, secondo quanto reso noto dalle autorità iraniane, ha potuto incontrare i figli in una casa fuori dal carcere, ha cenato con loro, ha parlato alla stampa straniera, sotto il controllo della magistratura. Davanti ai giornalisti, che non potevano fare domande, la donna ha accusato i media occidentali di avere strumentalizzato politicamente, e così complicato, il suo caso. Bild am Sonntag, che vuole riportare a casa i suoi cronisti, considera "sorprendente" la sortita e un centinaio di tedeschi eccellenti, ministri, imprenditori e campioni come Michael Schumacher, firmano un appello per la liberazione dei due giornalisti. Mentre il filosofo francese Bernard-Henri Levy, una delle personalità più attive nel sostegno a Sakineh, denuncia quella che definisce la "manipolazione" della donna da parte delle autorità iraniane. Anche se a conti fatti, se tutte queste pantomime le garantiranno salva la vita, il gioco sarà comunque valso la candela. E, forse, un giorno racconteremo la vera storia di Sakineh, una, nessuna e centomila.
Chissà se il regista iraniano, il ‘grande burattinaio’ di questa che è ormai diventata una recita a soggetto in salsa integralista, ha presente gli intrecci pirandelliani del ‘Cosi’ è, se vi pare’ e dei ‘Sei personaggi in cerca d’autore’. Ma l’alternarsi continuo dei piani dell’apparenza e della realtà, subito destinata a rivelarsi illusione, trasforma Sakineh Mohammadi-Ashtiani, più si mostra e più compare, in una sorta di fantasma senza volto.
Il personaggio principale in scena è uno solo, ma i ruoli che recita sono molteplici. Sakineh, 43 anni, la donna iraniana condannata a morte, è stata volta a volta simbolo della rigidità del regime contro le adultere, condannata a morte per lapidazione; poi, è servita al regime a mostrare la sua duttilità: sempre condannata a morte, ma ‘solo’ per impiccagione, e non più per adulterio, bensi’ per complicità nell’assassinio del martito; in questa veste, è stata esibita dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad come ‘alter ego’ dell’americana Teresa Lewis, messa a morte, lei si’ senza ripensamenti, dalla giustizia della Virginia, nonostante un quoziente intellettivo appena legale, per avere tramato l’uccisione del marito; e ancora interprete di se stessa in una sorta d’ingenua fiction girata nella casa del delitto (e servita a ingannare l’opinione pubblica occidentale, che esultava per la liberazione prima di subodorare l’inganno); infine, alleata del regime in un’ennesima versione della sua confessione che coinvolge i due giornalisti tedeschi presi il 10 ottobre nello studio del suo legale, mentre il figlio, che l’ha sempre difesa, ora la dichiara colpevole, pur chiedendo clemenza.
A questo punto, è giusto ammettere che chi sia davvero Sakineh, donna, moglie, madre, adultera, omicida, innocente, colpevole, martire del regime, o collusa, pur d’avere salva la vita, con gli ayatollah, noi non lo sappiamo. Nè le autorità di Teheran paiono avere davvero a cuore la credibilità delle loro versioni successive e contraddittorie. Ogni volta, la vicenda giudiziaria viene ricostruita in modo diverso. E, ora, un magistrato avanza l’ipotesi che la sentenza di lapidazione, già sospesa a luglio, possa essere annullata, perchè «l’accusata nega … e ci sono punti oscuri nelle prove». Ma come ?, non aveva già confessato prima in tv ?, e nella fiction del 10 dicembre?, e poi di nuovo adesso? La sensazione è che il regime sfrutti la storia su tutti i fronti, pure nei negoziati nucleari con i Cinque Grandi più la Germania.
