Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/04/2011
Quasi cento civili morti: in Siria, l'ennesimo 'venerdì della collera' contro il regime di Hafez al-Assad si trasforma nell'ennesima strage. E le vittime della repressione superano le 600 in sei settimane. Decine di migliaia di manifestanti hanno di nuovo sfidato il divieto di manifestare senza autorizzazione imposto dal governo. A Deraa, la culla della protesta, città martire della repressione, le forze di sicurezza siriane hanno aperto il fuoco sulla folla che marciava verso il centro. Vi sono stati almeno 83 morti, decine di feriti. A Homs si contano nove civili e tre agenti uccisi.
Cifre ancora parziali, tutte da verificare, di questa primavera siriana. Proteste si sono svolte pure a Damasco, a Banias e a Latakia: testimoni riferiscono di schieramenti di soldati, tiri di lacrimogeni, spari d'arma da fuoco. Secondo fonti ufficiali, a Deraa, all'alba, quattro soldati sarebbero stati uccisi e altri due sequestrati da "terroristi armati". La notizia, contraddetta da fonti della rivolta, indicherebbe una radicalizzazione dello scontro. E, secondo la radio militare israeliana, il generale Assef Shawkat, 'numero due' delle Forze armate siriane, è uscito illeso in un attentato compiuto giovedi’ a Damasco. Citando imprecisate 'fonti arabe', l'emittente israeliana afferma che l'agguato sarebbe avvenuto nella "vecchia sede" del comando delle forze armate siriane. Nell’episodio, sarebbero rimasti feriti l'attentatore e alcune guardie del corpo del generale Shawkat.
Nonostante le molte sollecitazioni, il regime di al-Assad non allenta la pressione sui manifestanti. Ma l'Onu e l'Ue ora reagiscono, mentre il presidente Usa Barak Obama firma le sanzioni contro Damasco, che colpiscono, fra gli altri, il fratello di al-Assad. La violenza della repressione, dopo gli appelli alla moderazione venuti dalla comunita' internazionale, sta finalmente innescando risposte diplomatiche più ferme e meno condiscendenti verso Damasco. Gli Stati dell’Ue sono vicini ad adottare sanzioni, secondo quanto riferito dal segretario generale della diplomazia europea Pierre Vimont. Quella emersa ieri, in una riunione degli ambasciatori dei 27, è pero' solo una «decisione di principio» perchè, per definire misure relative ai visti e al congelamento dei beni, "é necessario redigere una lista delle personalità che saranno soggette alle restrizioni", un lavoro che deve ancora essere fatto.
Anche il Consiglio diritti umani dell'Onu si riunisce in sessione straordinaria a Ginevra per esaminare la situazione in Siria. Convocato su richiesta degli Stati Uniti con l'appoggio di 15 dei 47 Paesi, il Consiglio approva -non all'unanimita'- una risoluzione che condanna il ricorso "alla forza letale da parte delle autorità siriane contro i manifestanti pacifici". L'Onu inviera' d'urgenza una missione d'inchiesta in Siria, per indagare sulle accuse di violazioni di diritti umani. Aprendo i lavori, Kyung-wha Kang, vice alto commissario dell'Onu per i diritti umani, ha denunciato l'uso diffuso di armi contro i manifestanti, l'arresto, la detenzione e la scomparsa di difensori dei diritti umani e giornalisti, la tortura ed i maltrattamenti di detenuti.
sabato 30 aprile 2011
venerdì 29 aprile 2011
SPIGOLI: l'Ue accende le sue stelle per il Papa Beato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/04/2011
Per la stampa mondiale, due eventi di questi giorni sono davvero universali: uno è a Londra, il matrimonio di William e Kate (e ce ne libereremo oggi, anche se gli strascichi mediatici minacciano d’essere più lunghi di quello del vestito della sposa); e l’altro è a Roma, la beatificazione domenica di Giovanni Paolo II. A San Pietro, ci tengono a essere in tanti. E l’Unione europea, spesso cosi’ discreta quando deve dire la sua sulle crisi internazionali, schiera quattro ‘star’: il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, il presidente del Parlamento europeo Buzek (un polacco protestante, una mosca bianca), il presidente della Commissione europea e il suo vice Barroso e Tajani. Sembrano lontani i tempi in cui il presidente della Commissione, Jacques Delors, un socialista, ma cattolico, accoglieva Papa Wojtyla a Bruxelles lamentando un’Europa divisa dalla cortina di ferro e schiacciata “sotto gli altari di marmo”. La stampa estera non ha sempre un atteggiamento devoto sulla cerimonia: se la Cnn l’abborda in modo molto convenzionale e Le Monde percorre “i cammini della santità”, la Bbc sceglie un taglio poco genuflesso (e racconta “la politica” vaticana “del fare santi”), il Time s’interroga se non vi sia “un affrettarsi del giudizio” verso la santità del papa polacco, Nouvel Obs esplora un sito di testimonianze sulle guarigioni miracolose operate con l’intercessione dei santi e il Guardian ha un fremito laico sulla reliquia mostrata ai fedeli (il sangue del nuovo beato).
Per la stampa mondiale, due eventi di questi giorni sono davvero universali: uno è a Londra, il matrimonio di William e Kate (e ce ne libereremo oggi, anche se gli strascichi mediatici minacciano d’essere più lunghi di quello del vestito della sposa); e l’altro è a Roma, la beatificazione domenica di Giovanni Paolo II. A San Pietro, ci tengono a essere in tanti. E l’Unione europea, spesso cosi’ discreta quando deve dire la sua sulle crisi internazionali, schiera quattro ‘star’: il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, il presidente del Parlamento europeo Buzek (un polacco protestante, una mosca bianca), il presidente della Commissione europea e il suo vice Barroso e Tajani. Sembrano lontani i tempi in cui il presidente della Commissione, Jacques Delors, un socialista, ma cattolico, accoglieva Papa Wojtyla a Bruxelles lamentando un’Europa divisa dalla cortina di ferro e schiacciata “sotto gli altari di marmo”. La stampa estera non ha sempre un atteggiamento devoto sulla cerimonia: se la Cnn l’abborda in modo molto convenzionale e Le Monde percorre “i cammini della santità”, la Bbc sceglie un taglio poco genuflesso (e racconta “la politica” vaticana “del fare santi”), il Time s’interroga se non vi sia “un affrettarsi del giudizio” verso la santità del papa polacco, Nouvel Obs esplora un sito di testimonianze sulle guarigioni miracolose operate con l’intercessione dei santi e il Guardian ha un fremito laico sulla reliquia mostrata ai fedeli (il sangue del nuovo beato).
Imigrazione: Ue boccia Italia, Maroni fa Mourinho
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/04/2011
Ennesima tegola europea sulla politica d’immigrazione dell’Italia, che non regge proprio l’esame dell’Ue. Con procedura d’urgenza, la Corte di Giustizia europea boccia la norma che prevede il reato di clandestinità e lo punisce con il carcere, perchè contrasta con la direttiva dell’Ue sui rimpatri. La norma non aveva già convinto del tutto la Corte costituzionale, che ne aveva trovato alcuni aspetti discriminatori.
La Commissione europea "accoglie con favore" la sentenza "veloce e chiara" ed è convinta che essa contribuirà a "ridurre l'incertezza giuridica causata in Italia dalla mancata attuazione nei termini previsti della direttiva sui rimpatri". Il governo di Roma, invece, reagisce male: “L’Europa non ci dà una mano neanche oggi e ci complica la vita”, dice il ministro dell’interno Roberto Maroni, quello del “meglio soli che male accompagnati”.
Maroni-Mourinho se la prende con l’arbitro, invece di farsi l’esame di coscienza. Chè, se l’Italia rispettasse le norme dell’Ue e applicasse le direttive nei tempi previsti, nessuno a Bruxelles le complicherebbe la vita. Ma il ministro preferisce raccontare balle, invece che fare pulizia sull’uscio di casa, e si lamenta che l’Europa se la prenda solo con l’Italia. Falso, perchè sono ben 20 su 27 gli Stati dell’Ue finiti sotto torchio per non avere applicato la direttiva sui rimpatri entro il 24 dicembre 2010, come previsto. Solo che molti dei 20 hanno poi risposto alle richieste di chiarimenti, mentre l’Italia non l’ha mai fatto.
E, inoltre, la sentenza di ieri non è stata innescata dalla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione, bensi’ dal ricorso di un giudice italiano, che ha chiesto alla Corte di Lussemburgo di vagliare se la norma italiana fosse compatibile con le comunitarie. Il caso portato ai giudici europei è quello di Hassen El Dridi, un algerino condannato a fine 2010 a un anno di reclusione dal tribunale di Trento per non avere rispettato l'ordine di espulsione. Secondo la Corte, "una sanzione penale come quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere l'obiettivo di instaurare una politica d’allontanamento e di rimpatrio efficace, nel rispetto dei diritti fondamentali".
La sentenza è destinata a fare giurisprudenza a livelloeuropeo: potrà essere applicata pure negli altri 11 casi italiani analoghi pendenti a Lussemburgo e, se necessario, anche dai tribunali di altri Paesi Ue. Gli Stati membri - si legge nella sentenza - "non possono introdurre, al fine di ovviare all'insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all'allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa italiana in discussione, solo perché un cittadino di un Paese terzo, dopo che gli è stato notificato l’ordine di lasciare il territorio nazionale e dopo che il termine stabilito è scaduto3, non se ne va e “permane in maniera irregolare". Il reato di clandestinità per gli immigrati irregolari è stato introdotto nell'ordinamento italiano nel 2009, nell'ambito del cosiddetto 'pacchetto sicurezza'.
D’ora in poi, dunque, i giudici italiani, responsabili del rispetto del diritto dell'Unione, "dovranno disapplicare ogni disposizione nazionale contraria alla direttiva - segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni - e tenere conto del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, che fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri".
Maroni-Mourinho, in realtà, non accetta il verdetto e già pensa a complicarci la vita: “Mi riservo di valutare le conseguenze di questa sentenza e di vedere come porvi rimedio”; quando lui e il suo collega della Giustizia Angelino Alfano dovrebbero piuttosto preoccuparsi che sia rispettata. Il ministro leghista teme un colpo di freno alle espulsioni, cui tiene molto: il giudizio europeo –afferma- “trasforma le espulsioni in una semplice intimidazione ad abbandonare l’Italia entro sette giorni e rende assolutamente inefficace il contrasto all’immigrazione clandestina”. Invece, l’Italia “vuole continuare con le espulsioni, che, con la Tunisia, funzionano bene: sono già oltre 600 i tunisini rimpatriati dal 5 aprile e questo fa anche da deterrente”.
Quel che Maroni non dice è che le espulsioni verso la Tunisia, stile ‘prendi e porta subito a casa”, sono un’altra cosa. Ma i leghisti, alle mistificazioni sull’Europa, ci sono abituati: il governatore del Veneto Luca Zaia s’indigna perchè la sentenza cancella “una legge votata da un Parlamento sovrano” –come se le direttive europee non le avessero approvate Governi sovrani e l’Assemblea di Strasburgo-. E non conta che il verdetto di Lussemburgo fosse dato per scontato dagli uomini di legge italiani e dalle organizzazioni internazionali che si occupano di rifugiati e immigrati.
Monsignor Marchetto, l’ex responsabile del Vaticano per i migranti, vuole il ritiro della legge. E l’opposizione parla di sconfitta, débacle, waterloo. Mentre la stampa internazionale ancora s’interroga sulle conclusioni del vertice italo-francese di lunedi’ scorso, quando Bverlusconi ha messo la sua firma accanto a quella di Sarkozy su una lettera alle istituzioni comunitarie che tutela solo gli interessi francesi. Le Monde ci ha pensato su bene e poi ha concluso che “le speranza italiane sono andate deluse” e le “esigenze italiane sono state disattese”. Su un punto, tutti d’accordo: Sarko’ e Mr B hanno giocato la carta anti-europeista, hanno dato –il giudizio è di David Sassoli e Catherine Trautmann, eurodeputati del gruppo S&D- una risposta a corto termine e pericolosa a una situazione seria”.
Ennesima tegola europea sulla politica d’immigrazione dell’Italia, che non regge proprio l’esame dell’Ue. Con procedura d’urgenza, la Corte di Giustizia europea boccia la norma che prevede il reato di clandestinità e lo punisce con il carcere, perchè contrasta con la direttiva dell’Ue sui rimpatri. La norma non aveva già convinto del tutto la Corte costituzionale, che ne aveva trovato alcuni aspetti discriminatori.
La Commissione europea "accoglie con favore" la sentenza "veloce e chiara" ed è convinta che essa contribuirà a "ridurre l'incertezza giuridica causata in Italia dalla mancata attuazione nei termini previsti della direttiva sui rimpatri". Il governo di Roma, invece, reagisce male: “L’Europa non ci dà una mano neanche oggi e ci complica la vita”, dice il ministro dell’interno Roberto Maroni, quello del “meglio soli che male accompagnati”.
Maroni-Mourinho se la prende con l’arbitro, invece di farsi l’esame di coscienza. Chè, se l’Italia rispettasse le norme dell’Ue e applicasse le direttive nei tempi previsti, nessuno a Bruxelles le complicherebbe la vita. Ma il ministro preferisce raccontare balle, invece che fare pulizia sull’uscio di casa, e si lamenta che l’Europa se la prenda solo con l’Italia. Falso, perchè sono ben 20 su 27 gli Stati dell’Ue finiti sotto torchio per non avere applicato la direttiva sui rimpatri entro il 24 dicembre 2010, come previsto. Solo che molti dei 20 hanno poi risposto alle richieste di chiarimenti, mentre l’Italia non l’ha mai fatto.
E, inoltre, la sentenza di ieri non è stata innescata dalla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione, bensi’ dal ricorso di un giudice italiano, che ha chiesto alla Corte di Lussemburgo di vagliare se la norma italiana fosse compatibile con le comunitarie. Il caso portato ai giudici europei è quello di Hassen El Dridi, un algerino condannato a fine 2010 a un anno di reclusione dal tribunale di Trento per non avere rispettato l'ordine di espulsione. Secondo la Corte, "una sanzione penale come quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere l'obiettivo di instaurare una politica d’allontanamento e di rimpatrio efficace, nel rispetto dei diritti fondamentali".
La sentenza è destinata a fare giurisprudenza a livelloeuropeo: potrà essere applicata pure negli altri 11 casi italiani analoghi pendenti a Lussemburgo e, se necessario, anche dai tribunali di altri Paesi Ue. Gli Stati membri - si legge nella sentenza - "non possono introdurre, al fine di ovviare all'insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all'allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa italiana in discussione, solo perché un cittadino di un Paese terzo, dopo che gli è stato notificato l’ordine di lasciare il territorio nazionale e dopo che il termine stabilito è scaduto3, non se ne va e “permane in maniera irregolare". Il reato di clandestinità per gli immigrati irregolari è stato introdotto nell'ordinamento italiano nel 2009, nell'ambito del cosiddetto 'pacchetto sicurezza'.
D’ora in poi, dunque, i giudici italiani, responsabili del rispetto del diritto dell'Unione, "dovranno disapplicare ogni disposizione nazionale contraria alla direttiva - segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni - e tenere conto del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, che fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri".
Maroni-Mourinho, in realtà, non accetta il verdetto e già pensa a complicarci la vita: “Mi riservo di valutare le conseguenze di questa sentenza e di vedere come porvi rimedio”; quando lui e il suo collega della Giustizia Angelino Alfano dovrebbero piuttosto preoccuparsi che sia rispettata. Il ministro leghista teme un colpo di freno alle espulsioni, cui tiene molto: il giudizio europeo –afferma- “trasforma le espulsioni in una semplice intimidazione ad abbandonare l’Italia entro sette giorni e rende assolutamente inefficace il contrasto all’immigrazione clandestina”. Invece, l’Italia “vuole continuare con le espulsioni, che, con la Tunisia, funzionano bene: sono già oltre 600 i tunisini rimpatriati dal 5 aprile e questo fa anche da deterrente”.
Quel che Maroni non dice è che le espulsioni verso la Tunisia, stile ‘prendi e porta subito a casa”, sono un’altra cosa. Ma i leghisti, alle mistificazioni sull’Europa, ci sono abituati: il governatore del Veneto Luca Zaia s’indigna perchè la sentenza cancella “una legge votata da un Parlamento sovrano” –come se le direttive europee non le avessero approvate Governi sovrani e l’Assemblea di Strasburgo-. E non conta che il verdetto di Lussemburgo fosse dato per scontato dagli uomini di legge italiani e dalle organizzazioni internazionali che si occupano di rifugiati e immigrati.
Monsignor Marchetto, l’ex responsabile del Vaticano per i migranti, vuole il ritiro della legge. E l’opposizione parla di sconfitta, débacle, waterloo. Mentre la stampa internazionale ancora s’interroga sulle conclusioni del vertice italo-francese di lunedi’ scorso, quando Bverlusconi ha messo la sua firma accanto a quella di Sarkozy su una lettera alle istituzioni comunitarie che tutela solo gli interessi francesi. Le Monde ci ha pensato su bene e poi ha concluso che “le speranza italiane sono andate deluse” e le “esigenze italiane sono state disattese”. Su un punto, tutti d’accordo: Sarko’ e Mr B hanno giocato la carta anti-europeista, hanno dato –il giudizio è di David Sassoli e Catherine Trautmann, eurodeputati del gruppo S&D- una risposta a corto termine e pericolosa a una situazione seria”.
giovedì 28 aprile 2011
Libia: bombe e balle, stare col Colle e lasciarli nelle beghe
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/04/2011
Una linea, se ce l’hai la tieni. In politica estera, e magari non solo. E non la cambi correndo dietro alle incertezze degli interlocutori, banderuole al vento del Nord, e alla convenienza del momento, che è pure difficile da cogliere. La priorità è centrare l’obiettivo che ci si è dati: nel caso della Libia, stare con il popolo contro il tiranno e stare con la comunità internazionale, che avalla all’Onu il ricorso alla forza per ridurre le sofferenze dei civili. E, allora, la linea è quella espressa dal presidente Napolitano, che non si pone il problema di mettere il dito tra Berlusconi e Bossi, ma si preoccupa, piuttosto, che l’Italia sia protagonista dell’azione internazionale, senza atteggiamenti da ‘furbetti dei quartierino’. Certo, la linea dell’Onu sulla Libia suscita dubbi, è discutibile: con il popolo per proteggerlo, anche con le armi, dal dittatore, ma senza agire per rovesciare il dittatore. e con il popolo libico, ma non con il popolo siriano, per un calcolo da ‘real politik’. C’è il richiamo della linea pacifista, mai la violenza. E c’è quello dell’interventismo umanitario, guerra continua per affermare i diritti umani. Tutte scelte che hanno loro ragioni e sono difendibili. Tutte, meno quella di correre dietro le beghe del governo e della Lega, che alla fine perdi comunque, battuto al voto e messo alla berlina sulla coerenza: dai dei ‘quacquaracqua’ agli altri, che manco chiamano i bombardamenti con il loro nome, ma lo sei pure tu.
Una linea, se ce l’hai la tieni. In politica estera, e magari non solo. E non la cambi correndo dietro alle incertezze degli interlocutori, banderuole al vento del Nord, e alla convenienza del momento, che è pure difficile da cogliere. La priorità è centrare l’obiettivo che ci si è dati: nel caso della Libia, stare con il popolo contro il tiranno e stare con la comunità internazionale, che avalla all’Onu il ricorso alla forza per ridurre le sofferenze dei civili. E, allora, la linea è quella espressa dal presidente Napolitano, che non si pone il problema di mettere il dito tra Berlusconi e Bossi, ma si preoccupa, piuttosto, che l’Italia sia protagonista dell’azione internazionale, senza atteggiamenti da ‘furbetti dei quartierino’. Certo, la linea dell’Onu sulla Libia suscita dubbi, è discutibile: con il popolo per proteggerlo, anche con le armi, dal dittatore, ma senza agire per rovesciare il dittatore. e con il popolo libico, ma non con il popolo siriano, per un calcolo da ‘real politik’. C’è il richiamo della linea pacifista, mai la violenza. E c’è quello dell’interventismo umanitario, guerra continua per affermare i diritti umani. Tutte scelte che hanno loro ragioni e sono difendibili. Tutte, meno quella di correre dietro le beghe del governo e della Lega, che alla fine perdi comunque, battuto al voto e messo alla berlina sulla coerenza: dai dei ‘quacquaracqua’ agli altri, che manco chiamano i bombardamenti con il loro nome, ma lo sei pure tu.
mercoledì 27 aprile 2011
Immigrazione: Mr B / Sarko, pace sulle rovine di Schengen
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/04/2011
Italia e Francia cercano di porre uno stop ai contrasti che da mesi le scuotono, nel segno della crisi del ‘berluskozismo’ un anno fa imperante. Ma per una polemica che si smorza -l'immigrazione, oppure la Libia-, altre s'accendono o si riaccendono -il nucleare, Parmalat-. Il Vertice a Roma vorrebbe essere all'insegna del 'volemose bene': il clima e' "positivo", ma non caloroso. Il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e il presidente francese Nicolas Sarkozy, scortati entrambi da un codazzo di ministri, ostentano fiducia e intesa. Però, nella conferenza stampa, il linguaggio del corpo del Cavaliere tradisce un certo disagio. E ci scappa pure un lapsus, quando Mr B evoca John Kerry, invece di John McCain, come inviato di Obama a Bengasi. Sarkò, invece, è cortese e preciso, quando sciorina i meriti di Mario Draghi, governatore di BankItalia e candidato ora pure francese alla presidenza della Bce.
Dopo settimane di contrasti fra Roma e Parigi, specie su come trattare gli immigrati della Tunisia, il Vertice si svolge il giorno dopo la decisione dell'Italia di partecipare più attivamente alle missioni d'attacco della Nato sulla Libia -all’inizio del conflitto, la Francia non voleva lasciarne la guida all’Alleanza-. L'avallo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che parla di "naturale sviluppo" della missione in corso con l'autorizzazione dell'Onu, e la soddisfazione espressa con malizia da Sarkozy, che ricorda l'intensità dei rapporti in passato tra Italia e Libia, non mettono Berlusconi al riparo dagli strali della Lega.
Il premier insiste più volte che i Tornado italiani non compiranno bombardamenti, ma azioni mirate esclusivamente e solo contro obiettivi militari -il distinguo e' sottile perchè sempre di sparare missili si tratta-. E il ministro della difesa Ignazio La Russa sostiene che nulla e' cambiato perche' -spiega- i nostri aerei sono sempre stati pronti a tirare contro i radar libici, anche se -precisa- non l'hanno mai fatto perchè i radar, quando loro erano in missione, sono rimasti spenti. E se l’Italia non prenderà parte “a raid su città” -dice La Russa-, Sarkozy ribadisce che la Francia non invierà in Libia truppe di terra. I due leader hanno pure una parola per la Siria, dove il regime continua a usare la violenza contro i manifestanti: “Damasco fermi la repressione”. E Italia e Francia sono d’accordo sul fatto che le armi non bastino a consolidare la libertà in Libia e ovunque nel Sud del Mediterraneo c’è fermento: ci vuole più cooperazione.
Un modo, la cooperazione, per attenuare il flusso di migranti dalla Tunisia e di rifugiati dalle zone di guerra e di oppressione. Roma e Parigi, che da giorni giocano a ping-pong con i tunisini alla frontiera di Ventimiglia, si scoprono in sintonia: gli accordi di Schengen sulla libertà di circolazione nell’Ue vanno riformati. Berlusconi e Sarkozy scrivono una lettera a doppia firma al presidente della Commissione europea José Manuel Durao Barroso, proponendo alcune modifiche: i ministri dell’interno dei 27 ne parleranno a Bruxelles il 12 maggio.
L'idea che riconcilia Roma e Parigi e' rafforzare i controlli alle frontiere interne dell'Ue. "Vogliamo disporre di strumenti per garantire i confini dello spazio Schengen", dice Sarkozy. E Berlusconi aggiunge: "In circostanze eccezionali, crediamo entrambi che gli accordi debbano potere essere modificati e vogliamo lavorarci insieme". Nella lettera a Barroso, inviata pure al Consiglio dei Ministri dell'Ue, si chiede di prevedere le circostanze in cui le frontiere interne europee potranno essere tremporaneamente chiuse e si sollecita un rafforzamento di Frontex, l'Agenzia europea di sorveglianza delle frontiere esterne. Ruolo di Frontex a parte, non e' chiaro come l'iniziativa congiunta odierna possa incidere sulla pressione degli sbarchi dalla Tunisia. Ma tanto basta a tacitare le polemiche e a innescare, tra i due leader, una gara a chi elogia di più l'altrui Paese.
In realtà, il Vertice si apre sotto un doppio cattivo presagio. La Lactalis riapre la ferita del tentativo d’acquisizione della Parmalat, lanciando un’Opa sull’azienda italiana “per farne -spiega- un gruppo di riferimento mondiale con sede e testa in Italia” (Berlusconi abbozza, “non credo sia un gesto ostile”; Sarkozy va a nozze, “siamo tutti per il libero mercato”). E l’anniversario di Cernobyl riacuisce le differenze sul nucleare, che la Francia cavalca e l’Italia frena (ma il premier rivela che è solo una manovra per lasciare stemperare le paure della gente -e gli scoppia il putiferio in casa-).
E’ chiara la volontà di sotterrare l’ascia di guerra, almeno per il tempo del Vertice. E Sarkozy offre, senza essere sollecitato, il suo regalo a Berlusconi: la Francia, dice, appoggia Draghi alla Bce, “Siamo molto felici di sostenere il candidato italiano, una persona di grande qualità”. E questa pare fatta, se la cancelliera tedesca Angela Merkel non s’impunta.
Italia e Francia cercano di porre uno stop ai contrasti che da mesi le scuotono, nel segno della crisi del ‘berluskozismo’ un anno fa imperante. Ma per una polemica che si smorza -l'immigrazione, oppure la Libia-, altre s'accendono o si riaccendono -il nucleare, Parmalat-. Il Vertice a Roma vorrebbe essere all'insegna del 'volemose bene': il clima e' "positivo", ma non caloroso. Il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e il presidente francese Nicolas Sarkozy, scortati entrambi da un codazzo di ministri, ostentano fiducia e intesa. Però, nella conferenza stampa, il linguaggio del corpo del Cavaliere tradisce un certo disagio. E ci scappa pure un lapsus, quando Mr B evoca John Kerry, invece di John McCain, come inviato di Obama a Bengasi. Sarkò, invece, è cortese e preciso, quando sciorina i meriti di Mario Draghi, governatore di BankItalia e candidato ora pure francese alla presidenza della Bce.
