Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 29/02/2012
Mitt Romney la scampa con il voto dei ricchi. Rick Santorum gli resta in scia grazie ai ‘beati’ del Vangelo. L’ex governatore del Massachussetts fa doppietta nel Michigan e in Arizona e torna a essere il favorito, oltre che il battistrada. L’ex senatore della Pennsylvania fa due volte secondo, una bene, l’altra meno, e resta in corsa.
Newt Gingrich fa cilecca, ma già lo si sapeva perché lui risparmia le forze e i soldi in vista del Super-Martedì, il 6 marzo, quando si voterà in dieci Stati, molti a lui sulla carta favorevoli; e Ron Paul resta lì, senza speranza di farcela, ma deciso a non mollare. I risultati del Michigan e dell’Arizona confermano che, quest’anno, le primarie repubblicane sono una corsa ad usura.
Vincendo nel Michigan, lo Stato dov’è nato e dove suo padre è stato governatore, Romney evita di finire fuori gioco, perché una sconfitta lì lo avrebbe definitivamente bollato come perdente. Ma Santorum gli è dietro a un’incollatura, dopo essergli stato persino davanti nei sondaggi: 41% contro 37%. Il successo in Arizona è più netto, ma meno pesante: 43% contro 28%.
Nessuno dei due Stati assegna abbastanza delegati per dare un vantaggio significativo nella corsa a quota 1143, la cifra magica di quelli necessari ad ottenere la nomination dalla convention di Tampa, in Florida, a fine agosto. E, nella conta, neppure il Super-Martedì sarà determinante.
Dovesse andare proprio male anche il 6 marzo, è probabile che Gingrich si faccia da parte. E così il campo ultra-conservatore e religioso, oltre che quello populista e qualunquista del Tea Party, si troverebbero riuniti sotto le bandiere di Santorum, che diventerebbe, quindi, ancora più pericoloso per Romney. E pure per il partito repubblicano, che, se dovesse affidargli la nomination, si condannerebbe a priori alla sconfitta nelle presidenziali del 6 novembre.
Scampato il pericolo in Michigan, Romney è subito tornato a comportarsi da candidato alla Casa Bianca, ignorando Santorum e attaccando il presidente democratico Barack Obama, che –dice- porta l’America al declino con il suo fallimento. Ma i dati della Cnn che scompongono il voto dello Stato per fascia di reddito possono incoraggiarlo e inquietarlo nello stesso tempo: lui prende i voti dei ricchi, quelli che guadagnano dai 50 mila dollari all’anno in su; e Santorum quelli di chi sta sotto tale soglia. Ora, i repubblicani che guadagnano meno di 50mila dollari l’anno sono relativamente pochi, un terzo circa dei votanti; ma se quella fascia ti vota contro l’Election Day, i Paperoni non bastano a portarti alla Casa Bianca.
mercoledì 29 febbraio 2012
Ue: Vertice, Merkel e Sarkozy indeboliti, è l'ora di Monti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/02/2012
Eccoli di nuovo, insieme! I leader dei 27 si riuniscono a Bruxelles domani e venerdì per completare il lavoro impostato a fine gennaio, suggellare il Patto di Bilancio e impostare il cammino per uscire dalla crisi e rilanciare la crescita. Ma ci sono frizioni fino all’ultimo: salta l’incontro fra i paesi dell’euro che, questa volta, doveva seguire, e non precedere, il Vertice europeo, mentre arriva dopo un braccio di ferro con la Romania il sì ai negoziati per l’adesione della Serbia all’Ue.
Il clima politico non è più quello di quattro settimane or sono: la coppia di ferro dell’Unione, il direttorio che faceva il bello e cattivo tempo, non c’è praticamente più. Magari, ci risarà di nuovo a fine giugno, al Vertice di chiusura della presidenza di turno danese del Consiglio, ma, oggi, né Angela Merkel né Nicolas Sarkozy possono fare la voce grossa. Il che non rende le cose più facili, mentre la Grecia, appena ‘ri-salvata’, viene di nuovo bocciata dalle agenzie di rating e si ritrova sull’orlo della bancarotta.
Quella di Sarkozy è un’eclisse elettorale: il presidente francese è nel pieno della campagna per il voto di fine aprile (e il ballottaggio di inizio maggio): ha poco tempo per l’Europa e pochi margini di flessibilità. Quella della Merkel è un’eclisse politica: la sua maggioranza s’è frantumata nel voto di lunedì al Bundestag sul salvataggio della Grecia. Che è passato coi voti determinanti dell’opposizione socialdemocratica, nonostante i franchi tiratori cristiano-sociali e liberali.
In prospettiva, le ambasce di Sarkozy e della Merkel possono anche risultare salutari, perché potrebbero dare una scossa agli atteggiamenti di Francia e Germania: quale che sia l’esito del voto, la Francia avrà un nuovo presidente o un presidente meno frenato dai calcoli elettorali; e lo sfaldamento della coalizione dà alla cancelliera stimoli di riflessione per un cambio di coalizione e un riequilibrio della posizione tra rigore e crescita.
Nell’immediato, però, la distrazione di Sarkozy e l’indebolimento della Merkel non giocano a favore del successo del Vertice di Bruxelles, dove le bozze di conclusione lasciano ancora incerta l’ipotesi di accordo sul potenziamento dell’Esm, lo European stability mechanismi. L’idea, italiana, ma anche spagnola e francese, è che il nuovo ‘fondo salva Stati’ inglobi le risorse non spese del suo predecessore, l’Efsf, salendo così da 500 a 750 miliardi di euro.
La trattativa parte dall’accordo firmato il 2 febbraio dagli ambasciatori dei 17 dell’euro, dopo il Vertice informale di fine gennaio. Il punto più importante è la partenza anticipata a luglio 2012 del nuovo fondo, l’andata a regime nel 2013 e la possibilità di attivazione a maggioranza qualificata (e non all’unanimità). La partecipazione dei privati alle operazioni di ristrutturazione del debito non sarà automatica, ma valutata caso per caso. Resta aperta la questione dell’entità: “Il premier Mario Monti – spiega una fonte interna a Palazzo Chigi – ha più volte ribadito l’idea che un potenziamento delle risorse serva, paradossalmente, a evitare l’utilizzo del fondo”. Ma la Merkel non pare ancora convinta.
Se la cancelliera fa resistenza al Professore, il presidente della Commissione europea Manuel Barroso gli fa, invece, ponti d’oro. “Possiamo riportare l'Ue sulla strada dello sviluppo", risponde alla lettera con cui 12 paesi Ue –Italia in testa, ma anche Gran Bretagna, Spagna, Polonia e altri, tutti liberisti- hanno individuato otto priorità per rilanciare la crescita. I punti caldi della risposta di Barroso a Monti sono soprattutto due: lavoro e finanza. Per l’occupazione, sono nati gli action team, che hanno già visitato otto paesi europei e che si preparano a proporre misure concrete per riallocare 82 miliardi di euro di fondi strutturali (oltre otto in Italia).
Sul fronte finanziario, Barroso ricorda prima tutte le iniziative prese in materia di banche e parametri di stabilità cita esplicitamente uno strumento, i projects bond, “un modo intelligente per usare il denaro pubblico per attrarre investimenti". Secondo lo schema proposta dall’esecutivo comunitario, 230 milioni di euro di fondi europei dovrebbero essere usati per movimentare investimenti pari a 3,5 miliardi di euro complessivi. Ma anche su questo bisogna convincere la Merkel.
Eccoli di nuovo, insieme! I leader dei 27 si riuniscono a Bruxelles domani e venerdì per completare il lavoro impostato a fine gennaio, suggellare il Patto di Bilancio e impostare il cammino per uscire dalla crisi e rilanciare la crescita. Ma ci sono frizioni fino all’ultimo: salta l’incontro fra i paesi dell’euro che, questa volta, doveva seguire, e non precedere, il Vertice europeo, mentre arriva dopo un braccio di ferro con la Romania il sì ai negoziati per l’adesione della Serbia all’Ue.
Il clima politico non è più quello di quattro settimane or sono: la coppia di ferro dell’Unione, il direttorio che faceva il bello e cattivo tempo, non c’è praticamente più. Magari, ci risarà di nuovo a fine giugno, al Vertice di chiusura della presidenza di turno danese del Consiglio, ma, oggi, né Angela Merkel né Nicolas Sarkozy possono fare la voce grossa. Il che non rende le cose più facili, mentre la Grecia, appena ‘ri-salvata’, viene di nuovo bocciata dalle agenzie di rating e si ritrova sull’orlo della bancarotta.
Quella di Sarkozy è un’eclisse elettorale: il presidente francese è nel pieno della campagna per il voto di fine aprile (e il ballottaggio di inizio maggio): ha poco tempo per l’Europa e pochi margini di flessibilità. Quella della Merkel è un’eclisse politica: la sua maggioranza s’è frantumata nel voto di lunedì al Bundestag sul salvataggio della Grecia. Che è passato coi voti determinanti dell’opposizione socialdemocratica, nonostante i franchi tiratori cristiano-sociali e liberali.
In prospettiva, le ambasce di Sarkozy e della Merkel possono anche risultare salutari, perché potrebbero dare una scossa agli atteggiamenti di Francia e Germania: quale che sia l’esito del voto, la Francia avrà un nuovo presidente o un presidente meno frenato dai calcoli elettorali; e lo sfaldamento della coalizione dà alla cancelliera stimoli di riflessione per un cambio di coalizione e un riequilibrio della posizione tra rigore e crescita.
Nell’immediato, però, la distrazione di Sarkozy e l’indebolimento della Merkel non giocano a favore del successo del Vertice di Bruxelles, dove le bozze di conclusione lasciano ancora incerta l’ipotesi di accordo sul potenziamento dell’Esm, lo European stability mechanismi. L’idea, italiana, ma anche spagnola e francese, è che il nuovo ‘fondo salva Stati’ inglobi le risorse non spese del suo predecessore, l’Efsf, salendo così da 500 a 750 miliardi di euro.
La trattativa parte dall’accordo firmato il 2 febbraio dagli ambasciatori dei 17 dell’euro, dopo il Vertice informale di fine gennaio. Il punto più importante è la partenza anticipata a luglio 2012 del nuovo fondo, l’andata a regime nel 2013 e la possibilità di attivazione a maggioranza qualificata (e non all’unanimità). La partecipazione dei privati alle operazioni di ristrutturazione del debito non sarà automatica, ma valutata caso per caso. Resta aperta la questione dell’entità: “Il premier Mario Monti – spiega una fonte interna a Palazzo Chigi – ha più volte ribadito l’idea che un potenziamento delle risorse serva, paradossalmente, a evitare l’utilizzo del fondo”. Ma la Merkel non pare ancora convinta.
Se la cancelliera fa resistenza al Professore, il presidente della Commissione europea Manuel Barroso gli fa, invece, ponti d’oro. “Possiamo riportare l'Ue sulla strada dello sviluppo", risponde alla lettera con cui 12 paesi Ue –Italia in testa, ma anche Gran Bretagna, Spagna, Polonia e altri, tutti liberisti- hanno individuato otto priorità per rilanciare la crescita. I punti caldi della risposta di Barroso a Monti sono soprattutto due: lavoro e finanza. Per l’occupazione, sono nati gli action team, che hanno già visitato otto paesi europei e che si preparano a proporre misure concrete per riallocare 82 miliardi di euro di fondi strutturali (oltre otto in Italia).
Sul fronte finanziario, Barroso ricorda prima tutte le iniziative prese in materia di banche e parametri di stabilità cita esplicitamente uno strumento, i projects bond, “un modo intelligente per usare il denaro pubblico per attrarre investimenti". Secondo lo schema proposta dall’esecutivo comunitario, 230 milioni di euro di fondi europei dovrebbero essere usati per movimentare investimenti pari a 3,5 miliardi di euro complessivi. Ma anche su questo bisogna convincere la Merkel.
Usa 2012: Romney e Santorum s'azzuffano, Obama se la ride
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/02/2012
Sarà anche vero che Rick Santorum punta alla nomination repubblicana “per volere di Dio”, come dice la moglie Karen, un’ ‘irlandese’ non meno religiosa del marito ‘italiano’. Ma, nelle ultime ore dell’accanita campagna per le primarie di oggi nel Michigan e nell’Arizona, il ‘grande elettore’ dell’ex senatore cattolico dev’essersi un po’ distratto, perché i sondaggi, che nelle ultime settimane lo hanno dato in ascesa, hanno segnato un’inversione di tendenza quasi brusca.
Accreditato in Michigan d’un margine di 10 punti sul principale rivale, il moderato Mitt Romney, oggi l’ultra-conservatore Santorum sarebbe 2 punti dietro. Il distacco non è statisticamente significativo, dati i margini d’errore, ma la rimonta dell’ex governatore del Massachussetts è innegabile. E, in Arizona, Romney, a lungo testa a testa con santorum, avrebbe invece un vantaggio di una decina di punti. Fuori gioco, per la vittoria, sia l’altro ultra-conservatore Newt Gingrich, che si concentra sul Super-Martedì, il 6 marzo, quando si voterà in 10 Stati, molti del Sud, e il libertario Ron Paul.
Forse, a chi sta ‘colà dove si puote’ non saranno piaciute le sortite di Santorum sull’Afghanistan. L’avvocato di Pittsburgh, ‘l’uomo col gilet’ di questa campagna, se l’è presa con il presidente Obama, che s’è scusato per i corano bruciati, e ha sostenuto che, a scusarsi, avrebbero dovuto essere gli afghani, che hanno ‘iper-reagito’, con violenze e ammazzamenti, alla profanazione di quei libri per loro pur sempre sacri.
Le dichiarazioni di Santorum ‘stile crociato’, sia pure col gilet al posto della cotta, hanno portato, per un attimo, la politica estera in questa campagna, che è invece dominata dall’economia. Ma l’ex senatore se l’è pure presa con l’Università, un covo di gente di sinistra, e persino con un’icona Usa come John F. Kennedy.
Poi, c’è la ‘maledizione’ del Secret Service: appena l’agenzia di sicurezza che protegge il presidente accorda, in via precauzionale, la sua tutela a un candidato alla nomination, quello rallenta. Successe al pizzaiolo nero Herman Cain, finito fuori prima di cominciare; è successo a Romney, ‘insignito’ della protezione dopo il trionfo nelle primarie in Florida, ma da allora quasi arenatosi; e potrebbe succedere ora a Santorum, da ieri sotto l’egida degli agenti federali.
O, magari, Santorum è proprio inadeguato come sembra alla Casa Bianca, mentre Romney non riesce a levarsi di dosso la patina di perdente ispessita dal filotto di successi del rivale in Colorado, Minnesota e Missouri –quest’ultimo, platonico-. La vittoria senza gloria nel Maine non è bastata a ridargli smalto. Risultato: i repubblicani navigano nell’incertezza e Obama se la ride.