Lei, Sakineh, comparendo davanti ai giornalisti della stampa estera, chiede di essere "lasciata in pace" e minaccia querela contro i due cronisti tedeschi, contro l’ amante / omicida, contro il proprio legale. E mentre ci s’interroga su sincerità e attendibilità delle dichiarazioni, il regime piccona la credibilità delle organizzazioni che la difendono: sabato 1.o gennaio, prima dei colpi di scena a raffica delle ultime 48 ore, l’opposizione in esilio dava l’esecuzione per imminente.
E, invece, proprio sabato, Sakineh, secondo quanto reso noto dalle autorità iraniane, ha potuto incontrare i figli in una casa fuori dal carcere, ha cenato con loro, ha parlato alla stampa straniera, sotto il controllo della magistratura. Davanti ai giornalisti, che non potevano fare domande, la donna ha accusato i media occidentali di avere strumentalizzato politicamente, e così complicato, il suo caso. Bild am Sonntag, che vuole riportare a casa i suoi cronisti, considera "sorprendente" la sortita e un centinaio di tedeschi eccellenti, ministri, imprenditori e campioni come Michael Schumacher, firmano un appello per la liberazione dei due giornalisti. Mentre il filosofo francese Bernard-Henri Levy, una delle personalità più attive nel sostegno a Sakineh, denuncia quella che definisce la "manipolazione" della donna da parte delle autorità iraniane. Anche se a conti fatti, se tutte queste pantomime le garantiranno salva la vita, il gioco sarà comunque valso la candela. E, forse, un giorno racconteremo la vera storia di Sakineh, una, nessuna e centomila.
SPIGOLI: l'Italia perde la testa nei sacchetti di plastica
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/01/2011
Sommersa dai rifiuti, dilaniata dai botti, seppellita dalle risate per le gag non sempre involontarie dei suoi leader, l’Italia rischia di finire soffocata dai sacchetti di plastica: la stampa internazionale segue con simpatia, ma anche con diffidenza, la crociata anti buste scattata il primo gennaio. L’obiettivo, l’eliminazione dei sacchetti di plastica e la loro sostituzione con sporte bio-degradabili, è largamente condiviso. Ma la Cnn ironizza sulla passione degli italiani per i sacchetto di plastica: «L’Italia è nota tanto per il cibo quanto per gli onnipresenti sacchetti». E la Bbc rileva che «l'Italia ha uno dei tassi di consumo di sacchetti più alti in Europa». Libération riconosce la bontà dello sforzo: «Gli italiani abbandonano i sacchetto di plastica per inquinare di meno». E, sulla stessa linea, ecco il Guardian (“I negozi italiani mettono al bando i sacchetti di plastica da Capodanno”), l’Independent (“Sacchetti di plastica fuorilegge in Italia dal 1o gennaio”) e Les Echos (“L’Italia vieta i sacchetti di plastica nei negozi»). Ma non tutto è oro quel che luccica: il Daily Mail nota che «i negozianti mettono in guardia contro il caos alle casse». Forse il corrispondente s’è trovato nella stessa coda dov’ero io, domenica mattina in zona Vittorio: la cassiera del supermercato smaltiva, com’è lecito fare, i sacchetti restanti, ma a pagamento, mentre lo smaltimento deve essere gratuito. Per fortuna, in fila c’era una signora ben informata e tosta: ha esibito la nota del governo che dirime la questione e l’ha spuntata, per sè e per tutti noi. Contenti di tornare a casa, ancora una volta, con i sacchetti di plastica (inquinanti, ma almeno gratis).