Dopo settimane di contrasti fra Roma e Parigi, specie su come trattare gli immigrati della Tunisia, il Vertice si svolge il giorno dopo la decisione dell'Italia di partecipare più attivamente alle missioni d'attacco della Nato sulla Libia -all’inizio del conflitto, la Francia non voleva lasciarne la guida all’Alleanza-. L'avallo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che parla di "naturale sviluppo" della missione in corso con l'autorizzazione dell'Onu, e la soddisfazione espressa con malizia da Sarkozy, che ricorda l'intensità dei rapporti in passato tra Italia e Libia, non mettono Berlusconi al riparo dagli strali della Lega.
Il premier insiste più volte che i Tornado italiani non compiranno bombardamenti, ma azioni mirate esclusivamente e solo contro obiettivi militari -il distinguo e' sottile perchè sempre di sparare missili si tratta-. E il ministro della difesa Ignazio La Russa sostiene che nulla e' cambiato perche' -spiega- i nostri aerei sono sempre stati pronti a tirare contro i radar libici, anche se -precisa- non l'hanno mai fatto perchè i radar, quando loro erano in missione, sono rimasti spenti. E se l’Italia non prenderà parte “a raid su città” -dice La Russa-, Sarkozy ribadisce che la Francia non invierà in Libia truppe di terra. I due leader hanno pure una parola per la Siria, dove il regime continua a usare la violenza contro i manifestanti: “Damasco fermi la repressione”. E Italia e Francia sono d’accordo sul fatto che le armi non bastino a consolidare la libertà in Libia e ovunque nel Sud del Mediterraneo c’è fermento: ci vuole più cooperazione.
Un modo, la cooperazione, per attenuare il flusso di migranti dalla Tunisia e di rifugiati dalle zone di guerra e di oppressione. Roma e Parigi, che da giorni giocano a ping-pong con i tunisini alla frontiera di Ventimiglia, si scoprono in sintonia: gli accordi di Schengen sulla libertà di circolazione nell’Ue vanno riformati. Berlusconi e Sarkozy scrivono una lettera a doppia firma al presidente della Commissione europea José Manuel Durao Barroso, proponendo alcune modifiche: i ministri dell’interno dei 27 ne parleranno a Bruxelles il 12 maggio.
L'idea che riconcilia Roma e Parigi e' rafforzare i controlli alle frontiere interne dell'Ue. "Vogliamo disporre di strumenti per garantire i confini dello spazio Schengen", dice Sarkozy. E Berlusconi aggiunge: "In circostanze eccezionali, crediamo entrambi che gli accordi debbano potere essere modificati e vogliamo lavorarci insieme". Nella lettera a Barroso, inviata pure al Consiglio dei Ministri dell'Ue, si chiede di prevedere le circostanze in cui le frontiere interne europee potranno essere tremporaneamente chiuse e si sollecita un rafforzamento di Frontex, l'Agenzia europea di sorveglianza delle frontiere esterne. Ruolo di Frontex a parte, non e' chiaro come l'iniziativa congiunta odierna possa incidere sulla pressione degli sbarchi dalla Tunisia. Ma tanto basta a tacitare le polemiche e a innescare, tra i due leader, una gara a chi elogia di più l'altrui Paese.
In realtà, il Vertice si apre sotto un doppio cattivo presagio. La Lactalis riapre la ferita del tentativo d’acquisizione della Parmalat, lanciando un’Opa sull’azienda italiana “per farne -spiega- un gruppo di riferimento mondiale con sede e testa in Italia” (Berlusconi abbozza, “non credo sia un gesto ostile”; Sarkozy va a nozze, “siamo tutti per il libero mercato”). E l’anniversario di Cernobyl riacuisce le differenze sul nucleare, che la Francia cavalca e l’Italia frena (ma il premier rivela che è solo una manovra per lasciare stemperare le paure della gente -e gli scoppia il putiferio in casa-).
E’ chiara la volontà di sotterrare l’ascia di guerra, almeno per il tempo del Vertice. E Sarkozy offre, senza essere sollecitato, il suo regalo a Berlusconi: la Francia, dice, appoggia Draghi alla Bce, “Siamo molto felici di sostenere il candidato italiano, una persona di grande qualità”. E questa pare fatta, se la cancelliera tedesca Angela Merkel non s’impunta.
martedì 26 aprile 2011
SPIGOLI: Italia 'fede e folklore' e mausolei sotto i rifiuti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/04/2011
E’ un’Italia tutta fede e folklore, quella che la stampa estera propone ai suoi lettori in quest’assaggio di vacanze primaverile (e pazienza se il maltempo poi si mette in mezzo): il papa che risponde in tv ai fedeli, il papa alla Via Crucis e alla benedizione ‘urbi et orbi’, il papa -Les Echos- che mercoledì 4 maggio farà un collegamento satellitare con la Stazione spaziale internazionale; e tante cartoline della Bella Italia, gli Uffizi a Firenze, la mostra su Nerone a Roma, e via visitando. Ogni cartolina ha, però, la sua magagna: Venezia –Le Monde, NYT e altri- mantiene intatta la sua “attrazione”, ma “sprofonda nel dubbio”; Roma “attende l’apocalisse”, il terremoto dell’11 maggio, che i francesi sospettano essere “una trovata pubblicitaria” di qualche assicurazione; e, da Napoli, El Pais e Libération narrano la storia di “un tesoro archeologico sotto una montagna d’immondizia illegale”. A Pozzuoli, la polizia ha scoperto un mausoleo del II Secolo, con volte, marmi, stucchi e decorazioni, “sotto una discarica con 58 tonnellate”di rifiuti ammassati. Anche il mausoleo faceva la sua parte: dentro, c’erano accumulate batterie d’auto consumate. Che fare? Berci sopra, come hanno fatto, in gita in Italia, gli studenti di un liceo dell’Alabama, che, al ritorno a casa, sono stati sospesi per un bicchiere di vino. In America, a 18 anni, puoi comprarti una pistola, ma non ordinare un rosso al bar, manco a tavola.
E’ un’Italia tutta fede e folklore, quella che la stampa estera propone ai suoi lettori in quest’assaggio di vacanze primaverile (e pazienza se il maltempo poi si mette in mezzo): il papa che risponde in tv ai fedeli, il papa alla Via Crucis e alla benedizione ‘urbi et orbi’, il papa -Les Echos- che mercoledì 4 maggio farà un collegamento satellitare con la Stazione spaziale internazionale; e tante cartoline della Bella Italia, gli Uffizi a Firenze, la mostra su Nerone a Roma, e via visitando. Ogni cartolina ha, però, la sua magagna: Venezia –Le Monde, NYT e altri- mantiene intatta la sua “attrazione”, ma “sprofonda nel dubbio”; Roma “attende l’apocalisse”, il terremoto dell’11 maggio, che i francesi sospettano essere “una trovata pubblicitaria” di qualche assicurazione; e, da Napoli, El Pais e Libération narrano la storia di “un tesoro archeologico sotto una montagna d’immondizia illegale”. A Pozzuoli, la polizia ha scoperto un mausoleo del II Secolo, con volte, marmi, stucchi e decorazioni, “sotto una discarica con 58 tonnellate”di rifiuti ammassati. Anche il mausoleo faceva la sua parte: dentro, c’erano accumulate batterie d’auto consumate. Che fare? Berci sopra, come hanno fatto, in gita in Italia, gli studenti di un liceo dell’Alabama, che, al ritorno a casa, sono stati sospesi per un bicchiere di vino. In America, a 18 anni, puoi comprarti una pistola, ma non ordinare un rosso al bar, manco a tavola.
Siria: è strage continua, Onu e Usa battono un colpo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/04/2011
Dopo cinque settimane di repressione sanguinosa e almeno 400 vittime, la Siria esce dal cono d’ombra, un mix di timore e d’indifferenza, in cui l’Occidente l’ha pavidamente confinata. Le ennesime stragi, a Daraa, culla del movimento anti-regime, e altrove smuovono l’inerzia della comunità internazionale, che finora guardava alla Siria come a una Budapest 1956 o a una Praga 1968: condanne e deprecazioni, ma di muovere un dito neppure l’ombra di un’intenzione. Vero, però, che la Siria è crocevia cruciale delle tensioni mediorientali, snodo non solo geografico tra Israele, Libano, Giordania, Turchia e Iraq e raccordo tra l’Iran e il Mondo arabo.
Quattro paesi europei del Consiglio di Sicurezza dell’Onu - Gran Bretagna, Francia, Germania e Portogallo - fanno circolare al Palazzo di Vetro una bozza di condanna della repressione in Siria. Resta però da vedere se Russia e Cina avalleranno il testo, che invita alla moderazione le autorità di Damasco.
E gli Stati Uniti stanno esaminando "sanzioni mirate" contro il governo siriano: “La brutale violenza del regime siriano contro il suo popolo è assolutamente deplorevole", dice il portavoce della Casa Bianca Tommy Vietor. Washington valuta “una gamma di possibili opzioni, per sottolineare che questa condotta non è accettabile".
Parole forti, che, però, non paiono impressionare il presidente Bachir al-Assad e il suo governo, che, nel giorno in cui cessa lo stato d’assedio in vigore da quasi 50 anni, chiudono la frontiera con la Giordania e fanno vittime a Daraa -25 morti, secondo fonti della protesta-, e altrove. La spirale della tragedia è rituale: proteste, repressione, vittime; e, poi, ai funerali, nuove proteste, ancora repressione, altre vittime (un centinaio, da venerdì a oggi).
Questa volta, però, il regime compie un’escalation: a Daraa, intervengono 3mila soldati con carri armati, mentre le forze di sicurezza fanno retate d’arresti. E’ l’opzione militare per stroncare una ribellione senza precedenti, che scuote il Paese dalla metà di marzo. Obiettivo dichiarato, sventare la nascita di un Emirato islamico.
Dopo cinque settimane di repressione sanguinosa e almeno 400 vittime, la Siria esce dal cono d’ombra, un mix di timore e d’indifferenza, in cui l’Occidente l’ha pavidamente confinata. Le ennesime stragi, a Daraa, culla del movimento anti-regime, e altrove smuovono l’inerzia della comunità internazionale, che finora guardava alla Siria come a una Budapest 1956 o a una Praga 1968: condanne e deprecazioni, ma di muovere un dito neppure l’ombra di un’intenzione. Vero, però, che la Siria è crocevia cruciale delle tensioni mediorientali, snodo non solo geografico tra Israele, Libano, Giordania, Turchia e Iraq e raccordo tra l’Iran e il Mondo arabo.
Quattro paesi europei del Consiglio di Sicurezza dell’Onu - Gran Bretagna, Francia, Germania e Portogallo - fanno circolare al Palazzo di Vetro una bozza di condanna della repressione in Siria. Resta però da vedere se Russia e Cina avalleranno il testo, che invita alla moderazione le autorità di Damasco.
E gli Stati Uniti stanno esaminando "sanzioni mirate" contro il governo siriano: “La brutale violenza del regime siriano contro il suo popolo è assolutamente deplorevole", dice il portavoce della Casa Bianca Tommy Vietor. Washington valuta “una gamma di possibili opzioni, per sottolineare che questa condotta non è accettabile".
Parole forti, che, però, non paiono impressionare il presidente Bachir al-Assad e il suo governo, che, nel giorno in cui cessa lo stato d’assedio in vigore da quasi 50 anni, chiudono la frontiera con la Giordania e fanno vittime a Daraa -25 morti, secondo fonti della protesta-, e altrove. La spirale della tragedia è rituale: proteste, repressione, vittime; e, poi, ai funerali, nuove proteste, ancora repressione, altre vittime (un centinaio, da venerdì a oggi).
Questa volta, però, il regime compie un’escalation: a Daraa, intervengono 3mila soldati con carri armati, mentre le forze di sicurezza fanno retate d’arresti. E’ l’opzione militare per stroncare una ribellione senza precedenti, che scuote il Paese dalla metà di marzo. Obiettivo dichiarato, sventare la nascita di un Emirato islamico.
Libia: Italia, sì alle bombe, ma la Lega dice no
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/04/2011
Al 40.o giorno d’una guerra incompiuta e finora inutile, l’Italia di Berlusconi esce di quaresima e dice sì all’Alleanza atlantica e agli Stati Uniti: “Parteciperemo con i nostri aerei ad azioni mirate”, dice il premier ad Obama, in una lunga telefonata. Poi Berlusconi chiama il segretario dell’Alleanza Rasmussen e il premier britannico Cameron, mentre al presidente francese Sarkozy lo dirà di persona oggi al Vertice italo-francese. Il presidente Napolitano viene informato poco prima che Palazzo Chigi pubblichi il suo comunicato. Quanto al Parlamento, i ministri degli esteri e della difesa Frattini e La Russa sono pronti a riferire alle commissioni congiunte Esteri/Difesa.
“I nostri Tornado non hanno bombardato e non bombarderanno mai”, aveva detto, all’inizio del conflitto, Mr B. Dichiarazioni scritte, come tante, sulla sabbia del deserto libico. A ricordarsene, però, non è l’opposizione: sono i leghisti. Se i ‘finiani’ plaudono alla fine d’una politica estera ambigua –dice Bocchino-, il ministro Calderoli, che, se fosse per lui, tirerebbe via i soldati dal Libano per proteggere le frontiere dagli immigrati, altro che mandarli in Libia, è contrarissimo: “Se questo vuol dire bombardare, non se ne parla. Il mio voto non l’avranno mai. Ero e resto contrario a qualsiasi ulteriore intervento in Libia, rispetto a quello che abbiamo già fatto”. Bocchino ci va a nozze e rilancia: “La posizione della Lega apre la crisi di governo”.
Frattini, che presto andrà a Bengasi, tampona: “I raid –dice- sono una risposta alle richieste degli insorti”. La Russa calmiera: “Bombardiamo, si’, ma i nostri “non saranno bombardamenti indiscriminati”, bensì “missioni con missili di precisione su obiettivi specifici”, evitando “ogni rischio di colpire la popolazione civile”. Peccato che la cronaca della giornata mostri che la Nato non si limita proprio ad operazioni chirurgiche: mentre il regime libico scopre il bluff su Misurata, che torna a essere l’epicentro di bombardamenti e combattimenti con decine di vittime, gli aerei alleati distruggono a Tripoli un bunker del Colonnello, in quello che il regime definisce “un tentativo di assassinio”, e un centro di telecomunicazioni usato per attacchi contro civili. E’ festa, invece, in Sicilia: è rientrato ad Augusta il rimorchiatore Asso22, sequestrato per un mese in Libia –tutti sani e salvi a bordo-.
Ora, che cos’è cambiato, dopo che per settimane ci raccontavano che noi in Libia non potevamo bombardare per il passato coloniale e per i rischi di ritorsione? La Russa dice che, bombardare o meno, i rischi sono gli stessi: “prima avevamo un ruolo in squadra, ora ne abbiamo un altro”, dunque non cambia nulla; prima giocavamo all’ala, ora facciamo il centrattacco, quello che prende più botte. E come ci siamo arrivati? Dopo giorni di riflessione, perché “la situazione a Misurata è diventata terribile” –e gli alleati ci premevano addosso-.
La questione sarà centrale, oggi, a Roma, nel Vertice Berlusconi-Sarkozy, con codazzo di ministri. La Francia faceva la ruota della sua leadership nell’impegno militare in Libia; e ora ci possiamo pavoneggiare pure noi. Certo, resta la questione degli immigrati dalla Tunisia, del rispetto delle norme di Schengen, della ricerca di una politica dell’immigrazione europea, dopo che il Papa a Pasqua ha invitato ad accogliere cono solidarietà i profughi dall’Africa e ha chiesto che in Libia la diplomazia prevalga sulle armi. Ma una bomba su Tripoli val bene un barcone a Lampedusa.
Al 40.o giorno d’una guerra incompiuta e finora inutile, l’Italia di Berlusconi esce di quaresima e dice sì all’Alleanza atlantica e agli Stati Uniti: “Parteciperemo con i nostri aerei ad azioni mirate”, dice il premier ad Obama, in una lunga telefonata. Poi Berlusconi chiama il segretario dell’Alleanza Rasmussen e il premier britannico Cameron, mentre al presidente francese Sarkozy lo dirà di persona oggi al Vertice italo-francese. Il presidente Napolitano viene informato poco prima che Palazzo Chigi pubblichi il suo comunicato. Quanto al Parlamento, i ministri degli esteri e della difesa Frattini e La Russa sono pronti a riferire alle commissioni congiunte Esteri/Difesa.
“I nostri Tornado non hanno bombardato e non bombarderanno mai”, aveva detto, all’inizio del conflitto, Mr B. Dichiarazioni scritte, come tante, sulla sabbia del deserto libico. A ricordarsene, però, non è l’opposizione: sono i leghisti. Se i ‘finiani’ plaudono alla fine d’una politica estera ambigua –dice Bocchino-, il ministro Calderoli, che, se fosse per lui, tirerebbe via i soldati dal Libano per proteggere le frontiere dagli immigrati, altro che mandarli in Libia, è contrarissimo: “Se questo vuol dire bombardare, non se ne parla. Il mio voto non l’avranno mai. Ero e resto contrario a qualsiasi ulteriore intervento in Libia, rispetto a quello che abbiamo già fatto”. Bocchino ci va a nozze e rilancia: “La posizione della Lega apre la crisi di governo”.
Frattini, che presto andrà a Bengasi, tampona: “I raid –dice- sono una risposta alle richieste degli insorti”. La Russa calmiera: “Bombardiamo, si’, ma i nostri “non saranno bombardamenti indiscriminati”, bensì “missioni con missili di precisione su obiettivi specifici”, evitando “ogni rischio di colpire la popolazione civile”. Peccato che la cronaca della giornata mostri che la Nato non si limita proprio ad operazioni chirurgiche: mentre il regime libico scopre il bluff su Misurata, che torna a essere l’epicentro di bombardamenti e combattimenti con decine di vittime, gli aerei alleati distruggono a Tripoli un bunker del Colonnello, in quello che il regime definisce “un tentativo di assassinio”, e un centro di telecomunicazioni usato per attacchi contro civili. E’ festa, invece, in Sicilia: è rientrato ad Augusta il rimorchiatore Asso22, sequestrato per un mese in Libia –tutti sani e salvi a bordo-.
Ora, che cos’è cambiato, dopo che per settimane ci raccontavano che noi in Libia non potevamo bombardare per il passato coloniale e per i rischi di ritorsione? La Russa dice che, bombardare o meno, i rischi sono gli stessi: “prima avevamo un ruolo in squadra, ora ne abbiamo un altro”, dunque non cambia nulla; prima giocavamo all’ala, ora facciamo il centrattacco, quello che prende più botte. E come ci siamo arrivati? Dopo giorni di riflessione, perché “la situazione a Misurata è diventata terribile” –e gli alleati ci premevano addosso-.
La questione sarà centrale, oggi, a Roma, nel Vertice Berlusconi-Sarkozy, con codazzo di ministri. La Francia faceva la ruota della sua leadership nell’impegno militare in Libia; e ora ci possiamo pavoneggiare pure noi. Certo, resta la questione degli immigrati dalla Tunisia, del rispetto delle norme di Schengen, della ricerca di una politica dell’immigrazione europea, dopo che il Papa a Pasqua ha invitato ad accogliere cono solidarietà i profughi dall’Africa e ha chiesto che in Libia la diplomazia prevalga sulle armi. Ma una bomba su Tripoli val bene un barcone a Lampedusa.
domenica 24 aprile 2011
Siria: il sangue della Siria fa paura all'Occidente
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/04/2011
Ancora una volta, in Siria, seguendo un rituale tragico e ormai consolidato, a un venerdì di proteste e di morte segue un sabato di funerali insanguinati: almeno 13 persone –ma il bilancio è incerto e provvisorio- sono state uccise ieri da colpi d’arma da fuoco in diverse città, mentre partecipavano alle esequie delle vittime della repressione delle manifestazioni contro il regime del presidente Bachar al-Assad.
Gli incidenti di venerdì avrebbero fatto, secondo fonti della protesta ufficialmente non confermate, oltre 110 morti, fra cui due bambini. Peggio del 23 marzo, quando ci furono un centinaio di morti. La mappa delle uccisioni di ieri vede tre vittime a Damasco, 5 a Douma -poco a nord della capitale- e 5 a Deraa -un centinaio di km a sud-. Due deputati dell’area di Deraa, dove il movimento di protesta è nato ed è più forte, hanno annunciato le loro dimissioni.
La crisi della Siria richiama l’attenzione circospetta della comunità internazionale, che si muove, qui, con molta più prudenza che in Libia. Da Washington a Bruxelles, come dal Palazzo di Vetro dell’Onu, vengono espressioni d’indignazione e inviti al regime a cessare di ricorrere alla violenza contro i manifestanti. Ma i Paesi arabi tacciono. E gli Occidentali non hanno alcuna intenzione d’internazionalizzare questo conflitto, com’è invece avvenuto in Libia: un intervento potrebbe riaccendere il conflitto arabo-israeliano e mettere del tutto fuori controllo il ‘domino dei satrapi’.
Il fatto è che la Siria è Paese più cruciale della Libia negli assetti mediorientali: ancora in conflitto con Israele per le alture del Golan; influente in Libano; legata a vario titolo ad Iran, Iraq e Turchia. Il presidente statunitense Barack Obama giudica “ripugnante” il ricorso alla violenza del regime e accusa Damasco di cercare l’appoggio di Teheran per attuare la repressione. La Siria replica esprimendo “rammarico” per dichiarazioni –dice- “non basate su una visione oggettiva dei fatti”. E l’Iran nega ogni ingerenza. La Farnesina condanna la violenza e mostra “estrema preoccupazione”. La Russia invita Damasco, con cui ha da tempo stretti legami, ad accelerare le riforme. In Israele, il governo tace, ma la preoccupazione è palpabile.
La versione ufficiale è che le forze dell’ordine sono intervenute venerdì con lacrimogeni e cannoni ad acqua solo per impedire scontri fra “manifestanti e cittadini” e per proteggere “beni privati”. Sarebbero pure state sequestrate ai contestatori “bottiglie di sangue”. L’agenzia siriana Sana registra ‘solo’ dieci morti, fra cui almeno due elementi delle forze di sicurezza uccisi “da tiri di gruppi criminali armati”. Secondo Amnesty International, dall’inizio delle proteste, il 15 marzo, le vittime in Siria sono state oltre 310.
E’ chiaro che le misure finora prese dal regime per arginare la protesta, avvicendamenti al governo e levata dello stato d’assedio, sono insufficienti. E, infatti, il Venerdì santo, come l’ha definito l’opposizione, ha visto una mobilitazione senza precedenti: decine di migliaia di persone a sfidare al-Assad nelle strade.
Ancora una volta, in Siria, seguendo un rituale tragico e ormai consolidato, a un venerdì di proteste e di morte segue un sabato di funerali insanguinati: almeno 13 persone –ma il bilancio è incerto e provvisorio- sono state uccise ieri da colpi d’arma da fuoco in diverse città, mentre partecipavano alle esequie delle vittime della repressione delle manifestazioni contro il regime del presidente Bachar al-Assad.
Gli incidenti di venerdì avrebbero fatto, secondo fonti della protesta ufficialmente non confermate, oltre 110 morti, fra cui due bambini. Peggio del 23 marzo, quando ci furono un centinaio di morti. La mappa delle uccisioni di ieri vede tre vittime a Damasco, 5 a Douma -poco a nord della capitale- e 5 a Deraa -un centinaio di km a sud-. Due deputati dell’area di Deraa, dove il movimento di protesta è nato ed è più forte, hanno annunciato le loro dimissioni.
La crisi della Siria richiama l’attenzione circospetta della comunità internazionale, che si muove, qui, con molta più prudenza che in Libia. Da Washington a Bruxelles, come dal Palazzo di Vetro dell’Onu, vengono espressioni d’indignazione e inviti al regime a cessare di ricorrere alla violenza contro i manifestanti. Ma i Paesi arabi tacciono. E gli Occidentali non hanno alcuna intenzione d’internazionalizzare questo conflitto, com’è invece avvenuto in Libia: un intervento potrebbe riaccendere il conflitto arabo-israeliano e mettere del tutto fuori controllo il ‘domino dei satrapi’.
Il fatto è che la Siria è Paese più cruciale della Libia negli assetti mediorientali: ancora in conflitto con Israele per le alture del Golan; influente in Libano; legata a vario titolo ad Iran, Iraq e Turchia. Il presidente statunitense Barack Obama giudica “ripugnante” il ricorso alla violenza del regime e accusa Damasco di cercare l’appoggio di Teheran per attuare la repressione. La Siria replica esprimendo “rammarico” per dichiarazioni –dice- “non basate su una visione oggettiva dei fatti”. E l’Iran nega ogni ingerenza. La Farnesina condanna la violenza e mostra “estrema preoccupazione”. La Russia invita Damasco, con cui ha da tempo stretti legami, ad accelerare le riforme. In Israele, il governo tace, ma la preoccupazione è palpabile.
La versione ufficiale è che le forze dell’ordine sono intervenute venerdì con lacrimogeni e cannoni ad acqua solo per impedire scontri fra “manifestanti e cittadini” e per proteggere “beni privati”. Sarebbero pure state sequestrate ai contestatori “bottiglie di sangue”. L’agenzia siriana Sana registra ‘solo’ dieci morti, fra cui almeno due elementi delle forze di sicurezza uccisi “da tiri di gruppi criminali armati”. Secondo Amnesty International, dall’inizio delle proteste, il 15 marzo, le vittime in Siria sono state oltre 310.
E’ chiaro che le misure finora prese dal regime per arginare la protesta, avvicendamenti al governo e levata dello stato d’assedio, sono insufficienti. E, infatti, il Venerdì santo, come l’ha definito l’opposizione, ha visto una mobilitazione senza precedenti: decine di migliaia di persone a sfidare al-Assad nelle strade.
Libia: Gheddafi si ritira da Misurata, i ribelli esultano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/04/2011
Misurata, la città martire del conflitto libico, la Sarajevo del Mediterraneo, è libera: i soldati regolari del regime di Muammar Gheddafi l’hanno abbandonata. Gli insorti proclamano "la città è nostra", ma non ne sono ancora padroni: contro di loro, combattenti di tribù leali al colonnello dittatore. La situazione resta incerta, fluida, cruenta, con almeno 25 caduti nelle ultime 24 ore –ma i bilanci sono sempre aleatori-. Difficile, però, stabilire con certezza che cosa sia avvenuto e perché sia avvenuto: una mossa tattica, quella del regime?, o una ritirata vera e propria?, o una finta per gettare fumo negli occhi ai ribelli e pure alla comunità internazionale?