I sondaggi conservatori danno il presidente uscente al punto più basso della sua popolarità nell’ultimo mese e testa a testa in un confronto con Romney, Santorum e persino Paul –solo Gingrich sarebbe battuto con margine superiore all’errore statistico-. Ma un rilevamento nazionale di Politico.com e Washington University, più liberal, dice che Obama manco vedrebbe Romney e Santorum: chiuderebbe la partita con oltre 10 puntidi vantaggio. Anche se i repubblicani tirassero fuori dal cilindro un candidato a sorpresa, Obama batterebbe a mani basse il nuovo venuto, quale che esso sia.
Ipotesi che, nel giro di un giorno, i risultati di Michigan e Arizona possono rovesciare. Una batosta nel Michigan, lo stato dov’è nato e dove suo padre è stato governatore, potrebbe essere fatale per la credibilità presidenziale di Romney, che, nei sondaggi nazionali, è praticamente pari con Santorum per la nomination, ma che perde terreno nelle quotazioni dei bookmakers, poco impressionati dalle sue ultime prestazioni nei dibattiti e alle urne.
Sarà anche vero che Rick Santorum punta alla nomination repubblicana “per volere di Dio”, come dice la moglie Karen, un’ ‘irlandese’ non meno religiosa del marito ‘italiano’. Ma, nelle ultime ore dell’accanita campagna per le primarie di oggi nel Michigan e nell’Arizona, il ‘grande elettore’ dell’ex senatore cattolico dev’essersi un po’ distratto, perché i sondaggi, che nelle ultime settimane lo hanno dato in ascesa, hanno segnato un’inversione di tendenza quasi brusca.
Accreditato in Michigan d’un margine di 10 punti sul principale rivale, il moderato Mitt Romney, oggi l’ultra-conservatore Santorum sarebbe 2 punti dietro. Il distacco non è statisticamente significativo, dati i margini d’errore, ma la rimonta dell’ex governatore del Massachussetts è innegabile. E, in Arizona, Romney, a lungo testa a testa con santorum, avrebbe invece un vantaggio di una decina di punti. Fuori gioco, per la vittoria, sia l’altro ultra-conservatore Newt Gingrich, che si concentra sul Super-Martedì, il 6 marzo, quando si voterà in 10 Stati, molti del Sud, e il libertario Ron Paul.
Forse, a chi sta ‘colà dove si puote’ non saranno piaciute le sortite di Santorum sull’Afghanistan. L’avvocato di Pittsburgh, ‘l’uomo col gilet’ di questa campagna, se l’è presa con il presidente Obama, che s’è scusato per i corano bruciati, e ha sostenuto che, a scusarsi, avrebbero dovuto essere gli afghani, che hanno ‘iper-reagito’, con violenze e ammazzamenti, alla profanazione di quei libri per loro pur sempre sacri.
Le dichiarazioni di Santorum ‘stile crociato’, sia pure col gilet al posto della cotta, hanno portato, per un attimo, la politica estera in questa campagna, che è invece dominata dall’economia. Ma l’ex senatore se l’è pure presa con l’Università, un covo di gente di sinistra, e persino con un’icona Usa come John F. Kennedy.
Poi, c’è la ‘maledizione’ del Secret Service: appena l’agenzia di sicurezza che protegge il presidente accorda, in via precauzionale, la sua tutela a un candidato alla nomination, quello rallenta. Successe al pizzaiolo nero Herman Cain, finito fuori prima di cominciare; è successo a Romney, ‘insignito’ della protezione dopo il trionfo nelle primarie in Florida, ma da allora quasi arenatosi; e potrebbe succedere ora a Santorum, da ieri sotto l’egida degli agenti federali.
O, magari, Santorum è proprio inadeguato come sembra alla Casa Bianca, mentre Romney non riesce a levarsi di dosso la patina di perdente ispessita dal filotto di successi del rivale in Colorado, Minnesota e Missouri –quest’ultimo, platonico-. La vittoria senza gloria nel Maine non è bastata a ridargli smalto. Risultato: i repubblicani navigano nell’incertezza e Obama se la ride.
I sondaggi conservatori danno il presidente uscente al punto più basso della sua popolarità nell’ultimo mese e testa a testa in un confronto con Romney, Santorum e persino Paul –solo Gingrich sarebbe battuto con margine superiore all’errore statistico-. Ma un rilevamento nazionale di Politico.com e Washington University, più liberal, dice che Obama manco vedrebbe Romney e Santorum: chiuderebbe la partita con oltre 10 puntidi vantaggio. Anche se i repubblicani tirassero fuori dal cilindro un candidato a sorpresa, Obama batterebbe a mani basse il nuovo venuto, quale che esso sia.
Ipotesi che, nel giro di un giorno, i risultati di Michigan e Arizona possono rovesciare. Una batosta nel Michigan, lo stato dov’è nato e dove suo padre è stato governatore, potrebbe essere fatale per la credibilità presidenziale di Romney, che, nei sondaggi nazionali, è praticamente pari con Santorum per la nomination, ma che perde terreno nelle quotazioni dei bookmakers, poco impressionati dalle sue ultime prestazioni nei dibattiti e alle urne.
domenica 26 febbraio 2012
Usa 2012: le donne timorate di dio, la paura e Santorum
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/02/2012
Le donne americane stanno con Rick Santorum. Beh, non esageriamo: le donne repubblicane stanno con Rick. No, è ancora troppo: le donne conservatrici. La cerchia sarà limitata, ma le posizioni sull’aborto, la contraccezione, la famiglia dell’avvocato di Pittsburgh gli valgono il sostegno dell’America al femminile timorata di dio.
Proprio quelle posizioni che, invece, preoccupano l’establishment repubblicano, convinto che l’estremismo religioso dell’ex senatore italo-americano azzeri le speranze di successo del partito alle elezioni presidenziali del 6 novembre.
Un sondaggio di Washington Post e Abc indica che l’ascesa di Santorum fra le donne è più marcata che sull’insieme dell’elettorato. I giudizi positivi delle repubblicane su Santorum e sul suo rivale Mitt Romney sono praticamente equivalenti, ma l’ex governatore del Massachussetts ha un fardello di giudizi negativi quasi doppio dell’ex senatore.
Nell’imminenza delle primarie di martedì in Michigan e in Arizona, Santorum è ormai un candidato da prendere sul serio. Lo dimostrano i sondaggi, che lo proiettano battistrada a livello nazionale - finora, una posizione sempre appannaggio di Romney – e che lo indicano testa a testa con Romney in entrambi gli Stati (gli altri due in lizza, Newt Gingrich e Ron Paul, appaiono fuori gioco).
Ma lo dimostrano pure l’attenzione che l’avvocato per la prima volta riceve dalla Casa Bianca, che reagisce quando Santorum dice che i valori del presidente Obama “non sono basati sulla Bibbia”; e gli attacchi che lo bersagliano. Donald Trump, il riccone con la passione per la tv e le belle donne, considera la sua candidatura alla Casa Bianca “un regalo ai democratici” perché offrirebbe a Obama una facile riconferma.
Ma c’è pure chi lo incoraggia, come Rupert Murdoch, il magnate dell’informazione, che lo accompagna nella sua ascesa con i suoi media e lo incita: “se vinci nel Michigan, è fatta”, afferma, perché lo Stato dell’auto era, sulla carta, promesso a Romney. Gingrich, l’ex speaker della Camera, che contende, sempre più flebilmente, il campo dei conservatori a Santorum, pensa, infatti, che, se perde in Michigan, Romney dovrebbe ritirarsi. E lui, allora, che, dall’inizio delle primarie, ha sempre perso, tranne che nella South Carolina?
Ma il vero segnale che Santorum fa paura, a Romney, a Gingrich, e pure ai repubblicani con un po’ di sale in zucca, è il proliferare di illazioni e indiscrezioni, sui blog della politica americana, sull’ipotesi di una convention aperta: che, cioè, non si giunga a Tampa in estate con la maggioranza dei delegati già assegnata a un candidato. In questo caso, gli anti-Santorum dell’ultima ora potrebbero essere Jeb Bush, figlio e fratello di presidente, ex governatore della Florida, oppure Mitch Daniels, governatore dell’Indiana, o ancora Chris Christie, governatore del New Jersey.
Le donne americane stanno con Rick Santorum. Beh, non esageriamo: le donne repubblicane stanno con Rick. No, è ancora troppo: le donne conservatrici. La cerchia sarà limitata, ma le posizioni sull’aborto, la contraccezione, la famiglia dell’avvocato di Pittsburgh gli valgono il sostegno dell’America al femminile timorata di dio.
Proprio quelle posizioni che, invece, preoccupano l’establishment repubblicano, convinto che l’estremismo religioso dell’ex senatore italo-americano azzeri le speranze di successo del partito alle elezioni presidenziali del 6 novembre.
Un sondaggio di Washington Post e Abc indica che l’ascesa di Santorum fra le donne è più marcata che sull’insieme dell’elettorato. I giudizi positivi delle repubblicane su Santorum e sul suo rivale Mitt Romney sono praticamente equivalenti, ma l’ex governatore del Massachussetts ha un fardello di giudizi negativi quasi doppio dell’ex senatore.
Nell’imminenza delle primarie di martedì in Michigan e in Arizona, Santorum è ormai un candidato da prendere sul serio. Lo dimostrano i sondaggi, che lo proiettano battistrada a livello nazionale - finora, una posizione sempre appannaggio di Romney – e che lo indicano testa a testa con Romney in entrambi gli Stati (gli altri due in lizza, Newt Gingrich e Ron Paul, appaiono fuori gioco).
Ma lo dimostrano pure l’attenzione che l’avvocato per la prima volta riceve dalla Casa Bianca, che reagisce quando Santorum dice che i valori del presidente Obama “non sono basati sulla Bibbia”; e gli attacchi che lo bersagliano. Donald Trump, il riccone con la passione per la tv e le belle donne, considera la sua candidatura alla Casa Bianca “un regalo ai democratici” perché offrirebbe a Obama una facile riconferma.
Ma c’è pure chi lo incoraggia, come Rupert Murdoch, il magnate dell’informazione, che lo accompagna nella sua ascesa con i suoi media e lo incita: “se vinci nel Michigan, è fatta”, afferma, perché lo Stato dell’auto era, sulla carta, promesso a Romney. Gingrich, l’ex speaker della Camera, che contende, sempre più flebilmente, il campo dei conservatori a Santorum, pensa, infatti, che, se perde in Michigan, Romney dovrebbe ritirarsi. E lui, allora, che, dall’inizio delle primarie, ha sempre perso, tranne che nella South Carolina?
Ma il vero segnale che Santorum fa paura, a Romney, a Gingrich, e pure ai repubblicani con un po’ di sale in zucca, è il proliferare di illazioni e indiscrezioni, sui blog della politica americana, sull’ipotesi di una convention aperta: che, cioè, non si giunga a Tampa in estate con la maggioranza dei delegati già assegnata a un candidato. In questo caso, gli anti-Santorum dell’ultima ora potrebbero essere Jeb Bush, figlio e fratello di presidente, ex governatore della Florida, oppure Mitch Daniels, governatore dell’Indiana, o ancora Chris Christie, governatore del New Jersey.
venerdì 24 febbraio 2012
Media e minoranze: emergenze, stereotipi, 'dagli al debole'
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/02/2012, altra versione su euractiv.it
Il Consiglio d’Europa ci bistratta per rigurgiti di razzismo. La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ci condanna per i respingimenti di profughi verso la Libia: l’Italia ne violò i diritti, mettendone a rischio la sopravvivenza, sentenziano i giudici di Strasburgo. Ce n’è di che interrogarsi a fondo sul trattamento riservato, nel nostro Paese, alle minoranze, da parte delle autorità, ma anche da parte dei media.
Vengono, tempestivamente, a fornire risposte i risultati di una ricerca sulla rappresentazione delle minoranze sui mezzi di informazione italiani. Ne escono più elementi di preoccupazione più che di conforto, anche se vi sono segnali di miglioramento: attenzione solo nell’emergenza, abbondanza di stereotipi, “soggetti deboli che escono più deboli dal trattamento mediatico”, rilevato il professor Mario Morcellini, direttore del Coris.
Minorities Stereotypes on Media è un progetto nato dalla collaborazione tra il Centro d’Ascolto dell’Informazione radiotelevisiva e il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza, col supporto di Open Society Foundations. Ora, c’è l’idea di dargli dimensione europea, perché i problemi dell’emarginazione, dell’esclusione, dell’ignoranza e della paura che sfociano nella xenofobia e nel razzismo non sono solo piaghe italiane, nell’Unione dove l’impatto della crisi alimenta pregiudizi e induce ad alzare barriere.
Per mesi, in due periodi diversi, sono stati scandagliati 24 ore su 24 tutti i notiziari e le trasmissioni di approfondimento radio e tv, dai talk show ai programmi di attualità, sui canali nazionali: 7.153 i segmenti analizzati, con una media di 26 passaggi al giorno di notizie sulle minoranze prese in considerazione nell'indagine, che includono quelle nazionali, culturali, religiose, i gruppi con diversi orientamenti sessuali e alcune delle figure tipicamente considerate devianti (detenuti, tossicodipendenti, etc.), spesso oggetto di discriminazione sociale.
La categoria ‘immigrati e rifugiati’ è la più trattata, specie dalla televisione, che quasi ignora le altre, mentre la radio mostra una maggiore attenzione alle minoranze etno-culturali e religiose.
Pietro Marcenaro, presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, rileva che il problema non è solo di quantità dell’informazione, ma di qualità. Emma Bonino, vicepresidente del Senato, nota che “il quadro di civiltà di una democrazia si misura anche dall’atteggiamento verso le minoranze” e depreca le equivalenze ‘immigrato = delinquente’, ‘transessuale = prostituta’ e via dicendo. Roberto Natale, presidente della Fnsi, ricorda l’attenzione al rispetto della Carta di Roma che i giornalisti italiani si sono dati (ma molto –ammette- resta da fare).
Il Consiglio d’Europa ci bistratta per rigurgiti di razzismo. La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ci condanna per i respingimenti di profughi verso la Libia: l’Italia ne violò i diritti, mettendone a rischio la sopravvivenza, sentenziano i giudici di Strasburgo. Ce n’è di che interrogarsi a fondo sul trattamento riservato, nel nostro Paese, alle minoranze, da parte delle autorità, ma anche da parte dei media.
Vengono, tempestivamente, a fornire risposte i risultati di una ricerca sulla rappresentazione delle minoranze sui mezzi di informazione italiani. Ne escono più elementi di preoccupazione più che di conforto, anche se vi sono segnali di miglioramento: attenzione solo nell’emergenza, abbondanza di stereotipi, “soggetti deboli che escono più deboli dal trattamento mediatico”, rilevato il professor Mario Morcellini, direttore del Coris.