Sommersa dai rifiuti, dilaniata dai botti, seppellita dalle risate per le gag non sempre involontarie dei suoi leader, l’Italia rischia di finire soffocata dai sacchetti di plastica: la stampa internazionale segue con simpatia, ma anche con diffidenza, la crociata anti buste scattata il primo gennaio. L’obiettivo, l’eliminazione dei sacchetti di plastica e la loro sostituzione con sporte bio-degradabili, è largamente condiviso. Ma la Cnn ironizza sulla passione degli italiani per i sacchetto di plastica: «L’Italia è nota tanto per il cibo quanto per gli onnipresenti sacchetti». E la Bbc rileva che «l'Italia ha uno dei tassi di consumo di sacchetti più alti in Europa». Libération riconosce la bontà dello sforzo: «Gli italiani abbandonano i sacchetto di plastica per inquinare di meno». E, sulla stessa linea, ecco il Guardian (“I negozi italiani mettono al bando i sacchetti di plastica da Capodanno”), l’Independent (“Sacchetti di plastica fuorilegge in Italia dal 1o gennaio”) e Les Echos (“L’Italia vieta i sacchetti di plastica nei negozi»). Ma non tutto è oro quel che luccica: il Daily Mail nota che «i negozianti mettono in guardia contro il caos alle casse». Forse il corrispondente s’è trovato nella stessa coda dov’ero io, domenica mattina in zona Vittorio: la cassiera del supermercato smaltiva, com’è lecito fare, i sacchetti restanti, ma a pagamento, mentre lo smaltimento deve essere gratuito. Per fortuna, in fila c’era una signora ben informata e tosta: ha esibito la nota del governo che dirime la questione e l’ha spuntata, per sè e per tutti noi. Contenti di tornare a casa, ancora una volta, con i sacchetti di plastica (inquinanti, ma almeno gratis).
domenica 2 gennaio 2011
Battisti: la politica dell'imbonitore di un'Italietta che non conta
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/01/2011
Ecco dove ci porta la politica dell’amicone, del prendere sottobraccio l’interlocutore convinti che una pacca sulle spalle e una barzelletta siano il modo vincente di fare politica estera. Dietro il no di Lula all’estradizione del terrorista omicida Cesare Battisti c’è la storia di un Paese e ci sono le vicende umane dell’ormai ex presidente brasiliano e del suo successore Dilma Roussef: il risultato è una decisione sbagliata e inaccettabile, ma in alcun modo inattesa o sorprendente.
Eppure, quando, a fine giugno, Silvio Berlusconi compì in Brasile una missione in pompa magna -60 imprenditori al seguito, un giro d’affari da 10 miliardi di euro-, la questione non fu praticamente evocata, quasi che la cosa importante fra i due paesi fossero gli affari e l’intesa personale di Mr B e Lula: “Ci siamo capiti bene subito fin dall’inizio”, assicurò il Cavaliere, come se davvero lui e uno con la storia del brasiliano possano essere fatti “allo stesso modo”.
La vicenda Battisti restò sullo sfondo della visita. Allora, la diplomazia italiana raccontava che Lula non avrebbe deciso e avrebbe lasciato il responso alla Rousseff, una ex guerrigliera, che -chissà mai perché!- avrebbe avuto meno remore all’estradizione. E, invece, non avevamo capito un bel nulla…
Adesso, il governo protesta, mette in forse accordi e trattati conclusi da poco senza garanzia alcuna, soprattutto manifesta sdegno e stupore perché le autorità brasiliane esprimono dubbi sull’affidabilità della giustizia italiana. Ma chi è che, giorno dopo giorno, piccona la credibilità della magistratura?, e chi è che mette alla berlina la serietà delle istituzioni repubblicane?, e siamo proprio sicuri che certi discorsi, risaputi all’estero, mica solo attraverso Wikileaks, giovino all’immagine del Paese?
Lula il brasiliano tratta l’Italia da repubblica delle banane. In un gioco degli stereotipi, è il mondo al contrario. Ma è la sorte che ci tocca, andando in giro per il mondo a fare gli imbonitori da fiera.
Ecco dove ci porta la politica dell’amicone, del prendere sottobraccio l’interlocutore convinti che una pacca sulle spalle e una barzelletta siano il modo vincente di fare politica estera. Dietro il no di Lula all’estradizione del terrorista omicida Cesare Battisti c’è la storia di un Paese e ci sono le vicende umane dell’ormai ex presidente brasiliano e del suo successore Dilma Roussef: il risultato è una decisione sbagliata e inaccettabile, ma in alcun modo inattesa o sorprendente.
