Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2011
Ovunque vadano, qualcosa lasciano, a parte distruzioni, lutti, sofferenze. Invasori o liberatori che siano, è una regola che vale nei secoli per chi s’installa in un Paese con la forza delle armi. Se ci resta a lungo, lascia, magari, la lingua, l’organizzazione sociale e l’ordinamento istituzionale –pensiamo ai romani e, poi, agli arabi-; se ci resta per poco tempo, qualche moda passeggera e, magari, qualche abitudine alimentare e qualche consumo culturale adattati ai gusti locali. Oggi, i soldati americani, rispetto agli eserciti delle potenze imperiali o coloniali dei tempi andati, possono pure contare sull’impatto massiccio dei media di massa, sull’infiltrazione di una cultura che è pervasiva e contagiosa a livello globale, prima ancora del loro arrivo.
Succede, magari, che i militari a stelle e strisce si dimentichino di lasciarsi dietro proprio quello che erano venuti a portare: così, in Iraq, e presto in Afghanistan, se ne vanno senza avere solidamente impiantato quella democrazia che erano partiti per esportare una volta si sarebbe detto sulla punta delle baionette e oggi sarebbe meglio (non dover mai) dire sulla canna dei carri armati. La democrazia, però, non è qualcosa che attecchisce con le armi e non prende neppure ovunque allo stesso modo: in Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ce la lasciarono, ma in fondo c’era già prima: loro erano venuti per ristabilirla, dopo l’esperienza devastante e aggressiva dei totalitarismi nazista e fascista; in Giappone, e più tardi nella Corea del Sud, se la lasciarono dietro.
Bushra Juhi, giornalista dell’Ap,racconta, in un reportage da Baghdad, che, dopo otto anni di presenza sofferta e contrastata –quasi 4.500 caduti, altri 500 circa della coalizione-, le truppe da combattimento statunitensi americane che stanno partendo dall’Iraq lasciano dietro di sé una democrazia zoppicante, e che s’ignora se e come e quanto sopravvivrà, e “amari ricordi di guerra”. Ai più giovani, restano “musica rap, tatuaggi e slang”. E chi scrivesse oggi da Kabul potrebbe offrire una testimonianza analoga-. In Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli americani ci lasciarono la Coca Cola, il boogie woogie, i jeans –e ancora resistono, adattati ai tempi. In Vietnam, da dove scapparono dopo dieci anni di conflitto e oltre 58mila perdite, il lascito, invece, fu poca cosa, o almeno rimase invisibile per molti anni. Ma sotto sotto i germi dell’americanizzazione hanno funzionato se oggi Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City, è la più americana delle città vietnamite e, probabilmente, non piacerebbe affatto all’eroe dell’indipendenza di cui porta il nome.
Le dinamiche e le geografie dell’esportazione militare di mode e costumi sono spesso indecifrabili. Pensiamo allo sport, che non ha risvolti politici diretti. Gli americani hanno lasciato in Giappone e nella Corea del Sud il baseball, che ha pure attecchito ad Anzio e in Romagna e in Olanda, ma altrove in Italia o in Europa poco o punto, mentre non sono riusciti a innestare, in nessun Paese, il loro football (a essere sinceri, uno dei riti più noiosi ed esoterici fra i giochi moderni), mentre il calcio dilaga ovunque nel Mondo, nonostante gli inglesi, all’epoca delle colonie, promuovessero più l’aristocratico cricket che il popolare soccer. Il baseball, poi, ha sue ‘basi’ anche in Paesi ‘anti-americani’, come Cuba e il Venezuela, dove era però arrivato prima delle ‘rivoluzioni’ castrista e chavista.
Certo, rispetto a 60 anni or sono, oggi è molto difficile distinguere l’influenza indotta dalla presenza militare da quella, più sottile e più pervasiva, della preesistente colonizzazione culturale compiuta dalle produzioni ‘made in Usa’ d’ogni tipo: chewingum e Coca Cola, jeans e Tshirts, musica, film e serie tv sono testimoni universali e indelebili d’una avvenuta conquista.
Juhi ci racconta Baghdad prima della partenza, il 31 dicembre, dell’ultimo soldato combattente americano. La loro influenza è fortissima sui circa 16 milioni di iracheni ‘under 19’ (la metà della popolazione, 8 milioni nati dopo l’invasione), calcola Brett McGurk, ricercatore del Council on Foreign Relations di New York e prima consigliere dell’Ambasciata degli Usa in Iraq. Teen-agers che si chiamano ‘punky’ o ‘hustlers’ e hanno abitudini e consumi del tutto simili a quelli dei loro coetanei americani o europei: ascoltano 50 Cent o Eminem, guardano i film di vampiri della serie Twilight, mangiano pizza e hamburger, girano sui rollerblade e si rasano i capelli alla marine. Mode che resisteranno in Iraq?, o traballanti come la democrazia?
mercoledì 30 novembre 2011
L'Italia e il Terzi Mondo, attivismo per riemergere e priorità
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2011
Ha giurato in ritardo, un giorno dopo i colleghi. Ma poi s’è subito messo in moto, mentre quasi tutti gli altri restavano al palo della crisi e delle misure da prendere per contenere il debito e rilanciare la crescita. Lui, Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore di professione, ministro –un po’ a sorpresa- per chiamata, ha già collezionato telefonate, incontri e missioni: un attivismo apparentemente scollegato dall'azione del governo sui dossier più critici e in parte imposto da impegni già assunti, ma che può consentire all'Italia di essere presente su fronti diversi da quello dell’emergenza economica.
Insomma, non tutto è bot e spread: se l’Italia vuole recuperare credibilità sulla scena internazionale, deve pure occuparsi di Medio Oriente e di Primavera araba, di Libia e Siria e Iran. E deve farlo coltivando contatti e amicizie giuste, tenendosi lontana dagli oligarchi sopravvissuti all’ex Unione sovietica, i Putin e, peggio ancora, i Lukashenko e i Nazarbayev, l’ultima cerchia d’amici concessi a Mr B e al suo giro.
Terzi, che oggi presenta le sue linee d’azione alle commissioni esteri congiunte di Camera e Senato, ha ereditato, all’esordio, un percorso fortunato: la missione in Kuwait per un foro del G8 e quella a Istanbul, per un incontro italo-turco, erano nel solco delle priorità del nuovo governo.
Alla Farnesina, si è realisti: l’azione di politica estera deve tenere conto della prospettiva temporale di questo esecutivo, che è al massimo di un anno e mezzo. In questo periodo, l’Europa sarà sempre in primo piano: si tratta, in particolare, di ristabilire i rapporti con la Francia, desiderosa di avere nell’Italia un interlocutore valido, che contribuisca a riequilibrare il rapporto con la Germania.
Qui, qualche risultato è già venuto, con il Vertice triangolare di Strasburgo e il desiderio condiviso da Sarkozy e Merkel di associare l’Italia a una politica europea comune forte ed energica. Di questo, però, si occupa soprattutto il premier Monti, anche se Terzi ha avuto contatti diretti o telefonici con tutti i maggiori colleghi europei.
Punto secondo, Terzi deve riagganciare l’Italia agli Stati Uniti –era ambasciatore a Washington, ha i contatti e le percezioni giuste-, a partire dagli sviluppi –punto terzo- in Medio Oriente e in Afghanistan. Il ministro, di cui è nota l’attenzione alle posizioni israeliane, ha fatto una delle prime telefonate al collega Lieberman, cui ha assicurato la “piena continuità” della linea italiana. Naturalmente, ci potranno essere dei distinguo tra Roma e Washington, ad esempio sull’Iran.
Ue, Usa, MO e Mediterraneo: ecco le priorità dell’Italia. Resta da puntare su alcuni singoli Paesi. La Turchia, con cui i rapporti sono ottimi, è il primo della lista, anche in funzione degli sviluppi in Siria. E’ stato un caso, ma è caduto bene, che il ministro Terzi, nel fine settimana, abbia seguito a Istanbul con il collega Davutoglu un foro italo-turco da tempo fissato.
Infine, si potrà cercare di rafforzare le relazioni con un grande Paese latino-americano: il Brasile, se il caso Battisti non continuerà a costituire un ostacolo, oppure l’Argentina o il Messico. Impossibile, infine, riparare in fretta al vuoto di presenza in Asia, ma un rilancio dei rapporti con la Cina e un rafforzamento di quelli con l’India o con singoli Paesi potrà essere tentato.
Ha giurato in ritardo, un giorno dopo i colleghi. Ma poi s’è subito messo in moto, mentre quasi tutti gli altri restavano al palo della crisi e delle misure da prendere per contenere il debito e rilanciare la crescita. Lui, Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore di professione, ministro –un po’ a sorpresa- per chiamata, ha già collezionato telefonate, incontri e missioni: un attivismo apparentemente scollegato dall'azione del governo sui dossier più critici e in parte imposto da impegni già assunti, ma che può consentire all'Italia di essere presente su fronti diversi da quello dell’emergenza economica.
Insomma, non tutto è bot e spread: se l’Italia vuole recuperare credibilità sulla scena internazionale, deve pure occuparsi di Medio Oriente e di Primavera araba, di Libia e Siria e Iran. E deve farlo coltivando contatti e amicizie giuste, tenendosi lontana dagli oligarchi sopravvissuti all’ex Unione sovietica, i Putin e, peggio ancora, i Lukashenko e i Nazarbayev, l’ultima cerchia d’amici concessi a Mr B e al suo giro.
Terzi, che oggi presenta le sue linee d’azione alle commissioni esteri congiunte di Camera e Senato, ha ereditato, all’esordio, un percorso fortunato: la missione in Kuwait per un foro del G8 e quella a Istanbul, per un incontro italo-turco, erano nel solco delle priorità del nuovo governo.
Alla Farnesina, si è realisti: l’azione di politica estera deve tenere conto della prospettiva temporale di questo esecutivo, che è al massimo di un anno e mezzo. In questo periodo, l’Europa sarà sempre in primo piano: si tratta, in particolare, di ristabilire i rapporti con la Francia, desiderosa di avere nell’Italia un interlocutore valido, che contribuisca a riequilibrare il rapporto con la Germania.
Qui, qualche risultato è già venuto, con il Vertice triangolare di Strasburgo e il desiderio condiviso da Sarkozy e Merkel di associare l’Italia a una politica europea comune forte ed energica. Di questo, però, si occupa soprattutto il premier Monti, anche se Terzi ha avuto contatti diretti o telefonici con tutti i maggiori colleghi europei.
Punto secondo, Terzi deve riagganciare l’Italia agli Stati Uniti –era ambasciatore a Washington, ha i contatti e le percezioni giuste-, a partire dagli sviluppi –punto terzo- in Medio Oriente e in Afghanistan. Il ministro, di cui è nota l’attenzione alle posizioni israeliane, ha fatto una delle prime telefonate al collega Lieberman, cui ha assicurato la “piena continuità” della linea italiana. Naturalmente, ci potranno essere dei distinguo tra Roma e Washington, ad esempio sull’Iran.
Ue, Usa, MO e Mediterraneo: ecco le priorità dell’Italia. Resta da puntare su alcuni singoli Paesi. La Turchia, con cui i rapporti sono ottimi, è il primo della lista, anche in funzione degli sviluppi in Siria. E’ stato un caso, ma è caduto bene, che il ministro Terzi, nel fine settimana, abbia seguito a Istanbul con il collega Davutoglu un foro italo-turco da tempo fissato.
Infine, si potrà cercare di rafforzare le relazioni con un grande Paese latino-americano: il Brasile, se il caso Battisti non continuerà a costituire un ostacolo, oppure l’Argentina o il Messico. Impossibile, infine, riparare in fretta al vuoto di presenza in Asia, ma un rilancio dei rapporti con la Cina e un rafforzamento di quelli con l’India o con singoli Paesi potrà essere tentato.
martedì 29 novembre 2011
Crisi: Usa a Ue, fate presto e bene; l'Ocse vede recessione
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/11/2011
Barack Obama l’ha detto chiaro e tondo, ai leader europei andati a trovarlo alla Casa Bianca: l’Ue deve agire in fretta e con determinazione. “Ha le risorse e le capacità per fronteggiare la crisi”, ma “è essenziale che si muova” per evitare che la voragine del debito, in cui è già franata mezza Europa, ingoi l’euro e comprometta la ripresa dell’economia su scala globale. Obama, che aveva con sé il segretario di Stato Hillary Clinton e il segretario al Tesoro Timothy Geithner, riceveva ieri i presidenti del Consiglio europeo Eric Van Rompuy e della Commissione europea Josè Manuel Barroso e il ‘ministro degli esteri’ europeo Lady Ashton.
Ma il presidente americano non si contenta di dirlo a quei tre ‘euro-burocrati’ bruxellesi altolocati, cui dà il benvenuto nella Roosevelt Room (“E’ un piacere vedervi”). Obama, fa sapere il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. intende mantenersi in contatto diretto con il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel, con cui, da giorni, è in contatto telefonico quasi costante.
A ogni chiamata, Sarkozy e la Merkel lo rassicurano e gli ripetono che loro vogliono strappare al ‘default’ la Grecia e gli altri Paesi a rischio, specie l’Italia, ché, se cade lei, cade l’euro. Ma poi non succede (quasi) nulla e Obama s’inquieta di nuovo. Sul come tirarsi fuori della crisi, del resto, Parigi e Berlino non sono sempre in sintonia: c’è l’indipendenza della Bce, cui i tedeschi danno più peso dei francesi; c’è il ricorso agli eurobonds, cui i francesi sono più inclini dei tedeschi; e c’è, soprattutto, la riforma dei Trattati, che entrambi vogliono per accelerare il cammino verso un’Unione non solo monetaria ma anche fiscale e, quindi, davvero economica, privilegiando, però, un percorso inter-governativo che fa storcere il naso ai puristi del metodo comunitario.
Tutti nodi da sciogliere prima del Vertice europeo dell’8 e 9 dicembre, a Bruxelles, dove Sarkozy e la Merkel dovrebbero presentarsi con le loro idee messe in bella copia per sottoporle ai partner dell’eurozona e dell’Ue. L’asse potrebbe diventare triangolo con l’associazione dell’Italia, perché Monti ha buona stampa in Europa e perché un piano a tre suona meno direttorio di uno a due. Ma bisogna che prima il governo italiano faccia i compiti a casa (e i giorni tra lunedì 5 dicembre, quando Monti e i suoi ministri dovrebbero prendere le prime decisioni, e il Vertice sono pochi).
In Europa il gioco dell’attesa del Vertice sa, però, di stantio: quello di dicembre sarà il terzo in soli cinque mesi. A metà ottobre, Sarkozy e la Merkel parevano una corazzata: allineati su tutto, pronti a ricapitalizzare le banche, convinti che “ci salviamo insieme o saltiamo insieme”. Poi, è successo poco e la fiducia è scesa. Le banche Usa si preparano al ‘post euro’, mentre l’Fmi smentisce d’avere un piano di sostegno all’Italia per 600 miliardi di euro.
Il tutto sullo sfondo di una situazione finanziaria difficilmente decifrabile: i mercato internazionali hanno ieri conosciuto una giornata euforica, quando tutti gli indicatori erano negativi e la politica mandava segnali incerti. L’Ocse, in un rapporto, vede l’eurozona “in leggera recessione” e giudica la crisi del debito in Europa “un rischio globale” con possibili conseguenze “devastanti” sull’economia mondiale. Così, l’Ocse rivede nettamente al ribasso le previsioni di crescita dell’Ue, ma pure quelle degli Usa, il cui Pil, nel 2012, crescerebbe solo del 2%, invece che del 3,1%. L’Italia vivrà un 2002 di recessione (Pil - 0,5%) dopo un 2011 di stagnazione (Pil + 0.7%). Ognuno dice la sia: per l’agenzia di rating Fictch, la recessione in Italia è già cominciata, mentre Moodys mette in forse i giudizi di affidabilità di tutti i paesi europei, anche Francia e Germania
I dati Ocse sono una pessima notizia per l’Amministrazione democratica negli Stati Uniti : Obama, candidato al un secondo mandato nelle presidenziali 2012, è criticato per la modestia dei risultati economici ottenuti, tasso di disoccupazione al 9% e crescita anemica. Al Vertice del G20 di Cannes, a inizio mese, e di nuovo ieri, il presidente dice: “Abbiamo tutti interesse a che l’Ue se la cavi: se l’Europa non cresce, è molto difficile per l’America crescere”. Ecco, allora, Washington mettere fretta a Bruxelles perché attui le decisioni dei vertici d’ottobre. E il portavoce Carney nota che “l’insediamento di nuovi governi in Italia, Grecia e Spagna rende l’applicazione del piano ancora più importante”.
Non che Obama abbia tanto da insegnare agli europei: facile per Van Rompuy e Barroso ricordare che l’indebitamento americano ha appena superato i 15mila miliardi di dollari e viaggia, dunque, verso il 10% del Pil. Lo stallo politico, con l’opposizione repubblicana in maggioranza alla Camera che blocca le misure di riduzione del deficit del presidente, induce le agenzie di rating a mettere sotto sorveglianza il debito Usa e S&P ha già penalizzato Washington, declassandola da tripla A a AA+
Barack Obama l’ha detto chiaro e tondo, ai leader europei andati a trovarlo alla Casa Bianca: l’Ue deve agire in fretta e con determinazione. “Ha le risorse e le capacità per fronteggiare la crisi”, ma “è essenziale che si muova” per evitare che la voragine del debito, in cui è già franata mezza Europa, ingoi l’euro e comprometta la ripresa dell’economia su scala globale. Obama, che aveva con sé il segretario di Stato Hillary Clinton e il segretario al Tesoro Timothy Geithner, riceveva ieri i presidenti del Consiglio europeo Eric Van Rompuy e della Commissione europea Josè Manuel Barroso e il ‘ministro degli esteri’ europeo Lady Ashton.
Ma il presidente americano non si contenta di dirlo a quei tre ‘euro-burocrati’ bruxellesi altolocati, cui dà il benvenuto nella Roosevelt Room (“E’ un piacere vedervi”). Obama, fa sapere il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. intende mantenersi in contatto diretto con il presidente francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel, con cui, da giorni, è in contatto telefonico quasi costante.
A ogni chiamata, Sarkozy e la Merkel lo rassicurano e gli ripetono che loro vogliono strappare al ‘default’ la Grecia e gli altri Paesi a rischio, specie l’Italia, ché, se cade lei, cade l’euro. Ma poi non succede (quasi) nulla e Obama s’inquieta di nuovo. Sul come tirarsi fuori della crisi, del resto, Parigi e Berlino non sono sempre in sintonia: c’è l’indipendenza della Bce, cui i tedeschi danno più peso dei francesi; c’è il ricorso agli eurobonds, cui i francesi sono più inclini dei tedeschi; e c’è, soprattutto, la riforma dei Trattati, che entrambi vogliono per accelerare il cammino verso un’Unione non solo monetaria ma anche fiscale e, quindi, davvero economica, privilegiando, però, un percorso inter-governativo che fa storcere il naso ai puristi del metodo comunitario.
Tutti nodi da sciogliere prima del Vertice europeo dell’8 e 9 dicembre, a Bruxelles, dove Sarkozy e la Merkel dovrebbero presentarsi con le loro idee messe in bella copia per sottoporle ai partner dell’eurozona e dell’Ue. L’asse potrebbe diventare triangolo con l’associazione dell’Italia, perché Monti ha buona stampa in Europa e perché un piano a tre suona meno direttorio di uno a due. Ma bisogna che prima il governo italiano faccia i compiti a casa (e i giorni tra lunedì 5 dicembre, quando Monti e i suoi ministri dovrebbero prendere le prime decisioni, e il Vertice sono pochi).
In Europa il gioco dell’attesa del Vertice sa, però, di stantio: quello di dicembre sarà il terzo in soli cinque mesi. A metà ottobre, Sarkozy e la Merkel parevano una corazzata: allineati su tutto, pronti a ricapitalizzare le banche, convinti che “ci salviamo insieme o saltiamo insieme”. Poi, è successo poco e la fiducia è scesa. Le banche Usa si preparano al ‘post euro’, mentre l’Fmi smentisce d’avere un piano di sostegno all’Italia per 600 miliardi di euro.
Il tutto sullo sfondo di una situazione finanziaria difficilmente decifrabile: i mercato internazionali hanno ieri conosciuto una giornata euforica, quando tutti gli indicatori erano negativi e la politica mandava segnali incerti. L’Ocse, in un rapporto, vede l’eurozona “in leggera recessione” e giudica la crisi del debito in Europa “un rischio globale” con possibili conseguenze “devastanti” sull’economia mondiale. Così, l’Ocse rivede nettamente al ribasso le previsioni di crescita dell’Ue, ma pure quelle degli Usa, il cui Pil, nel 2012, crescerebbe solo del 2%, invece che del 3,1%. L’Italia vivrà un 2002 di recessione (Pil - 0,5%) dopo un 2011 di stagnazione (Pil + 0.7%). Ognuno dice la sia: per l’agenzia di rating Fictch, la recessione in Italia è già cominciata, mentre Moodys mette in forse i giudizi di affidabilità di tutti i paesi europei, anche Francia e Germania
I dati Ocse sono una pessima notizia per l’Amministrazione democratica negli Stati Uniti : Obama, candidato al un secondo mandato nelle presidenziali 2012, è criticato per la modestia dei risultati economici ottenuti, tasso di disoccupazione al 9% e crescita anemica. Al Vertice del G20 di Cannes, a inizio mese, e di nuovo ieri, il presidente dice: “Abbiamo tutti interesse a che l’Ue se la cavi: se l’Europa non cresce, è molto difficile per l’America crescere”. Ecco, allora, Washington mettere fretta a Bruxelles perché attui le decisioni dei vertici d’ottobre. E il portavoce Carney nota che “l’insediamento di nuovi governi in Italia, Grecia e Spagna rende l’applicazione del piano ancora più importante”.
Non che Obama abbia tanto da insegnare agli europei: facile per Van Rompuy e Barroso ricordare che l’indebitamento americano ha appena superato i 15mila miliardi di dollari e viaggia, dunque, verso il 10% del Pil. Lo stallo politico, con l’opposizione repubblicana in maggioranza alla Camera che blocca le misure di riduzione del deficit del presidente, induce le agenzie di rating a mettere sotto sorveglianza il debito Usa e S&P ha già penalizzato Washington, declassandola da tripla A a AA+
domenica 27 novembre 2011
Media: l'Italia degli stereotipi meglio della solita solfa
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 26/11/2011
C’è un’Italia che, sulla stampa estera, sopravvive all'ormai solita solfa dei due Mario (Monti e Draghi) e di Mr B, della crisi e degli sprechi, dei titoli con interessi alle stelle e degli eurobonds che non ci sono. Magari, è l’Italia degli stereotipi, cultura e mafia, moda e sport, ma e' quasi una boccata d’aria pura, o almeno rassicurante, rispetto alle storie da cappa di piombo tutti i giorni in prima pagina, Non che siano tutte vicende di cui menare vanto: il Daily Mail, ad esempio, parla di moda, ma solo perché Gabbana chiama “ladri” gli agenti del fisco che sostengono che lui e Dolce hanno evaso somme enormi; e Le Figaro parla di Fiat solo perche' - dice - la 500 fa flop negli Usa. Anche cultura e turismo, di solito terreni amici, ci riservano qualche delusione: l’Independent smonta il mito della lupa del Campidoglio, che –secondo studiosi tedeschi- non sarebbe opera etrusca del V secolo a.C., ma medievale; e El Pais mette in dubbio l’efficacia del piano per salvare Venezia. La mostra su Leonardo alla reggia della Venaria raccoglie, invece, unanimi consensi; e la stampa d'Oltralpe cerca di farla propria, perche' quelli esposti sono capolavori ‘francesi’, esempio ante litteram di fuga dei cervelli dall'Italia, con Leonardo alla corte di Francesco I. Piace pure, specie ai britannici, la bara con antifurto chiamata -macabro marketing- ‘Mike’. Naturalmente il passato non e' proprio sepolto: il WSJ nelle sue conversazioni culturali s’interroga se l’Italia sia governabile; l’FT dà i voti ai ministri delle finanze dell’eurozona e piazza l'ex Tremonti al penultimo posto, giusto davanti al greco Venizelos; e la Bbc nota che l’Oxford Dictionnary voleva scegliere bunga bunga come parola dell’anno, ma poi ci ha ripensato. Il Telegraph, infine, ripropone una vecchia barzelletta sugli luoghi comuni europei, con la burocrazia dell’inferno gestita da italiani e greci. C’è da ridere? Piuttosto, c’è da piangere.