Minorities Stereotypes on Media è un progetto nato dalla collaborazione tra il Centro d’Ascolto dell’Informazione radiotelevisiva e il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza, col supporto di Open Society Foundations. Ora, c’è l’idea di dargli dimensione europea, perché i problemi dell’emarginazione, dell’esclusione, dell’ignoranza e della paura che sfociano nella xenofobia e nel razzismo non sono solo piaghe italiane, nell’Unione dove l’impatto della crisi alimenta pregiudizi e induce ad alzare barriere.
Per mesi, in due periodi diversi, sono stati scandagliati 24 ore su 24 tutti i notiziari e le trasmissioni di approfondimento radio e tv, dai talk show ai programmi di attualità, sui canali nazionali: 7.153 i segmenti analizzati, con una media di 26 passaggi al giorno di notizie sulle minoranze prese in considerazione nell'indagine, che includono quelle nazionali, culturali, religiose, i gruppi con diversi orientamenti sessuali e alcune delle figure tipicamente considerate devianti (detenuti, tossicodipendenti, etc.), spesso oggetto di discriminazione sociale.
La categoria ‘immigrati e rifugiati’ è la più trattata, specie dalla televisione, che quasi ignora le altre, mentre la radio mostra una maggiore attenzione alle minoranze etno-culturali e religiose.
Pietro Marcenaro, presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, rileva che il problema non è solo di quantità dell’informazione, ma di qualità. Emma Bonino, vicepresidente del Senato, nota che “il quadro di civiltà di una democrazia si misura anche dall’atteggiamento verso le minoranze” e depreca le equivalenze ‘immigrato = delinquente’, ‘transessuale = prostituta’ e via dicendo. Roberto Natale, presidente della Fnsi, ricorda l’attenzione al rispetto della Carta di Roma che i giornalisti italiani si sono dati (ma molto –ammette- resta da fare).
mercoledì 22 febbraio 2012
Missioni militari all'estero: soldi tanti, attenzione zero
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/02/2012
Nel giorno in cui rientrano dall’Afghanistan le salme degli ultimi tre militari italiani morti in quel Paese –e sono 49 dal 2004-, il Senato, con 223 sì, 35 no e due astenuti, converte in legge in via definitiva il decreto che rifinanzia le missioni internazionali delle Forze Armate italiane, tra cui quella in Afghanistan, e iniziative di cooperative. Votano a favore PdL, Pd, Terzo Polo, contro IdV e Lega Nord. Il tutto passa senza un fremito d’interesse nell’opinione pubblica, un sussulto di polemica o, quanto meno, un interrogativo d’opportunità sui media.
Certo, non c’è più la Libia a gonfiare i costi e il ministro La Russa ad accendere il dibattito; e il no della Lega non mette più in forse la coesione della maggioranza. Ma la cifra stanziata è comunque grossa, in tempi di crisi e di tagli: 1,4 miliardi di euro, quasi il doppio di quella cui eravamo abituati, perché, stavolta, il decreto copre tutto il 2012, mentre quelli precedenti avevano durata semestrale.
Probabilmente, il rifinanziamento è una decisione giusta, nonostante quelle salme dei tre caporalmaggiori del 66° Reggimento ‘Friuli’ di Forlì ci ricordino che le missioni militari, anche quando si dicono, magari impropriamente, di pace, sono sempre rischiose: il pericolo non è solo l’attacco del nemico, o l’ordigno che esplode lungo la strada, ma anche un guado assassino.
L’Italia deve assolvere alle responsabilità assunte sulla scena internazionale: non tutte sono al di sopra d’ogni dubbio, ma le più contestabili, come ormai quella in Afghanistan, volgono al termine e non c’è nessuno, compresi gli americani, che non veda l’ora che finiscano. E, poi, il Governo ha limato le presenze: niente più Repubblica democratica del Congo, ad esempio, e basta consulenza, formazione e addestramento, in ambito Nato, delle forze armate e di polizia irachene; interventi di cooperazione, invece, in Iraq, Libia, Libano, Somalia, Sudan e Sud Sudan, Myanmar e altri Paesi.
Ma colpisce l’assenza di dibattito e d’interesse. Una prova in più –ma non serviva- che in Italia la politica estera e di difesa interessa solo in funzione della politica interna: se non c’è il sale della polemica e dello scontro, a chi gliene importa perché stiamo in Afghanistan oggi? Già, a proposito, perché ci stiamo?
Nel giorno in cui rientrano dall’Afghanistan le salme degli ultimi tre militari italiani morti in quel Paese –e sono 49 dal 2004-, il Senato, con 223 sì, 35 no e due astenuti, converte in legge in via definitiva il decreto che rifinanzia le missioni internazionali delle Forze Armate italiane, tra cui quella in Afghanistan, e iniziative di cooperative. Votano a favore PdL, Pd, Terzo Polo, contro IdV e Lega Nord. Il tutto passa senza un fremito d’interesse nell’opinione pubblica, un sussulto di polemica o, quanto meno, un interrogativo d’opportunità sui media.
Certo, non c’è più la Libia a gonfiare i costi e il ministro La Russa ad accendere il dibattito; e il no della Lega non mette più in forse la coesione della maggioranza. Ma la cifra stanziata è comunque grossa, in tempi di crisi e di tagli: 1,4 miliardi di euro, quasi il doppio di quella cui eravamo abituati, perché, stavolta, il decreto copre tutto il 2012, mentre quelli precedenti avevano durata semestrale.
Probabilmente, il rifinanziamento è una decisione giusta, nonostante quelle salme dei tre caporalmaggiori del 66° Reggimento ‘Friuli’ di Forlì ci ricordino che le missioni militari, anche quando si dicono, magari impropriamente, di pace, sono sempre rischiose: il pericolo non è solo l’attacco del nemico, o l’ordigno che esplode lungo la strada, ma anche un guado assassino.
L’Italia deve assolvere alle responsabilità assunte sulla scena internazionale: non tutte sono al di sopra d’ogni dubbio, ma le più contestabili, come ormai quella in Afghanistan, volgono al termine e non c’è nessuno, compresi gli americani, che non veda l’ora che finiscano. E, poi, il Governo ha limato le presenze: niente più Repubblica democratica del Congo, ad esempio, e basta consulenza, formazione e addestramento, in ambito Nato, delle forze armate e di polizia irachene; interventi di cooperazione, invece, in Iraq, Libia, Libano, Somalia, Sudan e Sud Sudan, Myanmar e altri Paesi.
Ma colpisce l’assenza di dibattito e d’interesse. Una prova in più –ma non serviva- che in Italia la politica estera e di difesa interessa solo in funzione della politica interna: se non c’è il sale della polemica e dello scontro, a chi gliene importa perché stiamo in Afghanistan oggi? Già, a proposito, perché ci stiamo?
martedì 21 febbraio 2012
Ue: crescita, Mario firma con David, Angela e Nicolas no
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 20/02/2012, altra versione su euractiv.it
Ecco una mossa che non t’aspetti; e gli alleati che manco t’immagini. L’Italia parte all’attacco della crescita in Europa senza Francia e Germania: si mette alla guida di un drappello di Paesi robusto -12, in tutto-, ma fra cui ci sono euroscettici della prima ora, come la Gran Bretagna, e dell’ultima ora, come la Repubblica Ceca, e mercantilisti di tutte le stagioni come l’Olanda, il più tiepido sull’Unione fra i paesi fondatori (e il cui governo si regge sull’appoggio esterno di xenofobi anti-islam).
La lettera, scritta in vista del Vertice europeo del 1.o marzo, è indirizzata
ai presidenti di Consiglio europeo Herman van Rompuy e Commissione europea
José Manuel Barroso. Indica otto priorità per rilanciare la crescita europea: fra l’altro, levare le barriere al mercato dei servizi, fare un mercato unico del digitale e dell’energia nel giro di due anni, ridurre il peso della regole nell’Ue; diminuire il numero delle professioni sotto la tutela di ordini.
Dell’iniziativa si viene a sapere nel giorno - l’ennesimo – che può risultare decisivo per la Grecia, con la riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles – c’è Monti, per l’Italia -: il copione è Schaeuble contro tutti, compresa la Merkel, perché il ministro dell’economia tedesca preferirebbe un fallimento ‘pilotato’
a un salvataggio ‘forzato’, ma l’epilogo ‘pro Grecia’ appare scontato, anche se Atene non potrà abbeverarsi tutto d’un fiato agli aiuti Ue, ma a piccoli sorsi.
Della lettera, parla il ministro per le Politiche europee Enzo Moavero, che è lì a Bruxelles per un Consiglio dei Ministri Competitività e che è la voce più competente sull’Europa dell’Esecutivo, insieme a Monti. L’Italia, spiega, è stata fra i promotori dell’iniziativa, proprio insieme a Gran Bretagna e Olanda: “E’ qualcosa su cui abbiamo lavorato molto intensamente nelle scorse settimane”. Londra e L’Aja avevano mostrato forte interesse per il documento sulla crescita che l’Italia aveva diffuso ai partner prima del Consiglio europeo del 30 gennaio e che aveva trovato un primo riflesso nelle conclusioni del Vertice.
E Moavero –riferiscono da Bruxelles le agenzie di stampa- spiega che la lettera non va “vissuta” come “una competizione” con analoghe missive di Francia e Germania. Però, la compagnia appare composita: Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Olanda, certo; ma anche Spagna, Polonia, Estonia, Lettonia, Finlandia, Svezia, Irlanda, Slovacchia. Delle cartine di tornasole delle buone cose europee, mancano, oltre a Francia e Germania, Belgio e Lussemburgo, Portogallo, Austria, Slovenia.
Nessuna competizione con Parigi e Berlino, va bene. Ma questo pareva, piuttosto, il momento per un’azione insieme a Francia e Germania: la Merkel è in difficoltà in patria, Sarkozy è 'distratto' dalle faccende elettorali, entrambi hanno più bisogno che mai di una spalla, anzi di qualcuno cui delegare, in Europa; quindi, lo spazio di Monti, e dell’Italia, aumenta; e la spinta alla crescita di Monti, e dell’Italia, potrebbe pure essere funzionale in prospettiva a un cambio d'alleanza in Germania.
Fanta-ragionamenti? Forse, se la logica del realismo ha suggerito a chi meglio conosce i percorsi dell’Europa la lettera a 12 firme. Meglio David di Angela?, dunque. Sarà. Ma la Germania, che pur vive il malessere del ritorno alle origini della superiorità dell’Est, da Kant a Bismarck alla strana coppia –forzosa- della cancelliera figlia di un pastore e del presidente pastore, tutti e due che vengono dalla Rdt, ha sempre offerto all’Italia una spalla europea più robusta della Gran Bretagna.
Ecco una mossa che non t’aspetti; e gli alleati che manco t’immagini. L’Italia parte all’attacco della crescita in Europa senza Francia e Germania: si mette alla guida di un drappello di Paesi robusto -12, in tutto-, ma fra cui ci sono euroscettici della prima ora, come la Gran Bretagna, e dell’ultima ora, come la Repubblica Ceca, e mercantilisti di tutte le stagioni come l’Olanda, il più tiepido sull’Unione fra i paesi fondatori (e il cui governo si regge sull’appoggio esterno di xenofobi anti-islam).
La lettera, scritta in vista del Vertice europeo del 1.o marzo, è indirizzata
ai presidenti di Consiglio europeo Herman van Rompuy e Commissione europea
José Manuel Barroso. Indica otto priorità per rilanciare la crescita europea: fra l’altro, levare le barriere al mercato dei servizi, fare un mercato unico del digitale e dell’energia nel giro di due anni, ridurre il peso della regole nell’Ue; diminuire il numero delle professioni sotto la tutela di ordini.
Dell’iniziativa si viene a sapere nel giorno - l’ennesimo – che può risultare decisivo per la Grecia, con la riunione dell’Eurogruppo a Bruxelles – c’è Monti, per l’Italia -: il copione è Schaeuble contro tutti, compresa la Merkel, perché il ministro dell’economia tedesca preferirebbe un fallimento ‘pilotato’
a un salvataggio ‘forzato’, ma l’epilogo ‘pro Grecia’ appare scontato, anche se Atene non potrà abbeverarsi tutto d’un fiato agli aiuti Ue, ma a piccoli sorsi.
Della lettera, parla il ministro per le Politiche europee Enzo Moavero, che è lì a Bruxelles per un Consiglio dei Ministri Competitività e che è la voce più competente sull’Europa dell’Esecutivo, insieme a Monti. L’Italia, spiega, è stata fra i promotori dell’iniziativa, proprio insieme a Gran Bretagna e Olanda: “E’ qualcosa su cui abbiamo lavorato molto intensamente nelle scorse settimane”. Londra e L’Aja avevano mostrato forte interesse per il documento sulla crescita che l’Italia aveva diffuso ai partner prima del Consiglio europeo del 30 gennaio e che aveva trovato un primo riflesso nelle conclusioni del Vertice.
E Moavero –riferiscono da Bruxelles le agenzie di stampa- spiega che la lettera non va “vissuta” come “una competizione” con analoghe missive di Francia e Germania. Però, la compagnia appare composita: Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Olanda, certo; ma anche Spagna, Polonia, Estonia, Lettonia, Finlandia, Svezia, Irlanda, Slovacchia. Delle cartine di tornasole delle buone cose europee, mancano, oltre a Francia e Germania, Belgio e Lussemburgo, Portogallo, Austria, Slovenia.
Nessuna competizione con Parigi e Berlino, va bene. Ma questo pareva, piuttosto, il momento per un’azione insieme a Francia e Germania: la Merkel è in difficoltà in patria, Sarkozy è 'distratto' dalle faccende elettorali, entrambi hanno più bisogno che mai di una spalla, anzi di qualcuno cui delegare, in Europa; quindi, lo spazio di Monti, e dell’Italia, aumenta; e la spinta alla crescita di Monti, e dell’Italia, potrebbe pure essere funzionale in prospettiva a un cambio d'alleanza in Germania.
Fanta-ragionamenti? Forse, se la logica del realismo ha suggerito a chi meglio conosce i percorsi dell’Europa la lettera a 12 firme. Meglio David di Angela?, dunque. Sarà. Ma la Germania, che pur vive il malessere del ritorno alle origini della superiorità dell’Est, da Kant a Bismarck alla strana coppia –forzosa- della cancelliera figlia di un pastore e del presidente pastore, tutti e due che vengono dalla Rdt, ha sempre offerto all’Italia una spalla europea più robusta della Gran Bretagna.
domenica 19 febbraio 2012
Usa 2012: repubblicani a rischio convention aperta, jolly Jeb e Sarah
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/02/2012
Ormai, l’ipotesi non è più considerata fantapolitica, a Washington: le primarie dei repubblicani possono sfociare in una convention aperta. A Tampa, in estate, nessuno dei candidati in lizza potrebbe arrivare disponendo dei 1.144 delegati necessari a garantirsi la ‘nomination’. A dare concretezza a questa prospettiva, è proprio l’onda inattesa dell’italo-americano Rick Santorum, che a febbraio s’è già aggiudicato Colorado e Minnesota, oltre che un platonico test nel Missouri, senza delegati in palio, e cresce nei sondaggi nel Michigan, dove si voterà il 28 –quel giorno, primarie pure nell’Arizona-.