Eppure, quando, a fine giugno, Silvio Berlusconi compì in Brasile una missione in pompa magna -60 imprenditori al seguito, un giro d’affari da 10 miliardi di euro-, la questione non fu praticamente evocata, quasi che la cosa importante fra i due paesi fossero gli affari e l’intesa personale di Mr B e Lula: “Ci siamo capiti bene subito fin dall’inizio”, assicurò il Cavaliere, come se davvero lui e uno con la storia del brasiliano possano essere fatti “allo stesso modo”.
La vicenda Battisti restò sullo sfondo della visita. Allora, la diplomazia italiana raccontava che Lula non avrebbe deciso e avrebbe lasciato il responso alla Rousseff, una ex guerrigliera, che -chissà mai perché!- avrebbe avuto meno remore all’estradizione. E, invece, non avevamo capito un bel nulla…
Adesso, il governo protesta, mette in forse accordi e trattati conclusi da poco senza garanzia alcuna, soprattutto manifesta sdegno e stupore perché le autorità brasiliane esprimono dubbi sull’affidabilità della giustizia italiana. Ma chi è che, giorno dopo giorno, piccona la credibilità della magistratura?, e chi è che mette alla berlina la serietà delle istituzioni repubblicane?, e siamo proprio sicuri che certi discorsi, risaputi all’estero, mica solo attraverso Wikileaks, giovino all’immagine del Paese?
Lula il brasiliano tratta l’Italia da repubblica delle banane. In un gioco degli stereotipi, è il mondo al contrario. Ma è la sorte che ci tocca, andando in giro per il mondo a fare gli imbonitori da fiera.
Battisti: tutti gli smacchi del governo del cucù
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/01/2011
Il no del Brasile all’estradizione di Cesare Battisti, terrorista ed omicida conclamato e mai pentito, è una decisione grave e profondamente sbagliata ed è l’ultimo di una serie di smacchi subiti dall’Italia sulla scena internazionale negli ultimi trenta mesi, al di là della rodomontate del Cavaliere che -dice lui- frenò la guerra tra Russia e Georgia, contribuì al ‘reset’ delle relazioni tra Washington e Mosca, convinse la Turchia ad accettare l’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen a capo della Nato e via vantando.
In realtà, di concreto, la politica estera italiana ha poco da esibire dal 2008 a oggi, a parte qualche bella foto di Mr B con i Grandi della Terra ‘rubata’ nei tempi morti di qualche Vertice: il premier, questo gli va riconosciuto, è abilissimo a inserirsi nel crocchio giusto al momento dello scatto che conta, al G8 o al G20 o in qualsiasi altro consesso internazionale; così com’è recidivo nel giungere fuori tempo massimo a un Vertice, bloccato sulla soglia da una telefonata irrinunciabile –da ultimo gli accadde a metà novembre, a Lisbona, quando l’ira neppur troppo funesta di Mara Carfagna lo fece arrivare in ritardo alla riunione dei leader dell’Alleanza atlantica-.
Lasciamo da parte gli imbarazzi di Wikileaks, almeno quelli ‘stile gossip’, perché lì Berlusconi sta in solida e larga compagnia. E tiriamo pure una croce sopra la litania di baci e abbracci a oligarchi e dittatori, dal russo Vladimir Putin al libico Muhammar Gheddafi, passando per i pre e post-sovietici –che pari sono- Aleksander Lukashenko, bielorusso, e Nursultan Nazarbayev, kazako (ma non c’è un pizzico di contraddizione a fare l’elogio democratico di quei due puri prodotti stalinisti, quando in patria si colpiscono con l’anatema ‘comunisti’ oppositori che possono al massimo vantare come esperienza di sinistra l’infanzia all’oratorio?).