C’è un’Italia che, sulla stampa estera, sopravvive all'ormai solita solfa dei due Mario (Monti e Draghi) e di Mr B, della crisi e degli sprechi, dei titoli con interessi alle stelle e degli eurobonds che non ci sono. Magari, è l’Italia degli stereotipi, cultura e mafia, moda e sport, ma e' quasi una boccata d’aria pura, o almeno rassicurante, rispetto alle storie da cappa di piombo tutti i giorni in prima pagina, Non che siano tutte vicende di cui menare vanto: il Daily Mail, ad esempio, parla di moda, ma solo perché Gabbana chiama “ladri” gli agenti del fisco che sostengono che lui e Dolce hanno evaso somme enormi; e Le Figaro parla di Fiat solo perche' - dice - la 500 fa flop negli Usa. Anche cultura e turismo, di solito terreni amici, ci riservano qualche delusione: l’Independent smonta il mito della lupa del Campidoglio, che –secondo studiosi tedeschi- non sarebbe opera etrusca del V secolo a.C., ma medievale; e El Pais mette in dubbio l’efficacia del piano per salvare Venezia. La mostra su Leonardo alla reggia della Venaria raccoglie, invece, unanimi consensi; e la stampa d'Oltralpe cerca di farla propria, perche' quelli esposti sono capolavori ‘francesi’, esempio ante litteram di fuga dei cervelli dall'Italia, con Leonardo alla corte di Francesco I. Piace pure, specie ai britannici, la bara con antifurto chiamata -macabro marketing- ‘Mike’. Naturalmente il passato non e' proprio sepolto: il WSJ nelle sue conversazioni culturali s’interroga se l’Italia sia governabile; l’FT dà i voti ai ministri delle finanze dell’eurozona e piazza l'ex Tremonti al penultimo posto, giusto davanti al greco Venizelos; e la Bbc nota che l’Oxford Dictionnary voleva scegliere bunga bunga come parola dell’anno, ma poi ci ha ripensato. Il Telegraph, infine, ripropone una vecchia barzelletta sugli luoghi comuni europei, con la burocrazia dell’inferno gestita da italiani e greci. C’è da ridere? Piuttosto, c’è da piangere.
sabato 26 novembre 2011
Balcani: c'è chi, anche a Belgrado, ha paura della Serbia nell'Ue
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/11/2011
C’è qualcuno, anche a Belgrado, che ha paura della Serbia nell’Ue. E c’è pure qualcuno che ha paura della Serbia e basta. Appena Belgrado s’avvicina all’Ue subito scoppiano incidenti alla frontiera con il Kosovo. Questa volta accade, ed è difficile sia un caso, prima della visita a Bruxelles del presidente serbo Tadic: i leader dei 27 debbono decidere, il 9 dicembre, se accordare alla Serbia lo statuto di candidato all’adesione, come propone la Commissione europea. L’ultimo ostacolo è la mancanza di un dialogo “serio” tra Belgrado e Pristina per normalizzare le relazioni. A Tadic, il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy ricorda: “la cooperazione regionale e le relazioni di buon vicinato sono essenziali nel processo d’allargamento balcanico” dell’Unione. Serbi e kosovari hanno aperto un tavolo, in marzo, ma si sono subito bloccati sulla questione dei posti di confine. La Serbia non riconosce l’indipendenza del Kosovo, autoproclamata nel febbraio 2008 e poi avallata dalle autorità internazionali, e non accetta che la frontiera con il Kosovo sia considerata una frontiera fra Stati. L’altra notte, 21 militari della Kfor, la forza Nato lì presente, sono stati feriti, mentre cercavano di smantellare una delle barricate erette dai serbi del nord del Kosovo perché ci sono poliziotti e doganieri kosovari nei posti di confine. Attaccati dai manifestanti, i soldati hanno sparato colpi di avvertimento e tirato lacrimogeni, prima di desistere perché "le barricate non valgono la perdite di vite umane". Tadic e i leader di Belgrado, europeisti e riformatori, propensi a una linea moderata e negoziale, sono in imbarazzo davanti alla linea dura sostenuta dalle forze conservatrici e nazionaliste. E le elezioni politiche in primavera complicano i giochi.
C’è qualcuno, anche a Belgrado, che ha paura della Serbia nell’Ue. E c’è pure qualcuno che ha paura della Serbia e basta. Appena Belgrado s’avvicina all’Ue subito scoppiano incidenti alla frontiera con il Kosovo. Questa volta accade, ed è difficile sia un caso, prima della visita a Bruxelles del presidente serbo Tadic: i leader dei 27 debbono decidere, il 9 dicembre, se accordare alla Serbia lo statuto di candidato all’adesione, come propone la Commissione europea. L’ultimo ostacolo è la mancanza di un dialogo “serio” tra Belgrado e Pristina per normalizzare le relazioni. A Tadic, il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy ricorda: “la cooperazione regionale e le relazioni di buon vicinato sono essenziali nel processo d’allargamento balcanico” dell’Unione. Serbi e kosovari hanno aperto un tavolo, in marzo, ma si sono subito bloccati sulla questione dei posti di confine. La Serbia non riconosce l’indipendenza del Kosovo, autoproclamata nel febbraio 2008 e poi avallata dalle autorità internazionali, e non accetta che la frontiera con il Kosovo sia considerata una frontiera fra Stati. L’altra notte, 21 militari della Kfor, la forza Nato lì presente, sono stati feriti, mentre cercavano di smantellare una delle barricate erette dai serbi del nord del Kosovo perché ci sono poliziotti e doganieri kosovari nei posti di confine. Attaccati dai manifestanti, i soldati hanno sparato colpi di avvertimento e tirato lacrimogeni, prima di desistere perché "le barricate non valgono la perdite di vite umane". Tadic e i leader di Belgrado, europeisti e riformatori, propensi a una linea moderata e negoziale, sono in imbarazzo davanti alla linea dura sostenuta dalle forze conservatrici e nazionaliste. E le elezioni politiche in primavera complicano i giochi.
venerdì 25 novembre 2011
Italia-Ue-euro: l'erba e il fuscello, la crisi dei luoghi comuni
Scritto per il blog de il Fatto Quotidiano il 25/11/2011
Appena ci siamo rifatti il look, con un premier presentabile, subito torna a prenderci la sindrome de 'l'erba del vicino è sempre meno verde'. E, infatti, ecco che ricadiamo nel vecchio difetto evangelico: vediamo il fuscello nell'occhio del prossimo e non ci accorgiamo della trave nel nostro. L’italica stampa dà rilievo enorme alle difficoltà, che sono reali, francesi e tedesche, persino maggiore del rilievo loro dato dai media francesi e tedeschi, con un tono quasi di neppur troppo repressa soddisfazione: altro luogo comune, mal comune mezzo gaudio.
Neppure ci sfiora –si direbbe- la consapevolezza che, questa volta, il mal comune è un disastro per tutti. E dovrebbe almeno venirci il dubbio che il male degli altri è anche conseguenza del nostro dissesto, dei rischi di default a catena degli anelli deboli della moneta unica, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia.
Fortuna che, nei palazzi che contano, quelli nostri, e quelli europei, c’è gente con la testa sul collo e la memoria non troppo corta. Il governatore di BankItalia Visco dice che “in Italia la recessione è più profonda che altrove” e ripete che senza crescita sarà impossibile riequilibrare i conti. E denuncia l’incapacità di valorizzare le risorse umane, con i salari d’ingresso dei giovani fermi ai livelli di 10 anni or sono.
E il professor Monti torna carico di elogi e di attestati di fiducia dal triangolare di Strasburgo con la Merkel e Sarkozy, dov’è stato testimone di tensioni altrui, tra Parigi e Berlino. Ma torna pure con la determinazione di fare fare all'Italia i compiti a casa: un risanamento rapido e rigoroso, il pareggio di bilancio nel 2013.
E se i moniti di casa nostra non bastano ecco quelli europei. Il vice-presidente della Commissione europea Rehn, che è l’angelo custode messoci accanto dall’Ue in questa fase, avverte che l’Italia deve mantenere alta la guardia e passare all’azione e che il contagio della crisi va diffondendosi ai Paesi centrali dell’eurozona. I mercati ci tirano la giacca: il rendimento dei Btp a 2 anni vola al 7,495%, maggiore di quello dei decennali (è il record dalla nascita dell'euro). Noi che due giorni fa godevamo nei tg ancora dell’Ancien Regime perché la Germania faticava a piazzare i suoi titoli al 2% di interessi.
Visco avverte che le tensioni sui mercati rendono l’equilibrio del debito precario. Certo, la campanella della fine della ricreazione non suona solo per l’Italia: la Merkel e Sarkozy dovrebbero finirla di litigare sul ruolo della Bce, sull’introduzione degli eurobonds e sulla riforma dei Trattati; e tutti i leader dell’eurozona dovrebbero trovare in fretta coerenza tra analisi e azione. Ma noi smettiamo di guardare l’erba del vicino e l’occhio del prossimo: la nostra è gialla, ma c’è una trave che ci impedisce di rendercene conto.
Appena ci siamo rifatti il look, con un premier presentabile, subito torna a prenderci la sindrome de 'l'erba del vicino è sempre meno verde'. E, infatti, ecco che ricadiamo nel vecchio difetto evangelico: vediamo il fuscello nell'occhio del prossimo e non ci accorgiamo della trave nel nostro. L’italica stampa dà rilievo enorme alle difficoltà, che sono reali, francesi e tedesche, persino maggiore del rilievo loro dato dai media francesi e tedeschi, con un tono quasi di neppur troppo repressa soddisfazione: altro luogo comune, mal comune mezzo gaudio.
Neppure ci sfiora –si direbbe- la consapevolezza che, questa volta, il mal comune è un disastro per tutti. E dovrebbe almeno venirci il dubbio che il male degli altri è anche conseguenza del nostro dissesto, dei rischi di default a catena degli anelli deboli della moneta unica, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia.
Fortuna che, nei palazzi che contano, quelli nostri, e quelli europei, c’è gente con la testa sul collo e la memoria non troppo corta. Il governatore di BankItalia Visco dice che “in Italia la recessione è più profonda che altrove” e ripete che senza crescita sarà impossibile riequilibrare i conti. E denuncia l’incapacità di valorizzare le risorse umane, con i salari d’ingresso dei giovani fermi ai livelli di 10 anni or sono.
E il professor Monti torna carico di elogi e di attestati di fiducia dal triangolare di Strasburgo con la Merkel e Sarkozy, dov’è stato testimone di tensioni altrui, tra Parigi e Berlino. Ma torna pure con la determinazione di fare fare all'Italia i compiti a casa: un risanamento rapido e rigoroso, il pareggio di bilancio nel 2013.
E se i moniti di casa nostra non bastano ecco quelli europei. Il vice-presidente della Commissione europea Rehn, che è l’angelo custode messoci accanto dall’Ue in questa fase, avverte che l’Italia deve mantenere alta la guardia e passare all’azione e che il contagio della crisi va diffondendosi ai Paesi centrali dell’eurozona. I mercati ci tirano la giacca: il rendimento dei Btp a 2 anni vola al 7,495%, maggiore di quello dei decennali (è il record dalla nascita dell'euro). Noi che due giorni fa godevamo nei tg ancora dell’Ancien Regime perché la Germania faticava a piazzare i suoi titoli al 2% di interessi.
Visco avverte che le tensioni sui mercati rendono l’equilibrio del debito precario. Certo, la campanella della fine della ricreazione non suona solo per l’Italia: la Merkel e Sarkozy dovrebbero finirla di litigare sul ruolo della Bce, sull’introduzione degli eurobonds e sulla riforma dei Trattati; e tutti i leader dell’eurozona dovrebbero trovare in fretta coerenza tra analisi e azione. Ma noi smettiamo di guardare l’erba del vicino e l’occhio del prossimo: la nostra è gialla, ma c’è una trave che ci impedisce di rendercene conto.
giovedì 24 novembre 2011
Germania: Merkel denuncia pericolo neo-nazi, 10 vittime
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/11/2011
Angela Merkel è uno di quei milioni di cittadini tedeschi che convivono con la consapevolezza e il ricordo di un doppio passato totalitarista: quello nazista, che non appartiene loro direttamente (la Merkel è del 1954), ma alla storia del loro Paese e ai loro padri; e quello comunista, che lei, nata all’Est cittadina della Rdt e ‘riunificata’ alla Rfg solo dopo la caduta del Muro nel 1989, quando già aveva 35 anni, ha sperimentato in prima persona. Colpisce, dunque, ma non stupisce che la cancelliera, nel discorso al Bundestag consacrato ai problemi di bilancio, in una fase di crisi dell’economia mondiale e dell’Unione europea, trovi il modo e il tempo per denunciate l’inquietudine sua e del popolo tedesco di fronte alla “ perversione neonazista”: la Germania –ha detto- è "indignata dalle notizie sconvolgenti" sugli omicidi commessi dalla rete terroristica di estrema destra Clandestinità nazionalsocialista.
Alla denuncia del ritorno dei fantasmi del passato, violenza e razzismo, la Merkel ha dedicato le prime battute dell’intervento sulle previsioni di bilancio per il 2012: un discorso nel segno della crisi del debito che tiene in ansia l’Europa e fa pesare sulla Germania, economia leader dell’Ue, una responsabilità particolare. E proprio la crisi e l’incertezza sul futuro dei giovani riaccendono, dalla Scandinavia alla Grecia, persino nel Benelux un tempo modello d’integrazione e moderazione, e anche in Gran Bretagna, Francia, Italia, nei Paesi dell’Est fino a vent’anni fa comunisti, fermenti di xenofobia e di razzismo, d’intolleranza e di violenza. Più ancora dei sacrifici e del calo del tenore di vita, questa è la conseguenza peggiore della crisi economica e finanziaria: la perdita, o almeno la rarefazione, dei valori della solidarietà e dell’integrazione.
Cristiano-sociale, la cancelliera questi valori li porta dentro, anche se non sempre è sollecita nel praticarli, quando si tratta di soccorrere con risorse tedesche partner europei –ma quello è tutt’altro discorso-. Parlando con tono grave, vestita di nero, la Merkel ha elencato, di fronte ai deputati del Bundestag in silenzio, tutte le dieci vittime dei neonazisti. "La perversione del pensiero e dell'azione” neonazista “non inquieta solo me – ha detto - ma sconvolge i cittadini". E ha aggiunto: “Prendiamo molto sul serio il pericolo e studiamo tutti i possibili strumenti contro l'estremismo di destra, fino alla possibilità di vietare il partito". In Germania, è aperta, infatti, la discussione sulla messa al bando dell’ NPD. "Dobbiamo evitarci il rimprovero –è una preoccupazione della cancelliera- di essere stati ciechi": critiche sono state mosse agli organi della sicurezza e alle istituzioni, che ritengono che il fenomeno neonazista sia assolutamente circoscritto (ma, evidentemente, non sotto controllo).
Da una delle inchieste in corso, escono retroscena misteriosi sull'omicidio della giovane poliziotta Michele Kiesewetter da parte di un trio di neo-naziste: due si sono suicidate, la terza è in prigione dopo essersi costituita. Secondo l'antiterrorismo tedesco, l'omicidio della poliziotta sarebbe il frutto di legami oscuri tra il patrigno della giovane e la galassia estremista nell'Est della Germania: intrecci di relazioni personali e rivalità commerciali. Tra il 2000 ed il 2007, i neo-nazisti hanno ucciso per motivi razzisti nove cittadini turchi ed un greco.
La Merkel ha chiuso l’attacco anti-nazi del suo discorso avallando la decisione del Ministero della Giustizia di risarcire le famiglie delle vittime, che il presidente della Repubblica federale Christian Wulff incontrerà per testimoniare loro la solidarietà di tutto il Paese.
Poi, bando all’emozione e vai con l’Europa, alla vigilia del triangolare di Strasburgo con Monti e Sarkozy: sì a una riforma dei Trattati e una Unione anche fiscale; la Bce resti indipendente; e gli eurobonds così come proposti non funzionano, mentre una Tobin Tax è “la risposta giusta”.
Angela Merkel è uno di quei milioni di cittadini tedeschi che convivono con la consapevolezza e il ricordo di un doppio passato totalitarista: quello nazista, che non appartiene loro direttamente (la Merkel è del 1954), ma alla storia del loro Paese e ai loro padri; e quello comunista, che lei, nata all’Est cittadina della Rdt e ‘riunificata’ alla Rfg solo dopo la caduta del Muro nel 1989, quando già aveva 35 anni, ha sperimentato in prima persona. Colpisce, dunque, ma non stupisce che la cancelliera, nel discorso al Bundestag consacrato ai problemi di bilancio, in una fase di crisi dell’economia mondiale e dell’Unione europea, trovi il modo e il tempo per denunciate l’inquietudine sua e del popolo tedesco di fronte alla “ perversione neonazista”: la Germania –ha detto- è "indignata dalle notizie sconvolgenti" sugli omicidi commessi dalla rete terroristica di estrema destra Clandestinità nazionalsocialista.
Alla denuncia del ritorno dei fantasmi del passato, violenza e razzismo, la Merkel ha dedicato le prime battute dell’intervento sulle previsioni di bilancio per il 2012: un discorso nel segno della crisi del debito che tiene in ansia l’Europa e fa pesare sulla Germania, economia leader dell’Ue, una responsabilità particolare. E proprio la crisi e l’incertezza sul futuro dei giovani riaccendono, dalla Scandinavia alla Grecia, persino nel Benelux un tempo modello d’integrazione e moderazione, e anche in Gran Bretagna, Francia, Italia, nei Paesi dell’Est fino a vent’anni fa comunisti, fermenti di xenofobia e di razzismo, d’intolleranza e di violenza. Più ancora dei sacrifici e del calo del tenore di vita, questa è la conseguenza peggiore della crisi economica e finanziaria: la perdita, o almeno la rarefazione, dei valori della solidarietà e dell’integrazione.
Cristiano-sociale, la cancelliera questi valori li porta dentro, anche se non sempre è sollecita nel praticarli, quando si tratta di soccorrere con risorse tedesche partner europei –ma quello è tutt’altro discorso-. Parlando con tono grave, vestita di nero, la Merkel ha elencato, di fronte ai deputati del Bundestag in silenzio, tutte le dieci vittime dei neonazisti. "La perversione del pensiero e dell'azione” neonazista “non inquieta solo me – ha detto - ma sconvolge i cittadini". E ha aggiunto: “Prendiamo molto sul serio il pericolo e studiamo tutti i possibili strumenti contro l'estremismo di destra, fino alla possibilità di vietare il partito". In Germania, è aperta, infatti, la discussione sulla messa al bando dell’ NPD. "Dobbiamo evitarci il rimprovero –è una preoccupazione della cancelliera- di essere stati ciechi": critiche sono state mosse agli organi della sicurezza e alle istituzioni, che ritengono che il fenomeno neonazista sia assolutamente circoscritto (ma, evidentemente, non sotto controllo).
Da una delle inchieste in corso, escono retroscena misteriosi sull'omicidio della giovane poliziotta Michele Kiesewetter da parte di un trio di neo-naziste: due si sono suicidate, la terza è in prigione dopo essersi costituita. Secondo l'antiterrorismo tedesco, l'omicidio della poliziotta sarebbe il frutto di legami oscuri tra il patrigno della giovane e la galassia estremista nell'Est della Germania: intrecci di relazioni personali e rivalità commerciali. Tra il 2000 ed il 2007, i neo-nazisti hanno ucciso per motivi razzisti nove cittadini turchi ed un greco.
La Merkel ha chiuso l’attacco anti-nazi del suo discorso avallando la decisione del Ministero della Giustizia di risarcire le famiglie delle vittime, che il presidente della Repubblica federale Christian Wulff incontrerà per testimoniare loro la solidarietà di tutto il Paese.
Poi, bando all’emozione e vai con l’Europa, alla vigilia del triangolare di Strasburgo con Monti e Sarkozy: sì a una riforma dei Trattati e una Unione anche fiscale; la Bce resti indipendente; e gli eurobonds così come proposti non funzionano, mentre una Tobin Tax è “la risposta giusta”.
mercoledì 23 novembre 2011
Ue: Monti il Professore sale in cattedra d'economia ed Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2011
Europa ed economia: il Professore sale in cattedra; e l’Italia torna a galla. Il triangolo dei Grandi che fondarono la Cee, anzi il Mec, Francia, Germania e Italia -l’ordine è alfabetico-, si ricostituirà domani a Strasburgo. Lì, è Monti che può tecnicamente spiegare alla Merkel e a Sarkozy come stanno le cose e che cosa bisogna fare per uscire dalla crisi. In cambio, Angela e Nicolas possono dare a Mario consigli di politica. Il Vertice a tre, nella città simbolo dell’integrazione europea, dove il Reno unisce, e non divide, Francia e Germania, piace molto a Monti, ma forse ancora di più a Sarkozy, adesso che l’onda del declassamento delle agenzie di rating rischia di investire pure la Francia: con l’Italia in gioco, lui non è più il fianco debole, come accade nel rapporto a due con la Germania. Certo, ci deve essere misura. Monti arriva a Strasburgo ancora ammantato d’una credibilità (quasi) integra e dopo avere ricevuto un’accoglienza scontatamente positiva, ieri, a Bruxelles, da parte dei vertici delle istituzioni comunitarie (Van Rompuy e Barroso sono stati concordi: la sfida è immensa, ma questa Italia ce la può fare davvero) . Il premier non dovrà però cadere nella tentazione di mostrare ai suoi interlocutori il lato accademico della superiorità intellettuale: l’Italia resta sull’orlo del baratro, non è fuori dai rischi. E la Merkel e Sarkozy, che già ebbero un sorrisino di troppo il mese scorso a Bruxelles, dovranno evitare atteggiamenti paternalistici, di benevola condiscendenza. L’Italia di Monti è un partner credibile, che merita rispetto a priori, ma che deve pure meritarsi il rispetto in corso d’opera.
Europa ed economia: il Professore sale in cattedra; e l’Italia torna a galla. Il triangolo dei Grandi che fondarono la Cee, anzi il Mec, Francia, Germania e Italia -l’ordine è alfabetico-, si ricostituirà domani a Strasburgo. Lì, è Monti che può tecnicamente spiegare alla Merkel e a Sarkozy come stanno le cose e che cosa bisogna fare per uscire dalla crisi. In cambio, Angela e Nicolas possono dare a Mario consigli di politica. Il Vertice a tre, nella città simbolo dell’integrazione europea, dove il Reno unisce, e non divide, Francia e Germania, piace molto a Monti, ma forse ancora di più a Sarkozy, adesso che l’onda del declassamento delle agenzie di rating rischia di investire pure la Francia: con l’Italia in gioco, lui non è più il fianco debole, come accade nel rapporto a due con la Germania. Certo, ci deve essere misura. Monti arriva a Strasburgo ancora ammantato d’una credibilità (quasi) integra e dopo avere ricevuto un’accoglienza scontatamente positiva, ieri, a Bruxelles, da parte dei vertici delle istituzioni comunitarie (Van Rompuy e Barroso sono stati concordi: la sfida è immensa, ma questa Italia ce la può fare davvero) . Il premier non dovrà però cadere nella tentazione di mostrare ai suoi interlocutori il lato accademico della superiorità intellettuale: l’Italia resta sull’orlo del baratro, non è fuori dai rischi. E la Merkel e Sarkozy, che già ebbero un sorrisino di troppo il mese scorso a Bruxelles, dovranno evitare atteggiamenti paternalistici, di benevola condiscendenza. L’Italia di Monti è un partner credibile, che merita rispetto a priori, ma che deve pure meritarsi il rispetto in corso d’opera.
Belgio: dirupo continuo, tecnico cercasi dopo 530 giorni di crisi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2011
AAA, cercasi un Monti fiammingo o un Papademos francofono per Paese piccolo ma diviso, tutto preso dalle sue beghe e a rischio di finire ingoiato dalla crisi del debito: un tecnico, un altro, nell’Europa della democrazia che non riesce più ad avere risposte dalla politica? E’ una delle vie d’uscita possibili, ancora solo teorica, all’ennesimo ‘psicodramma’ politico-economico-linguistico del Belgio, uno dei Paesi fondatori dell’Ue, cresciuto dentro quel laboratorio dell’integrazione costituito dal Benelux.
Un intoppo nei negoziati induce alle dimissioni il premier designato, Elio Di Rupo, socialista, francofono, d'origine italiana. Il re Alberto II ha subito avviato consultazioni d’urgenza: ieri, ha ricevuto i responsabili dei sei partiti che trattano il programma di un esecutivo, a quasi 530 giorni ormai dalle elezioni politiche del giugno 2010. Il re ha convocato i leader politici in un castello di campagna nelle Ardenne, dove trascorre la convalescenza dopo un'operazione al naso.
Uno può pensare: giorno più giorno meno, che differenza fa? Il Belgio se l’è cavata benissimo per un anno e mezzo con un governo in carica per gli affari correnti, può andare avanti così un altro po’ che non se n’accorge nessuno. E invece no, perché sta per scattare la tagliola: a fine anno, il premier in carica Yves Leterme, cattolico, fiammingo, se ne andrà a Parigi a fare il vice-segretario generale dell’Ocse. E, allora, bisogna darsi una mossa; o tornare a votare.