In settimana, The Hill, uno dei siti di chiacchiericcio politico più frequentati, ha giocato la carta della convention aperta, titolando: “Jeb Bush contro Sarah Palin”. Una battuta, o un pronostico? Se la convention non ha un vincitore già designato, può saltare fuori un nome nuovo e, in questo caso, l’eroina del Tea Party rimasta, a sorpresa, fuori dalla corsa e il rampollo ‘buono’ della nidiata Bush, ex governatore della Florida, condizionato nelle sue ambizioni dall’imprevisto successo del fratello ‘buono a nulla’ George W., potrebbero essere i cavalli su cui puntare. A questo punto, non appare del tutto disinteressata l’opinione controcorrente della Palin, secondo cui è meglio che la corsa alla nomination resti incerta il più a lungo possibile.
Per ora, però, in lizza sono in quattro: il moderato Mitt Romney, un ‘paperone’ mormone, ex governatore del Massachussetts, che mostra la corda, sempre battistrada, almeno nel computo dei delegati raccolti, ma poco convincente e mai davvero trascinante; il libertario Ron Paul, ginecologo, ex deputato del Texas, che reciterà fino in fondo il ruolo di terzo incomodo; e i due campioni ultra-conversatori, Rick Santorum, ex senatore, cattolico, che dopo la tripletta appare in spolvero, e Newt Gingrich, ex speaker della Camera, che punta sul Super-Martedì, il 6 marzo.
Fin quando il campo della destra religiosa, quella mobilitata dai predicatori evangelici, e l’area populista-qualunquista, quella del Tea Party, restano incerti tra Santorum e Gingrich, Romney rimane favorito; ma quando gli ultra-conservatori dovessero giocare una sola carta, Romney si troverà in difficoltà. Mentre andrebbe bene al presidente Barack Obama: ne Santorum né Gingrich possono, sulla carta, conquistare voti al centro e inquietarlo nelle presidenziali del 6 novembre.
E’ probabile che l’ex senatore e l’ex speaker continuino a battagliare almeno fino a quando, in primavera, non si pronuncerà il Texas, che assegna 155 delegati. Per il momento, dopo 8 match effettivi, Romney ha quattro vittorie (New Hampshire, Florida, Nevada, Maine) e Santorum tre (Iowa, inizialmente attribuito a Romney, Colorado e Minnesota), mentre Gingrich ha vinto solo nella South Carolina.
In campo, ora, ci sono le lobbies. Quella contraria ai matrimoni omosessuali appoggia Santorum, la cui storia personale rispecchia le posizioni pro-famiglia e contro l’aborto –otto figli e, per almeno due di essi, storie drammatiche-. Il tema è d’attualità perché il parlamento del New Jersey ha appena legalizzato le unioni gay, ma il governatore repubblicano Chris Christie, considerato un potenziale aspirante presidente, potrebbe porre il veto.
Invece, la lobby a difesa dell’emendamento della Costituzione che autorizza i cittadini a possedere armi s’è finora orientata su Paul (ma la potentissima National Rifle Association non s’è schierata). Fronte finanziatori, Romney continua a disporre degli sponsor più generosi, colossi della telecom o della distribuzione come AT&T e Walmart. Obama, però, a conti fatti surclassa i rivali: a gennaio, ha raccolto dai suoi donatori diffusi quasi 30 milioni di dollari, più di quanto Romney ha avuto in tre mesi dai suoi mega-donatori: con i repubblicani nel caos, le casse piene e gli sgravi fiscali nella finanziaria 2012, il secondo mandato è quasi in tasca.
Una vittoria di Santorum nel Michigan potrebbe fare pendere i favori del pronostico (e la generosità degli sponsor) sull’avvocato vicino a Bush jr. Lo Stato dell’auto per antonomasia –sono qui le sedi delle grandi industrie- è sulla carta promesso a Romney: il padre ne fu governatore, la madre rischiò di divenirne senatore. Ma le posizioni assunte dal candidato mormone sull’industria automobilistica lo danneggiano, anche se i ‘colletti blu’ superstiti in questo stato un tempo operaio non voterebbero comunque repubblicano. I sondaggi più recenti danno Santorum, ma i dati sono volatili: Romney ha pronta una raffica di spot contro il rivale, che finora non era stato un suo bersaglio, mentre l’italo-americano deve adattare al Michigan i suoi discorsi, parlando più di crescita e meno di valori.
Ormai, l’ipotesi non è più considerata fantapolitica, a Washington: le primarie dei repubblicani possono sfociare in una convention aperta. A Tampa, in estate, nessuno dei candidati in lizza potrebbe arrivare disponendo dei 1.144 delegati necessari a garantirsi la ‘nomination’. A dare concretezza a questa prospettiva, è proprio l’onda inattesa dell’italo-americano Rick Santorum, che a febbraio s’è già aggiudicato Colorado e Minnesota, oltre che un platonico test nel Missouri, senza delegati in palio, e cresce nei sondaggi nel Michigan, dove si voterà il 28 –quel giorno, primarie pure nell’Arizona-.
In settimana, The Hill, uno dei siti di chiacchiericcio politico più frequentati, ha giocato la carta della convention aperta, titolando: “Jeb Bush contro Sarah Palin”. Una battuta, o un pronostico? Se la convention non ha un vincitore già designato, può saltare fuori un nome nuovo e, in questo caso, l’eroina del Tea Party rimasta, a sorpresa, fuori dalla corsa e il rampollo ‘buono’ della nidiata Bush, ex governatore della Florida, condizionato nelle sue ambizioni dall’imprevisto successo del fratello ‘buono a nulla’ George W., potrebbero essere i cavalli su cui puntare. A questo punto, non appare del tutto disinteressata l’opinione controcorrente della Palin, secondo cui è meglio che la corsa alla nomination resti incerta il più a lungo possibile.
Per ora, però, in lizza sono in quattro: il moderato Mitt Romney, un ‘paperone’ mormone, ex governatore del Massachussetts, che mostra la corda, sempre battistrada, almeno nel computo dei delegati raccolti, ma poco convincente e mai davvero trascinante; il libertario Ron Paul, ginecologo, ex deputato del Texas, che reciterà fino in fondo il ruolo di terzo incomodo; e i due campioni ultra-conversatori, Rick Santorum, ex senatore, cattolico, che dopo la tripletta appare in spolvero, e Newt Gingrich, ex speaker della Camera, che punta sul Super-Martedì, il 6 marzo.
Fin quando il campo della destra religiosa, quella mobilitata dai predicatori evangelici, e l’area populista-qualunquista, quella del Tea Party, restano incerti tra Santorum e Gingrich, Romney rimane favorito; ma quando gli ultra-conservatori dovessero giocare una sola carta, Romney si troverà in difficoltà. Mentre andrebbe bene al presidente Barack Obama: ne Santorum né Gingrich possono, sulla carta, conquistare voti al centro e inquietarlo nelle presidenziali del 6 novembre.
E’ probabile che l’ex senatore e l’ex speaker continuino a battagliare almeno fino a quando, in primavera, non si pronuncerà il Texas, che assegna 155 delegati. Per il momento, dopo 8 match effettivi, Romney ha quattro vittorie (New Hampshire, Florida, Nevada, Maine) e Santorum tre (Iowa, inizialmente attribuito a Romney, Colorado e Minnesota), mentre Gingrich ha vinto solo nella South Carolina.
In campo, ora, ci sono le lobbies. Quella contraria ai matrimoni omosessuali appoggia Santorum, la cui storia personale rispecchia le posizioni pro-famiglia e contro l’aborto –otto figli e, per almeno due di essi, storie drammatiche-. Il tema è d’attualità perché il parlamento del New Jersey ha appena legalizzato le unioni gay, ma il governatore repubblicano Chris Christie, considerato un potenziale aspirante presidente, potrebbe porre il veto.
Invece, la lobby a difesa dell’emendamento della Costituzione che autorizza i cittadini a possedere armi s’è finora orientata su Paul (ma la potentissima National Rifle Association non s’è schierata). Fronte finanziatori, Romney continua a disporre degli sponsor più generosi, colossi della telecom o della distribuzione come AT&T e Walmart. Obama, però, a conti fatti surclassa i rivali: a gennaio, ha raccolto dai suoi donatori diffusi quasi 30 milioni di dollari, più di quanto Romney ha avuto in tre mesi dai suoi mega-donatori: con i repubblicani nel caos, le casse piene e gli sgravi fiscali nella finanziaria 2012, il secondo mandato è quasi in tasca.
Una vittoria di Santorum nel Michigan potrebbe fare pendere i favori del pronostico (e la generosità degli sponsor) sull’avvocato vicino a Bush jr. Lo Stato dell’auto per antonomasia –sono qui le sedi delle grandi industrie- è sulla carta promesso a Romney: il padre ne fu governatore, la madre rischiò di divenirne senatore. Ma le posizioni assunte dal candidato mormone sull’industria automobilistica lo danneggiano, anche se i ‘colletti blu’ superstiti in questo stato un tempo operaio non voterebbero comunque repubblicano. I sondaggi più recenti danno Santorum, ma i dati sono volatili: Romney ha pronta una raffica di spot contro il rivale, che finora non era stato un suo bersaglio, mentre l’italo-americano deve adattare al Michigan i suoi discorsi, parlando più di crescita e meno di valori.
sabato 18 febbraio 2012
Germania: il Venerd' 17 di Angela. Ma per fortuna che Mario c'è
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 17/02/2012, altra versione su euractiv.it
Ci sono giorni che anche le costruzioni più solide paiono sul punto di venire giù come castelli di carte. E, se è un venerdì 17, pure a una che nasce nel Meclemburgo qualche pensiero scaramantico dovrà ben venire. Nel giro di poche ore, la cancelliera tedesca Angela Merkel deve registrare le dimissioni del capo dello Stato da lei imposto neppure due anni or sono, Christian Wulff, accusato di corruzione, e gestire il dissenso, ufficialmente negato, con il suo ministro dell’economia Wolfgang Schauble sull’atteggiamento da tenere verso la Grecia.
Così, il momento più facile del ‘venerdì orribile’ di Angela la cancelliera è la telefonata a tre, pur delicata, col presidente del Consiglio italiano Mario Monti e il premier greco Lucas Papademos. A fine colloquio, “dettagliato e condotto con spirito costruttivo”, recita una nota diffusa da Palazzo Chigi, i tre leader “sono fiduciosi che lunedì l'Eurogruppo possa raggiungere l'accordo sulla Grecia".
Dopo Horst Koehler, Wulff è il secondo presidente tedesco che si brucia senza portare a termine il mandato, da quando Angela è a capo del governo, manco la Germania fosse una Repubblica delle Banane. La vicenda getta un’ombra sulla leadership politica della cancelliera, mentre Schauble pare contestarne la visione europea ed economica.
Adesso, più che con Papademos e i partner dell’Ue, la Merkel dovrebbe dunque vedersela con Schauble, che, secondo la Sueddeutsche Zeitung, propende per una dichiarazione d’insolvenza formale da parte di Atene, mentre la cancelliera, e con lei una grossa fetta dell’Unione europea, considera un default della Grecia un'eventualità troppo rischiosa.
Ci sono giorni che anche le costruzioni più solide paiono sul punto di venire giù come castelli di carte. E, se è un venerdì 17, pure a una che nasce nel Meclemburgo qualche pensiero scaramantico dovrà ben venire. Nel giro di poche ore, la cancelliera tedesca Angela Merkel deve registrare le dimissioni del capo dello Stato da lei imposto neppure due anni or sono, Christian Wulff, accusato di corruzione, e gestire il dissenso, ufficialmente negato, con il suo ministro dell’economia Wolfgang Schauble sull’atteggiamento da tenere verso la Grecia.
Così, il momento più facile del ‘venerdì orribile’ di Angela la cancelliera è la telefonata a tre, pur delicata, col presidente del Consiglio italiano Mario Monti e il premier greco Lucas Papademos. A fine colloquio, “dettagliato e condotto con spirito costruttivo”, recita una nota diffusa da Palazzo Chigi, i tre leader “sono fiduciosi che lunedì l'Eurogruppo possa raggiungere l'accordo sulla Grecia".
Dopo Horst Koehler, Wulff è il secondo presidente tedesco che si brucia senza portare a termine il mandato, da quando Angela è a capo del governo, manco la Germania fosse una Repubblica delle Banane. La vicenda getta un’ombra sulla leadership politica della cancelliera, mentre Schauble pare contestarne la visione europea ed economica.
Adesso, più che con Papademos e i partner dell’Ue, la Merkel dovrebbe dunque vedersela con Schauble, che, secondo la Sueddeutsche Zeitung, propende per una dichiarazione d’insolvenza formale da parte di Atene, mentre la cancelliera, e con lei una grossa fetta dell’Unione europea, considera un default della Grecia un'eventualità troppo rischiosa.
venerdì 17 febbraio 2012
Grecia: crisi, giù partiti e leader, avanti sinistra e destra
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/02/2012
I greci non si fidano dei partiti politici che hanno avallato il piano ‘lacrime e sangue’ chiesto, anzi imposto, dall’Ue e non capiscono quei leader che si sono impegnati a rispettarlo dopo le elezioni politiche anticipate di aprile. E l’Ue non si fida dei greci che, secondo i sondaggi, potrebbero affidare il paese a forze di opposizione pronte a rimettere tutto in discussione. C’ è paura e rabbia, in Grecia: rabbia per come le cose stanno andando; paura, che possano andare peggio.
Uno spiraglio si apre in serata, con l’annuncio d’un accordo su altri tagli per 325 milioni di euro, soprattutto –pare- sulle pensioni: il governo spera che serva a convincere l’Eurogruppo, lunedì, a Bruxelles, a sbloccare il piano di salvataggio del Paese.
Scendono in campo tutti: il presidente Karolos Papoulias, che non entra mai nelle beghe politiche, accusa il ministro delle finanze tedesco Wolfganf Schauble di insultare la Grecia; e, come gesto di solidarietà con la sua gente, rinuncia alla sua retribuzione. E gli statistici calcolano che la crisi stia per battere il record argentino: dal 2008 a oggi, il pil è crollato del 16%, è stato bruciato un sesto della ricchezza nazionale (il default argentino, nel 2001, costò un quinto della ricchezza nazionale).
Il Pasok, i socialisti di Giorgio Papandreu, l’ex premier, è ai minimi storici di sostegno popolare, sotto il 10%, mentre Nea Demokratia, il partito di centro-destra responsabile dei ‘conti falsi’ che hanno spinto verso l’attuale disastro, nascondendo la realtà della situazione ai cittadini e ai partner, ha ancora quasi un terzo delle intenzioni di voto: certo, con quelli al potere si viveva meglio.