Il problema non è quanto poco l’Italia conti non nel Mondo, che, in fondo, ci può anche stare: non siamo un grande Paese in termini demografici e non siamo fra i primissimi in termini di ricchezza né assoluta né pro capite; non sediamo in modo stabile nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e non abbiamo –è storia vecchia- un record immacolato, in termini di credibilità internazionale, anche se non siamo mai venuti meno finora alla lealtà atlantica ed europea.
La misura della mancanza di peso dell’Italia la dà proprio l’Ue, dove pure avremmo tutti i motivi per sentirci grandi: le dimensioni, l’economia, l’essere nel nucleo fondatore. E, invece, nelle corse ai posti che contano dell’Unione del Trattato di Lisbona, l’Italia non ce l’ha mai fatta. Puntava alla presidenza del Parlamento europeo, che –si badi- non ha mai avuto da quando l’Assemblea è eletta a suffragio universale, cioè dal 1979, 31 anni e 13 presidenti fa, perché ce ne sono due a legislatura; ma il gruppo del Ppe, proprio quello di cui fa parte il PdL del premier, ha preferito il polacco Jerzy Bozek al degnissimo candidato italiano Mario Mauro. Ha poi provato, con scarsa convinzione e molta goffaggine, a ottenere per Massimo D’Alema il posto di ‘ministro degli esteri’ europeo, subendo il gioco dai socialisti, cui il posto spettava e che avevano un altro candidato. E, infine, è stata esclusa da tutti i posti che contano della nuova diplomazia europea gestita da Lady Ashton, che non ha nessun italiano nel suo ‘inner circle’ e che ha mandato ambasciatori italiani in Albania, dove non avevamo certo bisogno di contare di più di quel che già contiamo, e in Uganda, dove, comunque, non conteremo nulla.
E quando, recentemente, un italiano ha ottenuto un incarico di prestigio –Giovani Kessler, trentino, è stato nominato alla guida dell’agenzia europea anti-corruzione-, la decisione è parsa quasi rispondere alla legge del contrappasso: mettere la lotta alla corruzione in mano a un italiano, proprio nei giorni in cui la fiducia al governo, a Roma, ruotava intorno alla compravendita di una manciata di voti.
La poca credibilità dell’Italia berlusconiana nuoce ai candidati migliori. Il governatore di BankItalia Mario Draghi ha le carte in regola per ambire alla guida della Banca centrale europea, ma non è affatto sicuro di riuscire a succedere a Jean-Claude Trichet (e non solo perché la Germania vuole quel posto).
E non è solo questione di poltrone: la vicenda del brevetto europeo, dove l’Italia s’è fatta sbattere dietro la lavagna della classe di europeismo, beffata persino dalla Gran Bretagna, dimostra un’imbarazzante incapacità di costruire alleanze e di cucire rapporti. La prossima volta che vede Sarkozy, o la Merkel, Mr B, invece di raccontargli barzellette o di farle cucù, provi a condividere con loro una strategia e degli obiettivi.
Il no del Brasile all’estradizione di Cesare Battisti, terrorista ed omicida conclamato e mai pentito, è una decisione grave e profondamente sbagliata ed è l’ultimo di una serie di smacchi subiti dall’Italia sulla scena internazionale negli ultimi trenta mesi, al di là della rodomontate del Cavaliere che -dice lui- frenò la guerra tra Russia e Georgia, contribuì al ‘reset’ delle relazioni tra Washington e Mosca, convinse la Turchia ad accettare l’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen a capo della Nato e via vantando.
In realtà, di concreto, la politica estera italiana ha poco da esibire dal 2008 a oggi, a parte qualche bella foto di Mr B con i Grandi della Terra ‘rubata’ nei tempi morti di qualche Vertice: il premier, questo gli va riconosciuto, è abilissimo a inserirsi nel crocchio giusto al momento dello scatto che conta, al G8 o al G20 o in qualsiasi altro consesso internazionale; così com’è recidivo nel giungere fuori tempo massimo a un Vertice, bloccato sulla soglia da una telefonata irrinunciabile –da ultimo gli accadde a metà novembre, a Lisbona, quando l’ira neppur troppo funesta di Mara Carfagna lo fece arrivare in ritardo alla riunione dei leader dell’Alleanza atlantica-.