Di Rupo, leader del partito che ha ottenuto più suffragi, ha presentato lunedì le sue dimissioni, dopo avere constatato che le trattative s'erano bloccate sui problemi di bilancio, che in Belgio, in genere, non sono i più spinosi, perché, nelle priorità dei partiti, vengono dopo le relazioni fra i francofoni (a sud: un terzo della popolazione, socialisti) e i fiamminghi (a nord: due terzi della popolazione, cattolici).
Il re tiene le dimissioni di Di Rupo 'congelate': invita i partiti a "prendersi il tempo di riflettere" (ma i 18 mesi trascorsi a che cosa sono serviti?), per "misurare le conseguenze d'un fallimento" e, quindi, "cercare attivamente una soluzione". Non e' la prima volta che il re, l’ultimo e forse unico simbolo riconosciuto dell’unità nazionale, insieme alla nazionale di calcio (da tempo deludente), interviene con energia: a luglio, nel giorno della Festa nazionale, sbloccò uno stallo che pareva senza via d’uscita.
La soluzione più gettonata e' quella di una ripresa delle trattative, sempre sotto la regia di Di Rupo, che si sarebbe fatto prendere da un momento di irritazione e di frustrazione. C'e' chi l'invita a non gettare la spugna, ma c'e' pure chi denuncia la teatralizzazione della crisi per sparigliare i negoziati, lanciati in luglio con l’esclusione del maggiore partito fiammingo, l’N-Va indipendentista, e dei Verdi.
In effetti, Di Rupo s’è fatto la sua sceneggiata, più da italiano che da belga, quando le posizioni parevano vicine: resta da decidere come risparmiare una ventina di miliardi in tutto di qui al 2015. Che sia bluff o rottura si vedrà. Ma i mercati sono subito divenuti turbolenti; e i tassi d’interesse sui titoli di Stato a dieci anni si sono impennati, superando la soglia del 5%.
AAA, cercasi un Monti fiammingo o un Papademos francofono per Paese piccolo ma diviso, tutto preso dalle sue beghe e a rischio di finire ingoiato dalla crisi del debito: un tecnico, un altro, nell’Europa della democrazia che non riesce più ad avere risposte dalla politica? E’ una delle vie d’uscita possibili, ancora solo teorica, all’ennesimo ‘psicodramma’ politico-economico-linguistico del Belgio, uno dei Paesi fondatori dell’Ue, cresciuto dentro quel laboratorio dell’integrazione costituito dal Benelux.
Un intoppo nei negoziati induce alle dimissioni il premier designato, Elio Di Rupo, socialista, francofono, d'origine italiana. Il re Alberto II ha subito avviato consultazioni d’urgenza: ieri, ha ricevuto i responsabili dei sei partiti che trattano il programma di un esecutivo, a quasi 530 giorni ormai dalle elezioni politiche del giugno 2010. Il re ha convocato i leader politici in un castello di campagna nelle Ardenne, dove trascorre la convalescenza dopo un'operazione al naso.
Uno può pensare: giorno più giorno meno, che differenza fa? Il Belgio se l’è cavata benissimo per un anno e mezzo con un governo in carica per gli affari correnti, può andare avanti così un altro po’ che non se n’accorge nessuno. E invece no, perché sta per scattare la tagliola: a fine anno, il premier in carica Yves Leterme, cattolico, fiammingo, se ne andrà a Parigi a fare il vice-segretario generale dell’Ocse. E, allora, bisogna darsi una mossa; o tornare a votare.
Di Rupo, leader del partito che ha ottenuto più suffragi, ha presentato lunedì le sue dimissioni, dopo avere constatato che le trattative s'erano bloccate sui problemi di bilancio, che in Belgio, in genere, non sono i più spinosi, perché, nelle priorità dei partiti, vengono dopo le relazioni fra i francofoni (a sud: un terzo della popolazione, socialisti) e i fiamminghi (a nord: due terzi della popolazione, cattolici).
Il re tiene le dimissioni di Di Rupo 'congelate': invita i partiti a "prendersi il tempo di riflettere" (ma i 18 mesi trascorsi a che cosa sono serviti?), per "misurare le conseguenze d'un fallimento" e, quindi, "cercare attivamente una soluzione". Non e' la prima volta che il re, l’ultimo e forse unico simbolo riconosciuto dell’unità nazionale, insieme alla nazionale di calcio (da tempo deludente), interviene con energia: a luglio, nel giorno della Festa nazionale, sbloccò uno stallo che pareva senza via d’uscita.
La soluzione più gettonata e' quella di una ripresa delle trattative, sempre sotto la regia di Di Rupo, che si sarebbe fatto prendere da un momento di irritazione e di frustrazione. C'e' chi l'invita a non gettare la spugna, ma c'e' pure chi denuncia la teatralizzazione della crisi per sparigliare i negoziati, lanciati in luglio con l’esclusione del maggiore partito fiammingo, l’N-Va indipendentista, e dei Verdi.
In effetti, Di Rupo s’è fatto la sua sceneggiata, più da italiano che da belga, quando le posizioni parevano vicine: resta da decidere come risparmiare una ventina di miliardi in tutto di qui al 2015. Che sia bluff o rottura si vedrà. Ma i mercati sono subito divenuti turbolenti; e i tassi d’interesse sui titoli di Stato a dieci anni si sono impennati, superando la soglia del 5%.
venerdì 18 novembre 2011
Governo Monti: c'è chi dice no, studenti e mercati
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/11/2011
Monti non placa né il nervosismo dei mercati né la protesta dei giovani: era illusorio attenderselo d’un giorno all’altro. Il professore presenta al Senato il programma del suo governo, mentre cortei di studenti e precari percorrono una sessantina di città italiane; e le borse europee chiudono in calo. Lo spread italiano va un po’ giù, ma resta su quota 500, mentre tocca nuovi record in Francia e sale in Spagna.
Ovunque nel Mondo, studenti e precari volevano ieri affermare il diritto allo studio e la loro volontà di non fare le spese della crisi. In Italia, le manifestazioni vivono momenti di tensione, a Roma e Palermo, a Milano e Cagliari, a Torino e Napoli, a Bolzano e Bari, a Firenze e Cagliari, un po’ ovunque. Ci sono fermi e denunce, contusi e feriti fra poliziotti e manifestanti: a Milano, un cronista de Il Fatto, Franz Baraggino, viene colpito da un fumogeno sotto l’occhio, perde molto sangue, ma fortunatamente non è grave-.
Nulla di paragonabile alle violenze avvenute a Roma il 15 ottobre, ma la conferma che l’ansia resta alta fra i giovani. Il discorso del premier al Senato non è fatto per placarla: Monti punta su rigore di bilancio, ma anche su crescita ed equità. “L’Europa siamo noi”, dice: prevede “sacrifici” condivisi per la crescita e sforzi per il lavoro di donne e giovani, interventi su pensioni e Ici, tagli ai costi della politica.
Segnali magari positivi a medio termine. Ma la parola che resta dentro è inevitabilmente “sacrifici”. Anche se di fronte al disagio giovanile il cambio di tono è netto: Elsa Fornero, ministro del welfare, dice “Li ascolteremo, prenderemo in considerazione le ragioni della protesta” (e non ‘li picchieremo più forte la prossima volta’, che era l’idea dei La Russa e Maroni che furono). Francesco Profumo, ministro dell’istruzione, apre al dialogo (ma niente violenze, ammonisce).
Nelle piazze italiane, la protesta di studenti e precari ha intensità e obiettivi diversi. A Milano, dove il corteo si dirige verso la sede della Bocconi, l’università simbolo della svolta Monti, la polizia carica i giovani, che tentano poi un blitz contro la sede dell’Abi. A Palermo, i manifestanti lanciano uova contro le sedi di alcune banche e cercano di occuparne una, sparando candelotti fumogeni.
A Roma, studenti e Cobas sfilano insieme, da piazza della Repubblica a Sant’Andrea della Valle, vicino al Senato, “contro il governo delle iper-liberalizzazioni”: hanno striscioni che dicono “No alla distruzione della scuola pubblica”. Il traffico va in tilt, i giovani provano a raggiungere la sede della Sapienza: bloccati. A Torino, i crisantemi avanzati dal 2 novembre finiscono davanti alla sede dell’Unione Industriali. Ovunque, caos nelle strade e banche assediate –o addirittura ‘incatenate’, come BankItalia a Firenze-.
Altrove, il movimento degli indignati, in America, ma anche in Europa, specie a Londra, è sotto attacco: in Usa, le autorità impongono ai manifestanti di sgomberare i loro campi. Fa eccezione Boston, dove un giudice concede loro, sia pure provvisoriamente, fino al 1.o dicembre, di tenere tende e sacchi a pelo nel quartier generale di Dewey Square, in nome della “libertà di espressione” che la Costituzione americana riconosce a tutti i cittadini. A San Francisco, la protesta di studenti della University of California davanti alla filiale della Bank of America finisce con l’arresto di un centinaio di giovani, nonostante non vi siano violenze.
Piazze in subbuglio, mercati in affanno: lo spread apre sui 530 punti, scende a 510 dopo il discorso di Monti, finisce intorno a 500, ma in Francia è record a quota 2000 e crescono i timori di contagio in Spagna, dove domenica si vota –è sarà l’ultima tessera del domino dei governi dei Piigs a cadere. L’euro si indebolisce sul dollaro, nonostante l’agenzia di rating Fitch gli inietti un po’ d’ottimismo: il governo Monti può essere la sorpresa positiva, potrebbe rompere la dinamica negativa dei mercati e fare calare lo spread.
Anche leader europei ed eurocrati danno credito a Monti e vedono in lui e nel suo governo "il segno della determinazione dell’Italia a superare la crisi attuale”. Barroso e Van Rompuy, che dichiara “piena fiducia” che “l’Italia saprà risolvere i suoi problemi”, aspettano il premier a Bruxelles. Non c’è ancora una data precisa, ma, nelle prossime settimane, fra Vertici europei, riunioni dei ministri dell’Ecofin e dell’eurozona e incontri bilaterali il presidente del Consiglio e ministro dell’economia dovrà essere spesso a Bruxelles.
Buone parole pure nella lettera a Monti di Angela Merkel: “L’Italia è un Paese forte con buone basi economiche. L’Europa è pronta a sostenerla, se realizzerà subito le riforme cruciali necessarie”.
Monti non placa né il nervosismo dei mercati né la protesta dei giovani: era illusorio attenderselo d’un giorno all’altro. Il professore presenta al Senato il programma del suo governo, mentre cortei di studenti e precari percorrono una sessantina di città italiane; e le borse europee chiudono in calo. Lo spread italiano va un po’ giù, ma resta su quota 500, mentre tocca nuovi record in Francia e sale in Spagna.
Ovunque nel Mondo, studenti e precari volevano ieri affermare il diritto allo studio e la loro volontà di non fare le spese della crisi. In Italia, le manifestazioni vivono momenti di tensione, a Roma e Palermo, a Milano e Cagliari, a Torino e Napoli, a Bolzano e Bari, a Firenze e Cagliari, un po’ ovunque. Ci sono fermi e denunce, contusi e feriti fra poliziotti e manifestanti: a Milano, un cronista de Il Fatto, Franz Baraggino, viene colpito da un fumogeno sotto l’occhio, perde molto sangue, ma fortunatamente non è grave-.
Nulla di paragonabile alle violenze avvenute a Roma il 15 ottobre, ma la conferma che l’ansia resta alta fra i giovani. Il discorso del premier al Senato non è fatto per placarla: Monti punta su rigore di bilancio, ma anche su crescita ed equità. “L’Europa siamo noi”, dice: prevede “sacrifici” condivisi per la crescita e sforzi per il lavoro di donne e giovani, interventi su pensioni e Ici, tagli ai costi della politica.
Segnali magari positivi a medio termine. Ma la parola che resta dentro è inevitabilmente “sacrifici”. Anche se di fronte al disagio giovanile il cambio di tono è netto: Elsa Fornero, ministro del welfare, dice “Li ascolteremo, prenderemo in considerazione le ragioni della protesta” (e non ‘li picchieremo più forte la prossima volta’, che era l’idea dei La Russa e Maroni che furono). Francesco Profumo, ministro dell’istruzione, apre al dialogo (ma niente violenze, ammonisce).
Nelle piazze italiane, la protesta di studenti e precari ha intensità e obiettivi diversi. A Milano, dove il corteo si dirige verso la sede della Bocconi, l’università simbolo della svolta Monti, la polizia carica i giovani, che tentano poi un blitz contro la sede dell’Abi. A Palermo, i manifestanti lanciano uova contro le sedi di alcune banche e cercano di occuparne una, sparando candelotti fumogeni.
A Roma, studenti e Cobas sfilano insieme, da piazza della Repubblica a Sant’Andrea della Valle, vicino al Senato, “contro il governo delle iper-liberalizzazioni”: hanno striscioni che dicono “No alla distruzione della scuola pubblica”. Il traffico va in tilt, i giovani provano a raggiungere la sede della Sapienza: bloccati. A Torino, i crisantemi avanzati dal 2 novembre finiscono davanti alla sede dell’Unione Industriali. Ovunque, caos nelle strade e banche assediate –o addirittura ‘incatenate’, come BankItalia a Firenze-.
Altrove, il movimento degli indignati, in America, ma anche in Europa, specie a Londra, è sotto attacco: in Usa, le autorità impongono ai manifestanti di sgomberare i loro campi. Fa eccezione Boston, dove un giudice concede loro, sia pure provvisoriamente, fino al 1.o dicembre, di tenere tende e sacchi a pelo nel quartier generale di Dewey Square, in nome della “libertà di espressione” che la Costituzione americana riconosce a tutti i cittadini. A San Francisco, la protesta di studenti della University of California davanti alla filiale della Bank of America finisce con l’arresto di un centinaio di giovani, nonostante non vi siano violenze.
Piazze in subbuglio, mercati in affanno: lo spread apre sui 530 punti, scende a 510 dopo il discorso di Monti, finisce intorno a 500, ma in Francia è record a quota 2000 e crescono i timori di contagio in Spagna, dove domenica si vota –è sarà l’ultima tessera del domino dei governi dei Piigs a cadere. L’euro si indebolisce sul dollaro, nonostante l’agenzia di rating Fitch gli inietti un po’ d’ottimismo: il governo Monti può essere la sorpresa positiva, potrebbe rompere la dinamica negativa dei mercati e fare calare lo spread.
Anche leader europei ed eurocrati danno credito a Monti e vedono in lui e nel suo governo "il segno della determinazione dell’Italia a superare la crisi attuale”. Barroso e Van Rompuy, che dichiara “piena fiducia” che “l’Italia saprà risolvere i suoi problemi”, aspettano il premier a Bruxelles. Non c’è ancora una data precisa, ma, nelle prossime settimane, fra Vertici europei, riunioni dei ministri dell’Ecofin e dell’eurozona e incontri bilaterali il presidente del Consiglio e ministro dell’economia dovrà essere spesso a Bruxelles.
Buone parole pure nella lettera a Monti di Angela Merkel: “L’Italia è un Paese forte con buone basi economiche. L’Europa è pronta a sostenerla, se realizzerà subito le riforme cruciali necessarie”.
giovedì 17 novembre 2011
Monti: governo, mondo da dividere in terzi, slalom e paletti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/11/2011
Quanti paletti! Il ministro degli esteri del governo Monti , l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, dovrà fare lo slalom tra le competenze sue e dei suoi colleghi. Bergamasco, da quasi 40 anni in carriera, rappresentante dell’Italia all’Onu tra il 2008 e il 2009 e poi ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, Terzi è l’uomo che Berlusconi aveva scelto per garantirsi buoni rapporti con l’Amministrazione Obama: ha, dunque, le credenziali per reggere uno dei due pilastri della politica estera italiana, le relazioni transatlantiche. Ma, ora, la priorità è l’Europa: lì Monti s’affida a Enzo Moavero, suo capo gabinetto alla Commissione europea. Moavero conosce benissimo le istituzioni comunitarie, di cui è stato apprezzatissimo alto funzionario e, fino a ieri, presidente di sezione del Tribunale di Lussemburgo. Un altro capitolo trascurato della politica estera, la cooperazione internazionale, è affidato ad Andrea Riccardi: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio è l’uomo giusto al posto giusto. Riccardi e Moavero, che dopo il giuramento esce a piedi da Palazzo Chigi, sono segnali di discontinuità, oltre che –come Terzi- garanzie di competenza.
Quanti paletti! Il ministro degli esteri del governo Monti , l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, dovrà fare lo slalom tra le competenze sue e dei suoi colleghi. Bergamasco, da quasi 40 anni in carriera, rappresentante dell’Italia all’Onu tra il 2008 e il 2009 e poi ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, Terzi è l’uomo che Berlusconi aveva scelto per garantirsi buoni rapporti con l’Amministrazione Obama: ha, dunque, le credenziali per reggere uno dei due pilastri della politica estera italiana, le relazioni transatlantiche. Ma, ora, la priorità è l’Europa: lì Monti s’affida a Enzo Moavero, suo capo gabinetto alla Commissione europea. Moavero conosce benissimo le istituzioni comunitarie, di cui è stato apprezzatissimo alto funzionario e, fino a ieri, presidente di sezione del Tribunale di Lussemburgo. Un altro capitolo trascurato della politica estera, la cooperazione internazionale, è affidato ad Andrea Riccardi: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio è l’uomo giusto al posto giusto. Riccardi e Moavero, che dopo il giuramento esce a piedi da Palazzo Chigi, sono segnali di discontinuità, oltre che –come Terzi- garanzie di competenza.
Ue: Italia, sollievo globale, Monti fai presto o la crisi ci prende
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/11/2011
Nell’Europa ‘a rischio sistemico’ di default e di implosione, tutti vanno di corsa, per evitare che tutto precipiti:: pubbliche o riservate, le attestazioni di stima e di apprezzamento per il governo Monti cominciano ad arrivare mentre ancora le agenzie di stampa stanno battendo la lista dei ministri. Il presidente Napolitano coglie subito “un clima positivo”, perché “l’Europa manda buoni segnali”. Al Quirinale, sono confluiti in questi giorni molti messaggi per Monti. Una fonte dice: “Tutti lo vogliono vedere, hanno fretta di incontrarlo”. E, infatti, l’agenda del premier è già fitta di incontri da perfezionare nei tempi, ma sicuri: a Bruxelles, con Sarkozy e con la Merkel.
Il primo contatto diretto con i vertici europei dopo il giuramento da presidente del Consiglio nel pomeriggio e' al telefono con il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy. Ma il primo messaggio europeo ‘pesante’ viene dal presidente francese Nicolas Sarkozy: una lettera in cui si afferma che la Francia è pronta “a cooperare strettamente” con il Governo italiano. “Le settimane a venire saranno decisive. Insieme, ce la faremo”. Anche la Merkel, che si aspetta da Monti “riforme”, vuole vederlo presto.
Una fonte diplomatica spiega a Il Fatto che Parigi desidera un ritorno in forze dell’Italia sulla scena europea: il direttorio franco-tedesco è una realtà, ma, nel direttorio, la Germania pesa più della Francia. Se il rapporto fra i grandi dell’Unione diventa triangolare, Parigi con l’aiuto di Roma può riequilibrare il dialogo con Berlino.
Ora, però, c’è da tirarsi fuori dai guai. Che non sono solo greci e italiani, Jean-Claude Juncker, presidente dell’eurogruppo, dice che “il governo Monti è una buona notizia per l’Italia e per tutta l’eurozona”. E, per fare capire che nessuno è fuori pericolo, segnala, al quotidiano tedesco General Anzeiger, che Berlino vede la trave nell’occhio del vicino, ma non la pagliuzza nel proprio, perché “Il debito tedesco è più alto di quello spagnolo, ma in Germania nessuno vuole sentirne parlare”.
Per Van Rompuy, l’uscita della Grecia dall’euro porterebbe “a scenari disastrosi”; e non parliamo di quella dell’Italia. Lui e il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso dipingono al Parlamento europeo un quadro fosco, proprio mentre, invece, da Roma e da Atene vengono segnali buoni: Monti forma il governo e s’insedia; il nuovo premier greco Lucas Papademos, per molti versi simile al professore italiano, ottiene la fiducia sul programma anti-crisi presentato lunedì con un voto che è quasi un plebiscito, 250 sì su 300 votanti.
Dai mercati, vengono, però, segnali più contraddittori. In un twitter, l’economista Nouriel Roubini si rallegra con Monti per avere formato “in poco tempo un governo serio, tecnico, competente e affidabile”, ma avverte che “le sfide sono formidabili”, tanto più che c’è alta tensione sui titoli di Stato europei, specie francesi. La tripla A transalpina è appesa a un filo, lo spread italiano non si riduce in modo sensibile –resta a quota 500-, le borse vanno un po’ su un po’ giù “e persistono problemi di liquidità gravi per le banche italiane”. Un altro economista, Jean-Paul Fitoussi, tende, invece, a dare tempo a Monti, perché “i mercati non sono la bussola” –Van Rompuy ne giudica le reazioni “eccessive”-.
Al Parlamento di Strasburgo, Barroso dice che “la crisi è sistemica” e che servono “misure aggiuntive”. E Van Rompuy insiste sulla necessità di una condivisione di sovranità. La Merkel è pronta: vuole una riforma dei Trattati. Van Rompuy promette “idee” su come farlo entro giugno, ma Barroso non s’illude che questa sia una risposta “a breve”: invita a una sorta di ‘patrimoniale’ europea e prepara una proposta di eurobond. Pure il presidente Obama, da Washington, si fa sentire: è profondamente preoccupato dalle turbolenze nell’eurozona e chiede agli europei “di sostenere il loro progetto”.
La soluzione della crisi italiani suscita echi politici nell’Assemblea comunitaria. David Sassoli, presidente degli eurodeputati del Pd, giudica la squadra di Monti “dalla forte impronta europea, autorevole e innovativa”. Mario Mauro, capofila Pdl, fa, invece, “prove di grande centro” con un riavvicinamento europeo tra Pdl, Udc e Fli: “Faremo da battistrada” –annuncia- a quanto potrà avvenire in Italia.
Nell’Europa ‘a rischio sistemico’ di default e di implosione, tutti vanno di corsa, per evitare che tutto precipiti:: pubbliche o riservate, le attestazioni di stima e di apprezzamento per il governo Monti cominciano ad arrivare mentre ancora le agenzie di stampa stanno battendo la lista dei ministri. Il presidente Napolitano coglie subito “un clima positivo”, perché “l’Europa manda buoni segnali”. Al Quirinale, sono confluiti in questi giorni molti messaggi per Monti. Una fonte dice: “Tutti lo vogliono vedere, hanno fretta di incontrarlo”. E, infatti, l’agenda del premier è già fitta di incontri da perfezionare nei tempi, ma sicuri: a Bruxelles, con Sarkozy e con la Merkel.
Il primo contatto diretto con i vertici europei dopo il giuramento da presidente del Consiglio nel pomeriggio e' al telefono con il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy. Ma il primo messaggio europeo ‘pesante’ viene dal presidente francese Nicolas Sarkozy: una lettera in cui si afferma che la Francia è pronta “a cooperare strettamente” con il Governo italiano. “Le settimane a venire saranno decisive. Insieme, ce la faremo”. Anche la Merkel, che si aspetta da Monti “riforme”, vuole vederlo presto.
Una fonte diplomatica spiega a Il Fatto che Parigi desidera un ritorno in forze dell’Italia sulla scena europea: il direttorio franco-tedesco è una realtà, ma, nel direttorio, la Germania pesa più della Francia. Se il rapporto fra i grandi dell’Unione diventa triangolare, Parigi con l’aiuto di Roma può riequilibrare il dialogo con Berlino.
Ora, però, c’è da tirarsi fuori dai guai. Che non sono solo greci e italiani, Jean-Claude Juncker, presidente dell’eurogruppo, dice che “il governo Monti è una buona notizia per l’Italia e per tutta l’eurozona”. E, per fare capire che nessuno è fuori pericolo, segnala, al quotidiano tedesco General Anzeiger, che Berlino vede la trave nell’occhio del vicino, ma non la pagliuzza nel proprio, perché “Il debito tedesco è più alto di quello spagnolo, ma in Germania nessuno vuole sentirne parlare”.
Per Van Rompuy, l’uscita della Grecia dall’euro porterebbe “a scenari disastrosi”; e non parliamo di quella dell’Italia. Lui e il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso dipingono al Parlamento europeo un quadro fosco, proprio mentre, invece, da Roma e da Atene vengono segnali buoni: Monti forma il governo e s’insedia; il nuovo premier greco Lucas Papademos, per molti versi simile al professore italiano, ottiene la fiducia sul programma anti-crisi presentato lunedì con un voto che è quasi un plebiscito, 250 sì su 300 votanti.