Venerdì notte, Tripoli ha annunciato di avere affidato a tribù lealiste il controllo della città a lungo contesa, dove, ieri, per la prima volta in questo conflitto, sono entrati in azione i droni americani, aerei senza pilota che hanno compiuto alcune incursioni –il Pentagono lo conferma, senza, però, fornire dettagli-. Sul fronte italiano, c’è da registrare la ‘liberazione’ del rimorchiatore ‘Asso 22’, che, dopo settimane sotto sequestro, ha lasciato la Libia per rientrare in Italia, senza che –si dice- sia stata versata alcuna contropartita: l’unità è in navigazione verso la Sicilia, l’equipaggio sta bene.
A Misurata, le tribù fedeli a Gheddafi hanno il mandato di porre fine agli scontri, o con la forza o con il negoziato. Ieri, gli insorti confermavano: “In città, ci sono combattenti di tribù del sud”. E giornalisti in loco riferiscono che esplosioni e tiri d’arma da fuoco continuano a succedersi , nella città sul Mediterraneo, 200 chilometri a Est di Tripoli, teatro di una cruenta guerriglia.
Una spiegazione del cambiamento di tattica del regime è venuta dal vice-ministro degli esteri Khaled Kaaim: i raid aerei della coalizione internazionale impedivano all’esercito di condurre “operazioni chirurgiche”. L’impiego, invece, di combattenti non regolari, provenienti da città come Bani Walid o Zliten, roccaforti della tribù dei Werfella, la più numerosa e la più fedele, complica il compito degli alleati: non sono militari, ma civili, esattamente come gli insorti. In realtà, i Werfella sarebbero già presenti da giorni a Misurata, sotto le insegne dell’ ‘Esercito popolare’ composto da ‘milizie volontarie’.
Tra venerdì e sabato, la Nato ha condotto numerosi raid su Tripoli, dove la popolazione ha udito diverse esplosioni e vi sono state vittime. L’impiego dei droni, armati ciascuno di due missili oppure di due bombe da 125 chili, è una risposta alla richiesta dei ribelli di intensificare l’azione della Nato. Ma la mossa testimonia pure che Washington, senza tirarsi indietro, vuole mantenere
in seconda linea le proprie forze, molto esposte nei primi giorni del conflitto libico.
Altri raids sono stati condotti nella regione di Zenten, a sud-ovest della capitale, dove si registrano scontri tra lealisti e insorti, che controllano diverse località di quest’area montagnosa, da dove 15 mila libici hanno recentemente riparato in Tunisia. L’alto commissariato dell’Onu ai rifugiati teme che l’esodo diventi più importante, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) calcola che, dall’inizio del conflitto, oltre 550 mila persone abbiano già lasciato la Libia, soprattutto lavoratori stranieri che volevano rientrare nei loro paesi. Una nave dell’Oim ha sbarcato a Misurata, ieri, 160 tonnellate d’aiuti umanitari ed è poi ripartita per Bengasi con un migliaio di stranieri, specie nigeriani. Ma centinaia di famiglie libiche facevano la coda, sperando d’imbarcarsi.
Da tempo, la comunità internazionale lancia l’allarme sulla situazione in città: la Croce Rossa avverte che le condizioni di sopravvivenza della popolazione si degradano, che l’accesso all’acqua ed alle cure mediche sono ormai problematici. Quello più piatto pareva, ieri, il fronte diplomatico: contatti tra Tripoli e Atene e nulla più, segnalano i dispacci d’agenzia. Ma i segnali da Misurata possono lasciare supporre che qualcosa si stia muovendo.
Misurata, la città martire del conflitto libico, la Sarajevo del Mediterraneo, è libera: i soldati regolari del regime di Muammar Gheddafi l’hanno abbandonata. Gli insorti proclamano "la città è nostra", ma non ne sono ancora padroni: contro di loro, combattenti di tribù leali al colonnello dittatore. La situazione resta incerta, fluida, cruenta, con almeno 25 caduti nelle ultime 24 ore –ma i bilanci sono sempre aleatori-. Difficile, però, stabilire con certezza che cosa sia avvenuto e perché sia avvenuto: una mossa tattica, quella del regime?, o una ritirata vera e propria?, o una finta per gettare fumo negli occhi ai ribelli e pure alla comunità internazionale?
Venerdì notte, Tripoli ha annunciato di avere affidato a tribù lealiste il controllo della città a lungo contesa, dove, ieri, per la prima volta in questo conflitto, sono entrati in azione i droni americani, aerei senza pilota che hanno compiuto alcune incursioni –il Pentagono lo conferma, senza, però, fornire dettagli-. Sul fronte italiano, c’è da registrare la ‘liberazione’ del rimorchiatore ‘Asso 22’, che, dopo settimane sotto sequestro, ha lasciato la Libia per rientrare in Italia, senza che –si dice- sia stata versata alcuna contropartita: l’unità è in navigazione verso la Sicilia, l’equipaggio sta bene.
A Misurata, le tribù fedeli a Gheddafi hanno il mandato di porre fine agli scontri, o con la forza o con il negoziato. Ieri, gli insorti confermavano: “In città, ci sono combattenti di tribù del sud”. E giornalisti in loco riferiscono che esplosioni e tiri d’arma da fuoco continuano a succedersi , nella città sul Mediterraneo, 200 chilometri a Est di Tripoli, teatro di una cruenta guerriglia.
Una spiegazione del cambiamento di tattica del regime è venuta dal vice-ministro degli esteri Khaled Kaaim: i raid aerei della coalizione internazionale impedivano all’esercito di condurre “operazioni chirurgiche”. L’impiego, invece, di combattenti non regolari, provenienti da città come Bani Walid o Zliten, roccaforti della tribù dei Werfella, la più numerosa e la più fedele, complica il compito degli alleati: non sono militari, ma civili, esattamente come gli insorti. In realtà, i Werfella sarebbero già presenti da giorni a Misurata, sotto le insegne dell’ ‘Esercito popolare’ composto da ‘milizie volontarie’.
Tra venerdì e sabato, la Nato ha condotto numerosi raid su Tripoli, dove la popolazione ha udito diverse esplosioni e vi sono state vittime. L’impiego dei droni, armati ciascuno di due missili oppure di due bombe da 125 chili, è una risposta alla richiesta dei ribelli di intensificare l’azione della Nato. Ma la mossa testimonia pure che Washington, senza tirarsi indietro, vuole mantenere
in seconda linea le proprie forze, molto esposte nei primi giorni del conflitto libico.
Altri raids sono stati condotti nella regione di Zenten, a sud-ovest della capitale, dove si registrano scontri tra lealisti e insorti, che controllano diverse località di quest’area montagnosa, da dove 15 mila libici hanno recentemente riparato in Tunisia. L’alto commissariato dell’Onu ai rifugiati teme che l’esodo diventi più importante, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) calcola che, dall’inizio del conflitto, oltre 550 mila persone abbiano già lasciato la Libia, soprattutto lavoratori stranieri che volevano rientrare nei loro paesi. Una nave dell’Oim ha sbarcato a Misurata, ieri, 160 tonnellate d’aiuti umanitari ed è poi ripartita per Bengasi con un migliaio di stranieri, specie nigeriani. Ma centinaia di famiglie libiche facevano la coda, sperando d’imbarcarsi.
Da tempo, la comunità internazionale lancia l’allarme sulla situazione in città: la Croce Rossa avverte che le condizioni di sopravvivenza della popolazione si degradano, che l’accesso all’acqua ed alle cure mediche sono ormai problematici. Quello più piatto pareva, ieri, il fronte diplomatico: contatti tra Tripoli e Atene e nulla più, segnalano i dispacci d’agenzia. Ma i segnali da Misurata possono lasciare supporre che qualcosa si stia muovendo.
sabato 23 aprile 2011
SPIGOLI: sosia di Mr B for president? Trump inquieta l'America
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/04/2011
Silvio Berlusconi for president ad America 2012? Non proprio lui, perché la Costituzione glielo vieta non essendo nato in America -avvertite il sospiro di sollievo di 330 milioni di cittadini statunitensi?-, ma una sorta di suo 'alter ego': il miliardario dell'immobiliare a vocazione televisiva Donald Trump, che avrebbe ambizioni presidenziali, o come candidato repubblicano, o come portabandiera indipendente d'una improbabile Terza Via Usa. Il NYT prova a esorcizzare l'ipotesi, che considera una iattura e, per stroncare sul nascere ogni velleità del biondo Donald, paragona il magnate americano al premier italiano. In un commento al vetriolo, l’opinionista Timothy Egan definisce Donald e Silvio “individui volgari” e constata una stanchezza generale negli Stati Uniti per le piazzate di Trump (ma questo, come dimostra il caso di Mr B in Italia, non basta a sventare la minaccia). Secondo Egan, le somiglianze tra Trump e Berlusconi, il premier italiano rimasto in carica più tempo di qualsiasi altro leader dall'epoca di Mussolini, sono “irresistibili”. Eccone alcune: Berlusconi ha capelli trapiantati, Trump un costoso toupet; Berlusconi offende le donne, Trump ne ha chiamato una “grasso maiale” (la conduttrice televisiva Rosie O’ Donnell). Berlusconi ha portato i sexy show sulla tv italiana. Trump ha un “ridicolo” reality show nel quale fa se stesso, l’imprenditore cattivo. Egan, però, avverte che c’e’ una fetta di popolazione “stranamente estasiata” dai due: “Che cosa dobbiamo pensare –si chiede, e noi con lui- della gente che li sceglie?”.
Silvio Berlusconi for president ad America 2012? Non proprio lui, perché la Costituzione glielo vieta non essendo nato in America -avvertite il sospiro di sollievo di 330 milioni di cittadini statunitensi?-, ma una sorta di suo 'alter ego': il miliardario dell'immobiliare a vocazione televisiva Donald Trump, che avrebbe ambizioni presidenziali, o come candidato repubblicano, o come portabandiera indipendente d'una improbabile Terza Via Usa. Il NYT prova a esorcizzare l'ipotesi, che considera una iattura e, per stroncare sul nascere ogni velleità del biondo Donald, paragona il magnate americano al premier italiano. In un commento al vetriolo, l’opinionista Timothy Egan definisce Donald e Silvio “individui volgari” e constata una stanchezza generale negli Stati Uniti per le piazzate di Trump (ma questo, come dimostra il caso di Mr B in Italia, non basta a sventare la minaccia). Secondo Egan, le somiglianze tra Trump e Berlusconi, il premier italiano rimasto in carica più tempo di qualsiasi altro leader dall'epoca di Mussolini, sono “irresistibili”. Eccone alcune: Berlusconi ha capelli trapiantati, Trump un costoso toupet; Berlusconi offende le donne, Trump ne ha chiamato una “grasso maiale” (la conduttrice televisiva Rosie O’ Donnell). Berlusconi ha portato i sexy show sulla tv italiana. Trump ha un “ridicolo” reality show nel quale fa se stesso, l’imprenditore cattivo. Egan, però, avverte che c’e’ una fetta di popolazione “stranamente estasiata” dai due: “Che cosa dobbiamo pensare –si chiede, e noi con lui- della gente che li sceglie?”.
Francia: conflitto d'interessi, operazione trasparenza
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/04/2011
Eliseo 2012, operazione trasparenza. E anche un po’ propaganda. Mentre la presidenza della Repubblica francese pubblica, come ogni anno, un bilancio dell’azione di Nicolas Sarkozy dalla sua elezione, quattro anni or sono, ecco sul sito del governo comparire, obbligatoria per tutti i ministri, una dichiarazione d’interessi: un documento che dovrebbe contenere indicazioni dettagliate sulle attività in corso e su quelle condotte negli ultimi cinque anni da ministri e sottosegretari, tenuti a sciorinare non solo i redditi percepiti nell'ultimo lustro, ma anche le eventuali partecipazioni azionarie in società private e gli eventuali incarichi pubblici dei parenti più prossimi.
Entrambe le mosse hanno un chiaro sapore elettorale, a un anno, ormai, dal primo turno delle presidenziali 2012: un lungo rettilineo che appare tutto in salita a Sarkozy, in calo di popolarità nei sondaggi. Oggi come oggi, rischia di essere escluso dal ballottaggio –ma il campo dei concorrenti è lungi dall’essere definito e gli umori della gente possono mutare in fretta-. Ed entrambe le mosse suscitano, immediate, critiche e ironie da parte dell’opposizione, che al presidente in difficoltà non ne perdona una.
Il bilancio dell’Eliseo è un rito. Ma le 73 pagine 2011 di ‘quattro anni d’azione di Nicolas Sarkozy’, sotto il titolo ‘La Francia avanza’, hanno lo schiocco della pistola dello starter che dà il via alla corsa alla presidenza: bilancio tutto rosa, sui fronti interno ed internazionale, in economia e nel sociale. Ma che tutto in Francia sia da 7+, non lo crede, probabilmente, neppure Sarkozy, che se no non starebbe annaspando nelle intenzioni di voto. Basta pensare alla Tunisia e all’ ‘affaire Oreal’, o alle riforme delle pensioni e dell’Università.
La dichiarazione d’interessi dei ministri vuole, invece, sventare la minaccia di scandali e sospetti che possano ulteriormente incrinare, nei prossimi mesi, la credibilità dell’esecutivo già compromessa da errori e leggerezze prima dell’ultimo recente rimpasto. Uomini e donne al potere devono dimostrare di non avere sfruttato le loro posizioni per arricchirsi, in attesa che il premier François Fillon proponga, a giugno, un giro di vite alla normativa sul conflitto d’interessi: le nuove regole, oltre a rafforzare le incompatibilità tra settore pubblico e attività privata, dovrebbero obbligare tutti i principali amministratori che lavorano per lo Stato a pubblicare la dichiarazione d’interessi «in modo da rinforzare il legame di fiducia tra i cittadini e le istituzioni».
La Francia di Sarkozy si preoccupa del conflitto d’interessi ben più dell’Italia di Berlusconi, dove le norme sono più blande e talora disattese. Eppure, oltralpe, c’è chi giudica la dichiarazione d’interessi inadeguata e parziale, perché, ad esempio, le proprietà immobiliari non entrano in gioco, a meno che il loro valore non venga modificato da decisioni governative. I giudizi della stampa sono delusi e taglienti: sul sito, i ministri ci mettono la faccia, ma ci scrivono poco; sulle schede, basterà una x per mandarli a casa.
Eliseo 2012, operazione trasparenza. E anche un po’ propaganda. Mentre la presidenza della Repubblica francese pubblica, come ogni anno, un bilancio dell’azione di Nicolas Sarkozy dalla sua elezione, quattro anni or sono, ecco sul sito del governo comparire, obbligatoria per tutti i ministri, una dichiarazione d’interessi: un documento che dovrebbe contenere indicazioni dettagliate sulle attività in corso e su quelle condotte negli ultimi cinque anni da ministri e sottosegretari, tenuti a sciorinare non solo i redditi percepiti nell'ultimo lustro, ma anche le eventuali partecipazioni azionarie in società private e gli eventuali incarichi pubblici dei parenti più prossimi.
Entrambe le mosse hanno un chiaro sapore elettorale, a un anno, ormai, dal primo turno delle presidenziali 2012: un lungo rettilineo che appare tutto in salita a Sarkozy, in calo di popolarità nei sondaggi. Oggi come oggi, rischia di essere escluso dal ballottaggio –ma il campo dei concorrenti è lungi dall’essere definito e gli umori della gente possono mutare in fretta-. Ed entrambe le mosse suscitano, immediate, critiche e ironie da parte dell’opposizione, che al presidente in difficoltà non ne perdona una.
Il bilancio dell’Eliseo è un rito. Ma le 73 pagine 2011 di ‘quattro anni d’azione di Nicolas Sarkozy’, sotto il titolo ‘La Francia avanza’, hanno lo schiocco della pistola dello starter che dà il via alla corsa alla presidenza: bilancio tutto rosa, sui fronti interno ed internazionale, in economia e nel sociale. Ma che tutto in Francia sia da 7+, non lo crede, probabilmente, neppure Sarkozy, che se no non starebbe annaspando nelle intenzioni di voto. Basta pensare alla Tunisia e all’ ‘affaire Oreal’, o alle riforme delle pensioni e dell’Università.
La dichiarazione d’interessi dei ministri vuole, invece, sventare la minaccia di scandali e sospetti che possano ulteriormente incrinare, nei prossimi mesi, la credibilità dell’esecutivo già compromessa da errori e leggerezze prima dell’ultimo recente rimpasto. Uomini e donne al potere devono dimostrare di non avere sfruttato le loro posizioni per arricchirsi, in attesa che il premier François Fillon proponga, a giugno, un giro di vite alla normativa sul conflitto d’interessi: le nuove regole, oltre a rafforzare le incompatibilità tra settore pubblico e attività privata, dovrebbero obbligare tutti i principali amministratori che lavorano per lo Stato a pubblicare la dichiarazione d’interessi «in modo da rinforzare il legame di fiducia tra i cittadini e le istituzioni».
La Francia di Sarkozy si preoccupa del conflitto d’interessi ben più dell’Italia di Berlusconi, dove le norme sono più blande e talora disattese. Eppure, oltralpe, c’è chi giudica la dichiarazione d’interessi inadeguata e parziale, perché, ad esempio, le proprietà immobiliari non entrano in gioco, a meno che il loro valore non venga modificato da decisioni governative. I giudizi della stampa sono delusi e taglienti: sul sito, i ministri ci mettono la faccia, ma ci scrivono poco; sulle schede, basterà una x per mandarli a casa.
Libia/Siria: sorelle tra rabbia e sangue; e l'Ue ha paura
Scritto per Il fatto Quotidiano del 23/04/2011
Dalla Libia alla Siria, il ‘domino dei satrapi’ nel Nord Africa vive l’ennesima giornata tra violenze e speranze. E l’Europa subisce i contraccolpi di quanto avviene sulla Riva Sud del Mediterraneo: la Francia valuta, tra ammissioni e smentite, l’ipotesi di una sospensione degli accordi di Schengen sulla libertà di circolazione nell’UE, sotto la pressione del flusso di immigrati dalla Tunisia e di rifugiati dalla Libia. Il punto sarà sollevato dal presidente Sarkozy e dai suoi ministri nel vertice bilaterale italo-francese a Roma martedì prossimo: la possibilità, prevista dai patti, di ‘congelare’ temporaneamente Schengen viene evocata da fonti dell’Eliseo, senza celare l’irritazione verso l’Italia per la gestione ‘a scarica barile’ degli immigrati tunisini. Lo scontro tra Parigi e Roma agita ancor di più l’Unione, adesso che c’è il timore che il regime di Gheddafi usi i rifugiati come arma di ritorsione contro l’Europa, lasciandoli salpare in massa dopo avere loro impedito di partire per oltre due anni, in esecuzione del Trattato d’Amicizia italo-libico.
Dalla Libia, dove lo stallo militare persiste, il senatore americano John McCain, in visita a Bengasi, lancia un appello alla comunità internazionale perché riconosca il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico, il giorno dopo l’annuncio da Washington dell’invio di droni, cioè di aerei senza pilota, da utilizzare nei cieli della Libia, specie per rompere l’assedio di Misurata.
E mentre il presidente Sarkozy accetta anch'egli l’invito a recarsi a Bengasi e pensa di ‘scongelare’ i beni libici bloccati per permetterne l'utilizzo agli insorti (“ne parleremo con i nostri partner europei”, perché le sanzioni sono state decise a livello Ue), da Tripoli Gheddafi minaccia l’Italia e gli altri paesi che inviano istruttori militari ai ribelli e denuncia il piano dell'Ue di intervento umanitario a Misurata con assistenza logistica militare.
Il regime libico giudica tali misure “l’avvio di un intervento militare terrestre in violazione della risoluzione dell’Onu”: ci saranno “conseguenze”, avverte. E anche Mosca è critica nei confronti “dell’avvio delle operazioni di terra”. L’Ue, pero', prosegue la pianificazione dell’intervento umanitario a Misurata, nonostante anche l'Onu mantenga riserve sul supporto logistico militare. Ne' l'imminente impiego dei droni -due dovrebbero essere stabilmente impegnati nell'area- puo' rassicurare le popolazioni civili: gli aerei senza pilota Usa sono strumenti asettici capaci di efficaci attacchi ai terroristi in Afghanistan e Pakistan, ma anche di tiri per errore sui civili: servono ad aumentare il volume di fuoco, senza mandare rinforzi sul terreno e dare un segno d'invasione, ma non sono una garanzia contro 'danni collaterali'.
In Siria, in uno degli ormai tanti venerdì di preghiera e di protesta, le forze dell’ordine sparano e uccidono una quarantina di persone e ne feriscono decine, nel tentativo di disperdere manifestazioni anti-potere imponenti, in quella che è una delle giornate più sanguinose –riferiscono testimoni e manifestanti- dall’inizio della contestazione contro il regime del presidente Bachar al-Assad. Gli incidenti hanno come teatro Damasco e varie altre localita', fra cui Deraa, la culla del movimento anti-Assad. E' il segno che i ritocchi apportati dal presidente al suo regime non soddisfano il desiderio di cambiamento dei protagonisti della protesta.
Dalla Libia alla Siria, il ‘domino dei satrapi’ nel Nord Africa vive l’ennesima giornata tra violenze e speranze. E l’Europa subisce i contraccolpi di quanto avviene sulla Riva Sud del Mediterraneo: la Francia valuta, tra ammissioni e smentite, l’ipotesi di una sospensione degli accordi di Schengen sulla libertà di circolazione nell’UE, sotto la pressione del flusso di immigrati dalla Tunisia e di rifugiati dalla Libia. Il punto sarà sollevato dal presidente Sarkozy e dai suoi ministri nel vertice bilaterale italo-francese a Roma martedì prossimo: la possibilità, prevista dai patti, di ‘congelare’ temporaneamente Schengen viene evocata da fonti dell’Eliseo, senza celare l’irritazione verso l’Italia per la gestione ‘a scarica barile’ degli immigrati tunisini. Lo scontro tra Parigi e Roma agita ancor di più l’Unione, adesso che c’è il timore che il regime di Gheddafi usi i rifugiati come arma di ritorsione contro l’Europa, lasciandoli salpare in massa dopo avere loro impedito di partire per oltre due anni, in esecuzione del Trattato d’Amicizia italo-libico.
Dalla Libia, dove lo stallo militare persiste, il senatore americano John McCain, in visita a Bengasi, lancia un appello alla comunità internazionale perché riconosca il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico, il giorno dopo l’annuncio da Washington dell’invio di droni, cioè di aerei senza pilota, da utilizzare nei cieli della Libia, specie per rompere l’assedio di Misurata.
E mentre il presidente Sarkozy accetta anch'egli l’invito a recarsi a Bengasi e pensa di ‘scongelare’ i beni libici bloccati per permetterne l'utilizzo agli insorti (“ne parleremo con i nostri partner europei”, perché le sanzioni sono state decise a livello Ue), da Tripoli Gheddafi minaccia l’Italia e gli altri paesi che inviano istruttori militari ai ribelli e denuncia il piano dell'Ue di intervento umanitario a Misurata con assistenza logistica militare.
Il regime libico giudica tali misure “l’avvio di un intervento militare terrestre in violazione della risoluzione dell’Onu”: ci saranno “conseguenze”, avverte. E anche Mosca è critica nei confronti “dell’avvio delle operazioni di terra”. L’Ue, pero', prosegue la pianificazione dell’intervento umanitario a Misurata, nonostante anche l'Onu mantenga riserve sul supporto logistico militare. Ne' l'imminente impiego dei droni -due dovrebbero essere stabilmente impegnati nell'area- puo' rassicurare le popolazioni civili: gli aerei senza pilota Usa sono strumenti asettici capaci di efficaci attacchi ai terroristi in Afghanistan e Pakistan, ma anche di tiri per errore sui civili: servono ad aumentare il volume di fuoco, senza mandare rinforzi sul terreno e dare un segno d'invasione, ma non sono una garanzia contro 'danni collaterali'.
In Siria, in uno degli ormai tanti venerdì di preghiera e di protesta, le forze dell’ordine sparano e uccidono una quarantina di persone e ne feriscono decine, nel tentativo di disperdere manifestazioni anti-potere imponenti, in quella che è una delle giornate più sanguinose –riferiscono testimoni e manifestanti- dall’inizio della contestazione contro il regime del presidente Bachar al-Assad. Gli incidenti hanno come teatro Damasco e varie altre localita', fra cui Deraa, la culla del movimento anti-Assad. E' il segno che i ritocchi apportati dal presidente al suo regime non soddisfano il desiderio di cambiamento dei protagonisti della protesta.
venerdì 22 aprile 2011
SPIGOLI: i coniugi vergini e i martiri cristiani sepolti vivi
Scritto per Il fatto Quotidiano del 22/04/2011
Due scheletri 'santi' vecchi di oltre 1700 anni sono, o meglio sarebbero, la prova che la storia, finora creduta una leggenda, di vergini cristiani sepolti vivi nell’antica Roma è vera. I resti sono quelli di Crisanto e Daria, marito e moglie, ma entrambi illibati, uccisi in una miniera di sale nel 283 a.C. Le loro ossa, custodite in una cripta della Cattedrale di Reggio Emilia dal 10.o secolo, sono state ora esaminate con tutti i crismi della scienza. Crisanto e Daria, lui figlio di un senatore, di origine egiziana, ancora adolescente, lei una vestale, appena ventenne, subirono il martirio per avere fatto opera di proselitismo cristiano fra i loro concittadini, una trentina di anni prima che l'editto di Costantino 'sdoganasse' nell'impero la nuova religione e un secolo prima che il cristianesimo divenisse la religione di stato. La storia vagamente ‘pasquale’ dei giovanissimi coniugi vergini e martiri e' raccontata dal DailyMail, con documenti d'appoggio ed immagini del National Geographic e citazioni di fonti di stampa cattoliche, che sottolineano “il coraggio” dei responsabili religiosi che hanno osato affidare alla scienza quelle che possono essere le reliquie di santi. In effetti, manca la certezza che le ossa trovate sotto l’altare della cattedrale di Reggio, in una cripta che non sarebbe mai stata aperta dal 1651 al 2008, quando iniziarono i restauri, siano proprio quelle di Crisanto e Daria. Ma molti dati collimano e crederlo è suggestivo.