Un sondaggio per conto del quotidiano Kathimerini indica che il partito guidato da Antonis Samaras sarebbe il più votato, se si andasse oggi alle urne. Al secondo posto, col 18%, Sinistra Democratica, un nuovo partito formato da Fotis Kouvelis, seguito dal Partito Comunista col 12,5%, solidamente ancorato qui al suo impianto marxista-leninista. Poi una coalizione radicale di sinistra democratica, Siryza, col 12%, il Pasok all’8%, Laos (estrema destra) al 5% e i Verdi-Ecologisti al 3,5%. L’ultra estrema destra ‘Alba d'Oro’ entrerebbe in Parlamento per la prima volta, toccando la soglia del 3%.
Quasi un terzo dell’elettorato, il 30%, è determinato ad astenersi: non ne vogliono più sapere dell’Europa e della politica. E, certo, le voci di pressioni di Parigi e Berlino perché Atene comprasse armi in Francia e in Germania, nonostante la crisi, non rendono Sarkozy e la Merkel né più popolari né più credibili.
Su questo sfondo d’incertezza e disgregazione, la decisione di andare alle urne in primavera appare incomprensibile: con il governo del ‘banchiere’ Lucas Papademos, la Grecia pareva avere tracciato la via poi imboccata dall’Italia con il Governo dei Professori. Ma l’esecutivo di Papademos è zeppo di contraddizioni: ha come ministro delle finanze Evangelos Venizelos già lì con Papandreu (un po’ come se Monti avesse Tremonti all’economia); e se ne va subito dopo avere somministrato la ‘cura da cavallo’ al paziente, lasciando il Paese nel caos e inducendo l’Ue a tenere i cordoni della borsa chiusi.
Certo, papademos non ha la popolarità di Monti: nove greci su dieci sono insoddisfatti dell’operato del governo. Il politico che piace di più è Kouvelis, un nuovo, quello che piace di meno Papandreu. Ma neppure la scelta di andare alle urne convince: il Paese è spaccato tra chi vuole votare e chi vorrebbe prima vedere posarsi la polvere della crisi.
I greci non si fidano dei partiti politici che hanno avallato il piano ‘lacrime e sangue’ chiesto, anzi imposto, dall’Ue e non capiscono quei leader che si sono impegnati a rispettarlo dopo le elezioni politiche anticipate di aprile. E l’Ue non si fida dei greci che, secondo i sondaggi, potrebbero affidare il paese a forze di opposizione pronte a rimettere tutto in discussione. C’ è paura e rabbia, in Grecia: rabbia per come le cose stanno andando; paura, che possano andare peggio.
Uno spiraglio si apre in serata, con l’annuncio d’un accordo su altri tagli per 325 milioni di euro, soprattutto –pare- sulle pensioni: il governo spera che serva a convincere l’Eurogruppo, lunedì, a Bruxelles, a sbloccare il piano di salvataggio del Paese.
Scendono in campo tutti: il presidente Karolos Papoulias, che non entra mai nelle beghe politiche, accusa il ministro delle finanze tedesco Wolfganf Schauble di insultare la Grecia; e, come gesto di solidarietà con la sua gente, rinuncia alla sua retribuzione. E gli statistici calcolano che la crisi stia per battere il record argentino: dal 2008 a oggi, il pil è crollato del 16%, è stato bruciato un sesto della ricchezza nazionale (il default argentino, nel 2001, costò un quinto della ricchezza nazionale).
Il Pasok, i socialisti di Giorgio Papandreu, l’ex premier, è ai minimi storici di sostegno popolare, sotto il 10%, mentre Nea Demokratia, il partito di centro-destra responsabile dei ‘conti falsi’ che hanno spinto verso l’attuale disastro, nascondendo la realtà della situazione ai cittadini e ai partner, ha ancora quasi un terzo delle intenzioni di voto: certo, con quelli al potere si viveva meglio.
Un sondaggio per conto del quotidiano Kathimerini indica che il partito guidato da Antonis Samaras sarebbe il più votato, se si andasse oggi alle urne. Al secondo posto, col 18%, Sinistra Democratica, un nuovo partito formato da Fotis Kouvelis, seguito dal Partito Comunista col 12,5%, solidamente ancorato qui al suo impianto marxista-leninista. Poi una coalizione radicale di sinistra democratica, Siryza, col 12%, il Pasok all’8%, Laos (estrema destra) al 5% e i Verdi-Ecologisti al 3,5%. L’ultra estrema destra ‘Alba d'Oro’ entrerebbe in Parlamento per la prima volta, toccando la soglia del 3%.
Quasi un terzo dell’elettorato, il 30%, è determinato ad astenersi: non ne vogliono più sapere dell’Europa e della politica. E, certo, le voci di pressioni di Parigi e Berlino perché Atene comprasse armi in Francia e in Germania, nonostante la crisi, non rendono Sarkozy e la Merkel né più popolari né più credibili.
Su questo sfondo d’incertezza e disgregazione, la decisione di andare alle urne in primavera appare incomprensibile: con il governo del ‘banchiere’ Lucas Papademos, la Grecia pareva avere tracciato la via poi imboccata dall’Italia con il Governo dei Professori. Ma l’esecutivo di Papademos è zeppo di contraddizioni: ha come ministro delle finanze Evangelos Venizelos già lì con Papandreu (un po’ come se Monti avesse Tremonti all’economia); e se ne va subito dopo avere somministrato la ‘cura da cavallo’ al paziente, lasciando il Paese nel caos e inducendo l’Ue a tenere i cordoni della borsa chiusi.
Certo, papademos non ha la popolarità di Monti: nove greci su dieci sono insoddisfatti dell’operato del governo. Il politico che piace di più è Kouvelis, un nuovo, quello che piace di meno Papandreu. Ma neppure la scelta di andare alle urne convince: il Paese è spaccato tra chi vuole votare e chi vorrebbe prima vedere posarsi la polvere della crisi.
Ue: Monti a Strasburgo, ora la crescita, Grecia cattivo esempio
Grecia Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/02/2012, altre versioni su euractiv.it e lindro.it
Il presidente del Consiglio italiano Mario Monti si presenta al Parlamento europeo poche ore dopo la pubblicazione dei dati dell’Istat da cui risulta che l’Italia è in recessione. Ma, ciò nonostante, il passaggio del premier a Strasburgo ha toni da marcia trionfale: il Professore parla al Parlamento europeo la settimana dopo essere stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente statunitense Barack Obama e condivide con l’assemblea un pensiero comune a lui e al leader americano: il rigore va bene, ma ci vuole pure la crescita. Monti evita, però, di entrare in polemica con la cancelliera tedesca Angela Merkel, l’alfiere dei bilanci in ordine, che domani sarà a Roma.
E mentre applaude il Professore, l’Ue mantiene la stretta sulla Grecia e non sblocca i 131 miliardi di euro necessari a evitare il fallimento di Atene. Neppure Monti è tenero: partecipa in vice-conferenza alla riunione dei ministri dell’eurogruppo, chiarendo, prima, che il rischio di disgregazione dell’eurozona non è superato: con la Grecia, l’Europa è dura –ammette-, ma Atene ha anche sciorinato “il peggior catalogo della politica”.
I governi dell’eurozona non hanno digerito le elezioni politiche convocate in Grecia ad aprile. E, adesso, lo sdoganamento degli aiuti potrebbe slittare a dopo il voto. Il ministro tedesco Wolfgang Schauble ripete che Atene dovrebbe fare come Roma, dove di elezioni –conferma Monti- non si parla fino alla scadenza della legislatura, nella primavera 2013.
Prima in sessione plenaria, poi in conferenza stampa con il presidente del Parlamento Martin Schulz –un socialista tedesco che invita la Merkel a “seguire il Professore sugli eurobonds”-, Monti dice che l’Italia sta uscendo dal cono d’ombra della crisi e afferma che non ci sarà bisogno di nuove misure per il consolidamento del bilancio –quelle contro l’evasione fiscale sono, dice, “molto incisive”-: i sacrifici, sostiene, non sono stati imposti dall’Ue, ma erano necessari.
Il premier non nasconde gli elementi di discontinuità con il governo precedente, ad esempio sulla Tobin Tax, e rivendica un’acquisita maggiore credibilità in ambito europeo. Degli eurobonds, ribadisce che essi porterebbero a una maggiore disciplina finanziaria; e dà un giudizio positivo del Patto di Bilancio, ma negativo della mancata utilizzazione di tutte le opportunità del mercato unico.
L’intervento del premier italiano è accolto da applausi scroscianti degli eurodeputati. E la stampa internazionale continua a scrutare il successo di Monti, chiedendosi se segni “la fine dei politici in Italia”, resi “irrilevanti” dal Governo dei Professori.
La rigidità verso la Grecia infiamma la giornata a Strasburgo, dove si discutono le priorità del Parlamento in vista del Consiglio europeo del 1o marzo. L’assemblea approva una risoluzione sui cosiddetti ‘stability bonds’, ennesima versione degli eurobonds tuttora osteggiati dalla Germania. L'eurodeputato francese Daniel Cohn Bendit (Verdi) punta il dito contro l’italiano Marco Buti, direttore finanze della Commissione europea, definendolo “talibano e ayatollah neo-liberale”. Nelle capitali, i commenti politici, specie a sinistra, sono duri: a Roma, PierLuigi Bersani dice di “vergognarsi” dell’atteggiamento dell’Ue.
Il presidente del Consiglio italiano Mario Monti si presenta al Parlamento europeo poche ore dopo la pubblicazione dei dati dell’Istat da cui risulta che l’Italia è in recessione. Ma, ciò nonostante, il passaggio del premier a Strasburgo ha toni da marcia trionfale: il Professore parla al Parlamento europeo la settimana dopo essere stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente statunitense Barack Obama e condivide con l’assemblea un pensiero comune a lui e al leader americano: il rigore va bene, ma ci vuole pure la crescita. Monti evita, però, di entrare in polemica con la cancelliera tedesca Angela Merkel, l’alfiere dei bilanci in ordine, che domani sarà a Roma.
E mentre applaude il Professore, l’Ue mantiene la stretta sulla Grecia e non sblocca i 131 miliardi di euro necessari a evitare il fallimento di Atene. Neppure Monti è tenero: partecipa in vice-conferenza alla riunione dei ministri dell’eurogruppo, chiarendo, prima, che il rischio di disgregazione dell’eurozona non è superato: con la Grecia, l’Europa è dura –ammette-, ma Atene ha anche sciorinato “il peggior catalogo della politica”.
I governi dell’eurozona non hanno digerito le elezioni politiche convocate in Grecia ad aprile. E, adesso, lo sdoganamento degli aiuti potrebbe slittare a dopo il voto. Il ministro tedesco Wolfgang Schauble ripete che Atene dovrebbe fare come Roma, dove di elezioni –conferma Monti- non si parla fino alla scadenza della legislatura, nella primavera 2013.
Prima in sessione plenaria, poi in conferenza stampa con il presidente del Parlamento Martin Schulz –un socialista tedesco che invita la Merkel a “seguire il Professore sugli eurobonds”-, Monti dice che l’Italia sta uscendo dal cono d’ombra della crisi e afferma che non ci sarà bisogno di nuove misure per il consolidamento del bilancio –quelle contro l’evasione fiscale sono, dice, “molto incisive”-: i sacrifici, sostiene, non sono stati imposti dall’Ue, ma erano necessari.
Il premier non nasconde gli elementi di discontinuità con il governo precedente, ad esempio sulla Tobin Tax, e rivendica un’acquisita maggiore credibilità in ambito europeo. Degli eurobonds, ribadisce che essi porterebbero a una maggiore disciplina finanziaria; e dà un giudizio positivo del Patto di Bilancio, ma negativo della mancata utilizzazione di tutte le opportunità del mercato unico.
L’intervento del premier italiano è accolto da applausi scroscianti degli eurodeputati. E la stampa internazionale continua a scrutare il successo di Monti, chiedendosi se segni “la fine dei politici in Italia”, resi “irrilevanti” dal Governo dei Professori.
La rigidità verso la Grecia infiamma la giornata a Strasburgo, dove si discutono le priorità del Parlamento in vista del Consiglio europeo del 1o marzo. L’assemblea approva una risoluzione sui cosiddetti ‘stability bonds’, ennesima versione degli eurobonds tuttora osteggiati dalla Germania. L'eurodeputato francese Daniel Cohn Bendit (Verdi) punta il dito contro l’italiano Marco Buti, direttore finanze della Commissione europea, definendolo “talibano e ayatollah neo-liberale”. Nelle capitali, i commenti politici, specie a sinistra, sono duri: a Roma, PierLuigi Bersani dice di “vergognarsi” dell’atteggiamento dell’Ue.
mercoledì 15 febbraio 2012
Maltempo: Georgieva (Ue), non più la neve, l'acqua adesso
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/02/2012. Altra versione su euractiv.it
La prossima volta, non più la neve, ma l’acqua: Kristalina Georgieva, commissaria europea, bulgara, responsabile della risposta alle crisi, mette l’Italia in guardia contro l’emergenza prossima ventura: “Lo scioglimento delle nevi –dice a Il Fatto Quotidiano- può provocare estese inondazioni e danni ingenti”. Bisognerà reagire meglio e, soprattutto, “migliorare il coordinamento”: meno polemiche più interventi.
La protezione civile italiana ha subito critiche e attacchi per la gestione dell’emergenza. C'è stata impreparazione e/o sottovalutazione dei rischi?, o è mancato il coordinamento?
L’Italia è uno dei Paesi europei con un sistema di protezione civile molto ben sviluppato e ha una grande tradizione di cooperazione europea nella risposta ai disastri. L’Europa è stata investita da un colpo di gelo rigido e da pesanti nevicate che hanno messo in difficoltà le protezioni civili in numerosi Paesi, non solo in Italia. Le lezioni devono essere tratte a livello regionale, nazionale
ed europeo. Aumentare il coordinamento è un ovvio vantaggio dove allarmi tempestivi, velocità d’intervento e lavoro in comune sono essenziali. Ho proposto ammodernamenti alle legislazioni e lavorerò con le autorità nazionali perché ciò avvenga.
Questo fronte risposta. Ma c’è pure la fase della prevenzione…
La prevenzione è cruciale. Nell’ultimo decennio, centomila persone sono morte in Europa per disastri naturali e i danni ammontano a miliardi di euro. Questi numeri ci dicono che dobbiamo pianificare meglio e affrontare in modo più robusto i rischi. Anche qui lavoreremo per creare una mappa dei rischi ed essere certi di essere preparati ad affrontarli.
Dal gelo al disgelo: il rialzo delle temperature e l'arrivo della primavera potrebbero innescare emergenze disastrose. E' possibile prevenirne l’impatto, agendo d'anticipo a tutti i livelli?
La Commissione è conscia dei pericoli e il centro di controllo e d’informazione (Mic) è pronto ad assistere ogni Paese ora che le temperature si faranno più miti e il pericolo di inondazioni diventerà immanente e immediato. Misure di prevenzione e azioni tempestive possono salvare vite e risorse. In settimana il Mic organizza una tele-conferenza con i Paesi membri per condividere informazioni sulla situazione.