Dai mercati, vengono, però, segnali più contraddittori. In un twitter, l’economista Nouriel Roubini si rallegra con Monti per avere formato “in poco tempo un governo serio, tecnico, competente e affidabile”, ma avverte che “le sfide sono formidabili”, tanto più che c’è alta tensione sui titoli di Stato europei, specie francesi. La tripla A transalpina è appesa a un filo, lo spread italiano non si riduce in modo sensibile –resta a quota 500-, le borse vanno un po’ su un po’ giù “e persistono problemi di liquidità gravi per le banche italiane”. Un altro economista, Jean-Paul Fitoussi, tende, invece, a dare tempo a Monti, perché “i mercati non sono la bussola” –Van Rompuy ne giudica le reazioni “eccessive”-.
Al Parlamento di Strasburgo, Barroso dice che “la crisi è sistemica” e che servono “misure aggiuntive”. E Van Rompuy insiste sulla necessità di una condivisione di sovranità. La Merkel è pronta: vuole una riforma dei Trattati. Van Rompuy promette “idee” su come farlo entro giugno, ma Barroso non s’illude che questa sia una risposta “a breve”: invita a una sorta di ‘patrimoniale’ europea e prepara una proposta di eurobond. Pure il presidente Obama, da Washington, si fa sentire: è profondamente preoccupato dalle turbolenze nell’eurozona e chiede agli europei “di sostenere il loro progetto”.
La soluzione della crisi italiani suscita echi politici nell’Assemblea comunitaria. David Sassoli, presidente degli eurodeputati del Pd, giudica la squadra di Monti “dalla forte impronta europea, autorevole e innovativa”. Mario Mauro, capofila Pdl, fa, invece, “prove di grande centro” con un riavvicinamento europeo tra Pdl, Udc e Fli: “Faremo da battistrada” –annuncia- a quanto potrà avvenire in Italia.
mercoledì 16 novembre 2011
Ue: Italia, Sannino, ora l'aria è buona, ma attesa pari paura
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/11/2011
Ambasciatore, c’è nell’aria qualcosa di nuovo, o d’antico, oggi, a Bruxelles, nei confronti dell’Italia? “Si respira l’aria dei Monti”, aria buona, risponde con una battuta Stefano Sannino, uno dei massimi funzionari italiani della Commissione europea. Poi argomenta: “C’è oggi un’aspettativa molto forte verso l’Italia che, purtroppo, spesso agisce al di sotto delle sue capacità. C’è la profonda convinzione che l’Italia possa giocare un ruolo significativo. E l’attesa è tanto più forte perché la crisi italiana può essere devastante per tutta l’eurozona”, anche per Francia e Germania.
Sannino, direttore generale per l’allargamento dell’Esecutivo comunitario, dopo una carriera che lo ha visto a lungo nei Balcani e come consigliere diplomatico a Palazzo Chigi con Romano Prodi premier, aggiunge: “Le istituzioni europee hanno seguito tutta l’evoluzione della situazione italiana con molta attenzione e anche con dispiacere per quello che l’Italia non riusciva a esprimere … Le prime parole di Monti appena ricevuto l’incarico e pure la sua discrezione sono state accolte con molto apprezzamento a Bruxelles … “.
L’ambasciatore è a Roma per un incontro con lo European Press Club e un colloquio sulle prospettive dell’allargamento dell’Ue prossimo venturo, Croazia e Islanda, Balcani e Turchia. La crisi compromette l’integrazione? “L’Unione europea è un cantiere istituzionale: c’è stata una fiammata intergovernativa, mentre adesso siamo in una fase di ritorno alla comunitarizzazione dei processi … Dobbiamo fare l’abitudine a una situazione ibrida, in cui processi comunitari convivono con quelli intergovernativi … Ma ci sono evoluzioni positive dal punto di vista dell’integrazione, come, ad esempio, il fatto che ora si cominci a parlare di politica fiscale”.
E l’allargamento indebolisce l’Unione? “La crisi coincide in qualche misura con l’allargamento, ma è indipendente dall’allargamento: la crisi colpisce Francia e Germania ben più che Paesi di fresca adesione e fuori dall’euro”.
Ambasciatore, c’è nell’aria qualcosa di nuovo, o d’antico, oggi, a Bruxelles, nei confronti dell’Italia? “Si respira l’aria dei Monti”, aria buona, risponde con una battuta Stefano Sannino, uno dei massimi funzionari italiani della Commissione europea. Poi argomenta: “C’è oggi un’aspettativa molto forte verso l’Italia che, purtroppo, spesso agisce al di sotto delle sue capacità. C’è la profonda convinzione che l’Italia possa giocare un ruolo significativo. E l’attesa è tanto più forte perché la crisi italiana può essere devastante per tutta l’eurozona”, anche per Francia e Germania.
Sannino, direttore generale per l’allargamento dell’Esecutivo comunitario, dopo una carriera che lo ha visto a lungo nei Balcani e come consigliere diplomatico a Palazzo Chigi con Romano Prodi premier, aggiunge: “Le istituzioni europee hanno seguito tutta l’evoluzione della situazione italiana con molta attenzione e anche con dispiacere per quello che l’Italia non riusciva a esprimere … Le prime parole di Monti appena ricevuto l’incarico e pure la sua discrezione sono state accolte con molto apprezzamento a Bruxelles … “.
L’ambasciatore è a Roma per un incontro con lo European Press Club e un colloquio sulle prospettive dell’allargamento dell’Ue prossimo venturo, Croazia e Islanda, Balcani e Turchia. La crisi compromette l’integrazione? “L’Unione europea è un cantiere istituzionale: c’è stata una fiammata intergovernativa, mentre adesso siamo in una fase di ritorno alla comunitarizzazione dei processi … Dobbiamo fare l’abitudine a una situazione ibrida, in cui processi comunitari convivono con quelli intergovernativi … Ma ci sono evoluzioni positive dal punto di vista dell’integrazione, come, ad esempio, il fatto che ora si cominci a parlare di politica fiscale”.
E l’allargamento indebolisce l’Unione? “La crisi coincide in qualche misura con l’allargamento, ma è indipendente dall’allargamento: la crisi colpisce Francia e Germania ben più che Paesi di fresca adesione e fuori dall’euro”.
Ue: Italia, pazienza a orologeria, Monti bene, ma c'è fretta
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/11/2011
Fino alle 11.00 di questa mattina, quando il professor Monti è atteso dal presidente Napolitano con la lista dei ministri, l’Europa porterà pazienza: 72 ore scarse di schermaglie politiche e fibrillazione sui mercati non hanno consumato tutto il capitale di credibilità e di fiducia del “wonder team” italiano (Giorgio in regia, Mario all’attacco del debito). Ma l’Europa ha fretta e, adesso, soprattutto ha paura. Il momento della verità per l’Italia è il momento della verità per l’eurozona e per l’Unione, avverte il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy: “Ogni Paese dovrà lasciare un pezzo della propria sovranità, per creare una vera e propria Unione economica”.
L’Italia deve applicare le ricette di Bruxelles e di Francoforte, che Monti declina in “sacrifici (ma non lacrime e sangue), equità e rigore”, da ottenere in particolare tramite consolidamento fiscale e riforme strutturali. “Le sfide da affrontare sono molto grandi”, riconosce il commissario all’economia Olli Rehn: “La palla è nel campo dell’Italia: sta a Monti giocarla”.
E la Germania teme il contagio italiano. Se l’euro può forse sopravvivere a un fallimento ‘pilotato’ della Grecia, che sarebbe comunque meglio evitare (il ministro delle finanze di Atene Venizelos, sopravvissuto al cambio di premier, dice che “il Paese farà il possibile per rimanere nell’eurozona”), un tracollo dell’Italia sarebbe più difficile da assorbire.
Peter Bofinger, uno dei ‘saggi’ della cancelliera Merkel, lancia l’allarme: “La situazione del debito italiano sta diventando davvero seria, credo che ci stiamo avvicinando a una sorta di crisi di sistema che ricorda il 2008”, dice alla Bloomberg Television. Secondo Bofinger mentre nel 2008 ''i titolari dei depositi avevano paura dei depositi”, oggi “gli investitori delle banche hanno paura dei titoli di Stato” nel portafoglio delle banche.
Una situazione che “si riflette nel rialzo dei rendimenti, un circolo vizioso che deve essere fermato al più presto”.“Credo - prosegue Bofinger - che l’Italia abbia bisogno di pagare tassi del 4%, non l’attuale 7%”. Ma i mercati mandano segnali che inquietano: le borse europee vanno di nuovo giù per il secondo giorno consecutivo; e se lo spread italiano si riduce un po’ a 530, quello francese tocca un record a 191 e pure quelli spagnolo e belga crescono; e, soprattutto, i rendimenti dei titoli di stato decennali italiani superano la soglia d’emergenza del 7%. Per Moody’s Analytics, ciò prova che gli investitori danno al debito italiano un rating implicito ‘junk’, o spazzatura, cioè Ba2, mentre quello ufficiale dell’agenzia è A2.
La Germania propone “una garanzia illimitata dei Paesi dell’eurozona per il debito italiano” e vuole che la Bce faccia da “ultimo argine” sulla crisi dei titoli di Stato italiani. Per Van Rompuy, “il caso Italia evidenzia come i problemi di un Paese siano divenuti i problemi di tutta l’eurozona”. Resta la fiducia in Monti (“E’ molto motivato, saprà bilanciare austerità e crescita”), ma “questo non conta se non ha una maggioranza in Parlamento che lo sostiene”. L’Italia è diventata una vigilata speciale: “Resterà sotto stretta sorveglianza internazionale, la Commissione, la Bce e l’Fmi manterranno un monitoraggio molto stretto”. Rehn, che ci rimanderà gli ispettori, nota che “la diagnosi Ue sulle debolezze dell’economia italiana non cambia” solo perché è stato designato un nuovo premier.
Il supporto dell’Europa a Monti non è in discussione: Van Rompuy e Barroso, e pure Obama e Sarkozy e la Merkel, si sono spesi e si spendono a suo favore al di là di qualsiasi liturgia diplomatica. E la Commissione attende di lavorare con lui e con il governo che formerà. Ma l’Italia e il suo premier hanno anche bisogno –dice Van Rompuy- “di buona fortuna”.
Fino alle 11.00 di questa mattina, quando il professor Monti è atteso dal presidente Napolitano con la lista dei ministri, l’Europa porterà pazienza: 72 ore scarse di schermaglie politiche e fibrillazione sui mercati non hanno consumato tutto il capitale di credibilità e di fiducia del “wonder team” italiano (Giorgio in regia, Mario all’attacco del debito). Ma l’Europa ha fretta e, adesso, soprattutto ha paura. Il momento della verità per l’Italia è il momento della verità per l’eurozona e per l’Unione, avverte il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy: “Ogni Paese dovrà lasciare un pezzo della propria sovranità, per creare una vera e propria Unione economica”.
L’Italia deve applicare le ricette di Bruxelles e di Francoforte, che Monti declina in “sacrifici (ma non lacrime e sangue), equità e rigore”, da ottenere in particolare tramite consolidamento fiscale e riforme strutturali. “Le sfide da affrontare sono molto grandi”, riconosce il commissario all’economia Olli Rehn: “La palla è nel campo dell’Italia: sta a Monti giocarla”.
E la Germania teme il contagio italiano. Se l’euro può forse sopravvivere a un fallimento ‘pilotato’ della Grecia, che sarebbe comunque meglio evitare (il ministro delle finanze di Atene Venizelos, sopravvissuto al cambio di premier, dice che “il Paese farà il possibile per rimanere nell’eurozona”), un tracollo dell’Italia sarebbe più difficile da assorbire.
Peter Bofinger, uno dei ‘saggi’ della cancelliera Merkel, lancia l’allarme: “La situazione del debito italiano sta diventando davvero seria, credo che ci stiamo avvicinando a una sorta di crisi di sistema che ricorda il 2008”, dice alla Bloomberg Television. Secondo Bofinger mentre nel 2008 ''i titolari dei depositi avevano paura dei depositi”, oggi “gli investitori delle banche hanno paura dei titoli di Stato” nel portafoglio delle banche.
Una situazione che “si riflette nel rialzo dei rendimenti, un circolo vizioso che deve essere fermato al più presto”.“Credo - prosegue Bofinger - che l’Italia abbia bisogno di pagare tassi del 4%, non l’attuale 7%”. Ma i mercati mandano segnali che inquietano: le borse europee vanno di nuovo giù per il secondo giorno consecutivo; e se lo spread italiano si riduce un po’ a 530, quello francese tocca un record a 191 e pure quelli spagnolo e belga crescono; e, soprattutto, i rendimenti dei titoli di stato decennali italiani superano la soglia d’emergenza del 7%. Per Moody’s Analytics, ciò prova che gli investitori danno al debito italiano un rating implicito ‘junk’, o spazzatura, cioè Ba2, mentre quello ufficiale dell’agenzia è A2.
La Germania propone “una garanzia illimitata dei Paesi dell’eurozona per il debito italiano” e vuole che la Bce faccia da “ultimo argine” sulla crisi dei titoli di Stato italiani. Per Van Rompuy, “il caso Italia evidenzia come i problemi di un Paese siano divenuti i problemi di tutta l’eurozona”. Resta la fiducia in Monti (“E’ molto motivato, saprà bilanciare austerità e crescita”), ma “questo non conta se non ha una maggioranza in Parlamento che lo sostiene”. L’Italia è diventata una vigilata speciale: “Resterà sotto stretta sorveglianza internazionale, la Commissione, la Bce e l’Fmi manterranno un monitoraggio molto stretto”. Rehn, che ci rimanderà gli ispettori, nota che “la diagnosi Ue sulle debolezze dell’economia italiana non cambia” solo perché è stato designato un nuovo premier.
Il supporto dell’Europa a Monti non è in discussione: Van Rompuy e Barroso, e pure Obama e Sarkozy e la Merkel, si sono spesi e si spendono a suo favore al di là di qualsiasi liturgia diplomatica. E la Commissione attende di lavorare con lui e con il governo che formerà. Ma l’Italia e il suo premier hanno anche bisogno –dice Van Rompuy- “di buona fortuna”.
martedì 15 novembre 2011
Norvegia: Breivik il templare tenta lo show in aula, tacitato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/11/2011
I suoi modelli, ma non c’era da dubitarne, sono i gerarchi nazisti a Norimberga o i criminali di guerra alla sbarra della Corte dell’Aia: alla prima udienza pubblica, affollata da almeno 500 persone, giornalisti, ma anche familiari delle vittime, Anders Behring Breivik, l’autore reo confesso delle stragi di Oslo del 22 luglio, 77 vittime, s’è presentato in aula in abito scuro, camicia bianca e cravatta blu, barba curata e colpi di sole fra i capelli, e ha tentato di leggere una sua dichiarazione. Il giudice Torkjel Nesheim lo ha bloccato: il tribunale non doveva diventare una tribuna da cui l’estremista di destra potesse diffondere le proprie idee. Al termine dell’udienza, durata 45 minuti, la custodia cautelate dell’assassino è stata prorogata per altre 12 settimane. Per la Corte, non c’è al momento motivo di ritenere che Breivik, 32 anni, sia malato di mente, né che sia stato aiutato da complici nelle sue imprese omicide.
S’era pensato a un’udienza in video-conferenza con il carcere di massima sicurezza di Ila, vicino a Oslo, dove Breivik è rinchiuso, ma poi il killer è stato portato in aula ammanettato ai polsi e alle caviglie, tra misure di sicurezza rinforzate. L’estremista, versione nordica dei supremazisti bianchi dell’America razzista, è parso, ai presenti, “freddo”, “distaccato”, “patetico” o addirittura “professionale” – come se esistesse la professione di fondamentalista, o di assassino-. Le visite e la posta di Breivik resteranno soggette a controlli per altre otto settimane, l’accesso ai media gli sarà ancora vietato per le prossime quattro. Sebbene non sia più soggetto da circa un mese all’isolamento totale, l’omicida vive di fatto segregato perché è l’unico detenuto in regime
di massima sicurezza.
In aula, Breivik ha affermato di non riconoscere l’autorità del tribunale in quanto espressione di quella società multiculturale cui lui si oppone. Il giudice lo ha interrotto ogni volta che tentava di autodefinirsi "comandante militare del movimento di resistenza anticomunista norvegese e capo dei cavalieri templari", proprio il titolo usato nel memoriale-manifesto di 1.500 pagine reso noto dopo le stragi di luglio. “Volevo mantenere l’attenzione sulle questioni al centro dell’udienza –ha poi spiegato Nesheim ai giornalisti-: si doveva semplicemente decidere la sua permanenza in carcere fino al processo vero e proprio”, il cui inizio è previsto per il 12 aprile. In vista del processo, l’edificio del tribunale distrettuale di Oslo sarà ristrutturato, perché l’aula possa accogliere tutto il pubblico atteso.
Breivik compì le sue stragi nel centro di Oslo con un’autobomba -8 vittime- e poi sull’isola di Utoya, a un rally di giovami laburisti -69 vittime-. Uno dei superstiti dell’isola, Hermann Holmoy Heggertveit, 18 anni, ha detto al quotidiano 'Dagbladet: "Dopo il 22 luglio, pensavo a lui come a un demonio, un uomo forte … Ma dopo averlo visto ora, mi sono reso conto di quanto sia piccolo e patetico".
I suoi modelli, ma non c’era da dubitarne, sono i gerarchi nazisti a Norimberga o i criminali di guerra alla sbarra della Corte dell’Aia: alla prima udienza pubblica, affollata da almeno 500 persone, giornalisti, ma anche familiari delle vittime, Anders Behring Breivik, l’autore reo confesso delle stragi di Oslo del 22 luglio, 77 vittime, s’è presentato in aula in abito scuro, camicia bianca e cravatta blu, barba curata e colpi di sole fra i capelli, e ha tentato di leggere una sua dichiarazione. Il giudice Torkjel Nesheim lo ha bloccato: il tribunale non doveva diventare una tribuna da cui l’estremista di destra potesse diffondere le proprie idee. Al termine dell’udienza, durata 45 minuti, la custodia cautelate dell’assassino è stata prorogata per altre 12 settimane. Per la Corte, non c’è al momento motivo di ritenere che Breivik, 32 anni, sia malato di mente, né che sia stato aiutato da complici nelle sue imprese omicide.
S’era pensato a un’udienza in video-conferenza con il carcere di massima sicurezza di Ila, vicino a Oslo, dove Breivik è rinchiuso, ma poi il killer è stato portato in aula ammanettato ai polsi e alle caviglie, tra misure di sicurezza rinforzate. L’estremista, versione nordica dei supremazisti bianchi dell’America razzista, è parso, ai presenti, “freddo”, “distaccato”, “patetico” o addirittura “professionale” – come se esistesse la professione di fondamentalista, o di assassino-. Le visite e la posta di Breivik resteranno soggette a controlli per altre otto settimane, l’accesso ai media gli sarà ancora vietato per le prossime quattro. Sebbene non sia più soggetto da circa un mese all’isolamento totale, l’omicida vive di fatto segregato perché è l’unico detenuto in regime
di massima sicurezza.
In aula, Breivik ha affermato di non riconoscere l’autorità del tribunale in quanto espressione di quella società multiculturale cui lui si oppone. Il giudice lo ha interrotto ogni volta che tentava di autodefinirsi "comandante militare del movimento di resistenza anticomunista norvegese e capo dei cavalieri templari", proprio il titolo usato nel memoriale-manifesto di 1.500 pagine reso noto dopo le stragi di luglio. “Volevo mantenere l’attenzione sulle questioni al centro dell’udienza –ha poi spiegato Nesheim ai giornalisti-: si doveva semplicemente decidere la sua permanenza in carcere fino al processo vero e proprio”, il cui inizio è previsto per il 12 aprile. In vista del processo, l’edificio del tribunale distrettuale di Oslo sarà ristrutturato, perché l’aula possa accogliere tutto il pubblico atteso.
Breivik compì le sue stragi nel centro di Oslo con un’autobomba -8 vittime- e poi sull’isola di Utoya, a un rally di giovami laburisti -69 vittime-. Uno dei superstiti dell’isola, Hermann Holmoy Heggertveit, 18 anni, ha detto al quotidiano 'Dagbladet: "Dopo il 22 luglio, pensavo a lui come a un demonio, un uomo forte … Ma dopo averlo visto ora, mi sono reso conto di quanto sia piccolo e patetico".
UE: Frattini che cosa fai, se in Europa non ci vai?
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/11/2011
Ma che cosa aveva da fare a Roma ieri Franco Frattini che gli impedisse di esercitare il mestiere, per cui è ancora pagato, di ministro degli Esteri, sia pure in carica solo per gli affari correnti? Molti suoi colleghi dei 27 dell’Ue erano a Bruxelles per una delle riunioni mensili del Consiglio dei ministri dell’Unione: in agenda, Siria e Iran, Libia e Kosovo e via dicendo. Quisquiglie, magari, rispetto ai pensieri di Frattini sulla crisi italiana e lo snodo tra Berlusconi e Monti. Lì però c’erano il francese Juppé e il britannico Hague e tanti altri ministri, mentre per l’Italia c’era il sottosegretario Mantica. Mica è una novità: le presenze di Frattini alle riunioni del Consiglio dell’Ue negli ultimi 18 mesi si contano sulle dita di una mano. Ma non per questo va bene così, anche se la Farnesina vanta i record di tre anni e mezzo di politica estera firmata Frattini. Ieri, il nuovo che avanza dell’Italia a Bruxelles non s’è visto: sempre la solita solfa, non ci siamo e ci lamentiamo.
Ma che cosa aveva da fare a Roma ieri Franco Frattini che gli impedisse di esercitare il mestiere, per cui è ancora pagato, di ministro degli Esteri, sia pure in carica solo per gli affari correnti? Molti suoi colleghi dei 27 dell’Ue erano a Bruxelles per una delle riunioni mensili del Consiglio dei ministri dell’Unione: in agenda, Siria e Iran, Libia e Kosovo e via dicendo. Quisquiglie, magari, rispetto ai pensieri di Frattini sulla crisi italiana e lo snodo tra Berlusconi e Monti. Lì però c’erano il francese Juppé e il britannico Hague e tanti altri ministri, mentre per l’Italia c’era il sottosegretario Mantica. Mica è una novità: le presenze di Frattini alle riunioni del Consiglio dell’Ue negli ultimi 18 mesi si contano sulle dita di una mano. Ma non per questo va bene così, anche se la Farnesina vanta i record di tre anni e mezzo di politica estera firmata Frattini. Ieri, il nuovo che avanza dell’Italia a Bruxelles non s’è visto: sempre la solita solfa, non ci siamo e ci lamentiamo.
lunedì 14 novembre 2011
USA-CINA. Obama la cerca alle Hawaii, ma l'ha in casa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/11/2011
Barack Obama va alle Hawaii per incontrare, al Vertice del Pacifico, il presidente cinese Hu Jintao e altri leader e, pur giocando in casa -quello è il 50o Stato dell’Unione e lui lì è nato e cresciuto-, affronta con prudenza il colloquio: non si mette in ginocchio, anzi sfodera gli artigli per difendersi, ma certo non guarda l’interlocutore dall’alto in basso (Pechino ha gran parte del debito americano).
In realtà, per trovare la Cina, Obama non avrebbe bisogno di andare alle Hawaii, in mezzo all’Oceano, a mezza strada tra l’America e l’Asia. La Cina ce l’ha in casa; e sta prendendo potere non solo economico, ma anche politico. Da sempre, la California, il più popoloso Stato dell’Unione, quella che, da sola, sarebbe la settima economia mondiale, accoglie una forte immigrazione cinese, che s’era fin qui accontentata di farsi gli affari suoi e che adesso, invece, dà la scalata agli apparati amministrativi locali.
La popolazione di origine asiatica negli Stati Uniti è cresciuta del 46% negli ultimi dieci anni, ma i suoi rappresentanti occupano una quota esigua delle cariche elettive. Nell’amministrazione Bush, fece notizia la presenza fra i ministri di una sino-americana, Elaine Chao. Qualcosa, però, sta cambiando, proprio partendo dal Pacifico.
Edwin Mah Lee, 59 anni, è diventato l’8 novembre il primo americano di origine cinese eletto sindaco di una grande città: ha vinto le elezioni a San Francisco, battendo una pletora di concorrenti –ben 16- far cui altri sei candidati di origine asiatica. Lee era già sindaco, ma non era stato scelto dai cittadini: era stata, a gennaio, la giunta comunale ad affidargli l’incarico, dopo che il sindaco Gavin Newsom, divenuto famoso su scala nazionale quando cominciò a sposare coppie gay, lasciò il posto vacante per diventare vice-governatore della California.
Ed Lee, inizialmente, non voleva candidarsi, ma poi scese in campo a ritmo di rap: sulle note di ‘2 Legit 2 Quit’, Troppo forte per lasciare, ha schierato, in uno spot televisivo e su youtube, campioni delle squadre di baseball e di football locali e celebrità dello spettacolo, il co-fondatore di Twitter Biz Stone e i manager di Google e YouTube. Una campagna all’americana, mica alla cinese, condita di ironia su se stesso: Attenzione a Baffetto, per via dei suoi baffi sottili, e ancora ‘Ed non arriva a un metro e 60, ma fa bene il suo lavoro’.