Due scheletri 'santi' vecchi di oltre 1700 anni sono, o meglio sarebbero, la prova che la storia, finora creduta una leggenda, di vergini cristiani sepolti vivi nell’antica Roma è vera. I resti sono quelli di Crisanto e Daria, marito e moglie, ma entrambi illibati, uccisi in una miniera di sale nel 283 a.C. Le loro ossa, custodite in una cripta della Cattedrale di Reggio Emilia dal 10.o secolo, sono state ora esaminate con tutti i crismi della scienza. Crisanto e Daria, lui figlio di un senatore, di origine egiziana, ancora adolescente, lei una vestale, appena ventenne, subirono il martirio per avere fatto opera di proselitismo cristiano fra i loro concittadini, una trentina di anni prima che l'editto di Costantino 'sdoganasse' nell'impero la nuova religione e un secolo prima che il cristianesimo divenisse la religione di stato. La storia vagamente ‘pasquale’ dei giovanissimi coniugi vergini e martiri e' raccontata dal DailyMail, con documenti d'appoggio ed immagini del National Geographic e citazioni di fonti di stampa cattoliche, che sottolineano “il coraggio” dei responsabili religiosi che hanno osato affidare alla scienza quelle che possono essere le reliquie di santi. In effetti, manca la certezza che le ossa trovate sotto l’altare della cattedrale di Reggio, in una cripta che non sarebbe mai stata aperta dal 1651 al 2008, quando iniziarono i restauri, siano proprio quelle di Crisanto e Daria. Ma molti dati collimano e crederlo è suggestivo.
giovedì 21 aprile 2011
Libia: l'Italia fa un passo in avanti verso prima linea
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/04/2011
L’Italia fa un passo in avanti, verso la prima linea del conflitto libico: il governo, i cui aerei non partecipano agli attacchi della Nato per via del passato coloniale, s’impegna, insieme a quello britannico, a fornire agli insorti istruttori militari, una decina per ora. L’annuncio è del ministro della difesa Ignazio La Russa, dopo un incontro a Roma con il collega britannico Liam Fox. La Russa ribadisce il no ad azioni sul terreno e nega che l’Italia stia fornendo armi agli insorti, ma insiste che la Nato deve fare di più per aiutare gli insorti: «Senza un’azione militare forte, difficilmente Gheddafi lascerà il potere: bisogna quindi spingere al massimo l’intervento, nei limiti della risoluzione dell’Onu». Intanto, l’Ue continua a interrogarsi sull’opportunità di dare protezione, o almeno assistenza logistica, militare, se necessaria, alle operazioni umanitarie.
Il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Biagio Abrate, considera l’invio degli istruttori «un primo passo»: serviranno ad addestrare i ribelli a contrastare un esercito di professionisti com’è quello di Gheddafi. La Casa Bianca approva la decisione: «Bene l’invio di consiglieri da parte degli alleati. Noi non prevediamo di farlo», dice il portavoce Jay Carney. La posizione defilata degli Stati Uniti in questo conflitto sembrerebbe confermarsi, ma il Washington Times scrive che sarebbero pronti 25 milioni di dollari di aiuti militari agli insorti.
Intanto, il capo del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico Mustafa Abdel Jalil raccoglie i frutti della sua diplomazia itinerante: lunedi’ a Roma, ieri a Parigi, dove il presidente francese Nikolas Sarkozy lo riceve all’Eliseo e gli promette raid più efficaci e maggiori aiuti. Jalil, che a Roma ha mostrato una maggiore discrezione rispetto a Gheddafi, tranquillizza gli interlocutori su energia e rapporti economici, ma chiede contropartite. E il regime gli dà un assist, mostrando, con lo sbarco di lunedi’ di 760 profughi a Lampedusa, di essere pronto a usare i rifugiati come un’arma contro l’Italia e l’Europa: «Tranquilli, noi bloccheremo l’esodo», assicura Jalil.
A Parigi, Ali al-Issawi, il ‘ministro degli esteri’ del Cnt, ostenta «fiducia che alla fine vinceremo»: «Speriamo in maggiori aiuti da parte di Italia, Francia e Gran Bretagna», perchè entiamo in una fase in cui abbiamo bisogno di appoggio militare, armi e consigli tecnici».
L’accelerazione militare italo-britannica avviene proprio mentre la diplomazia pare frenare sull’uscita di scena di Gheddafi. Una fonte di rango dell’Ue dice ai giornalisti che l’abbandono del potere da parte del colonnello resta irrinunciabile, ma non è più considerata una condizione preliminare al cessate-il-fuoco- e all’inizio dei negoziati sulla transizione. Del resto, il ministro degli esteri Franco Frattini conferma che Gheddafi deve «lasciare la scena», ma trovando magari rifugio in un Paese disposto ad accoglierlo. Il lavoro della diplomazia, con un intreccio di riunioni multilaterali e incontri bilaterali –La Russa è pure stato a Washington-, ha prodotto in questi giorni diverse ‘road map’ verso la riconciliazione e la pace, ma nessuna è stata finora accettata dai ribelli e da Gheddafi. Su un punto insorti e regime sono pero’ d’accordo, per ora: l’indivisibilità della Libia.
Nella frenesia dei contatti, colpisce la discrezione del presidente del Consiglio, che non ne è certo campione : oggi, ha avuto una telefonata con il premier britannico David Cameron, poche righe di una nota di Palazzo Chigi. Forse, Berlusconi sente nelle ali il piombo dell’amicizia con Gheddafi e lascia spazio a Frattini e La Russa, che puntano, soprattutto, a consolidare il rapporto con Washington, incline a lasciare giocare agli alleati europei la partita libica. Ma il Cavaliere potrebbe, invece, cercare di riscattare la familiarità con il Colonnello cercando di convincerlo a lasciare il potere e a farsi da parte.
L’Italia fa un passo in avanti, verso la prima linea del conflitto libico: il governo, i cui aerei non partecipano agli attacchi della Nato per via del passato coloniale, s’impegna, insieme a quello britannico, a fornire agli insorti istruttori militari, una decina per ora. L’annuncio è del ministro della difesa Ignazio La Russa, dopo un incontro a Roma con il collega britannico Liam Fox. La Russa ribadisce il no ad azioni sul terreno e nega che l’Italia stia fornendo armi agli insorti, ma insiste che la Nato deve fare di più per aiutare gli insorti: «Senza un’azione militare forte, difficilmente Gheddafi lascerà il potere: bisogna quindi spingere al massimo l’intervento, nei limiti della risoluzione dell’Onu». Intanto, l’Ue continua a interrogarsi sull’opportunità di dare protezione, o almeno assistenza logistica, militare, se necessaria, alle operazioni umanitarie.
Il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Biagio Abrate, considera l’invio degli istruttori «un primo passo»: serviranno ad addestrare i ribelli a contrastare un esercito di professionisti com’è quello di Gheddafi. La Casa Bianca approva la decisione: «Bene l’invio di consiglieri da parte degli alleati. Noi non prevediamo di farlo», dice il portavoce Jay Carney. La posizione defilata degli Stati Uniti in questo conflitto sembrerebbe confermarsi, ma il Washington Times scrive che sarebbero pronti 25 milioni di dollari di aiuti militari agli insorti.
Intanto, il capo del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico Mustafa Abdel Jalil raccoglie i frutti della sua diplomazia itinerante: lunedi’ a Roma, ieri a Parigi, dove il presidente francese Nikolas Sarkozy lo riceve all’Eliseo e gli promette raid più efficaci e maggiori aiuti. Jalil, che a Roma ha mostrato una maggiore discrezione rispetto a Gheddafi, tranquillizza gli interlocutori su energia e rapporti economici, ma chiede contropartite. E il regime gli dà un assist, mostrando, con lo sbarco di lunedi’ di 760 profughi a Lampedusa, di essere pronto a usare i rifugiati come un’arma contro l’Italia e l’Europa: «Tranquilli, noi bloccheremo l’esodo», assicura Jalil.
A Parigi, Ali al-Issawi, il ‘ministro degli esteri’ del Cnt, ostenta «fiducia che alla fine vinceremo»: «Speriamo in maggiori aiuti da parte di Italia, Francia e Gran Bretagna», perchè entiamo in una fase in cui abbiamo bisogno di appoggio militare, armi e consigli tecnici».
L’accelerazione militare italo-britannica avviene proprio mentre la diplomazia pare frenare sull’uscita di scena di Gheddafi. Una fonte di rango dell’Ue dice ai giornalisti che l’abbandono del potere da parte del colonnello resta irrinunciabile, ma non è più considerata una condizione preliminare al cessate-il-fuoco- e all’inizio dei negoziati sulla transizione. Del resto, il ministro degli esteri Franco Frattini conferma che Gheddafi deve «lasciare la scena», ma trovando magari rifugio in un Paese disposto ad accoglierlo. Il lavoro della diplomazia, con un intreccio di riunioni multilaterali e incontri bilaterali –La Russa è pure stato a Washington-, ha prodotto in questi giorni diverse ‘road map’ verso la riconciliazione e la pace, ma nessuna è stata finora accettata dai ribelli e da Gheddafi. Su un punto insorti e regime sono pero’ d’accordo, per ora: l’indivisibilità della Libia.
Nella frenesia dei contatti, colpisce la discrezione del presidente del Consiglio, che non ne è certo campione : oggi, ha avuto una telefonata con il premier britannico David Cameron, poche righe di una nota di Palazzo Chigi. Forse, Berlusconi sente nelle ali il piombo dell’amicizia con Gheddafi e lascia spazio a Frattini e La Russa, che puntano, soprattutto, a consolidare il rapporto con Washington, incline a lasciare giocare agli alleati europei la partita libica. Ma il Cavaliere potrebbe, invece, cercare di riscattare la familiarità con il Colonnello cercando di convincerlo a lasciare il potere e a farsi da parte.
SPIGOLI: Bce, Draghi for president, avalli eccellenti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/04/2011
Mario Draghi ha il vento della stampa internazionale in poppa: il governatore di BankItalia, che è l’uomo in fuga da solo nella corsa alla presidenza della Banca centrale europea, riceve, d’un colpo, l’endorsement unanime e convinto del WSJ (“Tedeschi più morbidi: la scelta italiana per la Bce guadagna punti”), del Times (“Un italiano pronto a gestire la Bce, se Angela Merkel si lascerà convincere”) e di Les Echos (“Schauble, ministro dell’economia tedesco, sostiene Draghi: un appoggio di peso”). Il FT e l’Economist avevano già dato –e reiterato- il loro avallo. La candidatura del governatore, dunque, ritrova freschezza, nonostante la sua squadra, che, dietro, dovrebbe coprirlo, rompere i cambi, impedire che gli altri organizzino la caccia, stia tutta in fondo al gruppo, a litigare con le altre e a bofonchiare propositi di ritiro dalla gara. Il capitano, Napolitano, richiama all’ordine leader e gregari: “Ragazzi, non scherziamo con l’Europa”. Ma quelli dicono sì e, poi, vanno avanti come se niente fosse, con il rischio che il clima di diffidenza e di irritazione verso l’Italia, alimentato dalla crisi dell’immigrazione, mandi tutto all’aria. Evitiamo che la Merkel si ricordi all’ultimo momento che quel posto, in fondo, era promesso alla Germania. Anche se Draghi ha sponsor autorevoli fra i grandi media e le carte in regola per fare bene.
Mario Draghi ha il vento della stampa internazionale in poppa: il governatore di BankItalia, che è l’uomo in fuga da solo nella corsa alla presidenza della Banca centrale europea, riceve, d’un colpo, l’endorsement unanime e convinto del WSJ (“Tedeschi più morbidi: la scelta italiana per la Bce guadagna punti”), del Times (“Un italiano pronto a gestire la Bce, se Angela Merkel si lascerà convincere”) e di Les Echos (“Schauble, ministro dell’economia tedesco, sostiene Draghi: un appoggio di peso”). Il FT e l’Economist avevano già dato –e reiterato- il loro avallo. La candidatura del governatore, dunque, ritrova freschezza, nonostante la sua squadra, che, dietro, dovrebbe coprirlo, rompere i cambi, impedire che gli altri organizzino la caccia, stia tutta in fondo al gruppo, a litigare con le altre e a bofonchiare propositi di ritiro dalla gara. Il capitano, Napolitano, richiama all’ordine leader e gregari: “Ragazzi, non scherziamo con l’Europa”. Ma quelli dicono sì e, poi, vanno avanti come se niente fosse, con il rischio che il clima di diffidenza e di irritazione verso l’Italia, alimentato dalla crisi dell’immigrazione, mandi tutto all’aria. Evitiamo che la Merkel si ricordi all’ultimo momento che quel posto, in fondo, era promesso alla Germania. Anche se Draghi ha sponsor autorevoli fra i grandi media e le carte in regola per fare bene.
mercoledì 20 aprile 2011
SPIGOLI: Ferrero icona d'Italia, Nutella e famiglia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/04/2011
All’Italiana La Nutella, gli ovetti Kinder, i Mon Chéri, i Rocher, i TicTac, tutti prodotti Ferrero, sono icone italiane in tutto il mondo, come la Coca Cola è un’icona americana. E, cosi’, la notizia della morte in Sudafrica di Pietro Ferrero, vittima d’un malore mentre pedalava –aveva la passione della bici- vicino a Cape Town, assume un’eco mondiale. La mettono in rilievo i giornali economici, ma non solo. I grandi quotidiani americani, il NYT e il WP, le danno risalto come quelli europei: FT ricorda che il padre di Pietro, Michele, è l’uomo più ricco d’Italia, nelle classifiche di Forbes, davanti a Del Vecchio e al premier Berlusconi; per la Bbc Pietro era “l’uomo forte” e la Ferrero è “il gigante dolciario italiano”; e cosi’ pure per il Times, il Guardian, l’Independent, Le Monde, Le Figaro, Les Echos, El Pais, El Mundo, e molte altre testate ancora. Se i giornali sudafricani fanno una cronaca dettagliata delle circostanze del decesso, FT e altri evocano il capitalismo familiare italiano di cui la Ferrero è campione, sempre alla larga da takeover e quotazione in Borsa e tuttora ancorata all’intuizione di Nonno Pietro, che nel 1942, in piena guerra, fondo’ l’azienda e invento’ la Nutella, ‘ispirato’ dall’autarchia –meno cacao, tante nocciole, che non ci mancano-. Quando, nel 2010, Pietro, con il fratello Giovanni Ceo dal 1997, fu tentato dall’acquisto della britannica Cadbury e ne parlo’ in Mediobanca, Michele, il padre, 85 anni, quello che ancora ha l’ultima parola, alla fine decise per il no.
All’Italiana La Nutella, gli ovetti Kinder, i Mon Chéri, i Rocher, i TicTac, tutti prodotti Ferrero, sono icone italiane in tutto il mondo, come la Coca Cola è un’icona americana. E, cosi’, la notizia della morte in Sudafrica di Pietro Ferrero, vittima d’un malore mentre pedalava –aveva la passione della bici- vicino a Cape Town, assume un’eco mondiale. La mettono in rilievo i giornali economici, ma non solo. I grandi quotidiani americani, il NYT e il WP, le danno risalto come quelli europei: FT ricorda che il padre di Pietro, Michele, è l’uomo più ricco d’Italia, nelle classifiche di Forbes, davanti a Del Vecchio e al premier Berlusconi; per la Bbc Pietro era “l’uomo forte” e la Ferrero è “il gigante dolciario italiano”; e cosi’ pure per il Times, il Guardian, l’Independent, Le Monde, Le Figaro, Les Echos, El Pais, El Mundo, e molte altre testate ancora. Se i giornali sudafricani fanno una cronaca dettagliata delle circostanze del decesso, FT e altri evocano il capitalismo familiare italiano di cui la Ferrero è campione, sempre alla larga da takeover e quotazione in Borsa e tuttora ancorata all’intuizione di Nonno Pietro, che nel 1942, in piena guerra, fondo’ l’azienda e invento’ la Nutella, ‘ispirato’ dall’autarchia –meno cacao, tante nocciole, che non ci mancano-. Quando, nel 2010, Pietro, con il fratello Giovanni Ceo dal 1997, fu tentato dall’acquisto della britannica Cadbury e ne parlo’ in Mediobanca, Michele, il padre, 85 anni, quello che ancora ha l’ultima parola, alla fine decise per il no.
martedì 19 aprile 2011
UE: Veri Finlandesi ed euro-scettici come italici leghisti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/04/2011
In un’Europa incapace di coraggio e di solidarietà, dove prevale la paura e l’egoismo, le elezioni politiche finlandesi calano un’altra ipoteca euro-scettica: vincono i conservatori (44 seggi, poco oltre il 20% dei voti) davanti al socialdemocratici (42 seggi, un soffio sopra il 19%), ma il botto lo fa il partito populista e nazionalista dei Veri Finlandesi, da 5 a 39 seggi e dal 4 al 19%. I centristi, che erano il principale partito, con 51 seggi e il 23% dei voti, crollano a 35 seggi e sotto il 16%: la premier uscente Mari Kiviniemi si sarà anche meritata uno sguardo sottecchi di Silvio Berlusconi all’ultimo Vertice europeo, ma non ha riconquistato la fiducia dei suoi cittadini. Di tutti i partiti presenti in Parlamento, solo gli euro-scettici avanzano: tutti gli altri perdono consensi e seggi.
Si allarga, dunque, nell’Unione quello che Les Echos chiama “il contagio del populismo”, un morbo che “si nutre del rigetto dei leader e delle paure della globalizzazione, dell'immigrazione, d’un islam sempre più visibile”. Dopo l’Olanda, dove gli xenofobi condizionano una coalizione di minoranza con l’appoggio esterno, e il Belgio, dove i nazionalisti fiamminghi frenano da oltre 300 giorni i negoziati per un governo, tocca ai Paesi Nordici, finora roccaforte di una democrazia sociale e solidale: un’increspatura in Svezia, un’ondata in Finlandia, uno dei Paesi dell’euro, che, adesso, potrebbe rimettere in discussione i salvataggi finanziari di Grecia, Irlanda, Portogallo. Le istituzioni dell’Ue ostentano fiducia che gli impegni saranno mantenuti, ma scricchiolii vengono da Italia e Francia, dove Lega e Fronte nazionale già condizionano i giochi politici e le scelte dei governi,
In Finlandia, il successo dei populisti ha radici nel malcontento per l’impatto della crisi, che tocca un simbolo del Paese come la Nokia e colpisce occupazione e pensioni. Il leader dei Veri Finlandesi Timo Soini, un tipo corpulento, dotato di carisma, giudica il voto “un referendum contro la politica europea” centrista e si aspetta un invito alle trattative per il nuovo governo, che -vista la frammentazione dei suffragi- dovrà essere una variegata coalizione: nessuna alleanza di due partiti s’avvicina neppure alla metà dei 200 seggi.
Il leader conservatore Jirki Katainen avra' l'incarico di formare il nuovo esecutivo e potrebbe sondare Soini su un'alleanza, a patto che abbassi i toni e anti-europeisti e anti-immigrazione. Molto dipenderà pure dai socialdemocratici, estromessi dal governo dal 2007 e guidati da Jutta Urpilainen, leader dall'immagine comunicativa e aperta. Il partito è fortemente europeista, ma e' contrario al salvataggio del Portogallo. Non e' neppure esclusa una riconferma dell'alleanza con i centristi.
A Bruxelles, c’è chi celebra l'avanzata dei Veri Finlandesi, che, nel Parlamento europeo, fanno gruppo con gli ‘euro-scettici’, dove spiccano i leghisti. Mario Borghezio parla di "marcia trionfale dei movimenti vicini" alla Lega, Mara Bizzotto saluta "un'altra picconata a questa Ue obsoleta e squinternata”. La svedese Cecilia Malmstroem, commissaria all’immigrazione, vede, invece, accendersi una spia di pericolo: per fermare l'ondata 'euro-scettica' "mancano in Europa leadership e solidarietà”: i populisti “sfruttano la paura degli immigrati” e dimenticano che l’Ue “ha bisogno di manodopera".
In un’Europa incapace di coraggio e di solidarietà, dove prevale la paura e l’egoismo, le elezioni politiche finlandesi calano un’altra ipoteca euro-scettica: vincono i conservatori (44 seggi, poco oltre il 20% dei voti) davanti al socialdemocratici (42 seggi, un soffio sopra il 19%), ma il botto lo fa il partito populista e nazionalista dei Veri Finlandesi, da 5 a 39 seggi e dal 4 al 19%. I centristi, che erano il principale partito, con 51 seggi e il 23% dei voti, crollano a 35 seggi e sotto il 16%: la premier uscente Mari Kiviniemi si sarà anche meritata uno sguardo sottecchi di Silvio Berlusconi all’ultimo Vertice europeo, ma non ha riconquistato la fiducia dei suoi cittadini. Di tutti i partiti presenti in Parlamento, solo gli euro-scettici avanzano: tutti gli altri perdono consensi e seggi.
Si allarga, dunque, nell’Unione quello che Les Echos chiama “il contagio del populismo”, un morbo che “si nutre del rigetto dei leader e delle paure della globalizzazione, dell'immigrazione, d’un islam sempre più visibile”. Dopo l’Olanda, dove gli xenofobi condizionano una coalizione di minoranza con l’appoggio esterno, e il Belgio, dove i nazionalisti fiamminghi frenano da oltre 300 giorni i negoziati per un governo, tocca ai Paesi Nordici, finora roccaforte di una democrazia sociale e solidale: un’increspatura in Svezia, un’ondata in Finlandia, uno dei Paesi dell’euro, che, adesso, potrebbe rimettere in discussione i salvataggi finanziari di Grecia, Irlanda, Portogallo. Le istituzioni dell’Ue ostentano fiducia che gli impegni saranno mantenuti, ma scricchiolii vengono da Italia e Francia, dove Lega e Fronte nazionale già condizionano i giochi politici e le scelte dei governi,
In Finlandia, il successo dei populisti ha radici nel malcontento per l’impatto della crisi, che tocca un simbolo del Paese come la Nokia e colpisce occupazione e pensioni. Il leader dei Veri Finlandesi Timo Soini, un tipo corpulento, dotato di carisma, giudica il voto “un referendum contro la politica europea” centrista e si aspetta un invito alle trattative per il nuovo governo, che -vista la frammentazione dei suffragi- dovrà essere una variegata coalizione: nessuna alleanza di due partiti s’avvicina neppure alla metà dei 200 seggi.
Il leader conservatore Jirki Katainen avra' l'incarico di formare il nuovo esecutivo e potrebbe sondare Soini su un'alleanza, a patto che abbassi i toni e anti-europeisti e anti-immigrazione. Molto dipenderà pure dai socialdemocratici, estromessi dal governo dal 2007 e guidati da Jutta Urpilainen, leader dall'immagine comunicativa e aperta. Il partito è fortemente europeista, ma e' contrario al salvataggio del Portogallo. Non e' neppure esclusa una riconferma dell'alleanza con i centristi.
A Bruxelles, c’è chi celebra l'avanzata dei Veri Finlandesi, che, nel Parlamento europeo, fanno gruppo con gli ‘euro-scettici’, dove spiccano i leghisti. Mario Borghezio parla di "marcia trionfale dei movimenti vicini" alla Lega, Mara Bizzotto saluta "un'altra picconata a questa Ue obsoleta e squinternata”. La svedese Cecilia Malmstroem, commissaria all’immigrazione, vede, invece, accendersi una spia di pericolo: per fermare l'ondata 'euro-scettica' "mancano in Europa leadership e solidarietà”: i populisti “sfruttano la paura degli immigrati” e dimenticano che l’Ue “ha bisogno di manodopera".
SPIGOLI: le donne italiane 'prosciutto', il machismo di Mr B
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/04/2011
Le donne italiane? “Trattate come ‘prosciutto’”, in italiano nel titolo. Newsweek torna ad affrontare il tema delle donne che sfidano gli stereotipi di Mr B, in un articolo dal titolo e dal sommario molto espliciti: “Il comportamento da maiale di Berlusconi è l'ultima goccia per le donne italiane, che promettono di porre termine alla cultura d’uno stantio machismo”. Sotto una foto d’Anna Magnani, una delle tante donne italiane impossibili da trattare come ‘prosciutto’, la rivista afferma che
“le donne italiane non ridono più delle battute” del premier e cita il crollo della popolarità di Mr B nei sondaggi (dal 48 al 27% di sostegno femminile, “un minimo storico”). Il settimanale americano incalza recenti servizi della Bbc (“Berlusconi mette alla prova la pazienza delle donne lealiste”) e del Telegraph, sull’iniziativa di un gruppo di attiviste di Arcidonna che chiedono un risarcimento al premier. E c’è chi allarga lo sguardo oltre le donne e l’Italia. Giorni fa, Time, principale concorrente di Newsweek, misurava, in un sondaggio ‘fai-da-te’, l’influenza dei leader: Berlusconi ne usciva male, una maggioranza lo giudica ininfluente. E chi segue le cronache italiane capisce bene il titolo di Newsweek e il sondaggio di Time: l’ultima raffica di gag riprese dalla stampa estera comprende una battuta su gay e lesbiche e la previsione di vivere fino a 120 anni. Il tutto –ovvio- intriso d’attacchi alla magistratura e alla scuola pubblica.
Le donne italiane? “Trattate come ‘prosciutto’”, in italiano nel titolo. Newsweek torna ad affrontare il tema delle donne che sfidano gli stereotipi di Mr B, in un articolo dal titolo e dal sommario molto espliciti: “Il comportamento da maiale di Berlusconi è l'ultima goccia per le donne italiane, che promettono di porre termine alla cultura d’uno stantio machismo”. Sotto una foto d’Anna Magnani, una delle tante donne italiane impossibili da trattare come ‘prosciutto’, la rivista afferma che
“le donne italiane non ridono più delle battute” del premier e cita il crollo della popolarità di Mr B nei sondaggi (dal 48 al 27% di sostegno femminile, “un minimo storico”). Il settimanale americano incalza recenti servizi della Bbc (“Berlusconi mette alla prova la pazienza delle donne lealiste”) e del Telegraph, sull’iniziativa di un gruppo di attiviste di Arcidonna che chiedono un risarcimento al premier. E c’è chi allarga lo sguardo oltre le donne e l’Italia. Giorni fa, Time, principale concorrente di Newsweek, misurava, in un sondaggio ‘fai-da-te’, l’influenza dei leader: Berlusconi ne usciva male, una maggioranza lo giudica ininfluente. E chi segue le cronache italiane capisce bene il titolo di Newsweek e il sondaggio di Time: l’ultima raffica di gag riprese dalla stampa estera comprende una battuta su gay e lesbiche e la previsione di vivere fino a 120 anni. Il tutto –ovvio- intriso d’attacchi alla magistratura e alla scuola pubblica.
domenica 17 aprile 2011
SPIGOLI: Vaticano 'lost in translation', errori da matita blu
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/04/2011
La dottrina cattolica sulla contraccezione ‘lost in translation’: è un titolo del Guardian, che richiama un bel film del 2003 di Sofia Coppola con Bill Murray e Scarlett Johanson, quattro nominations agli Oscar e una statuetta vinta. Da giorni, la stampa di tutto il mondo fa a turno giochi di parole un po’ irriverenti e ironie un po’ facili sugli errori di traduzione che “infestano” –il termine è della Bbc- l’ultima versione del catechismo cattolico, che si chiama –deve averlo suggerito qualche creativo!- YouCat. C’è di che avere nostalgie delle formulette d’un tempo alla scuola dei chierichetti, che mica andavano a impantanarsi su certi temi e, anzi, scantonavano su tutto quello che era sessualità. L’Ap, che con i suoi servizi ‘colonizza’ la stampa americana, spiega che l’errore di traduzione suggerisce il sì della Chiesa all’uso dei preservativi, racconta che per questo il volume è stato ritirato e parla dell’imbarazzo del Vaticano per la vicenda –lo credo bene, con l’angoscia dell’infallibilità-. E sull’argomento sguazzano pure, dopo quelle italiana e anglosassone, le stampe francese e spagnola (“Abc: Bloccata versione italiana nuovo catechismo per errori su eutanasia e anti-contraccettivi”): errori da matita blu in tutte le lingue. Meno imbarazzo, anzi magari un sospiro di sollievo, oltre Tevere, alla notizia, data da Le Monde, che il presidente francese Nicolas Sarkozy e la ‘première dame’ Carlà Bruni non assisteranno alla canonizzazione di Papa Giovanni Paolo II: problemi in meno per protocollo ed etichetta, chè Nicolas e signora non sempre stanno al loro posto.