Il pericolo di inondazioni è anche controllato col sistema europeo di allarme inondazioni (Efas), che fornisce allarmi con un anticipo di dieci giorni: le informazioni sono distribuite due volte al giorno.
Ma numerose azioni per ridurre al minimo l’impatto dei disastri rimangono in primo luogo responsabilità nazionale.
La prossima volta, non più la neve, ma l’acqua: Kristalina Georgieva, commissaria europea, bulgara, responsabile della risposta alle crisi, mette l’Italia in guardia contro l’emergenza prossima ventura: “Lo scioglimento delle nevi –dice a Il Fatto Quotidiano- può provocare estese inondazioni e danni ingenti”. Bisognerà reagire meglio e, soprattutto, “migliorare il coordinamento”: meno polemiche più interventi.
La protezione civile italiana ha subito critiche e attacchi per la gestione dell’emergenza. C'è stata impreparazione e/o sottovalutazione dei rischi?, o è mancato il coordinamento?
L’Italia è uno dei Paesi europei con un sistema di protezione civile molto ben sviluppato e ha una grande tradizione di cooperazione europea nella risposta ai disastri. L’Europa è stata investita da un colpo di gelo rigido e da pesanti nevicate che hanno messo in difficoltà le protezioni civili in numerosi Paesi, non solo in Italia. Le lezioni devono essere tratte a livello regionale, nazionale
ed europeo. Aumentare il coordinamento è un ovvio vantaggio dove allarmi tempestivi, velocità d’intervento e lavoro in comune sono essenziali. Ho proposto ammodernamenti alle legislazioni e lavorerò con le autorità nazionali perché ciò avvenga.
Questo fronte risposta. Ma c’è pure la fase della prevenzione…
La prevenzione è cruciale. Nell’ultimo decennio, centomila persone sono morte in Europa per disastri naturali e i danni ammontano a miliardi di euro. Questi numeri ci dicono che dobbiamo pianificare meglio e affrontare in modo più robusto i rischi. Anche qui lavoreremo per creare una mappa dei rischi ed essere certi di essere preparati ad affrontarli.
Dal gelo al disgelo: il rialzo delle temperature e l'arrivo della primavera potrebbero innescare emergenze disastrose. E' possibile prevenirne l’impatto, agendo d'anticipo a tutti i livelli?
La Commissione è conscia dei pericoli e il centro di controllo e d’informazione (Mic) è pronto ad assistere ogni Paese ora che le temperature si faranno più miti e il pericolo di inondazioni diventerà immanente e immediato. Misure di prevenzione e azioni tempestive possono salvare vite e risorse. In settimana il Mic organizza una tele-conferenza con i Paesi membri per condividere informazioni sulla situazione.
Il pericolo di inondazioni è anche controllato col sistema europeo di allarme inondazioni (Efas), che fornisce allarmi con un anticipo di dieci giorni: le informazioni sono distribuite due volte al giorno.
Ma numerose azioni per ridurre al minimo l’impatto dei disastri rimangono in primo luogo responsabilità nazionale.
Ue: crisi; finanza a orologeria col timer rotto, cappio alla Grecia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/02/2012
Quando accade, c’è sempre chi parla di “operazione ad orologeria”: il luogo comune si ritrova, puntualmente, in dichiarazioni fotocopia. Ma, questa volta, si direbbe che gli orologi della finanza internazionale sono mal sincronizzati, o sono semplicemente impazziti. Perché l’ennesima, e se vogliamo stra-annunciata, operazione di riduzione del rating dell’Italia e di altri paesi della zona euro avviene in una ridda di segnali discordanti, se non di segno diametralmente opposto.
L’Italia è additata ad esempio all’Europa dal presidente Usa Barack Obama; ed è portata a modello alla Grecia da ‘Le Monde’, mentre il presidente del Consiglio Mario Monti si appresta a trasmettere al Parlamento europeo in sessione plenaria l’appello per la crescita affidatogli da Obama: oggi, Monti parlerà a Strasburgo e farà una conferenza stampa insieme al presidente dell’Assemblea Martin Schulz.
Intanto, Ue e Usa intrecciano le consultazioni con la Cina: gli emissari europei Manuel Barroso e Herman Van Rompuy vedono Hu Jintao, il presidente uscente; e Obama riceve Xi Li, che sarà presidente da novembre. La concomitanza suggerirebbe facili ironie: l’Europa che parla a chi presto non conterà più e l’America che se l’intende con l’uomo nuovo e forte. Ma sia Bruxelles che Washington stanno oggi attente agli umori di Pechino, che non s’affanna a correggere gli squilibri delle grandi economie mature.
Nella ridda di fatti, Bruxelles non pare cogliere la drammaticità del momento greco: forse confusi dall’annuncio di elezioni politiche anticipate ad aprile, che possono vanificare il piano di rigore appena varato fra tumulti di piazza, i ministri dell’eurogruppo s’impuntano. Il loro presidente, il Jean-Claude Juncker, fa sapere che, da Atene, “non sono ancora arrivate le assicurazioni politiche necessarie all’attuazione del programma” d’austerità. Oggi, mercoledì, l’eurogruppo, dunque, non si riunirà: ci sarà solo una teleconferenza. Come dire che lo sblocco dei miliardi di euro necessari a garantire la solvibilità greca si farà ancora attendere. In serata, però, i leader dei maggiori partiti greci sottoscrivono l’impegno a rispettare i tagli anche dopo il voto: un annuncio che dovrebbe distendere gli animi nell’eurozona.
Il downgrade dei rating di Moody’s, l’ultima che mancava all’appello, è arrivato nella notte tra lunedì e martedì: l’Italia scende da A2 ad A3, su una china già tracciata dalle altre due sorelle, Standard & Poor’s e Fitch. Vengono pure declassate Spagna, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Malta. Fortissime e diffuse le perplessità; e immediati gli appelli a una riforma europea delle agenzie.
La spirale dei rating sembra essersi avvitata negli ultimi mesi. Mai, negli scorsi anni, i giudizi negativi sull’Italia si erano susseguiti con ritmo così serrato: da settembre le bocciature sono state incalzanti. Per carità, non ne sono rimasti esenti neppure Usa e Francia e, addirittura, il ‘fondo salva Stati’ Ue. Ma il taglio di Moody’s cade in netta controtendenza: la situazione italiana appare in fase di miglioramento, con l’avvio delle riforme, una maggiore credibilità sul fronte internazionale, misure di rigore già approvate e provvedimenti per la crescita già annunciati, a cominciare dagli interventi sul mercato del lavoro.
Un quadro ben noto a tutti; e che oggi Monti sciorinerà nell’aula di Strasburgo. Tanto che la Commissione europea è costretta a rivedere la prima bozza del suo rapporto sulla correzione degli squilibri macroeconomici, stilato come previsto dal pacchetto di misure noto come Six Pack. Nella versione iniziale, Olli Rehn, il finlandese che è l’ ‘angelo custode’ dell’economia italiana, metteva Roma fra gli ultimi della classe, insieme a tre soli altri stati. Nella versione che ha ieri presentato al Parlamento, invece, l’Italia è nella folta lista di quelli che necessitano “un’analisi approfondita” per la situazione macro-economica, dove preoccupano entità del debito e modestia della crescita (12 i Paesi del gruppo, fra cui Francia e Spagna.
Neppure i primi della classe sono esenti da critiche. A Berlino, il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria, che la scorsa settimana a Roma faceva complimenti a Monti, ammonisce la Germania: ha “bisogno di riforme” e non deve “adagiarsi sugli allori”, anche perché “invecchia più velocemente degli altri”. Si torna a parlare dei conflitti di interesse delle agenzie di rating e dell’attesa riforma: divieto di rating non richiesti dei debiti sovrani, creazione di un’agenzia europea indipendente; divieto di valutazioni che nascano in un clima di ‘conflitti d’interessi’.
L’apparente dicrasia tra rating ed economia reale viene fotografata anche dalle Borse, forse per la prima volta in modo così palese. Piazza Affari e tutti i listini europei viaggiano in positivo, nonostante gli strali di Moody's. Anche Atene parte bene, nonostante i segni della battaglia tutto intorno. Certo, lì c’è tempo di vedere come vanno le altre: perché, in Grecia, la borsa, che altrove in Europa apre alle ‘09.00, apre alle 09.30. Ma, attenzione, non le 09.30 locali, bensì le 09.30 di Bruxelles. Vuol dire che la borsa greca apre in realtà alle 10.30. Che fretta c’è, mica c’è il fuoco in casa…
Quando accade, c’è sempre chi parla di “operazione ad orologeria”: il luogo comune si ritrova, puntualmente, in dichiarazioni fotocopia. Ma, questa volta, si direbbe che gli orologi della finanza internazionale sono mal sincronizzati, o sono semplicemente impazziti. Perché l’ennesima, e se vogliamo stra-annunciata, operazione di riduzione del rating dell’Italia e di altri paesi della zona euro avviene in una ridda di segnali discordanti, se non di segno diametralmente opposto.
L’Italia è additata ad esempio all’Europa dal presidente Usa Barack Obama; ed è portata a modello alla Grecia da ‘Le Monde’, mentre il presidente del Consiglio Mario Monti si appresta a trasmettere al Parlamento europeo in sessione plenaria l’appello per la crescita affidatogli da Obama: oggi, Monti parlerà a Strasburgo e farà una conferenza stampa insieme al presidente dell’Assemblea Martin Schulz.
Intanto, Ue e Usa intrecciano le consultazioni con la Cina: gli emissari europei Manuel Barroso e Herman Van Rompuy vedono Hu Jintao, il presidente uscente; e Obama riceve Xi Li, che sarà presidente da novembre. La concomitanza suggerirebbe facili ironie: l’Europa che parla a chi presto non conterà più e l’America che se l’intende con l’uomo nuovo e forte. Ma sia Bruxelles che Washington stanno oggi attente agli umori di Pechino, che non s’affanna a correggere gli squilibri delle grandi economie mature.
Nella ridda di fatti, Bruxelles non pare cogliere la drammaticità del momento greco: forse confusi dall’annuncio di elezioni politiche anticipate ad aprile, che possono vanificare il piano di rigore appena varato fra tumulti di piazza, i ministri dell’eurogruppo s’impuntano. Il loro presidente, il Jean-Claude Juncker, fa sapere che, da Atene, “non sono ancora arrivate le assicurazioni politiche necessarie all’attuazione del programma” d’austerità. Oggi, mercoledì, l’eurogruppo, dunque, non si riunirà: ci sarà solo una teleconferenza. Come dire che lo sblocco dei miliardi di euro necessari a garantire la solvibilità greca si farà ancora attendere. In serata, però, i leader dei maggiori partiti greci sottoscrivono l’impegno a rispettare i tagli anche dopo il voto: un annuncio che dovrebbe distendere gli animi nell’eurozona.
Il downgrade dei rating di Moody’s, l’ultima che mancava all’appello, è arrivato nella notte tra lunedì e martedì: l’Italia scende da A2 ad A3, su una china già tracciata dalle altre due sorelle, Standard & Poor’s e Fitch. Vengono pure declassate Spagna, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Malta. Fortissime e diffuse le perplessità; e immediati gli appelli a una riforma europea delle agenzie.
La spirale dei rating sembra essersi avvitata negli ultimi mesi. Mai, negli scorsi anni, i giudizi negativi sull’Italia si erano susseguiti con ritmo così serrato: da settembre le bocciature sono state incalzanti. Per carità, non ne sono rimasti esenti neppure Usa e Francia e, addirittura, il ‘fondo salva Stati’ Ue. Ma il taglio di Moody’s cade in netta controtendenza: la situazione italiana appare in fase di miglioramento, con l’avvio delle riforme, una maggiore credibilità sul fronte internazionale, misure di rigore già approvate e provvedimenti per la crescita già annunciati, a cominciare dagli interventi sul mercato del lavoro.
Un quadro ben noto a tutti; e che oggi Monti sciorinerà nell’aula di Strasburgo. Tanto che la Commissione europea è costretta a rivedere la prima bozza del suo rapporto sulla correzione degli squilibri macroeconomici, stilato come previsto dal pacchetto di misure noto come Six Pack. Nella versione iniziale, Olli Rehn, il finlandese che è l’ ‘angelo custode’ dell’economia italiana, metteva Roma fra gli ultimi della classe, insieme a tre soli altri stati. Nella versione che ha ieri presentato al Parlamento, invece, l’Italia è nella folta lista di quelli che necessitano “un’analisi approfondita” per la situazione macro-economica, dove preoccupano entità del debito e modestia della crescita (12 i Paesi del gruppo, fra cui Francia e Spagna.
Neppure i primi della classe sono esenti da critiche. A Berlino, il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria, che la scorsa settimana a Roma faceva complimenti a Monti, ammonisce la Germania: ha “bisogno di riforme” e non deve “adagiarsi sugli allori”, anche perché “invecchia più velocemente degli altri”. Si torna a parlare dei conflitti di interesse delle agenzie di rating e dell’attesa riforma: divieto di rating non richiesti dei debiti sovrani, creazione di un’agenzia europea indipendente; divieto di valutazioni che nascano in un clima di ‘conflitti d’interessi’.
L’apparente dicrasia tra rating ed economia reale viene fotografata anche dalle Borse, forse per la prima volta in modo così palese. Piazza Affari e tutti i listini europei viaggiano in positivo, nonostante gli strali di Moody's. Anche Atene parte bene, nonostante i segni della battaglia tutto intorno. Certo, lì c’è tempo di vedere come vanno le altre: perché, in Grecia, la borsa, che altrove in Europa apre alle ‘09.00, apre alle 09.30. Ma, attenzione, non le 09.30 locali, bensì le 09.30 di Bruxelles. Vuol dire che la borsa greca apre in realtà alle 10.30. Che fretta c’è, mica c’è il fuoco in casa…
lunedì 13 febbraio 2012
Usa 2012: Sarah contro Mitt, che vince ma non convince
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 13/02/2012
Se lo dice Sarah, probabilmente non è vero. Ma danni rischia di farne lo stesso. L’ex reginetta di bellezza, ex governatrice dell’Alaska ed ex candidata vice-presidente 2008 Sarah Palin suggerisce ai repubblicani di continuare ad azzuffarsi per la scelta del candidato alla Casa Bianca 2012. Nonostante molti pensino che la lotta fratricida fra Mitt Romney e i suoi rivali faccia il gioco del presidente in carica Barack Obama, in cerca di un secondo mandato, la Palin, che creò la sorpresa in autunno, rinunciando alla corsa alla nomination, sostiene che “la competizione rafforza i repubblicani” e li condurrà alla vittoria nelle presidenziali del 6 novembre.
Sarà così, Sarah. Ma la competizione logora e fa pure spendere un sacco di soldi, che, poi, non ci saranno più quando si tratterà di battersi contro Obama. E, soprattutto, dà tempo agli elettori d’interrogarsi sui lati deboli di Mitt Romney, il battistrada, che è, poi, l’obiettivo del siluro della Palin: lei, icona ultra-conservatrice del Tea Party, non appezza di sicuro questo moderato mormone più simile a Obama che al suo ideale d’alfiere repubblicano.