A sostenerlo, un comitato di supporters dai nomi etnici, come Rose Pak e Eddy Zheng. Ma anche Dianne Feinstein, senatrice della California, democratica e liberal, lo ha appoggiato. In campagna, gli attacchi da parte del maggiore giornale cittadino, il San Francisco Chronicle, uno dei migliori quotidiani americani, non sono mancati: finanziamenti illeciti, uso improprio di fondi pubblici, pratiche elettorali discutibili. Ma, alla fine, San Francisco, la città che ha la più alta concentrazione di asiatico-americani degli Stati Uniti ‘continentali’ –Hawaii escluse, cioè- e che ha la Chinatown più antica d’America, ha scelto ‘Ed il cinese’ come sindaco.
Se San Francisco si affida a un asiatico, Obama, alle Hawaii, ha cercato di evitare di lasciare le sorti della ripresa americana –e, quindi, in larga misura, della sua rielezione- in mani cinesi. Dopo l’incontro con Hu, è stato molto diretto: la politica economica cinese “ci snerva”, ha detto, aggiungendo che la cooperazione Usa-Cina è vitale e che le relazioni fra i due Paesi possono rafforzarsi e meglio contribuire a consolidare e a “ri-bilanciare” la crescita globale. Per il presidente Pechino “deve giocare secondo le regole” e dovrebbe, quindi, “lasciare apprezzare la sua valuta”, mantenuta artificiosamente bassa.
Hu non ha incassato senza ribattere: ha promesso di contribuire alla crescita mondiale, ma ha notato che “sulla ripresa economica mondiale gravano crescenti instabilità e incertezza”. E –ha aggiunto- “una rivalutazione dello yuan non risolverebbe i problemi dell’America”. In sintesi: America, e pure Europa, datevi una mossa. L’Apec ha creato la più grande zona di libero scambio al mondo, più grande dell’Unione europea.
Più facile, per Obama, l’incontro con il presidente russo Dmitri Medvedev, con cui pure ha parlato d’un soggetto controverso: i rapporti con l’Iran, dopo che l’agenzia dell’Onu per l’energia atomica ha ammesso il potenziale militare dei programmi nucleari iraniani. Usa e Russia vogliono “agire insieme”, ma Washington pensa a inasprire le sanzioni e Mosca, per il momento, no.
Barack Obama va alle Hawaii per incontrare, al Vertice del Pacifico, il presidente cinese Hu Jintao e altri leader e, pur giocando in casa -quello è il 50o Stato dell’Unione e lui lì è nato e cresciuto-, affronta con prudenza il colloquio: non si mette in ginocchio, anzi sfodera gli artigli per difendersi, ma certo non guarda l’interlocutore dall’alto in basso (Pechino ha gran parte del debito americano).
In realtà, per trovare la Cina, Obama non avrebbe bisogno di andare alle Hawaii, in mezzo all’Oceano, a mezza strada tra l’America e l’Asia. La Cina ce l’ha in casa; e sta prendendo potere non solo economico, ma anche politico. Da sempre, la California, il più popoloso Stato dell’Unione, quella che, da sola, sarebbe la settima economia mondiale, accoglie una forte immigrazione cinese, che s’era fin qui accontentata di farsi gli affari suoi e che adesso, invece, dà la scalata agli apparati amministrativi locali.
La popolazione di origine asiatica negli Stati Uniti è cresciuta del 46% negli ultimi dieci anni, ma i suoi rappresentanti occupano una quota esigua delle cariche elettive. Nell’amministrazione Bush, fece notizia la presenza fra i ministri di una sino-americana, Elaine Chao. Qualcosa, però, sta cambiando, proprio partendo dal Pacifico.
Edwin Mah Lee, 59 anni, è diventato l’8 novembre il primo americano di origine cinese eletto sindaco di una grande città: ha vinto le elezioni a San Francisco, battendo una pletora di concorrenti –ben 16- far cui altri sei candidati di origine asiatica. Lee era già sindaco, ma non era stato scelto dai cittadini: era stata, a gennaio, la giunta comunale ad affidargli l’incarico, dopo che il sindaco Gavin Newsom, divenuto famoso su scala nazionale quando cominciò a sposare coppie gay, lasciò il posto vacante per diventare vice-governatore della California.
Ed Lee, inizialmente, non voleva candidarsi, ma poi scese in campo a ritmo di rap: sulle note di ‘2 Legit 2 Quit’, Troppo forte per lasciare, ha schierato, in uno spot televisivo e su youtube, campioni delle squadre di baseball e di football locali e celebrità dello spettacolo, il co-fondatore di Twitter Biz Stone e i manager di Google e YouTube. Una campagna all’americana, mica alla cinese, condita di ironia su se stesso: Attenzione a Baffetto, per via dei suoi baffi sottili, e ancora ‘Ed non arriva a un metro e 60, ma fa bene il suo lavoro’.
A sostenerlo, un comitato di supporters dai nomi etnici, come Rose Pak e Eddy Zheng. Ma anche Dianne Feinstein, senatrice della California, democratica e liberal, lo ha appoggiato. In campagna, gli attacchi da parte del maggiore giornale cittadino, il San Francisco Chronicle, uno dei migliori quotidiani americani, non sono mancati: finanziamenti illeciti, uso improprio di fondi pubblici, pratiche elettorali discutibili. Ma, alla fine, San Francisco, la città che ha la più alta concentrazione di asiatico-americani degli Stati Uniti ‘continentali’ –Hawaii escluse, cioè- e che ha la Chinatown più antica d’America, ha scelto ‘Ed il cinese’ come sindaco.
Se San Francisco si affida a un asiatico, Obama, alle Hawaii, ha cercato di evitare di lasciare le sorti della ripresa americana –e, quindi, in larga misura, della sua rielezione- in mani cinesi. Dopo l’incontro con Hu, è stato molto diretto: la politica economica cinese “ci snerva”, ha detto, aggiungendo che la cooperazione Usa-Cina è vitale e che le relazioni fra i due Paesi possono rafforzarsi e meglio contribuire a consolidare e a “ri-bilanciare” la crescita globale. Per il presidente Pechino “deve giocare secondo le regole” e dovrebbe, quindi, “lasciare apprezzare la sua valuta”, mantenuta artificiosamente bassa.
Hu non ha incassato senza ribattere: ha promesso di contribuire alla crescita mondiale, ma ha notato che “sulla ripresa economica mondiale gravano crescenti instabilità e incertezza”. E –ha aggiunto- “una rivalutazione dello yuan non risolverebbe i problemi dell’America”. In sintesi: America, e pure Europa, datevi una mossa. L’Apec ha creato la più grande zona di libero scambio al mondo, più grande dell’Unione europea.
Più facile, per Obama, l’incontro con il presidente russo Dmitri Medvedev, con cui pure ha parlato d’un soggetto controverso: i rapporti con l’Iran, dopo che l’agenzia dell’Onu per l’energia atomica ha ammesso il potenziale militare dei programmi nucleari iraniani. Usa e Russia vogliono “agire insieme”, ma Washington pensa a inasprire le sanzioni e Mosca, per il momento, no.
domenica 13 novembre 2011
Mr B se ne va, Monti arriva, la stampa estera issa il gran pavese
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/11/2012
David Letterman, uno dei comici televisivi che anima le serate americane, è forse l’unico ‘commentatore internazionale’ a non fare il tifo per Mario Monti, il professore, alla guida del governo del ‘dopo Berlusconi’. Letterman propone all’Italia come premier Harman Cain, l’eccentrico miliardario nero candidato alla ‘nomination’ repubblicana per le presidenziali 2012: perché –spiega, da comico qual è- “se n’intende di pizza” (ci ha costruito su un impero) ed anche di scandali sessuali (che stanno rapidamente spegnendo la sua fiammata nei sondaggi elettorali). L’idea Cain mescola uno stereotipo –italiani tutti pizzaioli-, un ammiccamento –italiani tutti fissati con il sesso- e, soprattutto, il tentativo di liberare gli Stati Uniti dell’incognita Cain, che come candidato può pure essere divertente, ma come presidente sarebbe un incubo.
Ma la battuta di Letterman tradisce, al fondo, il discredito dell’Italia, dove anche un pizzaiolo saprebbe fare meglio del premier uscente. A rimpiangerlo, Berlusconi, non c’è proprio nessuno: nonostante fosse ormai scontata, almeno per la stampa estera, la notizia delle sue dimissioni ufficiali e definitive è stata data con urgenza da tutte le agenzie mondiali ed ha subito trovato posto sui siti dei maggiori media internazionali.
Le Monde, come altri, scrive che “Berlusconi lascia l’Italia come l’ha trovata”, senza avere, cioè, saputo o voluto attuare le riforme necessarie. FT nota come “gli italiani quasi esitino a festeggiare” questa loro nuova liberazione, ancora increduli o diffidenti. Il Time, che apre con la foto di Mr B l’edizione europea, denuncia l’Italia come “l’economia più pericolosa al mondo” –gli americani hanno la tendenza a dimenticare che la crisi che sta investendo l’Europa è partita dalle ‘mele marce’ della loro finanza-.
Come è unanime la deprecazione del Cavaliere e del ‘malgoverno’, così è unanime l’apertura di credito a Monti: sui media, ma anche da parte dei leader che presto saranno suoi partner nei Vertici e nei consessi internazionali. Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, esprime la sua “grande stima” per il presidente della Bocconi: “Monti è competente”, ma, di per sé, ciò non basta. “Ci vuole chiarezza e stabilità politica –dice la Lagarde-: l’Italia acceleri le riforme”. Tony Blair, ex premier britannico, testimonia conoscenza e rispetto. E, per Monti, s’erano già spesi, pubblicamente o riservatamente, nei colloqui con il presidente Napolitano, i ‘signori dell’euro’, cioè il presidente francese Nicolas Sarkozy, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente del Vertice europeo Herman Van Rompuy e il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Facile pronosticare che proprio loro, insieme alla Lagarde e, magari, al presidente Usa Barack Obama, saranno i primi interlocutori del premier Monti.
Su un altro punto, la valutazione internazionale è concorde: il punto di riferimento dell’Italia, per gli interlocutori internazionali, è stato, in questi giorni difficili e drammatici, il presidente Napolitano, cui si sono rivolti direttamente Obama e Van Rompuy e gli altri leader, ‘bypassando’ Berlusconi.
La foto del professore sta sulla home page di PressEurop, il sito dei siti della stampa europea, sotto un editoriale di Gian Paolo Accardo, italo-olandese, un giornalista di punta della testata. Il titolo ‘Rompere il cerchio’ riprende il tema del “domino dei signori dell’euro”, la caduta di tutti i governi dei Paesi europei alle prese con la crisi del debito. PressEurope promuove un referendum sull’alternativa tra “governo dei tecnocrati” o “dei politici” innescata dalle scelte di Grecia e Italia: i risultati non sono statisticamente significativi, ma una maggioranza assoluta dice no ai ‘governi dei tecnocrati’. Del tema, fa una bandiera The Economist e, in genere, la stampa britannica: i toni non sono certo quelli di Giuliano Ferrara e dei suoi accoliti, ma una vignetta mostra la E dell’euro che frantuma sotto il suo peso la parola ‘democrazia’: titolo, “La tecnocrazia non è la via giusta”.
David Letterman, uno dei comici televisivi che anima le serate americane, è forse l’unico ‘commentatore internazionale’ a non fare il tifo per Mario Monti, il professore, alla guida del governo del ‘dopo Berlusconi’. Letterman propone all’Italia come premier Harman Cain, l’eccentrico miliardario nero candidato alla ‘nomination’ repubblicana per le presidenziali 2012: perché –spiega, da comico qual è- “se n’intende di pizza” (ci ha costruito su un impero) ed anche di scandali sessuali (che stanno rapidamente spegnendo la sua fiammata nei sondaggi elettorali). L’idea Cain mescola uno stereotipo –italiani tutti pizzaioli-, un ammiccamento –italiani tutti fissati con il sesso- e, soprattutto, il tentativo di liberare gli Stati Uniti dell’incognita Cain, che come candidato può pure essere divertente, ma come presidente sarebbe un incubo.
Ma la battuta di Letterman tradisce, al fondo, il discredito dell’Italia, dove anche un pizzaiolo saprebbe fare meglio del premier uscente. A rimpiangerlo, Berlusconi, non c’è proprio nessuno: nonostante fosse ormai scontata, almeno per la stampa estera, la notizia delle sue dimissioni ufficiali e definitive è stata data con urgenza da tutte le agenzie mondiali ed ha subito trovato posto sui siti dei maggiori media internazionali.
Le Monde, come altri, scrive che “Berlusconi lascia l’Italia come l’ha trovata”, senza avere, cioè, saputo o voluto attuare le riforme necessarie. FT nota come “gli italiani quasi esitino a festeggiare” questa loro nuova liberazione, ancora increduli o diffidenti. Il Time, che apre con la foto di Mr B l’edizione europea, denuncia l’Italia come “l’economia più pericolosa al mondo” –gli americani hanno la tendenza a dimenticare che la crisi che sta investendo l’Europa è partita dalle ‘mele marce’ della loro finanza-.
Come è unanime la deprecazione del Cavaliere e del ‘malgoverno’, così è unanime l’apertura di credito a Monti: sui media, ma anche da parte dei leader che presto saranno suoi partner nei Vertici e nei consessi internazionali. Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, esprime la sua “grande stima” per il presidente della Bocconi: “Monti è competente”, ma, di per sé, ciò non basta. “Ci vuole chiarezza e stabilità politica –dice la Lagarde-: l’Italia acceleri le riforme”. Tony Blair, ex premier britannico, testimonia conoscenza e rispetto. E, per Monti, s’erano già spesi, pubblicamente o riservatamente, nei colloqui con il presidente Napolitano, i ‘signori dell’euro’, cioè il presidente francese Nicolas Sarkozy, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente del Vertice europeo Herman Van Rompuy e il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Facile pronosticare che proprio loro, insieme alla Lagarde e, magari, al presidente Usa Barack Obama, saranno i primi interlocutori del premier Monti.
Su un altro punto, la valutazione internazionale è concorde: il punto di riferimento dell’Italia, per gli interlocutori internazionali, è stato, in questi giorni difficili e drammatici, il presidente Napolitano, cui si sono rivolti direttamente Obama e Van Rompuy e gli altri leader, ‘bypassando’ Berlusconi.
La foto del professore sta sulla home page di PressEurop, il sito dei siti della stampa europea, sotto un editoriale di Gian Paolo Accardo, italo-olandese, un giornalista di punta della testata. Il titolo ‘Rompere il cerchio’ riprende il tema del “domino dei signori dell’euro”, la caduta di tutti i governi dei Paesi europei alle prese con la crisi del debito. PressEurope promuove un referendum sull’alternativa tra “governo dei tecnocrati” o “dei politici” innescata dalle scelte di Grecia e Italia: i risultati non sono statisticamente significativi, ma una maggioranza assoluta dice no ai ‘governi dei tecnocrati’. Del tema, fa una bandiera The Economist e, in genere, la stampa britannica: i toni non sono certo quelli di Giuliano Ferrara e dei suoi accoliti, ma una vignetta mostra la E dell’euro che frantuma sotto il suo peso la parola ‘democrazia’: titolo, “La tecnocrazia non è la via giusta”.
Indignati d'America: morti ammazzati e campi chiusi
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 12/11/2011
Gli indignati d’America, i militanti anti Wall Street che bivaccano da settimane in numero città dell’Unione, sono stati invitati a evacuare nel week-end i loro accampamenti in diversi Stati, dopo che litigi e incidenti hanno fatto almeno quattro morti in pochi giorni. Il movimento ‘Occupy’, nato a New York in settembre, nella scia di quello degli ‘indignados’ spagnoli, avverte l’usura d’un’azione senza sbocchi e si scontra con l’inclemenza della stagione. In molte località Usa, l’inverno è ormai nel pieno e pernottare all’addiaccio nei parchi quando il termometro va giù non è agevole, specie in installazioni le cui condizioni vanno deteriorandosi con il passare del tempo. E, poi, in America, il germe della violenza è sempre in agguato: c’è ovunque gente in giro armata e che reagisce alle provocazioni sparando. Sindaci e polizia colgono, certo, il pretesto degli episodi per ‘sbaraccare’ situazioni scomode e inconsuete, ma la cultura del Far West mal s’accomuna con la protesta civile.
Ironia e creatività, che sono le ‘armi’ con cui gli ‘indignati’ mediterranei tendono ad affrontare problemi e difficoltà, non sono il forte degli americani. E così ‘Occupy’ deve letteralmente ‘levare le tende’, mentre in Italia il movimento, passata la bufera degli scontri e delle devastazioni con cui
i blackbloc avevano ‘dirottato’, a metà ottobre, una manifestazione a Roma, sciorina striscioni contro le sedi di BankItalia e di istituti di credito a Venezia e Trieste, a Genova, Bologna e Firenze, mentre a Roma organizza una Fiera dello Studente in piazza e a Napoli se la prende col “governo tecnico targato Bce” prima ancora che ci sia.
Resta da vedere se gli ordini di evacuazione negli Stati Uniti saranno rispettati; gli anti Wall Streeet hanno seguito e il rapper Jay-Z ha appena lanciato una linea di magliette a loro sostegno. Ma certo le cronache dell’ultima settimana sono tragiche. A Oakland, in California, un uomo è stato colpito da una pallottola vicino al campo degli attivisti: per la stampa, l’omicidio sarebbe avvenuto durante un violento litigio scoppiato tra gruppi di manifestanti, mentre il movimento sostiene che lo scontro è avvenuto tra persone estranee alla protesta. Ma per il sindaco Jean Quan l’incidente è la prova che "l'accampamento deve essere smantellato". A Burlington, nel Vermont, un uomo è morto per un colpo di pistola alla testa: la vittima è un ex militare di 35 anni. Potrebbe trattarsi di suicidio, ma intanto la polizia ha isolato la parte del parco dove si trovava il bivacco e ha stabilito che non sarà più possibile pernottare nell'area. A Salt Lake City, nello Utah, un uomo è deceduto nella sua tenda per un mix letale di un’overdose di stupefacenti e di un’intossicazione da monossido da carbonio. Infine, un uomo di 53 anni è stato trovato cadavere nella sua tenda a New Orleans, in Lousiana, forse colto da un malore. Anche le autorità di Portland, nell’Oregon, dove non ci sono stati decessi, hanno ordinato la chiusura dell’accompamento, auspicando che la protesta possa d’ora in poi concentrarsi “sulla giustizia economica e sociale” e non sull’organizzazione di bivacchi di fortuna.
Gli indignati d’America, i militanti anti Wall Street che bivaccano da settimane in numero città dell’Unione, sono stati invitati a evacuare nel week-end i loro accampamenti in diversi Stati, dopo che litigi e incidenti hanno fatto almeno quattro morti in pochi giorni. Il movimento ‘Occupy’, nato a New York in settembre, nella scia di quello degli ‘indignados’ spagnoli, avverte l’usura d’un’azione senza sbocchi e si scontra con l’inclemenza della stagione. In molte località Usa, l’inverno è ormai nel pieno e pernottare all’addiaccio nei parchi quando il termometro va giù non è agevole, specie in installazioni le cui condizioni vanno deteriorandosi con il passare del tempo. E, poi, in America, il germe della violenza è sempre in agguato: c’è ovunque gente in giro armata e che reagisce alle provocazioni sparando. Sindaci e polizia colgono, certo, il pretesto degli episodi per ‘sbaraccare’ situazioni scomode e inconsuete, ma la cultura del Far West mal s’accomuna con la protesta civile.
Ironia e creatività, che sono le ‘armi’ con cui gli ‘indignati’ mediterranei tendono ad affrontare problemi e difficoltà, non sono il forte degli americani. E così ‘Occupy’ deve letteralmente ‘levare le tende’, mentre in Italia il movimento, passata la bufera degli scontri e delle devastazioni con cui
i blackbloc avevano ‘dirottato’, a metà ottobre, una manifestazione a Roma, sciorina striscioni contro le sedi di BankItalia e di istituti di credito a Venezia e Trieste, a Genova, Bologna e Firenze, mentre a Roma organizza una Fiera dello Studente in piazza e a Napoli se la prende col “governo tecnico targato Bce” prima ancora che ci sia.
Resta da vedere se gli ordini di evacuazione negli Stati Uniti saranno rispettati; gli anti Wall Streeet hanno seguito e il rapper Jay-Z ha appena lanciato una linea di magliette a loro sostegno. Ma certo le cronache dell’ultima settimana sono tragiche. A Oakland, in California, un uomo è stato colpito da una pallottola vicino al campo degli attivisti: per la stampa, l’omicidio sarebbe avvenuto durante un violento litigio scoppiato tra gruppi di manifestanti, mentre il movimento sostiene che lo scontro è avvenuto tra persone estranee alla protesta. Ma per il sindaco Jean Quan l’incidente è la prova che "l'accampamento deve essere smantellato". A Burlington, nel Vermont, un uomo è morto per un colpo di pistola alla testa: la vittima è un ex militare di 35 anni. Potrebbe trattarsi di suicidio, ma intanto la polizia ha isolato la parte del parco dove si trovava il bivacco e ha stabilito che non sarà più possibile pernottare nell'area. A Salt Lake City, nello Utah, un uomo è deceduto nella sua tenda per un mix letale di un’overdose di stupefacenti e di un’intossicazione da monossido da carbonio. Infine, un uomo di 53 anni è stato trovato cadavere nella sua tenda a New Orleans, in Lousiana, forse colto da un malore. Anche le autorità di Portland, nell’Oregon, dove non ci sono stati decessi, hanno ordinato la chiusura dell’accompamento, auspicando che la protesta possa d’ora in poi concentrarsi “sulla giustizia economica e sociale” e non sull’organizzazione di bivacchi di fortuna.
sabato 12 novembre 2011
Ue: la crisi del debito innesca il domino dei leader dell'euro
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/11/2011
La crisi del debito abbatte, l’uno dopo l’altro, i leader dei Paesi a rischio della moneta unica: un domino che, fatte tutte le debite differenze, evoca la caduta dei satrapi innescata dalla Primavera araba, prima col crollo pacifico dei regimi di Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto, poi con l’epilogo cruento della dittatura di Muammar Gheddafi in Libia e la rivolta contro il regime in Siria dall’esito ancora incerto.
In Europa, tutto è finora accaduto nel rispetto delle regole della democrazia, anche se le tensioni sociali hanno innescato scontri di piazza in Grecia, soprattutto, ma anche in Italia e altrove e persino nella Gran Bretagna che è fuori dall’euro. In Spagna, lo scontento e le ansie di una generazione senza prospettive hanno trovato espressione nel movimento degli ‘indignados’ che fa adepti in Europa e in America.
In principio, erano i Piigs, i Paesi a rischio dell’eurozona: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna. Forse manco ve lo ricordate, ma per molti mesi i servi mediatici di Mr B, politici, economisti, giornalisti, stettero a spiegarci che i cinque Piigs erano, i realtà, solo i quattro Pigs, perché l’Italia non c’entrava nulla … C’era pure chi ci credeva!
Ebbene, a fine mese, tutti i Piigs avranno cambiato governo: quale ne fosse il colore, gli esecutivi al potere hanno pagato la crisi e l’austerità che essa comporta. E il domino potrebbe non arrestarsi qui: il prossimo della lista potrebbe essere il presidente francese Nicolas Sarkozy,nella primavera 2012.
Irlanda e Portogallo si mossero per primi, con elezioni politiche anticipate: i governi in carica negoziarono con Ue e Fmi piani di salvataggio e, poi, uscirono di scena. Il 25 febbraio, il Fine Gael, di centro-destra, vinceva il voto in Irlanda, battendo il Fianna Fail del premier uscente Brian Cowen. Formata una coalizione con i laburisti, il nuovo Taoiseach Enda Kenny ha limato l’intesa con Ue e Fmi, ma ha soprattutto rispettato gli impegni presi.
Il 5 giugno, in Portogallo, il centro-destra coalizzato intorno a Pedro Passos Coelho ha ‘disarcionato’ dal potere i socialisti del premier uscente José Socrates, Fatto il governo, Passos Coelho ha subito garantito l’osservanza del piano di aiuti negoziato dal predecessore, con misure da ‘lacrime e sangue’.
A Madrid, il premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero ha giocato d’anticipo: prima che l’attacco alla Spagna sui mercati divenisse martellante, ha annunciato il suo ritiro ed elezioni anticipate. La mossa non servirà, forse, a mantenere al potere i socialisti, perché i sondaggi danno avanti l’opposizione centrista, ma è bastata ad allentare le pressioni sull’economia del Paese.
In Grecia e in Italia, s’è attesa la mezzanotte meno un minuto per cambiare (in Italia, a dire il vero non lo si è ancora fatto). Certo, la situazione economica di Atene e di Roma era, ed è, molto diversa, ma il deterioramento della credibilità politica italiana ha fatto sì che i due Paesi giungessero insieme sull’orlo del baratro. La Grecia prova ad uscirne con un governo di unità nazionale guidato da Lucas Papademos, ex vice della Bce: un esecutivo dove il ministro delle finanze Evangelos Venizelos è confermato e composto da ministri socialisti e centristi; un governo breve, per attuare le riforme e preparare nuove elezioni.