La dottrina cattolica sulla contraccezione ‘lost in translation’: è un titolo del Guardian, che richiama un bel film del 2003 di Sofia Coppola con Bill Murray e Scarlett Johanson, quattro nominations agli Oscar e una statuetta vinta. Da giorni, la stampa di tutto il mondo fa a turno giochi di parole un po’ irriverenti e ironie un po’ facili sugli errori di traduzione che “infestano” –il termine è della Bbc- l’ultima versione del catechismo cattolico, che si chiama –deve averlo suggerito qualche creativo!- YouCat. C’è di che avere nostalgie delle formulette d’un tempo alla scuola dei chierichetti, che mica andavano a impantanarsi su certi temi e, anzi, scantonavano su tutto quello che era sessualità. L’Ap, che con i suoi servizi ‘colonizza’ la stampa americana, spiega che l’errore di traduzione suggerisce il sì della Chiesa all’uso dei preservativi, racconta che per questo il volume è stato ritirato e parla dell’imbarazzo del Vaticano per la vicenda –lo credo bene, con l’angoscia dell’infallibilità-. E sull’argomento sguazzano pure, dopo quelle italiana e anglosassone, le stampe francese e spagnola (“Abc: Bloccata versione italiana nuovo catechismo per errori su eutanasia e anti-contraccettivi”): errori da matita blu in tutte le lingue. Meno imbarazzo, anzi magari un sospiro di sollievo, oltre Tevere, alla notizia, data da Le Monde, che il presidente francese Nicolas Sarkozy e la ‘première dame’ Carlà Bruni non assisteranno alla canonizzazione di Papa Giovanni Paolo II: problemi in meno per protocollo ed etichetta, chè Nicolas e signora non sempre stanno al loro posto.
sabato 16 aprile 2011
SPIGOLI: va in aceto il vino di Mr B alla stampa estera
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/04/2011
Se Mr B sperava di attutire l’ostilità della stampa internazionale, chiamando a raccolta martedì sera una ventina di corrispondenti esteri, il vino dell’incontro gli è andato in aceto. Da tre giorni, da quel briefing escono articoli al vetriolo: di che indurlo a consumare –scrivono giornali britannici- “molte delle sue nove vite”. In cauda venenum, ecco, ieri, l’editoriale dell’Independent: il titolo suona "Berlusconi, il riformatore della giustizia meno credibile d'Europa”; ed estratti del fondo recitano “Le azioni di Berlusconi sarebbero risibili se fosse il premier di una qualche piccola repubblica delle banane... Ma l’Italia è una delle maggiori economie mondiali e il suo leader dovrebbe essere rispettato come un uomo di stato di livello internazionale… Questa è una tragedia per l'Italia e per l'Europa”. Mentre Libération -e non è certo il solo- si chiede perché mai “il popolo plauda ai crimini del suo capo”, molti media mostrano distaccata diffidenza verso le ‘anticipazioni’ di Mr B, che annuncia l’addio al potere nel 2013: “Arrivederci, forse?”, scrive l’Economist, scettico; e il Times chiosa “Berlusconi inizia il suo lungo good-bye con barzellette oscene, esercizi di charme ed inviti al bunga-bunga”. Toni analoghi su Guardian e Telegraph, FT e WSJ, Figaro ed El Mundo, Reuters e Los Angeles Times, mentre Le Monde sta ai fatti: “Il Parlamento adotta una legge sulla giustizia favorevole a Berlusconi, che sfuggirà alla condanna nel caso Mills”. E questa, purtroppo, è cronaca, non una barzelletta.
Se Mr B sperava di attutire l’ostilità della stampa internazionale, chiamando a raccolta martedì sera una ventina di corrispondenti esteri, il vino dell’incontro gli è andato in aceto. Da tre giorni, da quel briefing escono articoli al vetriolo: di che indurlo a consumare –scrivono giornali britannici- “molte delle sue nove vite”. In cauda venenum, ecco, ieri, l’editoriale dell’Independent: il titolo suona "Berlusconi, il riformatore della giustizia meno credibile d'Europa”; ed estratti del fondo recitano “Le azioni di Berlusconi sarebbero risibili se fosse il premier di una qualche piccola repubblica delle banane... Ma l’Italia è una delle maggiori economie mondiali e il suo leader dovrebbe essere rispettato come un uomo di stato di livello internazionale… Questa è una tragedia per l'Italia e per l'Europa”. Mentre Libération -e non è certo il solo- si chiede perché mai “il popolo plauda ai crimini del suo capo”, molti media mostrano distaccata diffidenza verso le ‘anticipazioni’ di Mr B, che annuncia l’addio al potere nel 2013: “Arrivederci, forse?”, scrive l’Economist, scettico; e il Times chiosa “Berlusconi inizia il suo lungo good-bye con barzellette oscene, esercizi di charme ed inviti al bunga-bunga”. Toni analoghi su Guardian e Telegraph, FT e WSJ, Figaro ed El Mundo, Reuters e Los Angeles Times, mentre Le Monde sta ai fatti: “Il Parlamento adotta una legge sulla giustizia favorevole a Berlusconi, che sfuggirà alla condanna nel caso Mills”. E questa, purtroppo, è cronaca, non una barzelletta.
venerdì 15 aprile 2011
Libia: la V2 di Gheddafi contro l'Italia, 15mila migranti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/04/2011
La guerra in Libia rischia di intensificare il flusso di migranti verso le coste italiane. Anzi, l’esodo potrebbe essere utilizzato come una sorta di V2 dal regime di Muammar Gheddafi: per calcolo, e anche per ritorsione contro l’Italia, il rais libico potrebbe consentire a oltre 15 mila persone originarie dal Corno d'Africa, dal Ciad e dall'Africa sub-sahariana e finora detenute in centri-lager, di salpare dalle coste libiche, mentre finora li teneva bloccati nel quadro del Trattato di Amicizia tra Tripoli e Roma. Il regime non ha più né l’interesse né la volontà, e forse neppure la capacità, d’impedire i traffici d’uomini verso l’Italia.
L’indicazione esce dall’audizione del direttore dell’Aisi, Giorgio Piccirillo, di fronte al Copasir. Porto di partenza sarebbe Zuwarah, circa 120 km da Tripoli, sotto il controllo del regime. L’intelligence italiana esclude, per ora, la presenza di terroristi fra gli immigrati giunti in Italia, senza però essere certa che Gheddafi non ne infiltri in futuro, specie in provenienza dal Sudan.
Il rapporto dell’Aisi alimenta i timori sull’impatto per l’Italia della guerra in Libia, dei cui sviluppi s’è discusso, ieri, al Cairo e a Berlino, in ennesime consultazioni diplomatiche multilaterali. A Berlino, i ministri degli esteri dell’Alleanza atlantica si sono impegnati “a fare tutto il possibile” per proteggere i civili dalle truppe di Gheddafi, la cui caduta è ormai obiettivo condiviso della Nato e dei ribelli, ma non sono riusciti a trovare gli aerei supplementari necessari per portare avanti con efficacia la missione ‘Unified Protector’ (almeno 2000 le missioni effettuate dal 31 Marzo).
I comandi alleati chiedono una decina di aerei d’attacco al suolo in più e Gran Bretagna, Francia e Danimarca, tre dei sei Paesi i cui aerei compiono attacchi, premono sui partner. Ma gli Stati Uniti, dopo i primi giorni, restano ai margini dell’azione. Spagna e l’Olanda danno aerei per il controllo dello spazio aereo, i Tornado italiani si limitano a individuare degli obiettivi. Il ministro degli esteri Franco Frattini ha spiegato la “riluttanza” italiana a compiere raid aerei “per l’impatto che potrebbe avere l’uccisione di civili, per quanto non voluta, da parte di un velivolo italiano”, considerati i trascorsi coloniali. Se il governo dovesse cambiare orientamento, “ne informeremo il Parlamento”.
Il Consiglio atlantico fa proprio l’invito a Gheddafi a ritirarsi lanciato dal Gruppo di Contatto riunito a Doha mercoledì –è la prima volta che la Nato si pronuncia con tanta chiarezza in tal senso- e sintetizza in tre punti gli obiettivi dell’azione militare: gli attacchi contro i civili devono cessare; i militari libici devono rientrare nelle loro caserme e ritirarsi dalle città che stanno assediando; e gli aiuti umanitari devono potere essere distribuiti in sicurezza.
Dal consulto al Cairo, fra Lega araba, Conferenza islamica e Unione africana, con Onu e Ue, parte un appello a una soluzione “politica” e a un cessate-il-fuoco “immediato”. Lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo, dice che Gheddafi “deve lasciare il potere immediatamente”: le parti devono dialogare e avviare una fase di transizione, senza escludere lo spiegamento di una forza d’interposizione internazionale. Al Cairo, una soluzione militare appare esclusa: fornire le armi all’una o all’altra parte –viene detto- significa solo accrescere le distruzioni.
Dalla Libia, giungono consuete notizie di combattimenti letali, ma inconcludenti. Aerei Nato sorvolano Tripoli, dove si odono esplosioni e tiri di contraerea e dove ci sarebbero vittime –ma ciò non impedisce a Gheddafi di mostrarsi di nuovo in mezzo alla sua gente-, mentre bombardamenti colpiscono Misurata, facendo una dozzina di morti e decine di feriti, e scambi di tiri si verificano ad Ajdabyya. I portavoce dei ribelli a Berlino denunciano 250 morti in due settimane a Misurata: cifre per smuovere le riluttanze degli alleati a bombardare di più e ad armare gli insorti.
La guerra in Libia rischia di intensificare il flusso di migranti verso le coste italiane. Anzi, l’esodo potrebbe essere utilizzato come una sorta di V2 dal regime di Muammar Gheddafi: per calcolo, e anche per ritorsione contro l’Italia, il rais libico potrebbe consentire a oltre 15 mila persone originarie dal Corno d'Africa, dal Ciad e dall'Africa sub-sahariana e finora detenute in centri-lager, di salpare dalle coste libiche, mentre finora li teneva bloccati nel quadro del Trattato di Amicizia tra Tripoli e Roma. Il regime non ha più né l’interesse né la volontà, e forse neppure la capacità, d’impedire i traffici d’uomini verso l’Italia.
L’indicazione esce dall’audizione del direttore dell’Aisi, Giorgio Piccirillo, di fronte al Copasir. Porto di partenza sarebbe Zuwarah, circa 120 km da Tripoli, sotto il controllo del regime. L’intelligence italiana esclude, per ora, la presenza di terroristi fra gli immigrati giunti in Italia, senza però essere certa che Gheddafi non ne infiltri in futuro, specie in provenienza dal Sudan.
Il rapporto dell’Aisi alimenta i timori sull’impatto per l’Italia della guerra in Libia, dei cui sviluppi s’è discusso, ieri, al Cairo e a Berlino, in ennesime consultazioni diplomatiche multilaterali. A Berlino, i ministri degli esteri dell’Alleanza atlantica si sono impegnati “a fare tutto il possibile” per proteggere i civili dalle truppe di Gheddafi, la cui caduta è ormai obiettivo condiviso della Nato e dei ribelli, ma non sono riusciti a trovare gli aerei supplementari necessari per portare avanti con efficacia la missione ‘Unified Protector’ (almeno 2000 le missioni effettuate dal 31 Marzo).
I comandi alleati chiedono una decina di aerei d’attacco al suolo in più e Gran Bretagna, Francia e Danimarca, tre dei sei Paesi i cui aerei compiono attacchi, premono sui partner. Ma gli Stati Uniti, dopo i primi giorni, restano ai margini dell’azione. Spagna e l’Olanda danno aerei per il controllo dello spazio aereo, i Tornado italiani si limitano a individuare degli obiettivi. Il ministro degli esteri Franco Frattini ha spiegato la “riluttanza” italiana a compiere raid aerei “per l’impatto che potrebbe avere l’uccisione di civili, per quanto non voluta, da parte di un velivolo italiano”, considerati i trascorsi coloniali. Se il governo dovesse cambiare orientamento, “ne informeremo il Parlamento”.
Il Consiglio atlantico fa proprio l’invito a Gheddafi a ritirarsi lanciato dal Gruppo di Contatto riunito a Doha mercoledì –è la prima volta che la Nato si pronuncia con tanta chiarezza in tal senso- e sintetizza in tre punti gli obiettivi dell’azione militare: gli attacchi contro i civili devono cessare; i militari libici devono rientrare nelle loro caserme e ritirarsi dalle città che stanno assediando; e gli aiuti umanitari devono potere essere distribuiti in sicurezza.
Dal consulto al Cairo, fra Lega araba, Conferenza islamica e Unione africana, con Onu e Ue, parte un appello a una soluzione “politica” e a un cessate-il-fuoco “immediato”. Lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo, dice che Gheddafi “deve lasciare il potere immediatamente”: le parti devono dialogare e avviare una fase di transizione, senza escludere lo spiegamento di una forza d’interposizione internazionale. Al Cairo, una soluzione militare appare esclusa: fornire le armi all’una o all’altra parte –viene detto- significa solo accrescere le distruzioni.
Dalla Libia, giungono consuete notizie di combattimenti letali, ma inconcludenti. Aerei Nato sorvolano Tripoli, dove si odono esplosioni e tiri di contraerea e dove ci sarebbero vittime –ma ciò non impedisce a Gheddafi di mostrarsi di nuovo in mezzo alla sua gente-, mentre bombardamenti colpiscono Misurata, facendo una dozzina di morti e decine di feriti, e scambi di tiri si verificano ad Ajdabyya. I portavoce dei ribelli a Berlino denunciano 250 morti in due settimane a Misurata: cifre per smuovere le riluttanze degli alleati a bombardare di più e ad armare gli insorti.
SPIGOLI: l'Italia che va in pezzi, il Ponte di Rialto
Scritto per Il fatto Quotidiano del 15/04/2011
C’è sempre un pezzo d’Italia che va a pezzi. E la stampa estera lo scova. Nel giorno in cui Il NYT, dopo l’Independent, abbocca all’esca lanciata del neo-ministro dei beni culturali Fabrizio Galan, che annuncia “una nuova fase” nella preservazione di Pompei, Le Monde constata che in Italia “le antichità non sono tutte delle star” ed El Pais canta il ‘de profundis’ per il Ponte di Rialto a Venezia, dandogli un posto di rilievo sulla copertina del sito e puntando il dito contro l’incuria e la burocrazia italiane. Il giornale spagnolo osserva che i lavoratori di Venezia, carpentieri e marmisti, si sono offerti di restaurare il monumento, ma che il cantiere non si apre per lungaggini burocratiche. Uno pensa alla scarsità dei fondi. Ma il buffo, o il tragico, è che i ‘volontari del restauro’ sono pronti a lavorare gratis, mettendoci chi il materiale e chi la manodopera, solo che vogliono non rimetterci l’Iva. E questo pare essere un ostacolo insormontabile. Intanto, i pezzi vengono giù: una colonnina del ponte che dal XVI Secolo scavalca il Canal Grande, e che oggi è il più fotografato dai turisti, è recentemente crollata; e, l’anno scorso si era rotto un pezzo della balaustra, mentre quattro colonnine mancano da tempo. Da mesi, il ponte è sotto osservazione con macchinari che ne registrano le oscillazioni: la stabilità dell’opera non è in forse, ma la superficie è coperta della fuliggine dei secoli. A subire “profonde crepe –scrive Lucia Magi- è la credibilità di una città che non riesce ad avere cura dei suoi simboli più universali”.
C’è sempre un pezzo d’Italia che va a pezzi. E la stampa estera lo scova. Nel giorno in cui Il NYT, dopo l’Independent, abbocca all’esca lanciata del neo-ministro dei beni culturali Fabrizio Galan, che annuncia “una nuova fase” nella preservazione di Pompei, Le Monde constata che in Italia “le antichità non sono tutte delle star” ed El Pais canta il ‘de profundis’ per il Ponte di Rialto a Venezia, dandogli un posto di rilievo sulla copertina del sito e puntando il dito contro l’incuria e la burocrazia italiane. Il giornale spagnolo osserva che i lavoratori di Venezia, carpentieri e marmisti, si sono offerti di restaurare il monumento, ma che il cantiere non si apre per lungaggini burocratiche. Uno pensa alla scarsità dei fondi. Ma il buffo, o il tragico, è che i ‘volontari del restauro’ sono pronti a lavorare gratis, mettendoci chi il materiale e chi la manodopera, solo che vogliono non rimetterci l’Iva. E questo pare essere un ostacolo insormontabile. Intanto, i pezzi vengono giù: una colonnina del ponte che dal XVI Secolo scavalca il Canal Grande, e che oggi è il più fotografato dai turisti, è recentemente crollata; e, l’anno scorso si era rotto un pezzo della balaustra, mentre quattro colonnine mancano da tempo. Da mesi, il ponte è sotto osservazione con macchinari che ne registrano le oscillazioni: la stabilità dell’opera non è in forse, ma la superficie è coperta della fuliggine dei secoli. A subire “profonde crepe –scrive Lucia Magi- è la credibilità di una città che non riesce ad avere cura dei suoi simboli più universali”.
giovedì 14 aprile 2011
UE: gli intolleranti d'Europa dalla Francia all'Olanda
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/04/2011
Fra i leghisti d’Europa, quelli ‘chi fa da sé fa per tre’ e ‘mogli e buoi dei paesi tuoi’, che non hanno nulla contro ‘i foresti’ purchè stiano a casa loro, Mario Borghezio è quasi un modello: parlamentare europeo presente e informato, ogni giorno propina una sua dichiarazione e magari due. Borghezio, come gli altri otto leghisti nostrani eletto a Strasburgo, sta nel gruppo ‘Europa della Libertà e della democrazia’, formato da partiti con programmi ‘eurocritici’ o meglio ‘euroscettici’, d’ispirazione regionale e visioni conservatrici. Creato all’inizio della legislatura, il gruppo comprende oltre 30 eurodeputati: 13 britannici, nove italiani e poi francesi, olandesi, danesi, slovacchi, greci e anche un ‘vero finlandese’. Presidenti ne sono un britannico e l’ex ministro italiano Francesco Speroni, uno che, come Borghezio, Bossi ha ‘esiliato’ in Europa.
Loro sono i leghisti di destra. Ci sono pure quelli di sinistra, associati ai Verdi e riuniti nella ‘European Free Alliance’, fautori di tutti gli indipendentismi frustrati e difensori di tutte le minoranze, specie linguistiche. Se volete vederli all’opera, domani tengono l’assemblea annuale a Mariehamm, capitale delle Isole Aland: un modo per sostenere l’ambizione di secessione delle isole dalla Finlandia. Ci saranno delegati da oltre 30 ‘nazioni d’Europa senza stato’, come Scozia e Galles, Bretania e Alsazia, Catalonia e Paesi Baschi, Corsica e Fiandre; e saranno accolti due nuovi membri, un nuovo partito autonomista valdostano, Alpe, e un partito che rappresenta i tedeschi di Danimarca.
Le insidie al processo d’integrazione europeo e gli arroccamenti egoistici di fronte all’immigrazione non vengono dall’allegra ‘European Free Alliance’ e, in fondo, neppure dagli euroscettici ‘incapsulati’ nei riti e nei regolamenti delle istituzioni comunitarie. E’ negli Stati dell’Unione che fenomeni ‘leghisti’, anche dichiaratamente xenofobi e anti-islam, sono emersi con forza inconsueta negli ultimi round di elezioni politiche e amministrative: in Belgio e in Olanda, in quel Benelux che è il nocciolo dell’Unione; nei Paesi Nordici, in Svezia, Finlandia, Danimarca, che restano un faro di democrazia; e anche in Grecia e all’Est, in Ungheria, in Slovacchia, nella Repubblica Ceca, mentre il fenomeno s’è attenuato in Polonia. E, fuori dall’Ue, pure la Svizzera e persino il Ticino sono coinvolti: gli xenofobi ticinesi ce l’hanno con i frontalieri italiani.
In Belgio, Bart De Wever, secessionista fiammingo, condiziona, dopo l’avanzata nel voto di giugno 2010, i negoziati per la formazione del governo, in corso da oltre 300giorni (un record mondiale). In Olanda, il movimento xenofobo e anti-islamico di Geert Wilders, tiene al laccio il governo di minoranza formato dai liberali del premier Mark Rutte e dai cristiano-democratici.
Ma chi oggi sente d’essere la xenofoba più forte d’Europa é Marine Le Pen, figlia
di quel Jean-Marie che arrivo’ al ballottaggio nelle presidenziali francesi del 2002 (complice il harakiri della sinistra). Neo-leader del Fronte Nazionale, Marine vuole incontrare Maroni per fare con lui una riflessione sulla « fine dell’Unione », che « brilla della luce di una stella morta »; chiede che la Francia abroghi subito le regole sulla libertà di circolazione ; e annuncia che, se sarà presidente, uscirà dalla Nato. Il problema non è quel che Marine, che non sarà mai presidente, dice. Il problema è che Sarkozy, per restare all’Eliseo nel 2012, le corre dietro.
Fra i leghisti d’Europa, quelli ‘chi fa da sé fa per tre’ e ‘mogli e buoi dei paesi tuoi’, che non hanno nulla contro ‘i foresti’ purchè stiano a casa loro, Mario Borghezio è quasi un modello: parlamentare europeo presente e informato, ogni giorno propina una sua dichiarazione e magari due. Borghezio, come gli altri otto leghisti nostrani eletto a Strasburgo, sta nel gruppo ‘Europa della Libertà e della democrazia’, formato da partiti con programmi ‘eurocritici’ o meglio ‘euroscettici’, d’ispirazione regionale e visioni conservatrici. Creato all’inizio della legislatura, il gruppo comprende oltre 30 eurodeputati: 13 britannici, nove italiani e poi francesi, olandesi, danesi, slovacchi, greci e anche un ‘vero finlandese’. Presidenti ne sono un britannico e l’ex ministro italiano Francesco Speroni, uno che, come Borghezio, Bossi ha ‘esiliato’ in Europa.
Loro sono i leghisti di destra. Ci sono pure quelli di sinistra, associati ai Verdi e riuniti nella ‘European Free Alliance’, fautori di tutti gli indipendentismi frustrati e difensori di tutte le minoranze, specie linguistiche. Se volete vederli all’opera, domani tengono l’assemblea annuale a Mariehamm, capitale delle Isole Aland: un modo per sostenere l’ambizione di secessione delle isole dalla Finlandia. Ci saranno delegati da oltre 30 ‘nazioni d’Europa senza stato’, come Scozia e Galles, Bretania e Alsazia, Catalonia e Paesi Baschi, Corsica e Fiandre; e saranno accolti due nuovi membri, un nuovo partito autonomista valdostano, Alpe, e un partito che rappresenta i tedeschi di Danimarca.
Le insidie al processo d’integrazione europeo e gli arroccamenti egoistici di fronte all’immigrazione non vengono dall’allegra ‘European Free Alliance’ e, in fondo, neppure dagli euroscettici ‘incapsulati’ nei riti e nei regolamenti delle istituzioni comunitarie. E’ negli Stati dell’Unione che fenomeni ‘leghisti’, anche dichiaratamente xenofobi e anti-islam, sono emersi con forza inconsueta negli ultimi round di elezioni politiche e amministrative: in Belgio e in Olanda, in quel Benelux che è il nocciolo dell’Unione; nei Paesi Nordici, in Svezia, Finlandia, Danimarca, che restano un faro di democrazia; e anche in Grecia e all’Est, in Ungheria, in Slovacchia, nella Repubblica Ceca, mentre il fenomeno s’è attenuato in Polonia. E, fuori dall’Ue, pure la Svizzera e persino il Ticino sono coinvolti: gli xenofobi ticinesi ce l’hanno con i frontalieri italiani.
In Belgio, Bart De Wever, secessionista fiammingo, condiziona, dopo l’avanzata nel voto di giugno 2010, i negoziati per la formazione del governo, in corso da oltre 300giorni (un record mondiale). In Olanda, il movimento xenofobo e anti-islamico di Geert Wilders, tiene al laccio il governo di minoranza formato dai liberali del premier Mark Rutte e dai cristiano-democratici.
Ma chi oggi sente d’essere la xenofoba più forte d’Europa é Marine Le Pen, figlia
di quel Jean-Marie che arrivo’ al ballottaggio nelle presidenziali francesi del 2002 (complice il harakiri della sinistra). Neo-leader del Fronte Nazionale, Marine vuole incontrare Maroni per fare con lui una riflessione sulla « fine dell’Unione », che « brilla della luce di una stella morta »; chiede che la Francia abroghi subito le regole sulla libertà di circolazione ; e annuncia che, se sarà presidente, uscirà dalla Nato. Il problema non è quel che Marine, che non sarà mai presidente, dice. Il problema è che Sarkozy, per restare all’Eliseo nel 2012, le corre dietro.