Lasciamo da parte gli imbarazzi di Wikileaks, almeno quelli ‘stile gossip’, perché lì Berlusconi sta in solida e larga compagnia. E tiriamo pure una croce sopra la litania di baci e abbracci a oligarchi e dittatori, dal russo Vladimir Putin al libico Muhammar Gheddafi, passando per i pre e post-sovietici –che pari sono- Aleksander Lukashenko, bielorusso, e Nursultan Nazarbayev, kazako (ma non c’è un pizzico di contraddizione a fare l’elogio democratico di quei due puri prodotti stalinisti, quando in patria si colpiscono con l’anatema ‘comunisti’ oppositori che possono al massimo vantare come esperienza di sinistra l’infanzia all’oratorio?).
Il problema non è quanto poco l’Italia conti non nel Mondo, che, in fondo, ci può anche stare: non siamo un grande Paese in termini demografici e non siamo fra i primissimi in termini di ricchezza né assoluta né pro capite; non sediamo in modo stabile nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e non abbiamo –è storia vecchia- un record immacolato, in termini di credibilità internazionale, anche se non siamo mai venuti meno finora alla lealtà atlantica ed europea.
La misura della mancanza di peso dell’Italia la dà proprio l’Ue, dove pure avremmo tutti i motivi per sentirci grandi: le dimensioni, l’economia, l’essere nel nucleo fondatore. E, invece, nelle corse ai posti che contano dell’Unione del Trattato di Lisbona, l’Italia non ce l’ha mai fatta. Puntava alla presidenza del Parlamento europeo, che –si badi- non ha mai avuto da quando l’Assemblea è eletta a suffragio universale, cioè dal 1979, 31 anni e 13 presidenti fa, perché ce ne sono due a legislatura; ma il gruppo del Ppe, proprio quello di cui fa parte il PdL del premier, ha preferito il polacco Jerzy Bozek al degnissimo candidato italiano Mario Mauro. Ha poi provato, con scarsa convinzione e molta goffaggine, a ottenere per Massimo D’Alema il posto di ‘ministro degli esteri’ europeo, subendo il gioco dai socialisti, cui il posto spettava e che avevano un altro candidato. E, infine, è stata esclusa da tutti i posti che contano della nuova diplomazia europea gestita da Lady Ashton, che non ha nessun italiano nel suo ‘inner circle’ e che ha mandato ambasciatori italiani in Albania, dove non avevamo certo bisogno di contare di più di quel che già contiamo, e in Uganda, dove, comunque, non conteremo nulla.
E quando, recentemente, un italiano ha ottenuto un incarico di prestigio –Giovani Kessler, trentino, è stato nominato alla guida dell’agenzia europea anti-corruzione-, la decisione è parsa quasi rispondere alla legge del contrappasso: mettere la lotta alla corruzione in mano a un italiano, proprio nei giorni in cui la fiducia al governo, a Roma, ruotava intorno alla compravendita di una manciata di voti.
La poca credibilità dell’Italia berlusconiana nuoce ai candidati migliori. Il governatore di BankItalia Mario Draghi ha le carte in regola per ambire alla guida della Banca centrale europea, ma non è affatto sicuro di riuscire a succedere a Jean-Claude Trichet (e non solo perché la Germania vuole quel posto).
E non è solo questione di poltrone: la vicenda del brevetto europeo, dove l’Italia s’è fatta sbattere dietro la lavagna della classe di europeismo, beffata persino dalla Gran Bretagna, dimostra un’imbarazzante incapacità di costruire alleanze e di cucire rapporti. La prossima volta che vede Sarkozy, o la Merkel, Mr B, invece di raccontargli barzellette o di farle cucù, provi a condividere con loro una strategia e degli obiettivi.
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