Il mix greco di tecnocrati e di politici è un’indicazione di cui pure l’Italia dovrà tenere conto, se e quando davvero si affiderà a Mario Monti, un economista che rassicura l’Europa. Il FT ammonisce: “Ci vogliono leader, non solo manager”; e spiega: Il governo ad interim dovrà fissare un calendario verso le elezioni anticipate, così che gli elettori non si sentano tagliati fuori da un processo che richiederà grandi sacrifici”. Questi inglesi hanno, magari, la puzza sotto il naso, ma i percorsi della democrazia li conoscono bene.
La crisi del debito abbatte, l’uno dopo l’altro, i leader dei Paesi a rischio della moneta unica: un domino che, fatte tutte le debite differenze, evoca la caduta dei satrapi innescata dalla Primavera araba, prima col crollo pacifico dei regimi di Ben Ali in Tunisia e di Hosni Mubarak in Egitto, poi con l’epilogo cruento della dittatura di Muammar Gheddafi in Libia e la rivolta contro il regime in Siria dall’esito ancora incerto.
In Europa, tutto è finora accaduto nel rispetto delle regole della democrazia, anche se le tensioni sociali hanno innescato scontri di piazza in Grecia, soprattutto, ma anche in Italia e altrove e persino nella Gran Bretagna che è fuori dall’euro. In Spagna, lo scontento e le ansie di una generazione senza prospettive hanno trovato espressione nel movimento degli ‘indignados’ che fa adepti in Europa e in America.
In principio, erano i Piigs, i Paesi a rischio dell’eurozona: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna. Forse manco ve lo ricordate, ma per molti mesi i servi mediatici di Mr B, politici, economisti, giornalisti, stettero a spiegarci che i cinque Piigs erano, i realtà, solo i quattro Pigs, perché l’Italia non c’entrava nulla … C’era pure chi ci credeva!
Ebbene, a fine mese, tutti i Piigs avranno cambiato governo: quale ne fosse il colore, gli esecutivi al potere hanno pagato la crisi e l’austerità che essa comporta. E il domino potrebbe non arrestarsi qui: il prossimo della lista potrebbe essere il presidente francese Nicolas Sarkozy,nella primavera 2012.
Irlanda e Portogallo si mossero per primi, con elezioni politiche anticipate: i governi in carica negoziarono con Ue e Fmi piani di salvataggio e, poi, uscirono di scena. Il 25 febbraio, il Fine Gael, di centro-destra, vinceva il voto in Irlanda, battendo il Fianna Fail del premier uscente Brian Cowen. Formata una coalizione con i laburisti, il nuovo Taoiseach Enda Kenny ha limato l’intesa con Ue e Fmi, ma ha soprattutto rispettato gli impegni presi.
Il 5 giugno, in Portogallo, il centro-destra coalizzato intorno a Pedro Passos Coelho ha ‘disarcionato’ dal potere i socialisti del premier uscente José Socrates, Fatto il governo, Passos Coelho ha subito garantito l’osservanza del piano di aiuti negoziato dal predecessore, con misure da ‘lacrime e sangue’.
A Madrid, il premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero ha giocato d’anticipo: prima che l’attacco alla Spagna sui mercati divenisse martellante, ha annunciato il suo ritiro ed elezioni anticipate. La mossa non servirà, forse, a mantenere al potere i socialisti, perché i sondaggi danno avanti l’opposizione centrista, ma è bastata ad allentare le pressioni sull’economia del Paese.
In Grecia e in Italia, s’è attesa la mezzanotte meno un minuto per cambiare (in Italia, a dire il vero non lo si è ancora fatto). Certo, la situazione economica di Atene e di Roma era, ed è, molto diversa, ma il deterioramento della credibilità politica italiana ha fatto sì che i due Paesi giungessero insieme sull’orlo del baratro. La Grecia prova ad uscirne con un governo di unità nazionale guidato da Lucas Papademos, ex vice della Bce: un esecutivo dove il ministro delle finanze Evangelos Venizelos è confermato e composto da ministri socialisti e centristi; un governo breve, per attuare le riforme e preparare nuove elezioni.
Il mix greco di tecnocrati e di politici è un’indicazione di cui pure l’Italia dovrà tenere conto, se e quando davvero si affiderà a Mario Monti, un economista che rassicura l’Europa. Il FT ammonisce: “Ci vogliono leader, non solo manager”; e spiega: Il governo ad interim dovrà fissare un calendario verso le elezioni anticipate, così che gli elettori non si sentano tagliati fuori da un processo che richiederà grandi sacrifici”. Questi inglesi hanno, magari, la puzza sotto il naso, ma i percorsi della democrazia li conoscono bene.
venerdì 11 novembre 2011
Monti: Bini Smaghi lascia Bce, i montiani d'Europa pronti
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/11/2011
Potenza di un nome e forza della credibilità. Dopo anni di Mr B, basta chiamare Mario Monti, nominarlo senatore a vita, convocarlo al Quirinale e le montagne, invece di partorire topolini, vanno a Maometto. La borsa risale, nonostante l’Ue tagli le previsioni di crescita, e le dimissioni di Lorenzo Bini Smaghi dal ‘board’ della Bce per andare a insegnare a Harvard eliminano un elemento di frizione fra Roma e Parigi e un vulnus all’affidabilità dell’Italia, che s’era impegnata a risolvere entro il 1o novembre il problema della doppia presenza nell’esecutivo della Banca centrale europea adesso che Mario Draghi ne è divenuto presidente.
Non è detto che Bini Smaghi resti a insegnare ad Harvard. Anzi, non è neppure detto che ci vada. La notizia delle dimissioni ha ravvivato le voci di un’operazione triangolare Roma-Francoforte-Bruxelles: il banchiere alla Commissione europea, al posto di Antonio Tajani, vice-presidente e responsabile dell’industria, che si dimetterebbe per assumere un incarico da ministro nell’esecutivo Monti, se e quando sarà formato. Sono voci raccolte in ambienti comunitari e assolutamente non confermate. Ma chi era presente, il 17 ottobre, a Roma, a un convegno europeo organizzato da Euractiv e IAI, non aveva potuto non notare il grande feeling che, sorprendentemente, venne fuori tra il presidente della Bocconi e il vice-presidente della Commissione.
Per Monti, la credibilità, a livello europeo e internazionale, è un dato di fatto: non va costruita. “Il professore non ha bisogno di una rete, non ha bisogno di una cerchia di fedeli intorno per crearsi un seguito –dice convinta una persona che gli fu accanto nel doppio mandato alla Commissione europea dal 1995 al 2004, prima al mercato interno, poi alla concorrenza-: la sua autorevolezza è tale che tutti lo rispettano. Lui parla con chi vuole ai massimi livelli ed è ascoltato”. Ancora recentemente, il presidente dell’Esecutivo comunitario José Manuel Barroso chiese a lui consiglio su come completare il mercato interno.
Molti dei più stretti collaboratori di Monti negli anni europei occupano, oggi, posizioni di prestigio e influenti nelle istituzioni comunitarie e garantiscono, comunque, una rete di riferimento efficace (non solo italiana). Enzo Moavero Milanesi, capo di gabinetto del professore per un mandato e mezzo circa, dopo avere fatto un’importante esperienza a Palazzo Chigi con Carlo Azeglio Ciampi premier, è stato poi poi direttore dell’antitrust, vice-segretario generale, direttore generale del ‘think tank’ voluto da Romano Prodi quand’era presidente della Commissione ed è oggi il giudice italiano del Tribunale dell’Unione europea a Lussemburgo.
Dopo Moavero, Monti ebbe come capo di gabinetto un belga, Mark Van Hof, oggi direttore al servizio giuridico della Commissione.
Fra gli altri collaboratori del Monti europeo ci sono Stefano Manservisi, che passò dal gabinetto Monti a quello del presidente Prodi ed è poi divenuto direttore generale alla cooperazione allo sviluppo e, ora, agli affari interni; Guido Berardis, oggi direttore al servizio giuridico; e Arianna Vannini, oggi al gabinetto
del presidente Barroso. Molto vicino al professor Monti era un altro prodotto della Bocconi, il professor Angelo Cardani, che è poi tornato all’Ateneo milanese. E a Bruxelles Monti portò pure Adelaid Sailer-Schuster, che era rappresentante della Bundesbank a Roma e che è poi tornata alla ‘casa madre’. Sue portavoci furono Betti Olivi, figlia di Bino Olivi, storico portavoce della Commissione europea per quasi vent’anni, che oggi lavora alla Rappresentanza in Italia della Commissione, e poi la spagnola Amelia Torres, oggi ancora a Bruxelles con Joaquin Almunia.
Ritroveremo qualcuno di questi nomi nella lista del governo che Monti potrebbe presto dovere formare?, o fra i suoi collaboratori a Palazzo Chigi? E’ presto per dirlo, ma voci già circolano. I ‘montiani d’Europa’ sono schierati con il professore e con il presidente Napolitano. Uno di essi dice a Il Fatto: “quanto sta accadendo all’Italia è ingiusto”, perché, senza negare la gravità del problema del debito, il Paese “non si merita di finire come quelli che fanno i giochi delle tre carte”. “Con un’azione seria e determinata, si può venirne fuori”: Monti ne è capace, Napolitano dice “saremo all’altezza del compito” e pure Obama gli –e ci- dà fiducia.
Potenza di un nome e forza della credibilità. Dopo anni di Mr B, basta chiamare Mario Monti, nominarlo senatore a vita, convocarlo al Quirinale e le montagne, invece di partorire topolini, vanno a Maometto. La borsa risale, nonostante l’Ue tagli le previsioni di crescita, e le dimissioni di Lorenzo Bini Smaghi dal ‘board’ della Bce per andare a insegnare a Harvard eliminano un elemento di frizione fra Roma e Parigi e un vulnus all’affidabilità dell’Italia, che s’era impegnata a risolvere entro il 1o novembre il problema della doppia presenza nell’esecutivo della Banca centrale europea adesso che Mario Draghi ne è divenuto presidente.
Non è detto che Bini Smaghi resti a insegnare ad Harvard. Anzi, non è neppure detto che ci vada. La notizia delle dimissioni ha ravvivato le voci di un’operazione triangolare Roma-Francoforte-Bruxelles: il banchiere alla Commissione europea, al posto di Antonio Tajani, vice-presidente e responsabile dell’industria, che si dimetterebbe per assumere un incarico da ministro nell’esecutivo Monti, se e quando sarà formato. Sono voci raccolte in ambienti comunitari e assolutamente non confermate. Ma chi era presente, il 17 ottobre, a Roma, a un convegno europeo organizzato da Euractiv e IAI, non aveva potuto non notare il grande feeling che, sorprendentemente, venne fuori tra il presidente della Bocconi e il vice-presidente della Commissione.
Per Monti, la credibilità, a livello europeo e internazionale, è un dato di fatto: non va costruita. “Il professore non ha bisogno di una rete, non ha bisogno di una cerchia di fedeli intorno per crearsi un seguito –dice convinta una persona che gli fu accanto nel doppio mandato alla Commissione europea dal 1995 al 2004, prima al mercato interno, poi alla concorrenza-: la sua autorevolezza è tale che tutti lo rispettano. Lui parla con chi vuole ai massimi livelli ed è ascoltato”. Ancora recentemente, il presidente dell’Esecutivo comunitario José Manuel Barroso chiese a lui consiglio su come completare il mercato interno.
Molti dei più stretti collaboratori di Monti negli anni europei occupano, oggi, posizioni di prestigio e influenti nelle istituzioni comunitarie e garantiscono, comunque, una rete di riferimento efficace (non solo italiana). Enzo Moavero Milanesi, capo di gabinetto del professore per un mandato e mezzo circa, dopo avere fatto un’importante esperienza a Palazzo Chigi con Carlo Azeglio Ciampi premier, è stato poi poi direttore dell’antitrust, vice-segretario generale, direttore generale del ‘think tank’ voluto da Romano Prodi quand’era presidente della Commissione ed è oggi il giudice italiano del Tribunale dell’Unione europea a Lussemburgo.
Dopo Moavero, Monti ebbe come capo di gabinetto un belga, Mark Van Hof, oggi direttore al servizio giuridico della Commissione.
Fra gli altri collaboratori del Monti europeo ci sono Stefano Manservisi, che passò dal gabinetto Monti a quello del presidente Prodi ed è poi divenuto direttore generale alla cooperazione allo sviluppo e, ora, agli affari interni; Guido Berardis, oggi direttore al servizio giuridico; e Arianna Vannini, oggi al gabinetto
del presidente Barroso. Molto vicino al professor Monti era un altro prodotto della Bocconi, il professor Angelo Cardani, che è poi tornato all’Ateneo milanese. E a Bruxelles Monti portò pure Adelaid Sailer-Schuster, che era rappresentante della Bundesbank a Roma e che è poi tornata alla ‘casa madre’. Sue portavoci furono Betti Olivi, figlia di Bino Olivi, storico portavoce della Commissione europea per quasi vent’anni, che oggi lavora alla Rappresentanza in Italia della Commissione, e poi la spagnola Amelia Torres, oggi ancora a Bruxelles con Joaquin Almunia.
Ritroveremo qualcuno di questi nomi nella lista del governo che Monti potrebbe presto dovere formare?, o fra i suoi collaboratori a Palazzo Chigi? E’ presto per dirlo, ma voci già circolano. I ‘montiani d’Europa’ sono schierati con il professore e con il presidente Napolitano. Uno di essi dice a Il Fatto: “quanto sta accadendo all’Italia è ingiusto”, perché, senza negare la gravità del problema del debito, il Paese “non si merita di finire come quelli che fanno i giochi delle tre carte”. “Con un’azione seria e determinata, si può venirne fuori”: Monti ne è capace, Napolitano dice “saremo all’altezza del compito” e pure Obama gli –e ci- dà fiducia.
giovedì 10 novembre 2011
Ue-Italia: Monti e gli altri che possono piacere all'Europa
Scritto per L'Indro lo 09/11/2011
Un tecnocrate che sappia d’economia e capisca di politica ma non ne giochi (troppo) i giochi, che abbia capacità manageriali e che sia più preoccupato di fare bene che di risultare popolare: questi sono alcuni tratti dell’identikit dell’italiano che l’Unione europea, la Bce e, in genere, le istituzioni finanziarie internazionali, ma anche i nostri partner, vedrebbero volentieri alla guida dell’Italia dopo Silvio Berlusconi. Un elemento d’apprezzamento supplementare deriverebbe dalla conoscenza, meglio se per esperienza diretta, delle dinamiche comunitarie e delle organizzazioni internazionali.
Una figura del genere andrebbe bene non solo all’Italia, ma a tutti i Paesi alle prese con la crisi del debito: infatti, la Grecia è alla ricerca di una personalità con queste caratteristiche per guidare il governo dopo Giorgio Papandreu. L’identikit è abbastanza generico da adottarsi a numerose personalità, anche se calza a pennello al neo-senatore a vita Mario Monti, Presidente dell’Università Bocconi, in pole position in tutte le ipotesi di Governo tecnico di larga intesa. Monti è stato due volte Commissario europeo: prima al mercato interno e poi alla concorrenza dal 1994 al 2004 e, recentemente, è stato incaricato dall’attuale Presidente dell’Esecutivo comunitario José Manuel Barroso di redigere un rapporto, consegnato all’inizio dell’anno, sul completamento del mercato interno.
Ma quello di Monti è solo uno dei nomi possibili. Altri che hanno caratteristiche analoghe possono essere Mario Draghi, ovviamente, ma il recentissimo insediamento alla presidenza della Bce, la Banca centrale europea, sembra escluderlo; o ancora Romano Prodi, che come Presidente del Consiglio portò l’Italia nell’euro e, poi, come Presidente della Commissione europea, assistette alla nascita dell’euro e gestì l’allargamento a Est dell’Unione.
Altri alti funzionari o economisti che potrebbero rispondere, almeno in parte, all’identikit sono Arrigo Sadun, direttore esecutivo per l’Italia del Fondo monetario internazionale, una personalità designata da un Governo di centro-destra, o PierCarlo Padoan, attualmente capo economista dell’Ocse, l’organizzazione con sede a Parigi per la cooperazione e lo sviluppo economico, predecessore di Sadun al Fondo -lui designato da un Governo di centro-sinistra-;o ancora Fabrizio Saccomanni, Direttore Generale della Banca d’Italia, già Vice-Presidente della Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, uno dei potenziali successori di Mario Draghi a Governatore - la scelta è poi caduta su Vincenzo Visco, un altro che andrebbe bene, se non fosse per il nuovo incarico -. Fra i manager, viene in mente il nome dell’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, che alle capacità manageriali affianca quelle diplomatiche.
Fra i politici che rispondono all’identikit,oltre a Prodi, vi sono in ordine alfabetico Giuliano Amato, Emma Bonino e lo stesso Giulio Tremonti. Amato fu il Presidente del Consiglio di una prima drastica manovra, allo snodo tra la prima e la seconda Repubblica tra il 1992 e il ’93, oltre a essere stato più volte ministro del tesoro, ed è poi stato co-presidente della Convenzione europea (2001-2003), da cui uscì una bozza, poi abortita, di Costituzione europea. Emma Bonino, commissaria europea dal 1994 al 1999, in tandem con Monti, è ancora ricordata a Bruxelles per la sua energia e la sua dinamicità ed è uno dei pochi politici italiani che pronuncia senza fastidio la parola federalismo riferita all’Europa -le manca, però, una vocazione economica.
Giulio Tremonti, infine, è senz’altro il Ministro del Governo Berlusconi più stimato e più apprezzato dai suoi colleghi europei ed è anche l’unico assiduo alle riunioni a Bruxelles e a Lussemburgo dell’Eurozona e dell’Ecofin. A contendere la pole position a Monti ci sarebbe stato Tommaso Padoa-Schioppa, Direttore generale della Dg economia e finanza della Commissione europea e primo membro italiano del board della Bce, prima di essere Ministro dell’economia. Ma Tommaso Padoa-Schioppa, un europeista convinto, è improvvisamente scomparso un anno fa, lasciando un vuoto di competenza e di professionalità.
Un tecnocrate che sappia d’economia e capisca di politica ma non ne giochi (troppo) i giochi, che abbia capacità manageriali e che sia più preoccupato di fare bene che di risultare popolare: questi sono alcuni tratti dell’identikit dell’italiano che l’Unione europea, la Bce e, in genere, le istituzioni finanziarie internazionali, ma anche i nostri partner, vedrebbero volentieri alla guida dell’Italia dopo Silvio Berlusconi. Un elemento d’apprezzamento supplementare deriverebbe dalla conoscenza, meglio se per esperienza diretta, delle dinamiche comunitarie e delle organizzazioni internazionali.
Una figura del genere andrebbe bene non solo all’Italia, ma a tutti i Paesi alle prese con la crisi del debito: infatti, la Grecia è alla ricerca di una personalità con queste caratteristiche per guidare il governo dopo Giorgio Papandreu. L’identikit è abbastanza generico da adottarsi a numerose personalità, anche se calza a pennello al neo-senatore a vita Mario Monti, Presidente dell’Università Bocconi, in pole position in tutte le ipotesi di Governo tecnico di larga intesa. Monti è stato due volte Commissario europeo: prima al mercato interno e poi alla concorrenza dal 1994 al 2004 e, recentemente, è stato incaricato dall’attuale Presidente dell’Esecutivo comunitario José Manuel Barroso di redigere un rapporto, consegnato all’inizio dell’anno, sul completamento del mercato interno.
Ma quello di Monti è solo uno dei nomi possibili. Altri che hanno caratteristiche analoghe possono essere Mario Draghi, ovviamente, ma il recentissimo insediamento alla presidenza della Bce, la Banca centrale europea, sembra escluderlo; o ancora Romano Prodi, che come Presidente del Consiglio portò l’Italia nell’euro e, poi, come Presidente della Commissione europea, assistette alla nascita dell’euro e gestì l’allargamento a Est dell’Unione.
Altri alti funzionari o economisti che potrebbero rispondere, almeno in parte, all’identikit sono Arrigo Sadun, direttore esecutivo per l’Italia del Fondo monetario internazionale, una personalità designata da un Governo di centro-destra, o PierCarlo Padoan, attualmente capo economista dell’Ocse, l’organizzazione con sede a Parigi per la cooperazione e lo sviluppo economico, predecessore di Sadun al Fondo -lui designato da un Governo di centro-sinistra-;o ancora Fabrizio Saccomanni, Direttore Generale della Banca d’Italia, già Vice-Presidente della Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, uno dei potenziali successori di Mario Draghi a Governatore - la scelta è poi caduta su Vincenzo Visco, un altro che andrebbe bene, se non fosse per il nuovo incarico -. Fra i manager, viene in mente il nome dell’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, che alle capacità manageriali affianca quelle diplomatiche.
Fra i politici che rispondono all’identikit,oltre a Prodi, vi sono in ordine alfabetico Giuliano Amato, Emma Bonino e lo stesso Giulio Tremonti. Amato fu il Presidente del Consiglio di una prima drastica manovra, allo snodo tra la prima e la seconda Repubblica tra il 1992 e il ’93, oltre a essere stato più volte ministro del tesoro, ed è poi stato co-presidente della Convenzione europea (2001-2003), da cui uscì una bozza, poi abortita, di Costituzione europea. Emma Bonino, commissaria europea dal 1994 al 1999, in tandem con Monti, è ancora ricordata a Bruxelles per la sua energia e la sua dinamicità ed è uno dei pochi politici italiani che pronuncia senza fastidio la parola federalismo riferita all’Europa -le manca, però, una vocazione economica.
Giulio Tremonti, infine, è senz’altro il Ministro del Governo Berlusconi più stimato e più apprezzato dai suoi colleghi europei ed è anche l’unico assiduo alle riunioni a Bruxelles e a Lussemburgo dell’Eurozona e dell’Ecofin. A contendere la pole position a Monti ci sarebbe stato Tommaso Padoa-Schioppa, Direttore generale della Dg economia e finanza della Commissione europea e primo membro italiano del board della Bce, prima di essere Ministro dell’economia. Ma Tommaso Padoa-Schioppa, un europeista convinto, è improvvisamente scomparso un anno fa, lasciando un vuoto di competenza e di professionalità.
mercoledì 9 novembre 2011
SPIGOLI: Italia in prima pagina, una promessa di Mr B è debito
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 09/11/2011
L’Italia sulle prime pagine della stampa di tutto il Mondo: quando succede, raramente è una buona cosa, perché vuol dire che c’è stato un cataclisma. E, in effetti, è stato così: però, un terremoto foriero di speranze, oltre che di incognite, atteso e auspicato quasi unanimemente dai corrispondenti esteri, che, anche questa volta, si trovano in difficoltà a capire bene quanto sta accadendo. Ma non c’è da stupirsi: non lo capiamo neppure noi.
Facciamo, senza commenti, una carrellata di titoli e di citazioni (non di tutti i media, che sono ripetitivi, ma di quelli più importanti, o che hanno elementi di originalità).
Stampa britannica - FT: Berlusconi promette di dimettersi, ma la promessa non calma mercati … La mossa di Berlusconi può fargli guadagnare tempo? … Addio Berlusconi. BBC: Crisi italiana: Berlusconi promette di dimettersi … Gli investitori vogliono vedere risultati. Guardian: editoriale, Berlusconi con le spalle al muro … La caduta, ammesso che ci sia, rafforzerà l’Italia, perché, a differenza della Grecia, in Italia è l'uomo e non il Paese il problema immediato … La nave ha bisogno di un nuovo capitano credibile. Purtroppo non c'è nessuna ovvia scelta carismatica … Il grande interrogativo è se un governo migliore possa risolvere i problemi dell’Italia. E ancora, in altri articoli: il regno del magnate dei media e del premier italiano più longevo vicino alla fine ... Berlusconi scopre che non è troppo grande per fallire ... Patriottismo e commedia noir … Ascesa e caduta .... Telegraph: commento, bye bye bunga bunga … fine in vista per Berlusconi, il grande sopravvissuto … ma, incredibilmente, potrebbe non essere fuori … Times: Berlusconi se ne va con un attacco ai traditori … Nerone suonava mentre Roma bruciava, Silvio faceva il bunga bunga … Independent: Italia si sveglia alla vita dopo Berlusconi … Il Paese ha fatto un’esperienza mostruosa e farsesca. Sibillino l’ Economist, nemico giurato di Mr B: “E adesso?”.