UE: italiani fuori, una tranquilla giornata da incubo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/04/2011
Una mattina mi son svegliato che l’Italia di Mr B e di Bossi, di Frattini e di Maroni era fuori dall’Europa, perchè –dice il leghista- “meglio soli che male accompagnati”. A dire la verità io, quando sto con un francese e con un tedesco, o con uno spagnolo, persino con un inglese, che con gli europei fa lo schizzinoso, mica mi sento male accompagnato (loro, magari, si’, ma questo è un altro discorso). E, comunque, sono proprio curioso, io che sto a Bruxelles, di andarla a scoprire, quest’Italia fuori dall’Ue.
Come sempre, prendo il taxi per l’aeroporto in extremis, tanto non c’è mai fila. Giusto il tempo di notare, davanti ai palazzi delle istituzioni comunitarie, che la bandiera dell’Italia è stata ammainata: su quel pennone, presto salirà quella islandese, che cade proprio li’ nell’ordine alfabetico. Mi fa strano, ma poco male: a me, che mi cambia?
Arrivo a Zaventem, aeroporto di Bruxelles. Il volo per Roma non parte dal solito gate, ma da un altro terminal. E subito mi trovo in una fila caotica, lunga come da anni non ne vedevo: gente di tutto il Mondo; mancano solo europei –appunto- e americani, chè quelli hanno un terminal ‘post 11 Settembre’ tutto per loro. Che è ‘sta novità?, mi chiedo già nervoso. Mi presento al gabbiotto dei controlli: «Passaporto, prego». Tiro fuori la carta d’identità: per evitare di perderlo, il passaporto lo prendo solo quando vado in America o fuori d’Europa. “Monsieur, Signore, ci vuole il passaporto». Ma come?, da quando?, perchè?, la libera circolazione, le frontiere abolite. «Oui, Monsieur, ma l’Italia non è più nell’Ue».
Faccio il diavolo a quattro, spiego che sono italiano e che ero uscito dall’Italia prima che avvenisse la secessione e che il mio passaporto è rimasto a Roma. Un gendarme più flessibile della media mi lascia passare. Salgo sull’aereo: il giornale, un caffé, adesso mi rilasso… Sto giusto per appisolarmi, anzi mi sono appena appisolato, che la mano della hostess mi scuote la spalla: “Monsieur, Signore, i documenti di sbarco da compilare ». Ma che, le sembro un tunisino?, o un ucraino? « Mais non Monsieur, lei è italiano: l’ho capito dal giornale che legge. Ma, come tutti gli extra-comunitari, deve compilarci i documenti di sbarco».
Extra-comunitario a me? Sono decisamente nervoso. Compilo i moduli, sbarco a Roma, vado a prendere il trenino, infilo i miei euro contati nella macchinetta dei biglietti. Me li rifiuta. Non scherziamo, sono buoni, mica falsi… “Guardi che non valgono più –mi avverte una ragazzina, impaziente che le liberi la macchinetta-: abbiamo queste cose qui, le lire» -lei, evidentemente, non le aveva mai viste prima-. Sempre più scocciato, vado a cambiare, compro il biglietto, salgo sul trenino. E penso che questa storia di essere fuori dall’Europa è una bella complicazione: Schengen, che ci fa andare ovunque senza intralci; l’euro, che ci attenua le impennate del petrolio e che ha ancorato le nostre banche nella crisi finanziaria; il mercato unico che fa girare le nostre merci senza dazi in un mercato da 450 milioni di consumatori e che fa tanto gioco alla nostra industria; i fondi per le regioni del Sud e per i programmi sociali, la politica agricola che ci tiene un po’ al riparo dalla globalizzazione agro-alimentare…
Alla stazione, mi aspetta mio figlio: ha l’aria d’un cane bastonato. Perchè arrivo io? «Ma no, Papà». E allora, non sei contento, stai per andare a Barcellona con l’Erasmus. Mi guarda malissimo: “Niente Erasmus, finito”. Eh già, è un programma dell’Unione. Dai, ti porto al cinema, a vedere il film di cui avevamo tanto sentito parlare e che ora sarà uscito. “Non l’hanno più fatto: era finanziato dai fondi Media”, un programma dell’Unione. Sai che ti dic?, mi sono stufato, torno a Bruxelles e tu vieni con me. «Ci vuole il visto e sono contingentati », con tutti gli extra-comunitari che vogliono entrare nell’Ue. Già. E noi perchè ne siamo usciti?, che 50 e più anni di pace e stabilità non li avevamo mai avuti… Un incubo! Ridatemi De Gasperi e Spinelli, Andreotti e Ciampi, Schengen e l’euro; riportatemi in Europa; anzi, lasciatemici.
Una mattina mi son svegliato che l’Italia di Mr B e di Bossi, di Frattini e di Maroni era fuori dall’Europa, perchè –dice il leghista- “meglio soli che male accompagnati”. A dire la verità io, quando sto con un francese e con un tedesco, o con uno spagnolo, persino con un inglese, che con gli europei fa lo schizzinoso, mica mi sento male accompagnato (loro, magari, si’, ma questo è un altro discorso). E, comunque, sono proprio curioso, io che sto a Bruxelles, di andarla a scoprire, quest’Italia fuori dall’Ue.
Come sempre, prendo il taxi per l’aeroporto in extremis, tanto non c’è mai fila. Giusto il tempo di notare, davanti ai palazzi delle istituzioni comunitarie, che la bandiera dell’Italia è stata ammainata: su quel pennone, presto salirà quella islandese, che cade proprio li’ nell’ordine alfabetico. Mi fa strano, ma poco male: a me, che mi cambia?
Arrivo a Zaventem, aeroporto di Bruxelles. Il volo per Roma non parte dal solito gate, ma da un altro terminal. E subito mi trovo in una fila caotica, lunga come da anni non ne vedevo: gente di tutto il Mondo; mancano solo europei –appunto- e americani, chè quelli hanno un terminal ‘post 11 Settembre’ tutto per loro. Che è ‘sta novità?, mi chiedo già nervoso. Mi presento al gabbiotto dei controlli: «Passaporto, prego». Tiro fuori la carta d’identità: per evitare di perderlo, il passaporto lo prendo solo quando vado in America o fuori d’Europa. “Monsieur, Signore, ci vuole il passaporto». Ma come?, da quando?, perchè?, la libera circolazione, le frontiere abolite. «Oui, Monsieur, ma l’Italia non è più nell’Ue».
Faccio il diavolo a quattro, spiego che sono italiano e che ero uscito dall’Italia prima che avvenisse la secessione e che il mio passaporto è rimasto a Roma. Un gendarme più flessibile della media mi lascia passare. Salgo sull’aereo: il giornale, un caffé, adesso mi rilasso… Sto giusto per appisolarmi, anzi mi sono appena appisolato, che la mano della hostess mi scuote la spalla: “Monsieur, Signore, i documenti di sbarco da compilare ». Ma che, le sembro un tunisino?, o un ucraino? « Mais non Monsieur, lei è italiano: l’ho capito dal giornale che legge. Ma, come tutti gli extra-comunitari, deve compilarci i documenti di sbarco».
Extra-comunitario a me? Sono decisamente nervoso. Compilo i moduli, sbarco a Roma, vado a prendere il trenino, infilo i miei euro contati nella macchinetta dei biglietti. Me li rifiuta. Non scherziamo, sono buoni, mica falsi… “Guardi che non valgono più –mi avverte una ragazzina, impaziente che le liberi la macchinetta-: abbiamo queste cose qui, le lire» -lei, evidentemente, non le aveva mai viste prima-. Sempre più scocciato, vado a cambiare, compro il biglietto, salgo sul trenino. E penso che questa storia di essere fuori dall’Europa è una bella complicazione: Schengen, che ci fa andare ovunque senza intralci; l’euro, che ci attenua le impennate del petrolio e che ha ancorato le nostre banche nella crisi finanziaria; il mercato unico che fa girare le nostre merci senza dazi in un mercato da 450 milioni di consumatori e che fa tanto gioco alla nostra industria; i fondi per le regioni del Sud e per i programmi sociali, la politica agricola che ci tiene un po’ al riparo dalla globalizzazione agro-alimentare…
Alla stazione, mi aspetta mio figlio: ha l’aria d’un cane bastonato. Perchè arrivo io? «Ma no, Papà». E allora, non sei contento, stai per andare a Barcellona con l’Erasmus. Mi guarda malissimo: “Niente Erasmus, finito”. Eh già, è un programma dell’Unione. Dai, ti porto al cinema, a vedere il film di cui avevamo tanto sentito parlare e che ora sarà uscito. “Non l’hanno più fatto: era finanziato dai fondi Media”, un programma dell’Unione. Sai che ti dic?, mi sono stufato, torno a Bruxelles e tu vieni con me. «Ci vuole il visto e sono contingentati », con tutti gli extra-comunitari che vogliono entrare nell’Ue. Già. E noi perchè ne siamo usciti?, che 50 e più anni di pace e stabilità non li avevamo mai avuti… Un incubo! Ridatemi De Gasperi e Spinelli, Andreotti e Ciampi, Schengen e l’euro; riportatemi in Europa; anzi, lasciatemici.
SPIGOLI: Salvatore di Mr B, una cariatide della maggioranza
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/04/2011
Re Mida trasformava in oro tutto cio’ che toccava. E capi’ che quella che credeva una benedizione era una maledizione. Mr B trasforma in guitti tutti quelli che incontra. E mi sa che ancora crede sia una benedizione. Prendete Domenico Scilipoti: probabilmente mai, neppure nei sogni più ambiziosi, s’era immaginato di essere il protagonista d’un pezzo di le Monde, con un titolo tutto suo, non molto gratificante –è vero-, ma in bella evidenza: “Scilipoti, salvatore di Berlusconi e plagiario”. Philippe Ridet sceglie di raccontare l’attuale momento della politica italiana dall’ ‘angolatura Scilipoti’, uno che “non brilla per costanza ideologica” –ah, l’eleganza francese, per dire che è un voltagabbana-. El Pais, invece, prende sul serio –quando non ci credono neppure loro- il tentativo dell’opposizione “d’evitare l’impunità di Berlusconi” e l’Independent scambia lucciole per lanterne, interpretando un voto vinto con un “Vietnam parlamentare”. Le Monde, di Scilipoti, ricorda il ruolo di leader dei Responsabili e la fedele traslazione –ingenuità, o pigrizia?, si chiede- del Manifesto degli intellettuali del fascismo di Giovanni Gentile nella ‘carta dei valori’ delle cariatidi della maggioranza; e gli riconosce il merito d’avere scelto, per difendersi dall’accusa di plagio, la linea del candore e la tesi della trasmissione del pensiero, “a rischio di passare per un perfetto imbecille”.
Re Mida trasformava in oro tutto cio’ che toccava. E capi’ che quella che credeva una benedizione era una maledizione. Mr B trasforma in guitti tutti quelli che incontra. E mi sa che ancora crede sia una benedizione. Prendete Domenico Scilipoti: probabilmente mai, neppure nei sogni più ambiziosi, s’era immaginato di essere il protagonista d’un pezzo di le Monde, con un titolo tutto suo, non molto gratificante –è vero-, ma in bella evidenza: “Scilipoti, salvatore di Berlusconi e plagiario”. Philippe Ridet sceglie di raccontare l’attuale momento della politica italiana dall’ ‘angolatura Scilipoti’, uno che “non brilla per costanza ideologica” –ah, l’eleganza francese, per dire che è un voltagabbana-. El Pais, invece, prende sul serio –quando non ci credono neppure loro- il tentativo dell’opposizione “d’evitare l’impunità di Berlusconi” e l’Independent scambia lucciole per lanterne, interpretando un voto vinto con un “Vietnam parlamentare”. Le Monde, di Scilipoti, ricorda il ruolo di leader dei Responsabili e la fedele traslazione –ingenuità, o pigrizia?, si chiede- del Manifesto degli intellettuali del fascismo di Giovanni Gentile nella ‘carta dei valori’ delle cariatidi della maggioranza; e gli riconosce il merito d’avere scelto, per difendersi dall’accusa di plagio, la linea del candore e la tesi della trasmissione del pensiero, “a rischio di passare per un perfetto imbecille”.
mercoledì 13 aprile 2011
Libia: i ribelli chiedono armi, Nato, Ue e Italia nicchiano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/04/2011
Mahmud Jibril e Ali Al Isawi, i due inviati del Consiglio nazionale transitorio (Cnt)
di Bengasi, portano gli orrori della guerra in Libia a Lussemburgo, dove i ministri degli esteri dei 27 danno un giro di vite alle sanzioni contro il regime di Gheddafi, colpendo, in particolare, le industrie petrolifere, e approvano la missione umanitaria Eufor Libia, con sede a Roma e sotto commando italiano, pronta a essere dispiegata, se l’Onu lo chiederà, a Misurata, città che sarebbe allo stremo.
Jibril e Al Isawi sciorinano le cifre del conflitto secondo gli insorti: le forze regolari e i mercenari del colonnello dittatore avrebbero ucciso finora circa 10mila persone e ne avrebbero ferite 30mila, mentre altre 20mila sarebbero disperse. Cifre molto superiori alle stime diffuse la scorsa settimana da fonti statunitensi: 1500 vittime, compresi i morti di Misurata –circa 300, ma in aumento- e quelli dell’inizio dell’insurrezione, a Bengasi, a metà febbraio, che sarebbero stati tra i 250 e i 300.
I dati dei ribelli sono agghiaccianti, ma sanno pure di operazione propagandistica, nello sforzo di acquisire maggiore aiuti alla causa anti-Gheddafi. La manovra, pero’, non va in porto: il rapporto degli inviati del Cnt non sblocca nè lo stallo sostanziale delle operazioni militari dell’Alleanza atlantica nè quello delle manovre diplomatiche. Eppure, questa settimana è il crocevia di tutti gli incontri: oggi; il Gruppo di Contatto a Doha, dove ci sarà anche l’ex ministro degli esteri libico Mussa Kussa (e il Cnt alza subito gli scudi: quello li’ mica ci rappresenta); domani, al Cairo, il consulto inedito fra Lega araba, Conferenza islamica, Unione africana, Onu, Usa, Nato; infine, venerdi’ a Berlino il Consiglio atlantico. Ci sarà pure la visita a Roma del presidente del Cnt, Jalil, che vedrà Berlusconi e Frattini.
Le decisioni da prendere riguardano la fornitura, o meno, di armi ai ribelli, l’avvio, o meno, di un’operazione militare a protezione degli interventi umanitari –eventualità ieri esclusa da Lady Ashton, la responsabile della diplomazia europea, che l’aveva invece evocata come possibile 48 ore prima-, il ruolo e l’efficacia dell’operazione Unified Protector, con le polemiche ogni giorno rinfocolate sulle ‘vittime collaterali’.
L’Italia continua a fornire il suo contributo (otto missioni, tra lunedi’ e martedi’), fedele, per ora, alla consegna di non sparare un colpo : «Vedremo che cosa ci chiederà Jalil», dice un Frattini riluttante all’idea di un’azione militare diretta italiana. Perchè, del resto, dovrebbe essere altrimenti, se persino gli Stati Uniti si mantengono estranei agli attacchi sulla Libia: «La Nato non ci chiede di riprenderli», ha detto ieri un portavoce statunitense .
Di che frustrare le attese del Cnt, che chiede alla comunità internazionale un maggiore sostegno concreto: la messa a disposizione di parte dei fondi congelati a Gheddafi o al suo regime, un’azione militare alleata più efficace, la fornitura di armi. I ribelli proprongono anche un percorso di transizione «molto preciso» -il giudizio è di Frattini, che esclude ogni ipotesi di permanenza al potere di Gheddafi o dei suoi figli. Il rischio è che la situazione si insabbi e che, alla fine, come paventa Mussa Kussa, la Libia diventi una nuova Somalia : uno Stato senza governo e senza pace, potenziale incubatoio di violenza e di terrorismo.
Mahmud Jibril e Ali Al Isawi, i due inviati del Consiglio nazionale transitorio (Cnt)
di Bengasi, portano gli orrori della guerra in Libia a Lussemburgo, dove i ministri degli esteri dei 27 danno un giro di vite alle sanzioni contro il regime di Gheddafi, colpendo, in particolare, le industrie petrolifere, e approvano la missione umanitaria Eufor Libia, con sede a Roma e sotto commando italiano, pronta a essere dispiegata, se l’Onu lo chiederà, a Misurata, città che sarebbe allo stremo.
Jibril e Al Isawi sciorinano le cifre del conflitto secondo gli insorti: le forze regolari e i mercenari del colonnello dittatore avrebbero ucciso finora circa 10mila persone e ne avrebbero ferite 30mila, mentre altre 20mila sarebbero disperse. Cifre molto superiori alle stime diffuse la scorsa settimana da fonti statunitensi: 1500 vittime, compresi i morti di Misurata –circa 300, ma in aumento- e quelli dell’inizio dell’insurrezione, a Bengasi, a metà febbraio, che sarebbero stati tra i 250 e i 300.
I dati dei ribelli sono agghiaccianti, ma sanno pure di operazione propagandistica, nello sforzo di acquisire maggiore aiuti alla causa anti-Gheddafi. La manovra, pero’, non va in porto: il rapporto degli inviati del Cnt non sblocca nè lo stallo sostanziale delle operazioni militari dell’Alleanza atlantica nè quello delle manovre diplomatiche. Eppure, questa settimana è il crocevia di tutti gli incontri: oggi; il Gruppo di Contatto a Doha, dove ci sarà anche l’ex ministro degli esteri libico Mussa Kussa (e il Cnt alza subito gli scudi: quello li’ mica ci rappresenta); domani, al Cairo, il consulto inedito fra Lega araba, Conferenza islamica, Unione africana, Onu, Usa, Nato; infine, venerdi’ a Berlino il Consiglio atlantico. Ci sarà pure la visita a Roma del presidente del Cnt, Jalil, che vedrà Berlusconi e Frattini.
Le decisioni da prendere riguardano la fornitura, o meno, di armi ai ribelli, l’avvio, o meno, di un’operazione militare a protezione degli interventi umanitari –eventualità ieri esclusa da Lady Ashton, la responsabile della diplomazia europea, che l’aveva invece evocata come possibile 48 ore prima-, il ruolo e l’efficacia dell’operazione Unified Protector, con le polemiche ogni giorno rinfocolate sulle ‘vittime collaterali’.
L’Italia continua a fornire il suo contributo (otto missioni, tra lunedi’ e martedi’), fedele, per ora, alla consegna di non sparare un colpo : «Vedremo che cosa ci chiederà Jalil», dice un Frattini riluttante all’idea di un’azione militare diretta italiana. Perchè, del resto, dovrebbe essere altrimenti, se persino gli Stati Uniti si mantengono estranei agli attacchi sulla Libia: «La Nato non ci chiede di riprenderli», ha detto ieri un portavoce statunitense .
Di che frustrare le attese del Cnt, che chiede alla comunità internazionale un maggiore sostegno concreto: la messa a disposizione di parte dei fondi congelati a Gheddafi o al suo regime, un’azione militare alleata più efficace, la fornitura di armi. I ribelli proprongono anche un percorso di transizione «molto preciso» -il giudizio è di Frattini, che esclude ogni ipotesi di permanenza al potere di Gheddafi o dei suoi figli. Il rischio è che la situazione si insabbi e che, alla fine, come paventa Mussa Kussa, la Libia diventi una nuova Somalia : uno Stato senza governo e senza pace, potenziale incubatoio di violenza e di terrorismo.
Immigrazione: Ue e Italia un po' più vicine, ma sono parole
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/04/2011
Il giorno dopo il naufragio dell’Italia in Europa, con il ministro dell’interno Maroni pronto ad abbandonare il barcone dell’Ue e gettarsi nel mare del ‘fai-da-te’ della globalizzazione, i toni della polemica tra Roma e Bruxelles s’acquetano un po’, grazie, soprattutto, al presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso: una telefonata al premier Berlusconi, che è amico suo –ma di chi non lo è, il Silvio nostro?- e una missione in Tunisia, a promettere ulteriori aiuti, ma anche a pretendere “impegni precisi”: “Ci aspettiamo –dice- che la Tunisia accetti in modo forte e chiaro il rimpatrio dei propri cittadini che sono giunti in Europa in maniera irregolare”.
Cosi’, il ministro degli esteri Frattini promuove Barroso –«E’ esattamente quello che l’Italia chiede»- e corregge Maroni: «Non credo abbia detto che dobbiamo lasciare l’Europa. Ha espresso una forte delusione in un momento d’ira che si puo’ capire». Maroni stesso fa marcia indietro, dopo il «meglio soli che male accompagnati»: dichiara apprezzamento per la Commissione di Baroso e se la prende con gli Stati. Frattini incalza: «Sono mancati gli Stati membri, è mancato il Consiglio Ue. Noi vogliamo che la Commissione sia più forte ».
Il lunedi’ in cui l’Europa ha scritto « una brutta pagina della sua storia » -parole d’Alfano, un altro ministro che incrocia a Lussemburgo in queste convulse 48 ore UE- è già acqua passata? Ci pensa il leader della Lega Bossi a rinfocolare la polemica: l’Europa è un problema, dice, e gli immigrati devono andarsene tutti fuori dai piedi.
Frattini prova a tamponare l’ennesima falla in un governo che va avanti sotto la linea di galleggiamento: «Abbiamo una direttiva rimpatri, che stabilisce che i rifugiati possono restare, mentre i clandestini devono tornare ai Paesi d’origine». Ma è come cercare di gettare fuori con un secchio l’acqua dal Titanic: i primi a violare la direttiva sono gli italiani con i permessi temporanei che volevano solo essere un lasciapassare per la Francia –e poi se la sbrighino là, con questi tunisini che hanno tutti un cugino tra Marsiglia e Parigi-. Frattini si risente: « Non abbiamo scaricato nessun emigrante su nessun Paese». Ma l’impressione a Parigi, e anche a Berlino, è diversa.
In attesa del nuovo appuntamento europeo il 12 maggio, tutti ora condividono che ci vuole «un approccio europeo» all’emergenza innescata dal ‘domino dei satrapi’ nel Nord Africa e accresciuta dalla guerra in Libia. Il problema è che manca l’accordo su quale debba essere l’approccio europeo. Frattini invita a tenere «i nervi saldi», risconosce che l’Ue è per l’Italia «una straordinaria opportunità», ammette che «senza l’Europa l’Italia sarebbe troppo piccola», ma denuncia le carenze dell’Ue, che avrebbe dovuto negoziare lei con Tunisi, e chiosa l’invito del presidente Napolitano «a non giocare con l’Europa»: «Non bisogna giocare con l’Europa, ma neppure con gli interessi dell’Italia in Europa».
Paiono quasi discorsi di buon senso. Poi arriva il vice-ministro leghista Castelli, che, prima a Porta a Porta, poi alla radio, sostiene che se la Padania fosse indipendente mai e poi mai si prenderebbe gli immigrati di Lampedusa –e allora perchè avercela con la Francia che fa proprio cosi’ ?- e poi sostiene che «le violenze degli immigrati, che potrebbero diventare milioni nel corso del tempo, potrebbero obbligare le autorità ad usare le armi». E’ l’Europa di Lepanto che torna. Ma di quella non si sente il bisogno.
Il giorno dopo il naufragio dell’Italia in Europa, con il ministro dell’interno Maroni pronto ad abbandonare il barcone dell’Ue e gettarsi nel mare del ‘fai-da-te’ della globalizzazione, i toni della polemica tra Roma e Bruxelles s’acquetano un po’, grazie, soprattutto, al presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso: una telefonata al premier Berlusconi, che è amico suo –ma di chi non lo è, il Silvio nostro?- e una missione in Tunisia, a promettere ulteriori aiuti, ma anche a pretendere “impegni precisi”: “Ci aspettiamo –dice- che la Tunisia accetti in modo forte e chiaro il rimpatrio dei propri cittadini che sono giunti in Europa in maniera irregolare”.
Cosi’, il ministro degli esteri Frattini promuove Barroso –«E’ esattamente quello che l’Italia chiede»- e corregge Maroni: «Non credo abbia detto che dobbiamo lasciare l’Europa. Ha espresso una forte delusione in un momento d’ira che si puo’ capire». Maroni stesso fa marcia indietro, dopo il «meglio soli che male accompagnati»: dichiara apprezzamento per la Commissione di Baroso e se la prende con gli Stati. Frattini incalza: «Sono mancati gli Stati membri, è mancato il Consiglio Ue. Noi vogliamo che la Commissione sia più forte ».
Il lunedi’ in cui l’Europa ha scritto « una brutta pagina della sua storia » -parole d’Alfano, un altro ministro che incrocia a Lussemburgo in queste convulse 48 ore UE- è già acqua passata? Ci pensa il leader della Lega Bossi a rinfocolare la polemica: l’Europa è un problema, dice, e gli immigrati devono andarsene tutti fuori dai piedi.
Frattini prova a tamponare l’ennesima falla in un governo che va avanti sotto la linea di galleggiamento: «Abbiamo una direttiva rimpatri, che stabilisce che i rifugiati possono restare, mentre i clandestini devono tornare ai Paesi d’origine». Ma è come cercare di gettare fuori con un secchio l’acqua dal Titanic: i primi a violare la direttiva sono gli italiani con i permessi temporanei che volevano solo essere un lasciapassare per la Francia –e poi se la sbrighino là, con questi tunisini che hanno tutti un cugino tra Marsiglia e Parigi-. Frattini si risente: « Non abbiamo scaricato nessun emigrante su nessun Paese». Ma l’impressione a Parigi, e anche a Berlino, è diversa.
In attesa del nuovo appuntamento europeo il 12 maggio, tutti ora condividono che ci vuole «un approccio europeo» all’emergenza innescata dal ‘domino dei satrapi’ nel Nord Africa e accresciuta dalla guerra in Libia. Il problema è che manca l’accordo su quale debba essere l’approccio europeo. Frattini invita a tenere «i nervi saldi», risconosce che l’Ue è per l’Italia «una straordinaria opportunità», ammette che «senza l’Europa l’Italia sarebbe troppo piccola», ma denuncia le carenze dell’Ue, che avrebbe dovuto negoziare lei con Tunisi, e chiosa l’invito del presidente Napolitano «a non giocare con l’Europa»: «Non bisogna giocare con l’Europa, ma neppure con gli interessi dell’Italia in Europa».
Paiono quasi discorsi di buon senso. Poi arriva il vice-ministro leghista Castelli, che, prima a Porta a Porta, poi alla radio, sostiene che se la Padania fosse indipendente mai e poi mai si prenderebbe gli immigrati di Lampedusa –e allora perchè avercela con la Francia che fa proprio cosi’ ?- e poi sostiene che «le violenze degli immigrati, che potrebbero diventare milioni nel corso del tempo, potrebbero obbligare le autorità ad usare le armi». E’ l’Europa di Lepanto che torna. Ma di quella non si sente il bisogno.