Intanto, Romney è tornato a vincere, senza convincere, nel Maine, uno stato che conta magari poco -24 delegati alla convention, 4 Grandi Elettori-, lassù al confine con il Canada. E a votare, in questa stagione, con la neve alta dovunque, ci sono andati poche migliaia di repubblicani tenaci, abituati a perdere le presidenziali, perché tutto il New England ha una vocazione democratica.
Ma un gol è un gol, che sia un ‘eurogol’, un’autorete o un calcio di rigore magari regalato: così, vincendo, Romney dà una boccata d’ossigeno alla sua campagna e pareggia i conti con Rick Santorum, almeno a livello di Stati vinti: New Hampshire, Florida e Maine contro Iowa, Colorado e Minnesota, perché il successo dell’italo-americano nel Missouri è platonico (il test non assegna delegati alla convention: quello vero ci sarà fra qualche settimana). Newt Gingrich è fermo a una sola vittoria, nella South Carolina.
Nel Maine, Romeny sfiora il 40% e batte di poco il libertario Ron Paul, quello che non molla mai e che è in corsa per il principio (per lui, un 36% che gli va di lusso).
I due candidati ultra-conservatori, qui, finiscono staccatissimi: Santorum, cattolico, sta al 18%; e Gingrich non arriva in doppia cifra. Ma l’ex speaker della Camera è già concentrato sul Super-Martedì del 6 marzo, quando si voterà in una decina di Stati, molti nel profondo Sud, dove l’ex speaker ha più possibilità di affermarsi. Fino ad allora, ci saranno solo le primarie nel Michigan, dove Romney la farà da padrone.
Circa 250 i delegati finora assegnati. Romney e Santorum sono avanti nella conta, ma nessuno dei due ne ha neppure un decimo dei 1441 necessari per ottenere la nomination alla convention di Tampa in estate.
Se lo dice Sarah, probabilmente non è vero. Ma danni rischia di farne lo stesso. L’ex reginetta di bellezza, ex governatrice dell’Alaska ed ex candidata vice-presidente 2008 Sarah Palin suggerisce ai repubblicani di continuare ad azzuffarsi per la scelta del candidato alla Casa Bianca 2012. Nonostante molti pensino che la lotta fratricida fra Mitt Romney e i suoi rivali faccia il gioco del presidente in carica Barack Obama, in cerca di un secondo mandato, la Palin, che creò la sorpresa in autunno, rinunciando alla corsa alla nomination, sostiene che “la competizione rafforza i repubblicani” e li condurrà alla vittoria nelle presidenziali del 6 novembre.
Sarà così, Sarah. Ma la competizione logora e fa pure spendere un sacco di soldi, che, poi, non ci saranno più quando si tratterà di battersi contro Obama. E, soprattutto, dà tempo agli elettori d’interrogarsi sui lati deboli di Mitt Romney, il battistrada, che è, poi, l’obiettivo del siluro della Palin: lei, icona ultra-conservatrice del Tea Party, non appezza di sicuro questo moderato mormone più simile a Obama che al suo ideale d’alfiere repubblicano.
Intanto, Romney è tornato a vincere, senza convincere, nel Maine, uno stato che conta magari poco -24 delegati alla convention, 4 Grandi Elettori-, lassù al confine con il Canada. E a votare, in questa stagione, con la neve alta dovunque, ci sono andati poche migliaia di repubblicani tenaci, abituati a perdere le presidenziali, perché tutto il New England ha una vocazione democratica.
Ma un gol è un gol, che sia un ‘eurogol’, un’autorete o un calcio di rigore magari regalato: così, vincendo, Romney dà una boccata d’ossigeno alla sua campagna e pareggia i conti con Rick Santorum, almeno a livello di Stati vinti: New Hampshire, Florida e Maine contro Iowa, Colorado e Minnesota, perché il successo dell’italo-americano nel Missouri è platonico (il test non assegna delegati alla convention: quello vero ci sarà fra qualche settimana). Newt Gingrich è fermo a una sola vittoria, nella South Carolina.
Nel Maine, Romeny sfiora il 40% e batte di poco il libertario Ron Paul, quello che non molla mai e che è in corsa per il principio (per lui, un 36% che gli va di lusso).
I due candidati ultra-conservatori, qui, finiscono staccatissimi: Santorum, cattolico, sta al 18%; e Gingrich non arriva in doppia cifra. Ma l’ex speaker della Camera è già concentrato sul Super-Martedì del 6 marzo, quando si voterà in una decina di Stati, molti nel profondo Sud, dove l’ex speaker ha più possibilità di affermarsi. Fino ad allora, ci saranno solo le primarie nel Michigan, dove Romney la farà da padrone.
Circa 250 i delegati finora assegnati. Romney e Santorum sono avanti nella conta, ma nessuno dei due ne ha neppure un decimo dei 1441 necessari per ottenere la nomination alla convention di Tampa in estate.
sabato 11 febbraio 2012
Monti e Obama: fu vera gloria, per Barack Mario meglio di Angela
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/02/2012, altre versioni su euractiv.it e lindro.it
Fu vera gloria, il successo della visita a Washington di Mario Monti?, o è la solita solfa: la stampa di casa nostra impegnata a incensare il leader in missione all’estero? Fu vera gloria, pur sapendo che Monti ha avuto un doppio vantaggio al suo esordio nello Studio Ovale: l’effetto ‘luna di miele’; e l’effetto ‘confronto’. ‘Luna di miele’ perché era la prima volta: come lui, nel dopoguerra, decine di presidenti del Consiglio italiani hanno goduto d’un idillio virginale all’ingresso alla Casa Bianca. ‘Confronto’ perché il paragone con chi c’era prima è inevitabile. E Mr B era (molto) peggio, anzi era divenuto impresentabile.
Poi c’è la comune consapevolezza che Stati Uniti e Italia sono ‘condannati’ a essere amici e alleati, quali che siano i leader e i partiti al potere: l’atlantismo, insieme con l’europeismo, è una delle due stelle polari di ormai quasi 70 anni di politica estera repubblicana.
Tutto ciò ammesso, Monti è proprio il leader di cui gli Stati Uniti e la Casa Bianca hanno bisogno, oggi, in Italia e in Europa: uno che può barattare la sua credibilità, bene raro in genere fra gli italiani e non diffusissimo fra gli europei, con la fiducia, prodotto di cui invece gli americani, dispensatori d’ottimismo, sono ricchi. Il Professore ha misura e autorevolezza: doti che avrebbero turbato Bush jr e, magari, messo un po’ a disagio il più spontaneo Clinton, ma che s’addicono allo stile e ai gusti di Obama.
Inoltre, Monti ha qualcosa in più della Merkel per essere interlocutore ideale nel dialogo economico Europa-America: non si contenta di predicare il rigore; picchia sul tasto della crescita, che fa vibrare le corde di Obama (il presidente ha bisogno di vedere ripartire economia e occupazione per blindare la rielezione il 6 novembre).
E siccome Cameron è troppo poco europeo per fare da ponte tra Ue e Usa e Sarkozy è troppo sotto elezioni per essere sicuramente affidabile nel medio termine, ecco che Monti si trova in prima fila. E l’avallo di Obama ne aumenta l’influenza nell’Unione: se Mario porta a Barack un messaggio di Angela, avrà pure una risposta da recapitarle, “bene il rigore, ma ora la crescita”.
La prova? Di solito, la visita di un premier nostrano alla Casa Bianca fa versare fiumi d’inchiostro alla stampa italiana ed emoziona poco l’americana. Stavolta, il trionfo mediatico è stato americano: copertina di Time, interviste alla tv pubblica Pbs e al WSJ, articoli positivi su NYT e WP. Difficile fare meglio. A fare peggio, è l’Europa rimasta a casa: la Grecia vacilla, i mercati s’impazientiscono. Mario, pensaci tu! Giovedì, a Strasburgo, al Parlamento europeo, cantagliela chiara. Obama è con te. E, in un film di George Lucas, basterebbe.
Fu vera gloria, il successo della visita a Washington di Mario Monti?, o è la solita solfa: la stampa di casa nostra impegnata a incensare il leader in missione all’estero? Fu vera gloria, pur sapendo che Monti ha avuto un doppio vantaggio al suo esordio nello Studio Ovale: l’effetto ‘luna di miele’; e l’effetto ‘confronto’. ‘Luna di miele’ perché era la prima volta: come lui, nel dopoguerra, decine di presidenti del Consiglio italiani hanno goduto d’un idillio virginale all’ingresso alla Casa Bianca. ‘Confronto’ perché il paragone con chi c’era prima è inevitabile. E Mr B era (molto) peggio, anzi era divenuto impresentabile.
Poi c’è la comune consapevolezza che Stati Uniti e Italia sono ‘condannati’ a essere amici e alleati, quali che siano i leader e i partiti al potere: l’atlantismo, insieme con l’europeismo, è una delle due stelle polari di ormai quasi 70 anni di politica estera repubblicana.
Tutto ciò ammesso, Monti è proprio il leader di cui gli Stati Uniti e la Casa Bianca hanno bisogno, oggi, in Italia e in Europa: uno che può barattare la sua credibilità, bene raro in genere fra gli italiani e non diffusissimo fra gli europei, con la fiducia, prodotto di cui invece gli americani, dispensatori d’ottimismo, sono ricchi. Il Professore ha misura e autorevolezza: doti che avrebbero turbato Bush jr e, magari, messo un po’ a disagio il più spontaneo Clinton, ma che s’addicono allo stile e ai gusti di Obama.
Inoltre, Monti ha qualcosa in più della Merkel per essere interlocutore ideale nel dialogo economico Europa-America: non si contenta di predicare il rigore; picchia sul tasto della crescita, che fa vibrare le corde di Obama (il presidente ha bisogno di vedere ripartire economia e occupazione per blindare la rielezione il 6 novembre).
E siccome Cameron è troppo poco europeo per fare da ponte tra Ue e Usa e Sarkozy è troppo sotto elezioni per essere sicuramente affidabile nel medio termine, ecco che Monti si trova in prima fila. E l’avallo di Obama ne aumenta l’influenza nell’Unione: se Mario porta a Barack un messaggio di Angela, avrà pure una risposta da recapitarle, “bene il rigore, ma ora la crescita”.
La prova? Di solito, la visita di un premier nostrano alla Casa Bianca fa versare fiumi d’inchiostro alla stampa italiana ed emoziona poco l’americana. Stavolta, il trionfo mediatico è stato americano: copertina di Time, interviste alla tv pubblica Pbs e al WSJ, articoli positivi su NYT e WP. Difficile fare meglio. A fare peggio, è l’Europa rimasta a casa: la Grecia vacilla, i mercati s’impazientiscono. Mario, pensaci tu! Giovedì, a Strasburgo, al Parlamento europeo, cantagliela chiara. Obama è con te. E, in un film di George Lucas, basterebbe.
venerdì 10 febbraio 2012
Monti e Obama: Europa e America insieme per la crescita
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/02/2012, altra versione su euractiv.it
Mario Monti e Barack Obama sono d’accordo: le politiche economiche europea ed americana vanno focalizzate verso la crescita. Il presidente –si apprende, dopo l’incontro alla Casa Bianca- fa l’elogio dell’importanza dell’euro ed è impressionato dalla “poderosa partenza” del governo italiano. Il premier dice che la collaborazione tra Italia e Usa “deve crescere”: “Dà più peso alla voce dell’Italia in Europa”.
La copertina di Time e la stretta di mano di Obama sulla soglia dello Studio Ovale sono due segni dell’importanza attribuita, da parte americana, alla visita a Washington del presidente del Consiglio italiano, che col presidente degli Stati Uniti discute –riferisce la Casa Bianca- “i passi complessivi che il governo italiano sta compiendo per riconquistare la fiducia dei mercati e per rafforzare la crescita attraverso le riforme strutturali”.
Monti riporta a Washington l’Italia e l’Europa: un’Italia ben diversa da quella che Barack Obama aveva ostentatamente ‘tenuto a distanza’negli ultimi mesi di governo di Silvio Berlusconi; e un’Europa che non vuole essere un problema per l’America, ma che, anzi, avviandosi al superamento della crisi del debito, può dare un contributo alla ripresa dell’economia e, quindi, alla crescita globale. Il che è, poi, un modo per contribuire alla rielezione di Obama nelle presidenziali del 6 novembre, quando, a sconfiggere il democratico in carica, non può essere nessuno dei repubblicani in lizza per affrontarlo, ma solo un peggioramento della congiuntura e dell’occupazione.
In un mondo in cui i mercati hanno fame “di una merce un po’ rara –parole di Monti-, la credibilità”, l’Italia del Professore ne ha da vendere e ne riceve qui la controprova.
La giornata di Monti incomincia con una visita al Congresso degli Stati Uniti: vede lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, e alcuni congressmen di origine italiana. Da Capitol Hill, il premier lancia un messaggio al Parlamento italiano, interlocutore “fondamentale” del governo, e ricorda che giovedì prossimo sarà a Strasburgo al Parlamento europeo.
Al Congresso, il premier nota “interesse sulla svolta italiana, soprattutto da un punto di vista economico e finanziario”. Gli stati Uniti ne sono incoraggiati perché l’Italia si presenta “non solo come un partner vicino e alleato”, ma anche “come un Paese che, in questa fase, può contribuire a dare più impulso all’Ue e alla crescita con vantaggio generale per le due sponde dell’Atlantico”.
Poi, Monti va al Peterson Institute, dove batte ancora sul tasto della crescita, auspicando, dopo il Patto di Bilancio, un Patto per la Crescita europeo. E, quindi, vede il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, uno di cui parla lo stesso linguaggio. Gli incontri coincidono con l’arrivo da Bruxelles della notizia dell’accordo sulla Grecia –un sospiro di sollievo per l’eurozona-, mentre i mercati appaiono meno febbrili e il Fondo monetario internazionale ‘benedice’ le misure prese dal governo dei Professori e prevede che l’Italia arriverà al risanamento del bilancio.
Monti è il primo leader di un grande Paese dell’Ue a incontrare il presidente Obama dopo il discorso sullo stato dell’Unione del 24 gennaio, nel quale l’Europa era stata praticamente ignorata: il fatto è che questi alleati incapaci di risolvere i problemi di casa loro, oltre che –tradizionalmente- di badare alla propria sicurezza, sono scomodi da esibire per un presidente che aspira a un secondo mandato in un’America ancora senza certezze e senza ottimismo.