Stampa francese – Le Monde: "Sorpreso e triste", Berlusconi non si ripresenterà alle elezioni anticipate (davvero?, ndr) … Mercati speravano in dimissioni … Nouvel Obs: La fine di un'era … L’Italia del dopo Berlusconi in cinque punti neri … Le Figaro: Bruxelles giudica la situazione italiana molto inquietante … Berlusconi si dimetterà una volta votate le riforme … Liberation: Berlusconi mette i piedi a terra. Les Echos: editoriale, l'insostenibile posizione dell'Italia … I mercati spingono Berlusconi verso l’uscita … Getta la spugna e lascerà il potere tra qualche giorno … La confusione porta i tassi a nuovi record … La Tribune: Le ragioni delle dimissioni, 17 anni di promesse non mantenute.
Stampa spagnola - El Pais: Berlusconi propone elezioni a febbraio ed esclude di presentarsi (e ci risiamo, ndr) … un voto per mettere in scena la solitudine del Cavaliere … Giulio Cesare o Nerone? Mentre lui si considera un eroe tradito, gran parte dell’opinione pubblica lo considera un male per Italia. El Mundo: Le dimissioni di Berlusconi il migliore strumento dell’Italia per uscire dalla crisi … L'eterno show del Cavaliere, traiettoria politica disseminata di gaffes e battute … Chi dopo di lui? Abc: Berlusconi si dimetterà … Ue molto preoccupata … Ryain Air si offre a Berlusconi per scappare dall’Italia. Expansion; Berlusconi cede e si dimetterà quando saranno state approvate le misure volute dall’Ue
Stampa americana - WSJ: La crisi finanziaria costa il posto a Berlusconi … Il premier alla fine paga il debito, ha resistito a molti scandali ma non alle difficoltà di bilancio … La domanda del giorno è: l’Italia sta meglio con o senza Berlusconi? L’85% risponde senza ... NYT: La crisi del debito è l’ultimo atto di Berlusconi … Un voto umiliante … WP: Berlusconi lega le dimissioni al voto sul risanamento del bilancio … SFC: premier italiano offre dimissioni condizionate. Newsweek: Berlusconi inciampa e se ne va … La caduta non risolverà nulla … I momenti più imbarazzanti del suo potere .... Time: Berlusconi dice che se ne va. E' la fine della politica della farsa? … Cinque ragioni per cui Italia vi deve spaventare … E le 10 peggiori gaffe di Berlusconi …
L’Italia sulle prime pagine della stampa di tutto il Mondo: quando succede, raramente è una buona cosa, perché vuol dire che c’è stato un cataclisma. E, in effetti, è stato così: però, un terremoto foriero di speranze, oltre che di incognite, atteso e auspicato quasi unanimemente dai corrispondenti esteri, che, anche questa volta, si trovano in difficoltà a capire bene quanto sta accadendo. Ma non c’è da stupirsi: non lo capiamo neppure noi.
Facciamo, senza commenti, una carrellata di titoli e di citazioni (non di tutti i media, che sono ripetitivi, ma di quelli più importanti, o che hanno elementi di originalità).
Stampa britannica - FT: Berlusconi promette di dimettersi, ma la promessa non calma mercati … La mossa di Berlusconi può fargli guadagnare tempo? … Addio Berlusconi. BBC: Crisi italiana: Berlusconi promette di dimettersi … Gli investitori vogliono vedere risultati. Guardian: editoriale, Berlusconi con le spalle al muro … La caduta, ammesso che ci sia, rafforzerà l’Italia, perché, a differenza della Grecia, in Italia è l'uomo e non il Paese il problema immediato … La nave ha bisogno di un nuovo capitano credibile. Purtroppo non c'è nessuna ovvia scelta carismatica … Il grande interrogativo è se un governo migliore possa risolvere i problemi dell’Italia. E ancora, in altri articoli: il regno del magnate dei media e del premier italiano più longevo vicino alla fine ... Berlusconi scopre che non è troppo grande per fallire ... Patriottismo e commedia noir … Ascesa e caduta .... Telegraph: commento, bye bye bunga bunga … fine in vista per Berlusconi, il grande sopravvissuto … ma, incredibilmente, potrebbe non essere fuori … Times: Berlusconi se ne va con un attacco ai traditori … Nerone suonava mentre Roma bruciava, Silvio faceva il bunga bunga … Independent: Italia si sveglia alla vita dopo Berlusconi … Il Paese ha fatto un’esperienza mostruosa e farsesca. Sibillino l’ Economist, nemico giurato di Mr B: “E adesso?”.
Stampa francese – Le Monde: "Sorpreso e triste", Berlusconi non si ripresenterà alle elezioni anticipate (davvero?, ndr) … Mercati speravano in dimissioni … Nouvel Obs: La fine di un'era … L’Italia del dopo Berlusconi in cinque punti neri … Le Figaro: Bruxelles giudica la situazione italiana molto inquietante … Berlusconi si dimetterà una volta votate le riforme … Liberation: Berlusconi mette i piedi a terra. Les Echos: editoriale, l'insostenibile posizione dell'Italia … I mercati spingono Berlusconi verso l’uscita … Getta la spugna e lascerà il potere tra qualche giorno … La confusione porta i tassi a nuovi record … La Tribune: Le ragioni delle dimissioni, 17 anni di promesse non mantenute.
Stampa spagnola - El Pais: Berlusconi propone elezioni a febbraio ed esclude di presentarsi (e ci risiamo, ndr) … un voto per mettere in scena la solitudine del Cavaliere … Giulio Cesare o Nerone? Mentre lui si considera un eroe tradito, gran parte dell’opinione pubblica lo considera un male per Italia. El Mundo: Le dimissioni di Berlusconi il migliore strumento dell’Italia per uscire dalla crisi … L'eterno show del Cavaliere, traiettoria politica disseminata di gaffes e battute … Chi dopo di lui? Abc: Berlusconi si dimetterà … Ue molto preoccupata … Ryain Air si offre a Berlusconi per scappare dall’Italia. Expansion; Berlusconi cede e si dimetterà quando saranno state approvate le misure volute dall’Ue
Stampa americana - WSJ: La crisi finanziaria costa il posto a Berlusconi … Il premier alla fine paga il debito, ha resistito a molti scandali ma non alle difficoltà di bilancio … La domanda del giorno è: l’Italia sta meglio con o senza Berlusconi? L’85% risponde senza ... NYT: La crisi del debito è l’ultimo atto di Berlusconi … Un voto umiliante … WP: Berlusconi lega le dimissioni al voto sul risanamento del bilancio … SFC: premier italiano offre dimissioni condizionate. Newsweek: Berlusconi inciampa e se ne va … La caduta non risolverà nulla … I momenti più imbarazzanti del suo potere .... Time: Berlusconi dice che se ne va. E' la fine della politica della farsa? … Cinque ragioni per cui Italia vi deve spaventare … E le 10 peggiori gaffe di Berlusconi …
Iran: Aiea avalla bomba, ipotesi attacco preventivo
Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 09/11/2011
Ci risiamo. L’Iran sarebbe sul punto di dotarsi dell’atomica. E l’America, magari tramite Israele, sarebbe sul punto di provare ad impedirglielo con un attacco preventivo: lo scenario non è quello d’una guerra vera e propria, ma piuttosto quello già sperimentato di un’ ‘operazione chirurgica’ (solo che, al posto del bisturi, ci sarebbero le famigerate ‘bombe intelligenti’). L’allarme, che è stato più volte agitato negli ultimi anni, risuona di nuovo forte mentre il presidente Usa Barack Obama affronta con un tasso di popolarità basso la campagna elettorale 2012 e mentre Israele è più isolato che mai sulla scena mediorientale, senza i punti di riferimento egiziano e turco.
NYT e WP scrivono e le agenzie di stampa internazionali confermano che un rapporto dell'Aiea, l’Agenzia internazionale dell’Onu per l'energia atomica, già consegnato agli Stati membri, ma non ancora pubblicato, indica che Teheran sarebbe riuscita a superare tutti i maggiori problemi tecnici che la separavano dallo sviluppo di armi nucleari. Per il presidente israeliano, Shimon Peres, che non è un falco, l’Iran potrebbe arrivare all'atomica entro sei mesi.
Foto dal satellite e rapporti di intelligence testimonierebbero la presenza nel Paese di infrastrutture per produrre e ‘testare’ ordigni atomici, oltre che il ruolo d’esperti dell’ex Unione Sovietica, e pure pakistani e nord-coreani, nella formazione di personale iraniano. Teheran lavorò allo sviluppo dell'atomica fino al 2003 con "un programma strutturato" e ci sono elementi per sostenere stia tuttora conducendo ricerche in quella direzione: recentemente, ha pure a iniziato a trasferire materiale nucleare nel bunker sotterraneo di Fordow.
Gli elementi d’allarme, dunque, ci sono, certificati da un’Agenzia dell’Onu: nulla a che vedere, cioè, con il labile complotto iraniano per uccidere un diplomatico saudita sul territorio statunitense denunciato il mese scorso da Washington. Ma Teheran nega di lavorare all'atomica: il presidente Mahmud Ahmadinejad afferma che il suo Paese non ha bisogno della bomba e che Usa e Israele "temono il ruolo e le capacità crescenti dell'Iran" e "cercano di ottenere il sostegno internazionale” per un'operazione militare preventiva.
Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ammonisce che un attacco sarebbe "un errore molto grave" e dalle "conseguenze imprevedibili". E la ipotesi di attacco innescano pure effetti negativi: una sorta di disgelo tra Ahmadinejad e la guida suprema Ali Khamenei, con delusione di chi riteneva che le divisioni interne sarebbero divenute prima o poi l’inizio della fine del regime
Vediamo gli scenari che si aprono.
Se – L’attacco ci sarà? L'ipotesi di un’azione israeliana contro le installazioni nucleari iraniane era già stata alimentata nei giorni scorsi da indiscrezioni su dibattiti in seno al governo Netanyahu. Ma gli Stati Uniti, prima di avallarla, perché per ora è impensabile che essa avvenga a loro insaputa e contro il loro parere, percorreranno, probabilmente, la strada di un inasprimento delle sanzioni dell’Onu contro l’Iran: una strada in salita, perché Mosca e Pechino hanno già espresso forti riserve.
Bisognerà, poi, valutare gli sviluppi sia della situazione mediorientale che della campagna elettorale negli Stati Uniti. Al presidente in carica, una situazione di tensione internazionale può anche fare comodo, ma, come scrive il generale Arpino su AffarInternazionali, molti negli Usa, e non solo liberal, paiono ormai rassegnati a convivere con un Iran nucleare, e auspicano che la “mano tesa” prima o poi venga stretta, anche a prezzo di qualche rinuncia, purché non ci sia la guerra.
Quando – Se quel che conta sono le scadenze elettorali, non ora e neppure presto: Obama potrebbe trovarsi alle strette verso la fine dell’estate prossima, dopo la designazione del rivale repubblicano. Ma un ricorso a freddo a un attacco preventivo come strategia elettorale ci appare poco credibile. Se, invece, quel che conta sono i timori israeliani, ogni momento è buono.
Come – Per Anthony H. Cordesman, ricercatore senior del Center for Strategic and International Studies (Csis), Israele ha la possibilità di lanciare diverse ondate d’attacco simultaneo di tre gruppi di 18 velivoli ciascuno, 54 velivoli per ogni operazione (F15 e F16). I limiti non vengono dai mezzi d’attacco, ma dalle capacità di rifornimento in volo. Per distruggere siti protetti o sotterranei come Nantaz, Isfahan e Arak, Israele già disporrebbe di armamenti convenzionali di precisione sufficienti, senza escludere l’ipotesi che gli Usa abbiano già fornito materiale più sofisticato.
Ci risiamo. L’Iran sarebbe sul punto di dotarsi dell’atomica. E l’America, magari tramite Israele, sarebbe sul punto di provare ad impedirglielo con un attacco preventivo: lo scenario non è quello d’una guerra vera e propria, ma piuttosto quello già sperimentato di un’ ‘operazione chirurgica’ (solo che, al posto del bisturi, ci sarebbero le famigerate ‘bombe intelligenti’). L’allarme, che è stato più volte agitato negli ultimi anni, risuona di nuovo forte mentre il presidente Usa Barack Obama affronta con un tasso di popolarità basso la campagna elettorale 2012 e mentre Israele è più isolato che mai sulla scena mediorientale, senza i punti di riferimento egiziano e turco.
NYT e WP scrivono e le agenzie di stampa internazionali confermano che un rapporto dell'Aiea, l’Agenzia internazionale dell’Onu per l'energia atomica, già consegnato agli Stati membri, ma non ancora pubblicato, indica che Teheran sarebbe riuscita a superare tutti i maggiori problemi tecnici che la separavano dallo sviluppo di armi nucleari. Per il presidente israeliano, Shimon Peres, che non è un falco, l’Iran potrebbe arrivare all'atomica entro sei mesi.
Foto dal satellite e rapporti di intelligence testimonierebbero la presenza nel Paese di infrastrutture per produrre e ‘testare’ ordigni atomici, oltre che il ruolo d’esperti dell’ex Unione Sovietica, e pure pakistani e nord-coreani, nella formazione di personale iraniano. Teheran lavorò allo sviluppo dell'atomica fino al 2003 con "un programma strutturato" e ci sono elementi per sostenere stia tuttora conducendo ricerche in quella direzione: recentemente, ha pure a iniziato a trasferire materiale nucleare nel bunker sotterraneo di Fordow.
Gli elementi d’allarme, dunque, ci sono, certificati da un’Agenzia dell’Onu: nulla a che vedere, cioè, con il labile complotto iraniano per uccidere un diplomatico saudita sul territorio statunitense denunciato il mese scorso da Washington. Ma Teheran nega di lavorare all'atomica: il presidente Mahmud Ahmadinejad afferma che il suo Paese non ha bisogno della bomba e che Usa e Israele "temono il ruolo e le capacità crescenti dell'Iran" e "cercano di ottenere il sostegno internazionale” per un'operazione militare preventiva.
Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ammonisce che un attacco sarebbe "un errore molto grave" e dalle "conseguenze imprevedibili". E la ipotesi di attacco innescano pure effetti negativi: una sorta di disgelo tra Ahmadinejad e la guida suprema Ali Khamenei, con delusione di chi riteneva che le divisioni interne sarebbero divenute prima o poi l’inizio della fine del regime
Vediamo gli scenari che si aprono.
Se – L’attacco ci sarà? L'ipotesi di un’azione israeliana contro le installazioni nucleari iraniane era già stata alimentata nei giorni scorsi da indiscrezioni su dibattiti in seno al governo Netanyahu. Ma gli Stati Uniti, prima di avallarla, perché per ora è impensabile che essa avvenga a loro insaputa e contro il loro parere, percorreranno, probabilmente, la strada di un inasprimento delle sanzioni dell’Onu contro l’Iran: una strada in salita, perché Mosca e Pechino hanno già espresso forti riserve.
Bisognerà, poi, valutare gli sviluppi sia della situazione mediorientale che della campagna elettorale negli Stati Uniti. Al presidente in carica, una situazione di tensione internazionale può anche fare comodo, ma, come scrive il generale Arpino su AffarInternazionali, molti negli Usa, e non solo liberal, paiono ormai rassegnati a convivere con un Iran nucleare, e auspicano che la “mano tesa” prima o poi venga stretta, anche a prezzo di qualche rinuncia, purché non ci sia la guerra.
Quando – Se quel che conta sono le scadenze elettorali, non ora e neppure presto: Obama potrebbe trovarsi alle strette verso la fine dell’estate prossima, dopo la designazione del rivale repubblicano. Ma un ricorso a freddo a un attacco preventivo come strategia elettorale ci appare poco credibile. Se, invece, quel che conta sono i timori israeliani, ogni momento è buono.
Come – Per Anthony H. Cordesman, ricercatore senior del Center for Strategic and International Studies (Csis), Israele ha la possibilità di lanciare diverse ondate d’attacco simultaneo di tre gruppi di 18 velivoli ciascuno, 54 velivoli per ogni operazione (F15 e F16). I limiti non vengono dai mezzi d’attacco, ma dalle capacità di rifornimento in volo. Per distruggere siti protetti o sotterranei come Nantaz, Isfahan e Arak, Israele già disporrebbe di armamenti convenzionali di precisione sufficienti, senza escludere l’ipotesi che gli Usa abbiano già fornito materiale più sofisticato.
martedì 8 novembre 2011
SPIGOLI: Le Monde, "Mr B è finita, inutile che t'aggrappi"
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano, non pubblicato
“E' finita, Berlusconi: è inutile che t’aggrappi": il titolo di Le Monde traduce, e tradisce, l’atteggiamento di molti corrispondenti della stampa estera, di fronte agli sviluppi politici della crisi italiana. Dopo averne data più volte la fine per imminente, e avere inutilmente atteso di vederne passare il cadavere lungo la riva del fiume, i corrispondenti, avvertono che questa è la volta buona: l’uscita di scena del Cavaliere è vicina. Non c’è più quasi né cattiveria né ironia, nei servizi: la cronaca è asciutta, ma già di per sé drammatica. Il trittico di crisi ‘Italia-debito-governo’ campeggia su molte homepages della stampa internazionale.
“Più solo che mai –scrive ancora Le Monde-. Quando cadrà è la sola domanda”. In un editoriale, El Pais denuncia “l’errore Berlusconi”, fattore principale della crisi italiana; e mette in homepage la foto di Mario Monti. Per NouvelObs, è già tempo di bilanci e di previsioni sull’ “Italia del dopo” Mr B. Libération (Berlusconi verso la débacle) e Le Figaro (Berlusconi con le spalle al muro) lo danno per spacciato. Abc lo vede, invece, dimenarsi per restare attaccato al potere. Les Echos ed El Mundo puntano piuttosto sulla gravita della crisi del debito (“L’Italia rischia di esservi trascinata”).
La stampa anglosassone è su linee d’onda analoghe, ma più ottimista, anche se la Bbc vede l’Italia “sull’orlo dell’abisso” e il Daily Mail scrive che “l’Italia di Berlusconi potrebbe trascinare l’Ue in un inferno economico”. FT, in una colonna Lex, invita gli italiani “a guardare agli aspetti positivi dell’era post Berlusconi e a prepararsi a coglierle”. Il Guardian scrive che la crisi politica “potrebbe essere una benedizione per l’Italia”. E il Telegraph s’interroga: ”C'è salvezza senza Berlusconi? Italia di fronte a una nuova realtà”: L’editoriale dell’Independent resta un passo indietro: “Se vuole salvare Italia, Berlusconi deve andarsene. La crisi peggiora, ma il premier s’aggrappa al potere con aria di sfida”.
L’attenzione è alta pure negli Stati Uniti. Se NYT, LAT, WP sono sostanzialmente fattuali, il WSJ, in un commento, si chiede “come mai” il Cavaliere abbia “sopravvissuto” così a lungo e individua nella “mancanza di decisione” la sua colpa peggiore. La Cnn considera l’Italia di Mr B “una ricetta per il disastro”, Bloomberg, in un video, anticipa problemi per “l’impero dei media” di Mediaset. Scatenati i principali settimanali: Newsweek titola “L’Italia sull'orlo del collasso” e “L'ultimo urrah di Berlusconi”; mentre il Time spiega perché il premier “se ne deve andare” e mette il bunga-bunga fra i dieci principali “abusi” dei potenti di questo mondo.
“E' finita, Berlusconi: è inutile che t’aggrappi": il titolo di Le Monde traduce, e tradisce, l’atteggiamento di molti corrispondenti della stampa estera, di fronte agli sviluppi politici della crisi italiana. Dopo averne data più volte la fine per imminente, e avere inutilmente atteso di vederne passare il cadavere lungo la riva del fiume, i corrispondenti, avvertono che questa è la volta buona: l’uscita di scena del Cavaliere è vicina. Non c’è più quasi né cattiveria né ironia, nei servizi: la cronaca è asciutta, ma già di per sé drammatica. Il trittico di crisi ‘Italia-debito-governo’ campeggia su molte homepages della stampa internazionale.
“Più solo che mai –scrive ancora Le Monde-. Quando cadrà è la sola domanda”. In un editoriale, El Pais denuncia “l’errore Berlusconi”, fattore principale della crisi italiana; e mette in homepage la foto di Mario Monti. Per NouvelObs, è già tempo di bilanci e di previsioni sull’ “Italia del dopo” Mr B. Libération (Berlusconi verso la débacle) e Le Figaro (Berlusconi con le spalle al muro) lo danno per spacciato. Abc lo vede, invece, dimenarsi per restare attaccato al potere. Les Echos ed El Mundo puntano piuttosto sulla gravita della crisi del debito (“L’Italia rischia di esservi trascinata”).
La stampa anglosassone è su linee d’onda analoghe, ma più ottimista, anche se la Bbc vede l’Italia “sull’orlo dell’abisso” e il Daily Mail scrive che “l’Italia di Berlusconi potrebbe trascinare l’Ue in un inferno economico”. FT, in una colonna Lex, invita gli italiani “a guardare agli aspetti positivi dell’era post Berlusconi e a prepararsi a coglierle”. Il Guardian scrive che la crisi politica “potrebbe essere una benedizione per l’Italia”. E il Telegraph s’interroga: ”C'è salvezza senza Berlusconi? Italia di fronte a una nuova realtà”: L’editoriale dell’Independent resta un passo indietro: “Se vuole salvare Italia, Berlusconi deve andarsene. La crisi peggiora, ma il premier s’aggrappa al potere con aria di sfida”.
L’attenzione è alta pure negli Stati Uniti. Se NYT, LAT, WP sono sostanzialmente fattuali, il WSJ, in un commento, si chiede “come mai” il Cavaliere abbia “sopravvissuto” così a lungo e individua nella “mancanza di decisione” la sua colpa peggiore. La Cnn considera l’Italia di Mr B “una ricetta per il disastro”, Bloomberg, in un video, anticipa problemi per “l’impero dei media” di Mediaset. Scatenati i principali settimanali: Newsweek titola “L’Italia sull'orlo del collasso” e “L'ultimo urrah di Berlusconi”; mentre il Time spiega perché il premier “se ne deve andare” e mette il bunga-bunga fra i dieci principali “abusi” dei potenti di questo mondo.
domenica 6 novembre 2011
Usa: un anno a Election Day, Obama for president nonostante mistificazioni
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 06/11/2011
Ogni quattro anni, l’Election Day negli Stati Uniti è un evento mondiale. E l’Italia lo attende e lo vive quasi come un evento di politica interna, perché la benevolenza dell’Amministrazione Usa verso il governo italiano, quali che siano il presidente e il premier, è considerata un elemento essenziale per la credibilità e la stabilità del nostro esecutivo. Al punto da barare, per farla apparire anche là dove non c’è. L’ultima settimana, ad esempio, buona parte della stampa italiana ha mistificato in modo palese due notizie americane. La prima quando Obama, presentatosi per ragioni elettorali all’annuale convention di un’organizzazione di americani di origine italiana tendenzialmente conservatrice, la Niaf, ha tessuto l’elogio dell’Italia e del contributo dell’immigrazione italiana alla Nazione americana: un discorso etnico e cerimoniale, trasformato in un messaggio politico. La seconda quando una fonte Usa al Vertice del G20 a Cannes ha detto che cambiare governo in Italia, come in Grecia, non avrebbe di per sé risolto i problemi: non era un appello alla continuità, ma un modo per notare che i nuovi governi dovranno affrontare i problemi già esistenti e finora non risolti.
Fra un anno esatto, il 6 novembre 2012, sarà Election Day negli Stati Uniti: il giorno in cui gli americani andranno a votare per eleggere il presidente dell’Unione 2013/’16, oltre che per rinnovare tutta la Camera, un terzo del Senato e i governatori di decine di Stati. Il presidente Barack Obama, un democratico, il primo nero alla Casa Bianca, punta a un secondo mandato; i suoi rivali repubblicani mirano a scalzarlo, ma prima devono battersi tra di loro per acquisire il diritto a sfidarlo. Per tutti, la strada è ancora lunga: un 2011 di schermaglie, di test di prova, di dibattiti di riscaldamento, che pure sono già serviti a diradare il campo dei concorrenti repubblicani, sarà azzerato quando, a gennaio, nello Iowa, si cominceranno a contare i voti della corsa alla nomination.
Se si votasse ora, dicono gli ultimi sondaggi pubblicati, il presidente Obama vincerebbe nonostante tutto: nonostante la crisi economica da cui non si esce e che potrebbe anzi peggiorare –ma questo è uno scenario catastrofico per l’inquilino della Casa Bianca-; i tiramolla con i repubblicani all’opposizione, che da un anno hanno la maggioranza alla Camera sul contenimento del debito e il rilancio della crescita; l’incapacità palpabile e percepita di incidere nei processi di pace in Medio Oriente e l’impreparazione all’insorgere della Primavera araba; il sapore di sconfitta che lasciano le guerre finite, ma non vinte, in Iraq e in Afghanistan (dove, tra l’altro, si combatte ancora).