SPIGOLI: stampa estera intona 'per fortuna che Silvio c'è'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/04/2011
“Per fortuna che Silvio c’è”, cantilenavano in coro mature sostenitrici del Silvio Nazionale, lunedi’, fuori del Palazzo di Giustizia di Milano, in attesa che il loro eroe concludesse la sua comparsata davanti ai giudici e le gratificasse con uno show di qualunquismo. Ma c’è chi giura che, a intonare la nenia, ci fossero pure alcuni free-lance corrispondenti dall’Italia della stampa estera: senza Mr B, il loro lavoro sarebbe più monotono e, soprattutto, meno intenso. Questa volta, a meritarsi l’ironia generalizzata e neppure scandalizzata dei media stranieri, è l’affermazione del premier di avere dato 45 mila euro a Ruby “per evitarle di diventare una prostituta” (Times) e per consentirle di “mettere su un centro di estetica” (Guardian) e per “comprare attrezzatuire per la depilazione” (Telegraph). E se qualcuno avesse dubbi su una linea di difesa del genere, ecco la sua amica russa Raisa Skorkina dargli una mano: “Berlusconi è troppo attraente per dovere pagare per sesso”, assicura. Il resto sono cose trite: fango sui giudici e un’ampia auto-assoluzione da tutte le accuse (El Pais). E Le Figaro ed El Mundo, Le Monde e il WSJ, la Reuters e l’Ap scivolano per la stessa china. Quanto alla sostanza del processo che si celebrava lunedi’, e che non era quello di Ruby, nessuno ci bada: storie, noiose, di presunte frodi. Per fortuna che c’è Silvio, che brevetta il bunga bunga (Telegraph), mentre le ragazze dell’Olgettina lo fanno diventare un ‘hit’ (Times).
“Per fortuna che Silvio c’è”, cantilenavano in coro mature sostenitrici del Silvio Nazionale, lunedi’, fuori del Palazzo di Giustizia di Milano, in attesa che il loro eroe concludesse la sua comparsata davanti ai giudici e le gratificasse con uno show di qualunquismo. Ma c’è chi giura che, a intonare la nenia, ci fossero pure alcuni free-lance corrispondenti dall’Italia della stampa estera: senza Mr B, il loro lavoro sarebbe più monotono e, soprattutto, meno intenso. Questa volta, a meritarsi l’ironia generalizzata e neppure scandalizzata dei media stranieri, è l’affermazione del premier di avere dato 45 mila euro a Ruby “per evitarle di diventare una prostituta” (Times) e per consentirle di “mettere su un centro di estetica” (Guardian) e per “comprare attrezzatuire per la depilazione” (Telegraph). E se qualcuno avesse dubbi su una linea di difesa del genere, ecco la sua amica russa Raisa Skorkina dargli una mano: “Berlusconi è troppo attraente per dovere pagare per sesso”, assicura. Il resto sono cose trite: fango sui giudici e un’ampia auto-assoluzione da tutte le accuse (El Pais). E Le Figaro ed El Mundo, Le Monde e il WSJ, la Reuters e l’Ap scivolano per la stessa china. Quanto alla sostanza del processo che si celebrava lunedi’, e che non era quello di Ruby, nessuno ci bada: storie, noiose, di presunte frodi. Per fortuna che c’è Silvio, che brevetta il bunga bunga (Telegraph), mentre le ragazze dell’Olgettina lo fanno diventare un ‘hit’ (Times).
martedì 12 aprile 2011
Immigrazione: Ue, Maroni e Mr B 'perchè restarci'?
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/04/2011
C’è chi parla a vanvera e dice sciocchezze. E c’è chi parla invano, anche se dice le cose giuste. Anche perché, nell’Italia del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi, oltre che del bunga-bunga, concionare con toni da comizio, se possibile in tv, conquista più attenzione e più consensi che proporre una riflessione a mezza voce. Così, ha un bel raccomandarsi il presidente della Repubblica che il governo e i ministri, a cominciare dal premier, non scherzino sull’Europa, “senza neppure prendere in considerazione posizioni di ritorsione o di dispetto a addirittura ipotesi di separazione”.
Giorgio Napolitano ha appena fatto conoscere il suo pensiero che il ministro dell’interno Maroni, uscito con le pive nel sacco dalla riunione a Lussemburgo del Consiglio dei Ministri dell’Ue sull’immigrazione, subito innesca la solita solfa: “L’Italia è lasciata sola a fare quello che deve fare e che continuerà a fare. Mi chiedo se davvero abbia un senso continuare in questa situazione a fare parte dell’Unione europea”. E, tanto per non farsi mancare un po’ di populismo ad effetto, aggiunge: “l’Ue è un’Istituzione che si attiva per salvare le banche e per dichiarare la guerra, ma che, quando c’è da esprimere solidarietà concretamente a un Paese in difficoltà come oggi è l’Italia, si nasconde”.
E, del resto, che cosa ci si può aspettare da Maroni, se, sabato, in visita a Lampedusa, Berlusconi aveva dato la stura al nuovo tormentone (Italia dentro o fuori l’Ue) dicendo: “Si deve fare i conti con la realtà e con il fatto che l’Europa o è qualcosa di vero e di concreto, oppure non è. E allora meglio ritornare a dividerci e ciascuno a inseguire le proprie paure e i propri egoismi”. E poi giù a insistere che il problema dell’immigrazione è europeo e che la Francia e la Germania “non possono non convenire sulla necessità di agire insieme” per affrontare “uno tsunami umano” (e dagli con le visioni apocalittiche, dopo che il ministro degli esteri Frattini e lo stesso Maroni fanno a gara da mesi a terrorizzare noi e i partner europei con predizioni di esodi “biblici” o “epocali”, oggettivamente sproporzionate rispetto ai 25mila finora arrivati, con ipotesi francamente risibili d’infiltrazioni terroristiche su quei barconi della disperazione e spesso della sventura).
Allora, è proprio vero che l’Europa non ascolta il ‘grido di dolore’, e adesso la minaccia neppure velata di secessione, che arriva dalla Roma di Mr B, e magari dalla Milano di Bossi, più forte ancora che da Lampedusa? Cerchiamo di capire la situazione, senza imbrogliare: l’Italia vuole che i partner condividano il peso dell’arrivo dall’Africa del Nord di migliaia di poveracci –circa 25mila finora-, in gran parte tunisini alla ricerca di un lavoro e di un futuro e in parte etiopi, somali o di altra nazionalità alla ricerca di asilo perché in fuga da guerre, dittature, violazioni dei diritti dell’uomo. Per questi ultimi, ci sono regole di accoglienza che tutti i Paesi Ue rispettano (e l’Italia, attualmente, ha un numero di richiedenti asilo dell’ordine di un decimo rispetto a Francia o Germania, a popolazioni sostanzialmente confrontabili). Per i tunisini, le regole della Convenzione di Schengen non ne prevedono l’ingresso: non vanno accolti, ma rispediti. Giusto o sbagliato che sia, questa è la regola: magari va cambiata, ma bisogna farlo insieme, non con iniziative unilaterali. E, come ha ricordato a più riprese negli ultimi giorni la Commissione europea, anche per iscritto, al governo italiano, l’espediente dei permessi di soggiorno temporanei, così che i tunisini da noi ‘sdoganati’ possano andarsene tutti in Francia, debbono rispettare regole ben precise –altrimenti, non valgono ai fini della libera circolazione-. E, ieri a Lussemburgo, Parigi e Berlino non hanno fatto altro che ribadire questa posizione: niente furbizie e rispetto delle regole, confermando l’impegno a rafforzare la missione Frontex a Lampedusa e a contribuire allo sviluppo della Tunisia.
Ma le parole dell’Europa, che non saranno alate, ma sono concrete e, comunque, precise, ancorate ai patti che l’Italia ha firmato, alimentano nella maggioranza rancori dalle tinte elettoralistiche. Se Napolitano chiede di “non scherzare” con l’Europa, Maroni rilancia: “Certo che con l’Europa non si scherza, ma quando l’Italia chiede aiuto per i rimpatri, per i pattugliamenti, per bloccare i flussi e per fare investimenti in Tunisia, mi pare che qualcosa non funzioni se la risposta è ‘cara Italia, pensaci tu’, Mi pare che, se l’Europa è questa, francamente ‘meglio soli che male accompagnati’”. E avanti con questa idea di giocare da soli, in linea con Calderoli che vuole portare a casa i soldati in Libano: un po’ come il ragazzino che, quando la partita andava male, prende il pallone che è suo e lo porta a casa, così non gioca più nessuno.
Che sia chiara una cosa: a Bruxelles, nessuno vuole l’Italia fuori dall’Ue, anche se molti, quasi tutti, vorrebbero nell’Ue un’Italia più affidabile e più credibile, capace di rispettare le regole del gioco e, magari, di proporne una modifica, con la forza di un campione d’europeismo come avveniva, pur non sempre virtuosamente, nella Prima Repubblica e negli anni dei sacrifici per entrare nell’euro.
L’opposizione denuncia un governo “vittima della sua propaganda”, “irrilevante in Europa”. E basta scorrere la stampa estera per rendersi conto che c’è la consapevolezza nell’Unione della necessità d’affrontare il problema innescato dal ‘domino dei satrapi’ nel Sud del Mediterraneo: La soluzione, però, è più Europa, non meno Europa, o zero Europa, come lasciano invece intendere Mr B e Maroni. “Se l’Unione europea non ha né una politica estera né una politica di difesa comuni, nessuno si può meravigliare che non abbia una politica dell’immigrazione comune”, scrive El Pais in un editoriale intitolato “Sconcerto europeo”: l’Ue stretta tra “impotenza ed egoismo nazionale”. E, allora, pensiamo europeo, come invita a fare il presidente Napolitano; e non ‘pensiamo amministrative’, come paiono fare il premier e i suoi ministri.
C’è chi parla a vanvera e dice sciocchezze. E c’è chi parla invano, anche se dice le cose giuste. Anche perché, nell’Italia del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi, oltre che del bunga-bunga, concionare con toni da comizio, se possibile in tv, conquista più attenzione e più consensi che proporre una riflessione a mezza voce. Così, ha un bel raccomandarsi il presidente della Repubblica che il governo e i ministri, a cominciare dal premier, non scherzino sull’Europa, “senza neppure prendere in considerazione posizioni di ritorsione o di dispetto a addirittura ipotesi di separazione”.
Giorgio Napolitano ha appena fatto conoscere il suo pensiero che il ministro dell’interno Maroni, uscito con le pive nel sacco dalla riunione a Lussemburgo del Consiglio dei Ministri dell’Ue sull’immigrazione, subito innesca la solita solfa: “L’Italia è lasciata sola a fare quello che deve fare e che continuerà a fare. Mi chiedo se davvero abbia un senso continuare in questa situazione a fare parte dell’Unione europea”. E, tanto per non farsi mancare un po’ di populismo ad effetto, aggiunge: “l’Ue è un’Istituzione che si attiva per salvare le banche e per dichiarare la guerra, ma che, quando c’è da esprimere solidarietà concretamente a un Paese in difficoltà come oggi è l’Italia, si nasconde”.
E, del resto, che cosa ci si può aspettare da Maroni, se, sabato, in visita a Lampedusa, Berlusconi aveva dato la stura al nuovo tormentone (Italia dentro o fuori l’Ue) dicendo: “Si deve fare i conti con la realtà e con il fatto che l’Europa o è qualcosa di vero e di concreto, oppure non è. E allora meglio ritornare a dividerci e ciascuno a inseguire le proprie paure e i propri egoismi”. E poi giù a insistere che il problema dell’immigrazione è europeo e che la Francia e la Germania “non possono non convenire sulla necessità di agire insieme” per affrontare “uno tsunami umano” (e dagli con le visioni apocalittiche, dopo che il ministro degli esteri Frattini e lo stesso Maroni fanno a gara da mesi a terrorizzare noi e i partner europei con predizioni di esodi “biblici” o “epocali”, oggettivamente sproporzionate rispetto ai 25mila finora arrivati, con ipotesi francamente risibili d’infiltrazioni terroristiche su quei barconi della disperazione e spesso della sventura).
Allora, è proprio vero che l’Europa non ascolta il ‘grido di dolore’, e adesso la minaccia neppure velata di secessione, che arriva dalla Roma di Mr B, e magari dalla Milano di Bossi, più forte ancora che da Lampedusa? Cerchiamo di capire la situazione, senza imbrogliare: l’Italia vuole che i partner condividano il peso dell’arrivo dall’Africa del Nord di migliaia di poveracci –circa 25mila finora-, in gran parte tunisini alla ricerca di un lavoro e di un futuro e in parte etiopi, somali o di altra nazionalità alla ricerca di asilo perché in fuga da guerre, dittature, violazioni dei diritti dell’uomo. Per questi ultimi, ci sono regole di accoglienza che tutti i Paesi Ue rispettano (e l’Italia, attualmente, ha un numero di richiedenti asilo dell’ordine di un decimo rispetto a Francia o Germania, a popolazioni sostanzialmente confrontabili). Per i tunisini, le regole della Convenzione di Schengen non ne prevedono l’ingresso: non vanno accolti, ma rispediti. Giusto o sbagliato che sia, questa è la regola: magari va cambiata, ma bisogna farlo insieme, non con iniziative unilaterali. E, come ha ricordato a più riprese negli ultimi giorni la Commissione europea, anche per iscritto, al governo italiano, l’espediente dei permessi di soggiorno temporanei, così che i tunisini da noi ‘sdoganati’ possano andarsene tutti in Francia, debbono rispettare regole ben precise –altrimenti, non valgono ai fini della libera circolazione-. E, ieri a Lussemburgo, Parigi e Berlino non hanno fatto altro che ribadire questa posizione: niente furbizie e rispetto delle regole, confermando l’impegno a rafforzare la missione Frontex a Lampedusa e a contribuire allo sviluppo della Tunisia.
Ma le parole dell’Europa, che non saranno alate, ma sono concrete e, comunque, precise, ancorate ai patti che l’Italia ha firmato, alimentano nella maggioranza rancori dalle tinte elettoralistiche. Se Napolitano chiede di “non scherzare” con l’Europa, Maroni rilancia: “Certo che con l’Europa non si scherza, ma quando l’Italia chiede aiuto per i rimpatri, per i pattugliamenti, per bloccare i flussi e per fare investimenti in Tunisia, mi pare che qualcosa non funzioni se la risposta è ‘cara Italia, pensaci tu’, Mi pare che, se l’Europa è questa, francamente ‘meglio soli che male accompagnati’”. E avanti con questa idea di giocare da soli, in linea con Calderoli che vuole portare a casa i soldati in Libano: un po’ come il ragazzino che, quando la partita andava male, prende il pallone che è suo e lo porta a casa, così non gioca più nessuno.
Che sia chiara una cosa: a Bruxelles, nessuno vuole l’Italia fuori dall’Ue, anche se molti, quasi tutti, vorrebbero nell’Ue un’Italia più affidabile e più credibile, capace di rispettare le regole del gioco e, magari, di proporne una modifica, con la forza di un campione d’europeismo come avveniva, pur non sempre virtuosamente, nella Prima Repubblica e negli anni dei sacrifici per entrare nell’euro.
L’opposizione denuncia un governo “vittima della sua propaganda”, “irrilevante in Europa”. E basta scorrere la stampa estera per rendersi conto che c’è la consapevolezza nell’Unione della necessità d’affrontare il problema innescato dal ‘domino dei satrapi’ nel Sud del Mediterraneo: La soluzione, però, è più Europa, non meno Europa, o zero Europa, come lasciano invece intendere Mr B e Maroni. “Se l’Unione europea non ha né una politica estera né una politica di difesa comuni, nessuno si può meravigliare che non abbia una politica dell’immigrazione comune”, scrive El Pais in un editoriale intitolato “Sconcerto europeo”: l’Ue stretta tra “impotenza ed egoismo nazionale”. E, allora, pensiamo europeo, come invita a fare il presidente Napolitano; e non ‘pensiamo amministrative’, come paiono fare il premier e i suoi ministri.
SPIGOLI: piccole cose di pessimo gusto d'un'Italia minore
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/04/2011
C’era una volta l’Italia che pensava in grande: le montagne di immondizie per le strade di Napoli (una storia che di tanto in tanto riaffiora, anche sulla stampa estera), il Colosseo ceduto ‘in affitto’ “al Cesare delle scarpe” (titolo del Times, ultimo di una lunga serie di articoli gogna per Mr B e trionfo per Diego Della Valle e il suo impero), la ri-distruzione di Pompei con i crolli in serie senza bisogno né di terremoti né di eruzioni. Fortuna che il Daily Mail, da giorni, ci racconta con impegno –in buona compagnia- un’Italia minore e curiosa, capace di ‘fare la cosa giusta’ nelle piccole cose (magari ne azzeccasse una in quelle che contano), Così, Capri si merita l’attenzione del quotidiano ‘gossipparo’ londinese, e pure del Times, non per l’affollamento della Piazzetta o il ‘caro barche’ per la Grotta Azzurra o l’inquinamento a vista delle acque, ma per la decisione del Comune di perseguire gli inzaccheratori della perla del Golfo: “L’isola delle vacanze del Mediterraneo userà banca dati Dna per individuare i padroni dei cani che non puliscono le cacche dei loro quadrupedi”. E sempre il Daily Mail, insieme questa volta alla crema della stampa americana, Cnn e WP, ci rende orgogliosi per la messa al bando italiana di Jersey Shore, serie americana di pessimo gusto, anzi proprio ‘trash’, alle cui riprese hotel e locali nostrani si sono coraggiosamente opposti (“invasione rinviata”, assicura il giornale, se non proprio definitivamente respinta).
C’era una volta l’Italia che pensava in grande: le montagne di immondizie per le strade di Napoli (una storia che di tanto in tanto riaffiora, anche sulla stampa estera), il Colosseo ceduto ‘in affitto’ “al Cesare delle scarpe” (titolo del Times, ultimo di una lunga serie di articoli gogna per Mr B e trionfo per Diego Della Valle e il suo impero), la ri-distruzione di Pompei con i crolli in serie senza bisogno né di terremoti né di eruzioni. Fortuna che il Daily Mail, da giorni, ci racconta con impegno –in buona compagnia- un’Italia minore e curiosa, capace di ‘fare la cosa giusta’ nelle piccole cose (magari ne azzeccasse una in quelle che contano), Così, Capri si merita l’attenzione del quotidiano ‘gossipparo’ londinese, e pure del Times, non per l’affollamento della Piazzetta o il ‘caro barche’ per la Grotta Azzurra o l’inquinamento a vista delle acque, ma per la decisione del Comune di perseguire gli inzaccheratori della perla del Golfo: “L’isola delle vacanze del Mediterraneo userà banca dati Dna per individuare i padroni dei cani che non puliscono le cacche dei loro quadrupedi”. E sempre il Daily Mail, insieme questa volta alla crema della stampa americana, Cnn e WP, ci rende orgogliosi per la messa al bando italiana di Jersey Shore, serie americana di pessimo gusto, anzi proprio ‘trash’, alle cui riprese hotel e locali nostrani si sono coraggiosamente opposti (“invasione rinviata”, assicura il giornale, se non proprio definitivamente respinta).
domenica 10 aprile 2011
Libia: Nato, la guerra non si vince, cercasi alternativa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/04/2011
Ecco un’altra guerra che vincere è difficile. La Nato se n’è già accorta, dopo tre settimane di raid e missili. A der Spiegel, il segretario generale dell’Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen dice che "non esiste una soluzione militare" al conflitto in Libia: ci vuole “una soluzione politica” e “tocca al popolo libico muoversi in tal senso", anche se l’Onu deve dargli una mano. Punto fermo, garantire “ad ogni costo l’integrità territoriale” libica.
La Nato, dal canto suo, attua la risoluzione dell’Onu sull’uso della forza: “ci atterremo strettamente ad essa”. Il che significa né truppe di terra né armi ai ribelli. Ma a Bruxelles si mormora di colloqui per il dispiegamento di una forza di interposizione tra lealisti e ribelli, che ‘protegga’ la transizione (con buona pace dell’intangibilità della Libia).
E mentre l’Alleanza prosegue i suoi raid di limitata –finora- efficacia (sette le missioni italiane tra venerdì e sabato), l’Ue scrive all’Onu di essere pronta a una missione militare di protezione dell’azione umanitaria e il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico chiede agli Usa di sbloccare, a suo favore, i beni di Muammar Gheddafi congelati sul territorio americano.
Il colonnello dittatore torna a farsi vedere in pubblico visitando a Tripoli una scuola i cui studenti scandiscono ‘Solo Allah, Muammar e la Libia’. Ma il Cnt avverte l’Unione africana (Ua) che boccerà qualsiasi ‘cessate-il-fuoco’ che non preveda l’uscita di scena di Gheddafi o dei suoi figli. Una delegazione Ua è attesa a Tripoli e a Bengasi: guidata dal presidente sudafricano Jacob Zuma, comprende i leader di Congo, Mali, Mauritania e Uganda.
Lunedì, i ministri degli esteri dei 27 si vedranno a Lussemburgo, presente una delegazione del Cnt; mercoledì, a Doha, ci sarà il Gruppo di Contatto dei Paesi militarmente impegnati sulla Libia; e giovedì, al Cairo, ci sarà un consulto tra Lega araba, Ua, Conferenza islamica, Onu, Usa e Ue, giusto prima del Consiglio atlantico a Berlino.
Ecco un’altra guerra che vincere è difficile. La Nato se n’è già accorta, dopo tre settimane di raid e missili. A der Spiegel, il segretario generale dell’Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen dice che "non esiste una soluzione militare" al conflitto in Libia: ci vuole “una soluzione politica” e “tocca al popolo libico muoversi in tal senso", anche se l’Onu deve dargli una mano. Punto fermo, garantire “ad ogni costo l’integrità territoriale” libica.
La Nato, dal canto suo, attua la risoluzione dell’Onu sull’uso della forza: “ci atterremo strettamente ad essa”. Il che significa né truppe di terra né armi ai ribelli. Ma a Bruxelles si mormora di colloqui per il dispiegamento di una forza di interposizione tra lealisti e ribelli, che ‘protegga’ la transizione (con buona pace dell’intangibilità della Libia).
E mentre l’Alleanza prosegue i suoi raid di limitata –finora- efficacia (sette le missioni italiane tra venerdì e sabato), l’Ue scrive all’Onu di essere pronta a una missione militare di protezione dell’azione umanitaria e il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico chiede agli Usa di sbloccare, a suo favore, i beni di Muammar Gheddafi congelati sul territorio americano.
Il colonnello dittatore torna a farsi vedere in pubblico visitando a Tripoli una scuola i cui studenti scandiscono ‘Solo Allah, Muammar e la Libia’. Ma il Cnt avverte l’Unione africana (Ua) che boccerà qualsiasi ‘cessate-il-fuoco’ che non preveda l’uscita di scena di Gheddafi o dei suoi figli. Una delegazione Ua è attesa a Tripoli e a Bengasi: guidata dal presidente sudafricano Jacob Zuma, comprende i leader di Congo, Mali, Mauritania e Uganda.
Lunedì, i ministri degli esteri dei 27 si vedranno a Lussemburgo, presente una delegazione del Cnt; mercoledì, a Doha, ci sarà il Gruppo di Contatto dei Paesi militarmente impegnati sulla Libia; e giovedì, al Cairo, ci sarà un consulto tra Lega araba, Ua, Conferenza islamica, Onu, Usa e Ue, giusto prima del Consiglio atlantico a Berlino.
sabato 9 aprile 2011
UE: Schengen, la libera circolazione ha regole ed eccezioni
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/04/2011
Schengen è una località del Lussemburgo dove, nel 1985, venne firmato da cinque degli allora 15 Paesi Ue l’accordo per eliminare progressivamente i controlli alle frontiere interne europee e per garantire meglio la libertà di circolazione delle persone. L’Italia all’inizio non c’era (vi aderi’ solo nel 1990): il primo nucleo era costituito da Germania, Francia e i tre del Benelux.
Oggi, l’accordo di Schengen è divenuto una convenzione ed è parte del Trattato dell’Unione. L’area Schengen coinvolge 23 Stati Ue (tutti, tranne la Gran Bretagna e l’Irlanda, che hanno scelto di restarne fuori, e la Bulgaria e la Romania, gli ultimi arrivati che non hanno ancora le carte in regola per esservi ammessi) e, inoltre, Islanda, Norvegia, Svizzera, Liechtenstein e pure, in forza degli accordi bilaterali con l’Italia e con la Francia, il Vaticano, San Marino e Monaco. In tutto, 30 Paesi.
La convenzione di Schengen definisce le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all'attuazione della libera circolazione delle persone e prevede l’assenza di controlli alle frontiere interne dell’Unione. Gli Stati, pero’, mantengono il diritto di compiere controlli sporadici, fino a 20 chilometri di distanza dal confine, se emergono problemi specifici, ad esempio di sicurezza o di ordine pubblico.
Quanto ai permessi di soggiorno temporanei, tipo quelli che l’Italia ora riconosce agli immigrati tunisini arrivati fino al 6 aprile, essi sono previsti, ma devono essere notificati alle autorità comunitarie e, inoltre, non comportano , automaticamente, che le persone che ne beneficiano possano liberamente passare dall’uno all’altro Paese dell’area Schengen. Per farlo, i beneficiari devono, infatti, soddisfare alcune condizioni, oltre che avere il permesso di soggiorno temporaneo: avere un passaporto valido; disporre di risorse sufficienti; non costituire una minaccia o un turbamento per l’ordine pubblico; e avere una buona ragione per il loro soggiorno (tutte condizioni riprese nella circolare trasmessa, giovedi’, ai prefetti dal governo francese). Sia Roma che Parigi hanno notificato, nelle ultime ore, i rispettivi provvedimenti alle autorità europee.
Schengen è una località del Lussemburgo dove, nel 1985, venne firmato da cinque degli allora 15 Paesi Ue l’accordo per eliminare progressivamente i controlli alle frontiere interne europee e per garantire meglio la libertà di circolazione delle persone. L’Italia all’inizio non c’era (vi aderi’ solo nel 1990): il primo nucleo era costituito da Germania, Francia e i tre del Benelux.
Oggi, l’accordo di Schengen è divenuto una convenzione ed è parte del Trattato dell’Unione. L’area Schengen coinvolge 23 Stati Ue (tutti, tranne la Gran Bretagna e l’Irlanda, che hanno scelto di restarne fuori, e la Bulgaria e la Romania, gli ultimi arrivati che non hanno ancora le carte in regola per esservi ammessi) e, inoltre, Islanda, Norvegia, Svizzera, Liechtenstein e pure, in forza degli accordi bilaterali con l’Italia e con la Francia, il Vaticano, San Marino e Monaco. In tutto, 30 Paesi.