Vediamo, infatti, a un anno dal voto, i dati sui possibili incroci tra Obama e i suoi sfidanti: Obama li batterebbe tutti, tranne Mitt Romney, con cui è praticamente un testa a testa. Ma Romney, ex governatore del Massachussetts, è quello che gli americani definiscono un ‘loser’, un perdente: farà molta fatica a ottenere la ‘nomination’ e ne farebbe molta di più a conquistare la Casa Bianca. Nella sfida tra Obama e Romney, oggi vincerebbe l'ex governatore 44% a 43% -pure qui, il divario è statisticamente irrilevante-. Niente da fare per gli altri aspiranti presidenti: Obama contro Herman Cain, miliardario nero, finirebbe 46% a 41%, contro Richard Perry, ex governatore del Texas, 47% a 41%.
In corsa per la nomination repubblicana, ci sono Romney, Perry, Cain e, apparentemente con minori chance, pure Michele Bachmann, deputata del Minnesota, l'ex speaker della Camera Newt Gingrich, che azzarda un ‘come back’ dagli Anni Novanta, l'ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, cattolico e italo-americano, l'ex ambasciatore degli Usa a Pechino Jon Huntsman, che è stato anche governatore dello Utah, e Ron Paul, padre del neo-senatore del Kentucky Rand Paul.
Prima degli appuntamenti che contano per raccogliere delegati alla Convention repubblicana di mezza estate - tra gennaio e febbraio 2012, la lista delle primarie si apre con Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina - potrebbe ancora aggiungersene qualcuno, ma qualcuno potrebbe anche andarsene.
Ogni quattro anni, l’Election Day negli Stati Uniti è un evento mondiale. E l’Italia lo attende e lo vive quasi come un evento di politica interna, perché la benevolenza dell’Amministrazione Usa verso il governo italiano, quali che siano il presidente e il premier, è considerata un elemento essenziale per la credibilità e la stabilità del nostro esecutivo. Al punto da barare, per farla apparire anche là dove non c’è. L’ultima settimana, ad esempio, buona parte della stampa italiana ha mistificato in modo palese due notizie americane. La prima quando Obama, presentatosi per ragioni elettorali all’annuale convention di un’organizzazione di americani di origine italiana tendenzialmente conservatrice, la Niaf, ha tessuto l’elogio dell’Italia e del contributo dell’immigrazione italiana alla Nazione americana: un discorso etnico e cerimoniale, trasformato in un messaggio politico. La seconda quando una fonte Usa al Vertice del G20 a Cannes ha detto che cambiare governo in Italia, come in Grecia, non avrebbe di per sé risolto i problemi: non era un appello alla continuità, ma un modo per notare che i nuovi governi dovranno affrontare i problemi già esistenti e finora non risolti.
Fra un anno esatto, il 6 novembre 2012, sarà Election Day negli Stati Uniti: il giorno in cui gli americani andranno a votare per eleggere il presidente dell’Unione 2013/’16, oltre che per rinnovare tutta la Camera, un terzo del Senato e i governatori di decine di Stati. Il presidente Barack Obama, un democratico, il primo nero alla Casa Bianca, punta a un secondo mandato; i suoi rivali repubblicani mirano a scalzarlo, ma prima devono battersi tra di loro per acquisire il diritto a sfidarlo. Per tutti, la strada è ancora lunga: un 2011 di schermaglie, di test di prova, di dibattiti di riscaldamento, che pure sono già serviti a diradare il campo dei concorrenti repubblicani, sarà azzerato quando, a gennaio, nello Iowa, si cominceranno a contare i voti della corsa alla nomination.
Se si votasse ora, dicono gli ultimi sondaggi pubblicati, il presidente Obama vincerebbe nonostante tutto: nonostante la crisi economica da cui non si esce e che potrebbe anzi peggiorare –ma questo è uno scenario catastrofico per l’inquilino della Casa Bianca-; i tiramolla con i repubblicani all’opposizione, che da un anno hanno la maggioranza alla Camera sul contenimento del debito e il rilancio della crescita; l’incapacità palpabile e percepita di incidere nei processi di pace in Medio Oriente e l’impreparazione all’insorgere della Primavera araba; il sapore di sconfitta che lasciano le guerre finite, ma non vinte, in Iraq e in Afghanistan (dove, tra l’altro, si combatte ancora).
Vediamo, infatti, a un anno dal voto, i dati sui possibili incroci tra Obama e i suoi sfidanti: Obama li batterebbe tutti, tranne Mitt Romney, con cui è praticamente un testa a testa. Ma Romney, ex governatore del Massachussetts, è quello che gli americani definiscono un ‘loser’, un perdente: farà molta fatica a ottenere la ‘nomination’ e ne farebbe molta di più a conquistare la Casa Bianca. Nella sfida tra Obama e Romney, oggi vincerebbe l'ex governatore 44% a 43% -pure qui, il divario è statisticamente irrilevante-. Niente da fare per gli altri aspiranti presidenti: Obama contro Herman Cain, miliardario nero, finirebbe 46% a 41%, contro Richard Perry, ex governatore del Texas, 47% a 41%.
In corsa per la nomination repubblicana, ci sono Romney, Perry, Cain e, apparentemente con minori chance, pure Michele Bachmann, deputata del Minnesota, l'ex speaker della Camera Newt Gingrich, che azzarda un ‘come back’ dagli Anni Novanta, l'ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, cattolico e italo-americano, l'ex ambasciatore degli Usa a Pechino Jon Huntsman, che è stato anche governatore dello Utah, e Ron Paul, padre del neo-senatore del Kentucky Rand Paul.
Prima degli appuntamenti che contano per raccogliere delegati alla Convention repubblicana di mezza estate - tra gennaio e febbraio 2012, la lista delle primarie si apre con Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina - potrebbe ancora aggiungersene qualcuno, ma qualcuno potrebbe anche andarsene.
sabato 5 novembre 2011
Usa-Italia: Calingaert, rapporti tra Paesi buoni, danni non gravi
Pubblicato da L'Indro dello 08/11/2011
“Il rapporto personale fra due leader dipende dall’intesa che si stabilisce fra di loro, se vanno d’accordo o meno. Certamente, le personalità di Bush e Berlusconi erano fra di loro più vicine che quelle di Obama e Berlusconi. M’immagino che Obama sia più a suo agio con una personalità come quella di Napolitano”, senza però travalicare i confini delle competenze istituzionali e senza che neppure venga meno il rapporto tra Amministrazioni. Un’impressione confortata, tempo fa, dall’invito a prendere un te alla Casa Bianca giunto al presidente italiano, quando Obama voleva farsi un’idea di come vanno le cose in Italia e in Europa.
Michael Calingaert, un americano che conosce da vicino l’Italia e che le vuole bene, parla a Il Fatto come ricercatore presso la Brookings Institution di Washington , uno dei più prestigiosi ‘think tanks’ mondiali, ma è anche vice-presidente esecutivo del Consiglio per le Relazioni fra Italia e Stati Uniti dopo essere stato a lungo un diplomatico del Dipartimento di Stato, fra l’altro responsabile economico presso l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma.
Da diplomatico esperto, Calingaert non fa proprie alcune impressioni su Berlusconi che si possono cogliere a Washington, a registratori spenti e taccuini chiusi, quando il premier italiano ne combina una delle sue: ”Un personaggio poco serio, le cui sortite, proprio per questo, non contano molto e, talora, non meritano neppure risposta”.
La valutazione di Calingaert è misurata: “Berlusconi ha dominato la scena politica italiana in un modo che nessun altro nel Secondo Dopoguerra … Con Bush c’era un rapporto certamente buono, ma non ci sarebbe stato se Berlusconi non ne avesse appoggiato la politica al 100 per cento. Obama è una personalità diversa ed è stato anche criticato per non avere curato i rapporti personali con i leader stranieri. Però è normale che abbia più a che fare con altri Paesi con un ruolo più importante sulla scena europea e su quella economica … Logico che Obama guardi, in Europa, prima a Francia, Germania e Gran Bretagna che all’Italia”.
Per Calingaert, “il discorso sulla perdita di peso dell’Italia, agli occhi degli Stati Uniti, è relativo. Se facciamo un confronto con gli Anni Settanta o gli Anni Ottanta, quando non contava e non era neppure considerata interessante, l’Italia è molto salita nella considerazione degli americani, nel senso che gode di eccellente reputazione, tutti ne parlano bene, tutti la vogliono visitare … Se vuoi vendere caro qualcosa, dici che viene dall’Italia o meglio ancora dalla Toscana e lo piazzi bene … “.
D’accordo, questo rispetto a trent’anni or sono. Ma se il confronto lo facciamo in un ambito più ristretto?
“Sul piano politico, da molto tempo non ci sono grandi difficoltà tra Italia e Stati Uniti. E i governi italiani hanno sempre avuto atteggiamenti molto positivi verso l’America: ogni governo punta a essere amico, anzi il più amico, degli Stati Uniti …. C’è stato, però, un momento speciale, un caso specifico, in cui Washington trattò Roma con particolare riguardo: all’epoca della guerra in Iraq, quando l’Europa e gli alleati si divisero sul conflitto, per l’Amministrazione Bush era importante avere l’Italia in squadra e quindi l’Italia, che mandò in Iraq i suoi uomini, venne tenuta in alta considerazione … Altrimenti, è difficile trovare un momento in cui l’Italia sia più vicina o più distante, politicamente, dagli Stati Uniti”, a parte gli incidenti di percorso rappresentati, volta a volta, dalla tragedia del Cermis o dall’uccisione di Calipari, dal sequestro di Abu Omar o dai cablo di Weakileaks …
L’Italia soffre di un ‘complesso di Calimero’, in questo suo sentirsi trascurata?
“In Italia, c’è sempre stata una dose d’autocritica forte e una tendenza ad esagerare i problemi … Che l’Italia non sia vista allo stesso livello di Francia, Germania e Gran Bretagna, indipendentemente da quale sia il suo governo, dipende soprattutto dalla potenza militare messa in campo e, in questo senso, l’Italia, che dà un forte contributo alle missioni di pace, può avvertire che il suo contributo sia stato sottovalutato”.
I danni ai rapporti Italia/Usa innescati dai problemi di personalità del premier Berlusconi sono irreparabili?
"A livello di rapporti tra Stati, non vedo né problemi, né contrasti. Quindi non parlerei certo di danni irreparabili. Gli interessi reciproci fra i due Paesi restano inalterati e la coincidenza di visione e di valori resta pure … Prima o poi ci sarà un nuovo premier” e magari un nuovo presidente. E chi lo sa quale verrà prima.
E a livello di imprenditori? Il Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti è un eccellente osservatorio…
“Il Consiglio non si occupa di politica, ma mi sembra che negli anni di molto cresciuta la preoccupazione per la situazione economica italiana e il clima degli investimenti … Il settore privato italiano è molto cosciente della gravità della situazione … Il mondo cambia e con la globalizzazione e l’avvento della crisi economica globale i problemi diventano più seri per tutti, per l’Italia e pure per gli Stati Uniti … Anche da noi i problemi sono grossi …“.
“Il rapporto personale fra due leader dipende dall’intesa che si stabilisce fra di loro, se vanno d’accordo o meno. Certamente, le personalità di Bush e Berlusconi erano fra di loro più vicine che quelle di Obama e Berlusconi. M’immagino che Obama sia più a suo agio con una personalità come quella di Napolitano”, senza però travalicare i confini delle competenze istituzionali e senza che neppure venga meno il rapporto tra Amministrazioni. Un’impressione confortata, tempo fa, dall’invito a prendere un te alla Casa Bianca giunto al presidente italiano, quando Obama voleva farsi un’idea di come vanno le cose in Italia e in Europa.
Michael Calingaert, un americano che conosce da vicino l’Italia e che le vuole bene, parla a Il Fatto come ricercatore presso la Brookings Institution di Washington , uno dei più prestigiosi ‘think tanks’ mondiali, ma è anche vice-presidente esecutivo del Consiglio per le Relazioni fra Italia e Stati Uniti dopo essere stato a lungo un diplomatico del Dipartimento di Stato, fra l’altro responsabile economico presso l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma.
Da diplomatico esperto, Calingaert non fa proprie alcune impressioni su Berlusconi che si possono cogliere a Washington, a registratori spenti e taccuini chiusi, quando il premier italiano ne combina una delle sue: ”Un personaggio poco serio, le cui sortite, proprio per questo, non contano molto e, talora, non meritano neppure risposta”.
La valutazione di Calingaert è misurata: “Berlusconi ha dominato la scena politica italiana in un modo che nessun altro nel Secondo Dopoguerra … Con Bush c’era un rapporto certamente buono, ma non ci sarebbe stato se Berlusconi non ne avesse appoggiato la politica al 100 per cento. Obama è una personalità diversa ed è stato anche criticato per non avere curato i rapporti personali con i leader stranieri. Però è normale che abbia più a che fare con altri Paesi con un ruolo più importante sulla scena europea e su quella economica … Logico che Obama guardi, in Europa, prima a Francia, Germania e Gran Bretagna che all’Italia”.
Per Calingaert, “il discorso sulla perdita di peso dell’Italia, agli occhi degli Stati Uniti, è relativo. Se facciamo un confronto con gli Anni Settanta o gli Anni Ottanta, quando non contava e non era neppure considerata interessante, l’Italia è molto salita nella considerazione degli americani, nel senso che gode di eccellente reputazione, tutti ne parlano bene, tutti la vogliono visitare … Se vuoi vendere caro qualcosa, dici che viene dall’Italia o meglio ancora dalla Toscana e lo piazzi bene … “.
D’accordo, questo rispetto a trent’anni or sono. Ma se il confronto lo facciamo in un ambito più ristretto?
“Sul piano politico, da molto tempo non ci sono grandi difficoltà tra Italia e Stati Uniti. E i governi italiani hanno sempre avuto atteggiamenti molto positivi verso l’America: ogni governo punta a essere amico, anzi il più amico, degli Stati Uniti …. C’è stato, però, un momento speciale, un caso specifico, in cui Washington trattò Roma con particolare riguardo: all’epoca della guerra in Iraq, quando l’Europa e gli alleati si divisero sul conflitto, per l’Amministrazione Bush era importante avere l’Italia in squadra e quindi l’Italia, che mandò in Iraq i suoi uomini, venne tenuta in alta considerazione … Altrimenti, è difficile trovare un momento in cui l’Italia sia più vicina o più distante, politicamente, dagli Stati Uniti”, a parte gli incidenti di percorso rappresentati, volta a volta, dalla tragedia del Cermis o dall’uccisione di Calipari, dal sequestro di Abu Omar o dai cablo di Weakileaks …
L’Italia soffre di un ‘complesso di Calimero’, in questo suo sentirsi trascurata?
“In Italia, c’è sempre stata una dose d’autocritica forte e una tendenza ad esagerare i problemi … Che l’Italia non sia vista allo stesso livello di Francia, Germania e Gran Bretagna, indipendentemente da quale sia il suo governo, dipende soprattutto dalla potenza militare messa in campo e, in questo senso, l’Italia, che dà un forte contributo alle missioni di pace, può avvertire che il suo contributo sia stato sottovalutato”.
I danni ai rapporti Italia/Usa innescati dai problemi di personalità del premier Berlusconi sono irreparabili?
"A livello di rapporti tra Stati, non vedo né problemi, né contrasti. Quindi non parlerei certo di danni irreparabili. Gli interessi reciproci fra i due Paesi restano inalterati e la coincidenza di visione e di valori resta pure … Prima o poi ci sarà un nuovo premier” e magari un nuovo presidente. E chi lo sa quale verrà prima.
E a livello di imprenditori? Il Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti è un eccellente osservatorio…
“Il Consiglio non si occupa di politica, ma mi sembra che negli anni di molto cresciuta la preoccupazione per la situazione economica italiana e il clima degli investimenti … Il settore privato italiano è molto cosciente della gravità della situazione … Il mondo cambia e con la globalizzazione e l’avvento della crisi economica globale i problemi diventano più seri per tutti, per l’Italia e pure per gli Stati Uniti … Anche da noi i problemi sono grossi …“.
venerdì 4 novembre 2011
Grecia. Papandreu al bivio tra referendum, fiducia, elezioni
Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 04/11/2011
Una tragedia greca. O una commedia? E’ Eschilo, o Aristofane, l’autore del copione che Giorgio Papandreu, premier socialista, sembra recitare a soggetto sui palcoscenici incrociati di Atene e di Cannes? Lo scenario è tragico: sullo sfondo, misure di rigore che evocano l’immagine della ‘macelleria sociale’ e persino lo spettro d’un colpo di stato, come quello che, nel 1967, costò l’esilio al padre di Giorgio, Andrea, futuro premier (e, prima dell’arrivo dei colonnelli, capo del governo lo era stato il nonno, un altro Giorgio): la sindrome della dittatura militare aveva suggerito, o imposto, martedì scorso, il brusco avvicendamento di tutti i vertici militari greci.
Forse, il copione che Giorgio recita ha autori meno classici: il duo Merkozy firma la marcia indietro rispetto all’idea di un referendum sul piano di salvataggio della Grecia dal rischio di fallimento. E’ un piano che può apparire generoso: prevede 106 miliardi di euro di interventi pro Atene e il dimezzamento dei debiti verso le banche, ma che impone in contropartita pesanti sacrifici economici e sociali per tutta la popolazione.
L’epilogo non è ancora scritto. La giornata greca è tutta un’altalena di notizie e di smentite: il referendum si farà più presto del previsto, a dicembre, forse prima ancora; il ministro delle finanze Evangelos Venizelos è contrario; il governo non ha più la maggioranza e vuole dimettersi; l’opposizione appoggia il piano di rigore, ma si va verso un governo di unità nazionale. Ai partner dell’Ue, Papandreu dice che progetta di cancellare il referendum, di non dimettersi e di chiedere la fiducia: se la otterrà, la Grecia andrà avanti senza consultazione popolare. Ma l’opposizione, nel dibattito in Parlamento, pone condizioni. Un voto, tra oggi e domani, dovrebbe chiarire la situazione.
Tragedia o commedia che sia, resta il sospetto che a recitare siano dei guitti: politici e signori della finanza. Le borse che, all’inizio della settimana, avevano accolto con un profondo rosso l’annuncio del referendum, salutano l’ipotesi d’una cancellazione con una giornata da toro. Una conferma che gli speculatori che tengono in ansia governi e famiglie si nutrono di annunci e parole più che di fatti e cifre. Ad alzare sui listini il gran pavese, contribuisce la prima decisione della Bce versione Mario Draghi, che taglia a sorpresa il costo del denaro. Ma Draghi lancia un monito ai Paesi più pericolanti: ci vogliono ancora rigore e riforme.
Se gli allibratori britannici continuano a considerare la Grecia in ‘pole position’ nella triste corsa all’uscita dall’euro (uno a sei), ben davanti all’Italia e al Portogallo (entrambi 6 a 1), il presidente francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel salutano con fiducia e soddisfazione la marcia indietro greca annunciata. Sarkozy attribuisce “la presa di coscienza” di Papandreu al messaggio indirizzatogli da Francia e Germania. La Merkel, più prammatica, dice che “contano gli atti, non le parole”: la saggezza di non fare il referendum, cioè, varrà di più dell’azzardo di averlo annunciato. "Il posto della Grecia è nella zona euro. Per noi, questa è l’opzione sulla tavola," dice a Bruxelles la Commissione europea. Su questo punto, Papandreu concorda: “L’appartenenza della Grecia alla eurozona non è in discussione”, afferma, in una riunione di emergenza del Consiglio dei Ministri. Il G20 di Cannes gli tributa un applauso, riferiscono fonti da dentro la riunione.
Alla fine della giornata, però, restano margini d’incertezza sull’evoluzione della situazione, che ad Atene è fluida e confusa. In vista del voto di fiducia, i giochi politici sono aperti: l’opposizione di Nea Demokratia, il partito di centro-destra che porta la responsabilità del dissesto finanziario greco, subordina il sì al piano ad un governo di unità nazionale ‘natalizio’ con elezioni anticipate all’inizio delll’anno prossimo. E Venizelos ha fretta di rimpinguare le casse dello Stato: gli otto miliardi della sesta fetta del prestito accordato alla Grecia da Ue ed Fmi devono arrivare entro metà dicembre, se no il Paese non potrà fare fronte ai suoi impegni.
La china su cui la Grecia s’avvia pare, però, confermare la regola che vuole la salvezza dalla crisi del debito legata a un momento di discontinuità politica: Irlanda e Portogallo, sull’orlo del fallimento, se ne sono allontanati dopo elezioni legislative; e la Spagna se n’è tenuta al riparo anticipando il voto politico . Solo l’Italia non ha finora imboccato quella strada.
Una tragedia greca. O una commedia? E’ Eschilo, o Aristofane, l’autore del copione che Giorgio Papandreu, premier socialista, sembra recitare a soggetto sui palcoscenici incrociati di Atene e di Cannes? Lo scenario è tragico: sullo sfondo, misure di rigore che evocano l’immagine della ‘macelleria sociale’ e persino lo spettro d’un colpo di stato, come quello che, nel 1967, costò l’esilio al padre di Giorgio, Andrea, futuro premier (e, prima dell’arrivo dei colonnelli, capo del governo lo era stato il nonno, un altro Giorgio): la sindrome della dittatura militare aveva suggerito, o imposto, martedì scorso, il brusco avvicendamento di tutti i vertici militari greci.
Forse, il copione che Giorgio recita ha autori meno classici: il duo Merkozy firma la marcia indietro rispetto all’idea di un referendum sul piano di salvataggio della Grecia dal rischio di fallimento. E’ un piano che può apparire generoso: prevede 106 miliardi di euro di interventi pro Atene e il dimezzamento dei debiti verso le banche, ma che impone in contropartita pesanti sacrifici economici e sociali per tutta la popolazione.
L’epilogo non è ancora scritto. La giornata greca è tutta un’altalena di notizie e di smentite: il referendum si farà più presto del previsto, a dicembre, forse prima ancora; il ministro delle finanze Evangelos Venizelos è contrario; il governo non ha più la maggioranza e vuole dimettersi; l’opposizione appoggia il piano di rigore, ma si va verso un governo di unità nazionale. Ai partner dell’Ue, Papandreu dice che progetta di cancellare il referendum, di non dimettersi e di chiedere la fiducia: se la otterrà, la Grecia andrà avanti senza consultazione popolare. Ma l’opposizione, nel dibattito in Parlamento, pone condizioni. Un voto, tra oggi e domani, dovrebbe chiarire la situazione.
Tragedia o commedia che sia, resta il sospetto che a recitare siano dei guitti: politici e signori della finanza. Le borse che, all’inizio della settimana, avevano accolto con un profondo rosso l’annuncio del referendum, salutano l’ipotesi d’una cancellazione con una giornata da toro. Una conferma che gli speculatori che tengono in ansia governi e famiglie si nutrono di annunci e parole più che di fatti e cifre. Ad alzare sui listini il gran pavese, contribuisce la prima decisione della Bce versione Mario Draghi, che taglia a sorpresa il costo del denaro. Ma Draghi lancia un monito ai Paesi più pericolanti: ci vogliono ancora rigore e riforme.
Se gli allibratori britannici continuano a considerare la Grecia in ‘pole position’ nella triste corsa all’uscita dall’euro (uno a sei), ben davanti all’Italia e al Portogallo (entrambi 6 a 1), il presidente francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel salutano con fiducia e soddisfazione la marcia indietro greca annunciata. Sarkozy attribuisce “la presa di coscienza” di Papandreu al messaggio indirizzatogli da Francia e Germania. La Merkel, più prammatica, dice che “contano gli atti, non le parole”: la saggezza di non fare il referendum, cioè, varrà di più dell’azzardo di averlo annunciato. "Il posto della Grecia è nella zona euro. Per noi, questa è l’opzione sulla tavola," dice a Bruxelles la Commissione europea. Su questo punto, Papandreu concorda: “L’appartenenza della Grecia alla eurozona non è in discussione”, afferma, in una riunione di emergenza del Consiglio dei Ministri. Il G20 di Cannes gli tributa un applauso, riferiscono fonti da dentro la riunione.
Alla fine della giornata, però, restano margini d’incertezza sull’evoluzione della situazione, che ad Atene è fluida e confusa. In vista del voto di fiducia, i giochi politici sono aperti: l’opposizione di Nea Demokratia, il partito di centro-destra che porta la responsabilità del dissesto finanziario greco, subordina il sì al piano ad un governo di unità nazionale ‘natalizio’ con elezioni anticipate all’inizio delll’anno prossimo. E Venizelos ha fretta di rimpinguare le casse dello Stato: gli otto miliardi della sesta fetta del prestito accordato alla Grecia da Ue ed Fmi devono arrivare entro metà dicembre, se no il Paese non potrà fare fronte ai suoi impegni.
La china su cui la Grecia s’avvia pare, però, confermare la regola che vuole la salvezza dalla crisi del debito legata a un momento di discontinuità politica: Irlanda e Portogallo, sull’orlo del fallimento, se ne sono allontanati dopo elezioni legislative; e la Spagna se n’è tenuta al riparo anticipando il voto politico . Solo l’Italia non ha finora imboccato quella strada.
Iscriviti a:
Post (Atom)