La convenzione di Schengen definisce le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all'attuazione della libera circolazione delle persone e prevede l’assenza di controlli alle frontiere interne dell’Unione. Gli Stati, pero’, mantengono il diritto di compiere controlli sporadici, fino a 20 chilometri di distanza dal confine, se emergono problemi specifici, ad esempio di sicurezza o di ordine pubblico.
Quanto ai permessi di soggiorno temporanei, tipo quelli che l’Italia ora riconosce agli immigrati tunisini arrivati fino al 6 aprile, essi sono previsti, ma devono essere notificati alle autorità comunitarie e, inoltre, non comportano , automaticamente, che le persone che ne beneficiano possano liberamente passare dall’uno all’altro Paese dell’area Schengen. Per farlo, i beneficiari devono, infatti, soddisfare alcune condizioni, oltre che avere il permesso di soggiorno temporaneo: avere un passaporto valido; disporre di risorse sufficienti; non costituire una minaccia o un turbamento per l’ordine pubblico; e avere una buona ragione per il loro soggiorno (tutte condizioni riprese nella circolare trasmessa, giovedi’, ai prefetti dal governo francese). Sia Roma che Parigi hanno notificato, nelle ultime ore, i rispettivi provvedimenti alle autorità europee.
Libia: la Nato fa fuoco amico sui ribelli e sull'Italia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/04/2011
Sul fronte libico, gli alleati mettono l’Italia sotto pressione. E gli insorti ce l’hanno con la Nato. Guerre di parole, mentre, sul terreno, si combatte, come sempre, a Misurata e ad Ajdbiya. L’Alleanza non si scusa coi ribelli per il fuoco amico su Brega, che avrebbe fatto 13 vittime giovedì: «Dall’alto, è impossibile distinguere i mezzi in movimento e loro non ci avevano avvertito che avevano carrarmati», dice l’ammiraglio Russel Harding, britannico. Ma il segretario generale Nato Anders Fogh Rasmussen lima la rudezza dei militari, esprimendo rammarico per quanto avvenuto: «E’ stato un incidente -afferma-: in Libia, stiamo operando per proteggere i civili e attacchiamo dispositivi che possono essere usati contro i civili».
Harding, vice-comandante dell’operazione Unified Protector, giudica la situazione militare « fluida » e non di stallo, come aveva fatto ieri il comandante Usa per l’Africa, generale Carter Ham. In stallo sembrano, in queste ore, le trattative, che, pero’, magari, proseguono discrete, mentre le sortite pubbliche -ultima, quella del premier turco Recep Tayyip Erdogan- fanno tutte flop, finora.
Intanto, l’Italia subisce il pressing di alleati e insorti per partecipare attivamente ai bombarmenti. Eppure, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva proclamato che «i nostri Tornado non hanno sparato e non spareranno». Le pressioni ci sono e la Farnesina le ammette: «Sarà il governo a decidere» sulle richieste della Nato e dei ribelli di un rafforzamzento della missione militare, spiega il portavoce del ministero degli Esteri Maurizio Massari. C'è la disponibilità a prevedere la messa a disposizione di uomini e di mezzi per quella che si prefigura come la 'fase 2' della missione atlantica. Le valutazioni saranno fatte con gli alleati, in base al principio di ‘burden sharing’, cioè di ripartizione degli oneri, atteso che « l’Italia ha già fatto la sua parte e continuerà a farla».
Le aspettative dell’Alleanza sono state ribadite al ministro Frattini dal Rasmussen, in una telefonata giovedi’, dopo che il capo della diplomazia italiana aveva visto a Washington il segretario di Stato usa Hillary Clinton. Il tema forse e' emerso anche in quel colloquio, che sui media internazionali ha avuto pochissima eco -Afp e Reuters si sono limitati a citarlo in un inciso dei loro servizi-.
Analoghe aspettative sono state espresse dal ‘ministro degli esteri’ dei ribelli al Isawi al diplomatico che rappresenta l’Italia a Bengasi Guido De Sanctis: gli insorti insistono per un’attuazione più efficace della risoluzione 1973 delle Nazioni Unite. Ma per l’Italia «armare l’opposizione libica va considerata una extrema ratio» , una volta sfruttata al massimo» il testo dellOnu, che non lo prevede.
La prossima settimana, gli sviluppi della crisi libica saranno discussi il 13 in Qatar dal Gruppo di Contatto e il 14 e 15 a Berlino, dal Consiglio atlantico, a livello di ministri degli esteri. Prima di questi eventi, martedì, il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico Mustafa Abdel Jalil sarà a Roma: vedra' Frattini e avra' forse incontri "al massimo livello" e un passaggio in Parlamento. La visita di Jalil è frutto del riconoscimento, da parte dell’Italia, del Cnt come «unico interlocutore» libico. E Roma spinge, con Pasrigi e Madrid, perche' un rappresentante del Cnt sia presente alla riunione, lunedi’, a Lussemburgo , del Consiglio dei ministri degli Esteri dei 27.
E ieri il Consiglio di Bengasi ha fornito, per la prima volta, una stima dei morti della guerra: almeno 10 mila vittime. Nel comunicare ai giornalisti il tetro 'conto', il portavoce dei ribelli ha detto che gli insorti continueranno la loro azione per tutto il tempo "che sarà necessario". Sul piano umaitario, 25 libici con gravi ferite e ustioni sono arrivati ieri sera a Milano, portati da Bengasi con un C130: saranno curati in 9 ospedali lombardi.
Sul fronte libico, gli alleati mettono l’Italia sotto pressione. E gli insorti ce l’hanno con la Nato. Guerre di parole, mentre, sul terreno, si combatte, come sempre, a Misurata e ad Ajdbiya. L’Alleanza non si scusa coi ribelli per il fuoco amico su Brega, che avrebbe fatto 13 vittime giovedì: «Dall’alto, è impossibile distinguere i mezzi in movimento e loro non ci avevano avvertito che avevano carrarmati», dice l’ammiraglio Russel Harding, britannico. Ma il segretario generale Nato Anders Fogh Rasmussen lima la rudezza dei militari, esprimendo rammarico per quanto avvenuto: «E’ stato un incidente -afferma-: in Libia, stiamo operando per proteggere i civili e attacchiamo dispositivi che possono essere usati contro i civili».
Harding, vice-comandante dell’operazione Unified Protector, giudica la situazione militare « fluida » e non di stallo, come aveva fatto ieri il comandante Usa per l’Africa, generale Carter Ham. In stallo sembrano, in queste ore, le trattative, che, pero’, magari, proseguono discrete, mentre le sortite pubbliche -ultima, quella del premier turco Recep Tayyip Erdogan- fanno tutte flop, finora.
Intanto, l’Italia subisce il pressing di alleati e insorti per partecipare attivamente ai bombarmenti. Eppure, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva proclamato che «i nostri Tornado non hanno sparato e non spareranno». Le pressioni ci sono e la Farnesina le ammette: «Sarà il governo a decidere» sulle richieste della Nato e dei ribelli di un rafforzamzento della missione militare, spiega il portavoce del ministero degli Esteri Maurizio Massari. C'è la disponibilità a prevedere la messa a disposizione di uomini e di mezzi per quella che si prefigura come la 'fase 2' della missione atlantica. Le valutazioni saranno fatte con gli alleati, in base al principio di ‘burden sharing’, cioè di ripartizione degli oneri, atteso che « l’Italia ha già fatto la sua parte e continuerà a farla».
Le aspettative dell’Alleanza sono state ribadite al ministro Frattini dal Rasmussen, in una telefonata giovedi’, dopo che il capo della diplomazia italiana aveva visto a Washington il segretario di Stato usa Hillary Clinton. Il tema forse e' emerso anche in quel colloquio, che sui media internazionali ha avuto pochissima eco -Afp e Reuters si sono limitati a citarlo in un inciso dei loro servizi-.
Analoghe aspettative sono state espresse dal ‘ministro degli esteri’ dei ribelli al Isawi al diplomatico che rappresenta l’Italia a Bengasi Guido De Sanctis: gli insorti insistono per un’attuazione più efficace della risoluzione 1973 delle Nazioni Unite. Ma per l’Italia «armare l’opposizione libica va considerata una extrema ratio» , una volta sfruttata al massimo» il testo dellOnu, che non lo prevede.
La prossima settimana, gli sviluppi della crisi libica saranno discussi il 13 in Qatar dal Gruppo di Contatto e il 14 e 15 a Berlino, dal Consiglio atlantico, a livello di ministri degli esteri. Prima di questi eventi, martedì, il presidente del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico Mustafa Abdel Jalil sarà a Roma: vedra' Frattini e avra' forse incontri "al massimo livello" e un passaggio in Parlamento. La visita di Jalil è frutto del riconoscimento, da parte dell’Italia, del Cnt come «unico interlocutore» libico. E Roma spinge, con Pasrigi e Madrid, perche' un rappresentante del Cnt sia presente alla riunione, lunedi’, a Lussemburgo , del Consiglio dei ministri degli Esteri dei 27.
E ieri il Consiglio di Bengasi ha fornito, per la prima volta, una stima dei morti della guerra: almeno 10 mila vittime. Nel comunicare ai giornalisti il tetro 'conto', il portavoce dei ribelli ha detto che gli insorti continueranno la loro azione per tutto il tempo "che sarà necessario". Sul piano umaitario, 25 libici con gravi ferite e ustioni sono arrivati ieri sera a Milano, portati da Bengasi con un C130: saranno curati in 9 ospedali lombardi.
venerdì 8 aprile 2011
Libia: Nato s'insabbia nel deserto, stallo al fronte
Scritto per Il fatto Quotidiano del 08/04/2011
La Nato non riesce a tirarsi fuori dalle sabbie della Libia: i raid alleati fanno vittime fra gli insorti e i civili a Brega e non riescono a sbloccare la situazione sul terreno, mentre migliaia di ribelli e civili fuggono da Ajdabiya verso Bengasi nel timore d’un’avanzata dei lealisti. Al quartier generale atlantico di Bruxelles si ammette che il momento è critico (e a Parigi si parla di «situazione complessa»), a causa da una parte dei limiti fissati all’intervento militare dalla risoluzione Onu e dall’altra della disorganizzazione dei ribelli che, male armati, non riescono a prevalere sulla resistenza opposta dal regime di Muammar Gheddafi. L’esempio più efficace dell’impotenza alleata è l’incapacità di porre un termine al martirio della città di Misurata, circondata da quasi un mese e mezzo dalle truppe del colonnello dittatore.
Nessuno, oggi, sa prevedere quando dovrà durare l’operazione ‘Unified Protector’. Il comandante delle forze Usa per l’Africa, il generale Carter Ham, giudica “debole” la probabilità che i ribelli riescano a rovesciare il regime, malgrado le forze di Gheddafi siano state indebolite, ma non certo annientate, dai tiri alleati. Hillary Clinton, segretario di Stato americano, è conscia che è difficile, con le sole forze aeree, colpire efficacemente i lealisti, che «s’insinuano nelle città» e «mettono cecchini sui tetti».
Sul terreno è lo stallo, nonostante i combattimenti mietano vittime ogni giorno: la Cirenaica è nelle mani dei ribelli; la Tripolitania è ancora controllata dei Gheddafi; e, in mezzo, una linea del fronte che si sposta come un pendolo, mai in modo decisivo. Ma non è che la diplomazia avanzi più rapidamente verso una soluzione. Il presidente Usa Barack Obama non dà seguito alla lettera con cui Gheddafi gli si propone come interlocutore per un dialogo fra leader. L’Italia cerca d’indurre all’esilio il Colonnello e i suoi figli, come dice alla Clinton il ministro degli esteri Franco Frattini in missione a Washington. Roma chiede agli Usa maggiore impegno militare, mentre a Bengasi insorti gridano ‘Viva l’Italia’ e ‘Grazie Italia’.
Il ministro degli esteri francese Alain Juppé annuncia che il Gruppo di Contatto terrà la seconda riunione mercoledì 13 aprile a Doha, in Qatar. E l'ex ministro del petrolio Omar Fathi bin Shatwan abbandona il regime e approda a Malta con un peschereccio.
La cronaca di giornata è segnata di fatti drammatici, ma non decisivi : bombardamenti su Tripoli la scorsa notte; raid Nato letali a Brega; tiri sul terminal petrolifero di Sarir – attribuiti all’Alleanza, che smentisce-; quattro giornalisti scomparsi (un americano, uno spagnolo, due sud-africani). C’è pure il giallo del commando di forze speciali francesi che si sarebbe ‘smarrito’ nel deserto: Parigi nega, anche perchè la risoluzione dell’Onu che autorizza l’uso della forza in Libia esclude l'impiego di truppe di terra.
La Nato non riesce a tirarsi fuori dalle sabbie della Libia: i raid alleati fanno vittime fra gli insorti e i civili a Brega e non riescono a sbloccare la situazione sul terreno, mentre migliaia di ribelli e civili fuggono da Ajdabiya verso Bengasi nel timore d’un’avanzata dei lealisti. Al quartier generale atlantico di Bruxelles si ammette che il momento è critico (e a Parigi si parla di «situazione complessa»), a causa da una parte dei limiti fissati all’intervento militare dalla risoluzione Onu e dall’altra della disorganizzazione dei ribelli che, male armati, non riescono a prevalere sulla resistenza opposta dal regime di Muammar Gheddafi. L’esempio più efficace dell’impotenza alleata è l’incapacità di porre un termine al martirio della città di Misurata, circondata da quasi un mese e mezzo dalle truppe del colonnello dittatore.
Nessuno, oggi, sa prevedere quando dovrà durare l’operazione ‘Unified Protector’. Il comandante delle forze Usa per l’Africa, il generale Carter Ham, giudica “debole” la probabilità che i ribelli riescano a rovesciare il regime, malgrado le forze di Gheddafi siano state indebolite, ma non certo annientate, dai tiri alleati. Hillary Clinton, segretario di Stato americano, è conscia che è difficile, con le sole forze aeree, colpire efficacemente i lealisti, che «s’insinuano nelle città» e «mettono cecchini sui tetti».
Sul terreno è lo stallo, nonostante i combattimenti mietano vittime ogni giorno: la Cirenaica è nelle mani dei ribelli; la Tripolitania è ancora controllata dei Gheddafi; e, in mezzo, una linea del fronte che si sposta come un pendolo, mai in modo decisivo. Ma non è che la diplomazia avanzi più rapidamente verso una soluzione. Il presidente Usa Barack Obama non dà seguito alla lettera con cui Gheddafi gli si propone come interlocutore per un dialogo fra leader. L’Italia cerca d’indurre all’esilio il Colonnello e i suoi figli, come dice alla Clinton il ministro degli esteri Franco Frattini in missione a Washington. Roma chiede agli Usa maggiore impegno militare, mentre a Bengasi insorti gridano ‘Viva l’Italia’ e ‘Grazie Italia’.
Il ministro degli esteri francese Alain Juppé annuncia che il Gruppo di Contatto terrà la seconda riunione mercoledì 13 aprile a Doha, in Qatar. E l'ex ministro del petrolio Omar Fathi bin Shatwan abbandona il regime e approda a Malta con un peschereccio.
La cronaca di giornata è segnata di fatti drammatici, ma non decisivi : bombardamenti su Tripoli la scorsa notte; raid Nato letali a Brega; tiri sul terminal petrolifero di Sarir – attribuiti all’Alleanza, che smentisce-; quattro giornalisti scomparsi (un americano, uno spagnolo, due sud-africani). C’è pure il giallo del commando di forze speciali francesi che si sarebbe ‘smarrito’ nel deserto: Parigi nega, anche perchè la risoluzione dell’Onu che autorizza l’uso della forza in Libia esclude l'impiego di truppe di terra.
mercoledì 6 aprile 2011
USA: 2012, anti-Obama cercasi (ma non trovasi)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/04/2011
I sondaggi dicono che se li mangerebbe tutti con un solo boccone. Giusto giusto, gli andrebbe un po’ di traverso Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, un politico un po’ rozzo, che dice pane al pane e vino al vino con la stessa inclinazione alla battuta infelice d’un Calderoli nostrano (ma lui è uomo del Sud, bibbia e fucile e un po’ di razzismo). Ma i sondaggi, si sa, valgono poco, specie quando mancano 19 mesi giusti giusti, un po’ meno di 600 giorni, alle elezioni presidenziali del 6 novembre 2012. E, dunque, Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti, partito alla caccia della conferma, non può dormirci sopra sonni tranquilli.
Dati raccolti da Newsweek, prima che Obama annunciasse, lunedì, l’intenzione di ricandidarsi, mostrano che il presidente uscente la spunterebbe, oggi, contro tutti i candidati repubblicani più accreditati: i favoriti sono Huckabee e Mitt Romney, un ex governatore del Massachusetts, con l’handicap di essere mormone, davanti a Sarah Palin, ex governatrice dell’Alaska ed ex candidata alla vice-presidenza nel 2008, attualmente cacciatrice di caribù nel Grande Nord e icona elettorale del Tea Party, in attesa che i neo-qualunquisti conservatori producano un candidato tutto loro (uno potrebbe essere il senatore della Florida Mark Rubio, che, però, appena eletto al primo mandato, manca ancora d’esperienza).
E il risultato a favore di Obama non cambierebbe neppure se i repubblicani decidessero di puntare su un outsider come il miliardario gigione Donald Trump, un Berlusconi d’America, più a suo agio in tv, con le donne e negli affari che in politica, dove deve ancora dimostrare di saperci fare (a dire la verità, anche con le donne non ci azzecca sempre).
Sito che vai, candidato che trovi, a dimostrare l’incertezza se non il disorientamento repubblicano, nonostante il successo nelle elezioni di ‘midterm’ del 2 novembre 2008, quando l’opposizione strappò la Camera ai democratici, erose la maggioranza al Senato e portò a Washington un gruppo di esponenti del ‘Tea Party’, Rubio in testa.
Finora un solo esponente repubblicano ha già dichiarato formalmente l’interesse alla ‘nomination’, l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty, un personaggio sconosciuto a livello nazionale, che, con la Palin, Huckabee e Romney forma un quartetto di ex governatori in lizza: è la posizione ideale da cui partire all’assalto della Casa Bianca, come fecero con successo Jimmy Carter dalla Georgia, Ronald Reagan dalla California, Bill Clinton dall’Arkansas e Geroge W. Bush dal Texas. Prima di Obama, l’ultimo senatore a essere eletto presidente era stato John F. Kennedy nel 1960: una vita fa.
Una figura emergente, pur se ancora lontana da uno standard di notorietà nazionale presidenziabile, è Michele Marie Bachmann, 55 anni, deputata del Minnesota, vicina al Tea Party, di cui anima e presiede il gruppo alla Camera di Washington. La Bachmann, che è al secondo mandato federale, condivide però con Pawlenty l’ ‘handicap Minnesota’: lo Stato non ha mai prodotto un presidente e, al massimo, ha sfornato un candidato democratico alla Casa Bianca, Walter Mondale, travolto senza appello da Reagan nel 1984.
Ma l’elenco dei possibili candidati repubblicani è ancora lungo: c’è Newt Gingrich, ex presidente della Camera e uomo forte del partito a metà Anni Novanta, uno che sa di vecchio solo a guardarlo; c’è l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, un italo-americano, molto vicino a Bush jr; c’è l’ex governatore del Mississippi –un altro- Haley Barbour; e ancora, il governatore dell’Indiana, ed ex ex ministro del bilancio di Bush jr, Mitch Daniels, il governatore del New Jersey Chris Christie: E poi c’è l’ex ambasciatore Usa in Cina Jon Huntsman: Obama evocò con una battuta le sue aspirazioni presidenziali, durante la recente visita a Washington del presidente cinese Hu Jintao; ma i ‘saggi’ repubblicani lo considerano troppo ‘obamiano’ per essere un’alternativa al presidente.
E l’elenco, già lungo, potrebbe andare oltre. Fermiamoci qui e cerchiamo di tirare fuori dal mazzo un poker di favoriti: i sondaggi dicono, per ora, in fila, Huckabee, Romney, Palin, ben avanti agli altri (ma nessuno dei tre raggiunge il 20% delle intenzioni di voto repubblicane nelle primarie). Come quarto, puntiamo sulla Bachmann, che è una Palin meno aggressiva e più presentabile in società. E una donna il lizza darebbe alle presidenziali 2012 il fascino d’una potente alternanza: dopo il primo mero, la prima donna alla Casa Bianca
Ma vi do un suggerimento: non giocatevi un penny su nessuno di questi come presidente dal 2013 al 2017. Se i repubblicani non tirano fuori dal loro cilindro dello Zio Sam un coniglio con i baffi (e lo sapremo di qui all’inizio della stagione delle primarie, quando l’inverno è più gelido e innevato nello Iowa e nel New Hampshire, gli Stati vedetta), puntate sull’usato sicuro. A me, piacerebbe vedere un match tra Obama e il senatore del Massachusetts Scott Brown, un repubblicano capace, nel 2010, di prendersi il seggio da sempre dei Kennedy. Ma quello, per ora, nessuno lo tira in ballo. E lui, magari, non ha i soldi che ci vogliono per provare a conquistare la ‘nomination’.
I sondaggi dicono che se li mangerebbe tutti con un solo boccone. Giusto giusto, gli andrebbe un po’ di traverso Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, un politico un po’ rozzo, che dice pane al pane e vino al vino con la stessa inclinazione alla battuta infelice d’un Calderoli nostrano (ma lui è uomo del Sud, bibbia e fucile e un po’ di razzismo). Ma i sondaggi, si sa, valgono poco, specie quando mancano 19 mesi giusti giusti, un po’ meno di 600 giorni, alle elezioni presidenziali del 6 novembre 2012. E, dunque, Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti, partito alla caccia della conferma, non può dormirci sopra sonni tranquilli.
Dati raccolti da Newsweek, prima che Obama annunciasse, lunedì, l’intenzione di ricandidarsi, mostrano che il presidente uscente la spunterebbe, oggi, contro tutti i candidati repubblicani più accreditati: i favoriti sono Huckabee e Mitt Romney, un ex governatore del Massachusetts, con l’handicap di essere mormone, davanti a Sarah Palin, ex governatrice dell’Alaska ed ex candidata alla vice-presidenza nel 2008, attualmente cacciatrice di caribù nel Grande Nord e icona elettorale del Tea Party, in attesa che i neo-qualunquisti conservatori producano un candidato tutto loro (uno potrebbe essere il senatore della Florida Mark Rubio, che, però, appena eletto al primo mandato, manca ancora d’esperienza).
E il risultato a favore di Obama non cambierebbe neppure se i repubblicani decidessero di puntare su un outsider come il miliardario gigione Donald Trump, un Berlusconi d’America, più a suo agio in tv, con le donne e negli affari che in politica, dove deve ancora dimostrare di saperci fare (a dire la verità, anche con le donne non ci azzecca sempre).
Sito che vai, candidato che trovi, a dimostrare l’incertezza se non il disorientamento repubblicano, nonostante il successo nelle elezioni di ‘midterm’ del 2 novembre 2008, quando l’opposizione strappò la Camera ai democratici, erose la maggioranza al Senato e portò a Washington un gruppo di esponenti del ‘Tea Party’, Rubio in testa.
Finora un solo esponente repubblicano ha già dichiarato formalmente l’interesse alla ‘nomination’, l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty, un personaggio sconosciuto a livello nazionale, che, con la Palin, Huckabee e Romney forma un quartetto di ex governatori in lizza: è la posizione ideale da cui partire all’assalto della Casa Bianca, come fecero con successo Jimmy Carter dalla Georgia, Ronald Reagan dalla California, Bill Clinton dall’Arkansas e Geroge W. Bush dal Texas. Prima di Obama, l’ultimo senatore a essere eletto presidente era stato John F. Kennedy nel 1960: una vita fa.
Una figura emergente, pur se ancora lontana da uno standard di notorietà nazionale presidenziabile, è Michele Marie Bachmann, 55 anni, deputata del Minnesota, vicina al Tea Party, di cui anima e presiede il gruppo alla Camera di Washington. La Bachmann, che è al secondo mandato federale, condivide però con Pawlenty l’ ‘handicap Minnesota’: lo Stato non ha mai prodotto un presidente e, al massimo, ha sfornato un candidato democratico alla Casa Bianca, Walter Mondale, travolto senza appello da Reagan nel 1984.
Ma l’elenco dei possibili candidati repubblicani è ancora lungo: c’è Newt Gingrich, ex presidente della Camera e uomo forte del partito a metà Anni Novanta, uno che sa di vecchio solo a guardarlo; c’è l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, un italo-americano, molto vicino a Bush jr; c’è l’ex governatore del Mississippi –un altro- Haley Barbour; e ancora, il governatore dell’Indiana, ed ex ex ministro del bilancio di Bush jr, Mitch Daniels, il governatore del New Jersey Chris Christie: E poi c’è l’ex ambasciatore Usa in Cina Jon Huntsman: Obama evocò con una battuta le sue aspirazioni presidenziali, durante la recente visita a Washington del presidente cinese Hu Jintao; ma i ‘saggi’ repubblicani lo considerano troppo ‘obamiano’ per essere un’alternativa al presidente.
E l’elenco, già lungo, potrebbe andare oltre. Fermiamoci qui e cerchiamo di tirare fuori dal mazzo un poker di favoriti: i sondaggi dicono, per ora, in fila, Huckabee, Romney, Palin, ben avanti agli altri (ma nessuno dei tre raggiunge il 20% delle intenzioni di voto repubblicane nelle primarie). Come quarto, puntiamo sulla Bachmann, che è una Palin meno aggressiva e più presentabile in società. E una donna il lizza darebbe alle presidenziali 2012 il fascino d’una potente alternanza: dopo il primo mero, la prima donna alla Casa Bianca
Ma vi do un suggerimento: non giocatevi un penny su nessuno di questi come presidente dal 2013 al 2017. Se i repubblicani non tirano fuori dal loro cilindro dello Zio Sam un coniglio con i baffi (e lo sapremo di qui all’inizio della stagione delle primarie, quando l’inverno è più gelido e innevato nello Iowa e nel New Hampshire, gli Stati vedetta), puntate sull’usato sicuro. A me, piacerebbe vedere un match tra Obama e il senatore del Massachusetts Scott Brown, un repubblicano capace, nel 2010, di prendersi il seggio da sempre dei Kennedy. Ma quello, per ora, nessuno lo tira in ballo. E lui, magari, non ha i soldi che ci vogliono per provare a conquistare la ‘nomination’.
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