La copertina di Time è un indice della fiducia che accoglie Monti oltre Atlantico: “Può quest’uomo salvare l’Europa?”, titola il settimanale. Nell’intervista, che risale alla scorsa settimana, Monti, “un premier in tempi disperati”, parla di politica interna, cita Berlusconi con toni concilianti, denuncia “il potere eccessivo dei gruppi di interesse legati al settore pubblico” che frenano la crescita ed esprime la speranza di riuscire a cambiare il modo di vivere degli italiani, “perché altrimenti le riforme strutturali sarebbero effimere (“La politica quotidiana ha diseducato gli italiani: dobbiamo cercare di dare il senso della meritocrazia e della competitività che crediamo necessarie”).
A Washington, c’è anche il ministro degli esteri Giulio Terzi, che, su twitter, prima d’incontrare il segretario di Stato Hillary Clinton, scrive: “Italia e Usa fianco a fianco per garantire più sicurezza e sviluppo alle generazioni future”. Accogliendolo, la Clinton sottolinea “la grande fiducia che abbiamo nell’Italia e nel suo futuro, nel governo Monti e nel popolo italiano”. Sempre a Twitter, affida un pensiero l’ambasciatore degli Usa in Italia David Thorne: l’intervista di Obama pubblicata ieri da La Stampa “mostra l’importanza della visita di Monti”: il presidente vi testimonia che l’Italia ha fatto “passi impressionanti”.
Mario Monti e Barack Obama sono d’accordo: le politiche economiche europea ed americana vanno focalizzate verso la crescita. Il presidente –si apprende, dopo l’incontro alla Casa Bianca- fa l’elogio dell’importanza dell’euro ed è impressionato dalla “poderosa partenza” del governo italiano. Il premier dice che la collaborazione tra Italia e Usa “deve crescere”: “Dà più peso alla voce dell’Italia in Europa”.
La copertina di Time e la stretta di mano di Obama sulla soglia dello Studio Ovale sono due segni dell’importanza attribuita, da parte americana, alla visita a Washington del presidente del Consiglio italiano, che col presidente degli Stati Uniti discute –riferisce la Casa Bianca- “i passi complessivi che il governo italiano sta compiendo per riconquistare la fiducia dei mercati e per rafforzare la crescita attraverso le riforme strutturali”.
Monti riporta a Washington l’Italia e l’Europa: un’Italia ben diversa da quella che Barack Obama aveva ostentatamente ‘tenuto a distanza’negli ultimi mesi di governo di Silvio Berlusconi; e un’Europa che non vuole essere un problema per l’America, ma che, anzi, avviandosi al superamento della crisi del debito, può dare un contributo alla ripresa dell’economia e, quindi, alla crescita globale. Il che è, poi, un modo per contribuire alla rielezione di Obama nelle presidenziali del 6 novembre, quando, a sconfiggere il democratico in carica, non può essere nessuno dei repubblicani in lizza per affrontarlo, ma solo un peggioramento della congiuntura e dell’occupazione.
In un mondo in cui i mercati hanno fame “di una merce un po’ rara –parole di Monti-, la credibilità”, l’Italia del Professore ne ha da vendere e ne riceve qui la controprova.
La giornata di Monti incomincia con una visita al Congresso degli Stati Uniti: vede lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, e alcuni congressmen di origine italiana. Da Capitol Hill, il premier lancia un messaggio al Parlamento italiano, interlocutore “fondamentale” del governo, e ricorda che giovedì prossimo sarà a Strasburgo al Parlamento europeo.
Al Congresso, il premier nota “interesse sulla svolta italiana, soprattutto da un punto di vista economico e finanziario”. Gli stati Uniti ne sono incoraggiati perché l’Italia si presenta “non solo come un partner vicino e alleato”, ma anche “come un Paese che, in questa fase, può contribuire a dare più impulso all’Ue e alla crescita con vantaggio generale per le due sponde dell’Atlantico”.
Poi, Monti va al Peterson Institute, dove batte ancora sul tasto della crescita, auspicando, dopo il Patto di Bilancio, un Patto per la Crescita europeo. E, quindi, vede il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, uno di cui parla lo stesso linguaggio. Gli incontri coincidono con l’arrivo da Bruxelles della notizia dell’accordo sulla Grecia –un sospiro di sollievo per l’eurozona-, mentre i mercati appaiono meno febbrili e il Fondo monetario internazionale ‘benedice’ le misure prese dal governo dei Professori e prevede che l’Italia arriverà al risanamento del bilancio.
Monti è il primo leader di un grande Paese dell’Ue a incontrare il presidente Obama dopo il discorso sullo stato dell’Unione del 24 gennaio, nel quale l’Europa era stata praticamente ignorata: il fatto è che questi alleati incapaci di risolvere i problemi di casa loro, oltre che –tradizionalmente- di badare alla propria sicurezza, sono scomodi da esibire per un presidente che aspira a un secondo mandato in un’America ancora senza certezze e senza ottimismo.
La copertina di Time è un indice della fiducia che accoglie Monti oltre Atlantico: “Può quest’uomo salvare l’Europa?”, titola il settimanale. Nell’intervista, che risale alla scorsa settimana, Monti, “un premier in tempi disperati”, parla di politica interna, cita Berlusconi con toni concilianti, denuncia “il potere eccessivo dei gruppi di interesse legati al settore pubblico” che frenano la crescita ed esprime la speranza di riuscire a cambiare il modo di vivere degli italiani, “perché altrimenti le riforme strutturali sarebbero effimere (“La politica quotidiana ha diseducato gli italiani: dobbiamo cercare di dare il senso della meritocrazia e della competitività che crediamo necessarie”).
A Washington, c’è anche il ministro degli esteri Giulio Terzi, che, su twitter, prima d’incontrare il segretario di Stato Hillary Clinton, scrive: “Italia e Usa fianco a fianco per garantire più sicurezza e sviluppo alle generazioni future”. Accogliendolo, la Clinton sottolinea “la grande fiducia che abbiamo nell’Italia e nel suo futuro, nel governo Monti e nel popolo italiano”. Sempre a Twitter, affida un pensiero l’ambasciatore degli Usa in Italia David Thorne: l’intervista di Obama pubblicata ieri da La Stampa “mostra l’importanza della visita di Monti”: il presidente vi testimonia che l’Italia ha fatto “passi impressionanti”.
giovedì 9 febbraio 2012
Italia-Usa: un ambasciatore con Monti nello Studio Ovale
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/02/2012
L’ambasciatore che, fra poche ore, accompagnerà il presidente del Consiglio italiano Mario Monti alla Casa Bianca è un diplomatico da poco insediatosi a Washington – ha presentato le credenziali il 18 gennaio, tre settimane fa -, ma che non manca di contatti e d’esperienza. E ha, come l’Italia che rappresenta, una forte credibilità personale e professionale.
Nominato il 21 dicembre rappresentante dell’Italia negli Stati Uniti, Claudio Bisogniero, 58 anni, romano, laureato in Scienze Politiche con una tesi in economia internazionale, è in diplomazia da 34 anni. Figlio del generale Riccardo Bisogniero, che fu comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e capo di Stato Maggiore della Difesa, Claudio, alto, magro, il volto un po’ asimmetrico, conserva, dell’educazione militare, comportamenti personali formalmente correttissimi e un po’ rigidi.
Ovunque lo incontri, lo trovi competente e misurato: a un briefing come a un cocktail, al seguito d’un ministro o da Cenci a provarsi un vestito in saldo, Bisogniero è un professionista solido e competente: conosce a fondo gli Stati Uniti, ha lavorato in ambito multilaterale sui temi dell’economia e della sicurezza, è in grado di affrontare senza esitazioni un compito ‘minato’, quello di succedere a Washington al collega divenuto ministro e, quindi, suo capo, l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata.
Rispetto a Terzi, Bisogniero trova a Washington una disposizione verso l’Italia migliore: quando gli diede udienza per riceverne le credenziali, Barack Obama, che da mesi le provava tutte per evitare di parlare con Silvio Berlusconi e aveva praticamente rapporti solo con Giorgio Napolitano, se ne uscì con un forte apprezzamento per il premier Monti e le sue scelte. Un telegramma da mandare senza patemi, quasi in allegria, al ritorno in ambasciata.
La carriera di Bisogniero è ben scandita. Tra i primi incarichi, fu in Cina nel 1981-84, durante l’apertura all'Occidente voluta d’allora leader Deng Xiaoping. Poi una prima volta alla Nato, 1984/’89, con ambasciatori ‘formativi’ come Sergio Romano e Francesco Paolo Fulci, mentre l’Occidente vinceva la Guerra Fredda dopo l’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbaciov e l’avvio di una nuova stagione di rapporti tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti e i loro alleati.
Poi al Quirinale dal 1989 al 1992 -presidente era Francesco Cossiga. Quindi a Washington, accanto ad altri due ambasciatori di peso e di valore, Boris Biancheri e Ferdinando Salleo: è responsabile per le questioni economiche, commerciali, finanziarie. Nel 1996/’99, torna al multilaterale: è, ancora con Fulci –esserne richiamati è sicura prova d’efficienza e dedizione- alla Rappresentanza presso l'Onu a New York, responsabile della riforma dell'Onu e del Consiglio di Sicurezza (sono anni cruciali dell'azione italiana su tale dossier). Al Palazzo di Vetro, siede al tavolo del Consiglio di Sicurezza quando l'Italia ne fa parte come membro non permanente.
Torna a Roma, alla Farnesina per qualche anno: vice-direttore generale agli Affari Politici, poi direttore generale per le Americhe. Ambasciatore di grado, dall'ottobre 2007 era il ‘numero due’ della Nato, a Bruxelles: uno degli incarichi internazionali più elevati rivestiti dall'Italia, ininterrottamente da oltre trent’anni. Adesso, magari, qualcuno cercherà di prenderselo. Ma l’America è di nuovo con noi.
L’ambasciatore che, fra poche ore, accompagnerà il presidente del Consiglio italiano Mario Monti alla Casa Bianca è un diplomatico da poco insediatosi a Washington – ha presentato le credenziali il 18 gennaio, tre settimane fa -, ma che non manca di contatti e d’esperienza. E ha, come l’Italia che rappresenta, una forte credibilità personale e professionale.
Nominato il 21 dicembre rappresentante dell’Italia negli Stati Uniti, Claudio Bisogniero, 58 anni, romano, laureato in Scienze Politiche con una tesi in economia internazionale, è in diplomazia da 34 anni. Figlio del generale Riccardo Bisogniero, che fu comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e capo di Stato Maggiore della Difesa, Claudio, alto, magro, il volto un po’ asimmetrico, conserva, dell’educazione militare, comportamenti personali formalmente correttissimi e un po’ rigidi.
Ovunque lo incontri, lo trovi competente e misurato: a un briefing come a un cocktail, al seguito d’un ministro o da Cenci a provarsi un vestito in saldo, Bisogniero è un professionista solido e competente: conosce a fondo gli Stati Uniti, ha lavorato in ambito multilaterale sui temi dell’economia e della sicurezza, è in grado di affrontare senza esitazioni un compito ‘minato’, quello di succedere a Washington al collega divenuto ministro e, quindi, suo capo, l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata.
Rispetto a Terzi, Bisogniero trova a Washington una disposizione verso l’Italia migliore: quando gli diede udienza per riceverne le credenziali, Barack Obama, che da mesi le provava tutte per evitare di parlare con Silvio Berlusconi e aveva praticamente rapporti solo con Giorgio Napolitano, se ne uscì con un forte apprezzamento per il premier Monti e le sue scelte. Un telegramma da mandare senza patemi, quasi in allegria, al ritorno in ambasciata.
La carriera di Bisogniero è ben scandita. Tra i primi incarichi, fu in Cina nel 1981-84, durante l’apertura all'Occidente voluta d’allora leader Deng Xiaoping. Poi una prima volta alla Nato, 1984/’89, con ambasciatori ‘formativi’ come Sergio Romano e Francesco Paolo Fulci, mentre l’Occidente vinceva la Guerra Fredda dopo l’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbaciov e l’avvio di una nuova stagione di rapporti tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti e i loro alleati.
Poi al Quirinale dal 1989 al 1992 -presidente era Francesco Cossiga. Quindi a Washington, accanto ad altri due ambasciatori di peso e di valore, Boris Biancheri e Ferdinando Salleo: è responsabile per le questioni economiche, commerciali, finanziarie. Nel 1996/’99, torna al multilaterale: è, ancora con Fulci –esserne richiamati è sicura prova d’efficienza e dedizione- alla Rappresentanza presso l'Onu a New York, responsabile della riforma dell'Onu e del Consiglio di Sicurezza (sono anni cruciali dell'azione italiana su tale dossier). Al Palazzo di Vetro, siede al tavolo del Consiglio di Sicurezza quando l'Italia ne fa parte come membro non permanente.
Torna a Roma, alla Farnesina per qualche anno: vice-direttore generale agli Affari Politici, poi direttore generale per le Americhe. Ambasciatore di grado, dall'ottobre 2007 era il ‘numero due’ della Nato, a Bruxelles: uno degli incarichi internazionali più elevati rivestiti dall'Italia, ininterrottamente da oltre trent’anni. Adesso, magari, qualcuno cercherà di prenderselo. Ma l’America è di nuovo con noi.
Italia-Usa: Monti riporta da Obama l’Italia e l’Europa
Scritto per euractiv.it e lindro.it il 08/02/2012
Il presidente del Consiglio Mario Monti riporta, fra qualche ora, nello Studio Ovale della Casa Bianca l’Italia e l’Europa: un’Italia diversa da quella che il presidente Barack Obama aveva ostentatamente ‘tenuto a distanza’negli ultimi mesi di governo di Silvio Berlusconi; e un’Europa che non vuole essere un problema per l’America, ma che, anzi, avviandosi al superamento della crisi del debito, può dare un contributo alla ripresa dell’economia e, quindi, alla crescita globale.
Il che è, poi, un modo per contribuire alla rielezione di Obama nelle presidenziali del 6 novembre, quando, a sconfiggere il democratico in carica, non può essere nessuno dei repubblicani in lizza per affrontarlo, ma solo un peggioramento della congiuntura e dell’occupazione.
Monti è il primo leader di un grande Paese dell’Ue a incontrare il presidente Obama dopo il discorso sullo stato dell’Unione del 24 gennaio, nel quale l’Europa era stata praticamente ignorata: il fatto è che questi alleati incapaci di risolvere i problemi di casa loro, oltre che –tradizionalmente- di badare alla propria sicurezza, sono scomodi da esibire per un presidente che aspira a un secondo mandato in un’America senza certezze e senza ottimismo.
Da novembre a oggi, l’evoluzione dell’atteggiamento verso l’Italia è stata rapidissima. Ora, Monti arriva a Washington come portavoce dell’Europa: se non come ‘uomo forte’, certo come ‘esempio da imitare’ –parola di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel- dell’Unione europea, con in tasca una serie di riforme gradite in America, dalle liberalizzazioni alle semplificazioni. Monti è il testimonial credibile di una certezza rassicurante: l’euro, che attraversa una tempesta, resta una moneta solida e, presto, i Paesi dell’eurozona saranno più, e non meno, degli attuali 17, comunque vada a finire l’odissea della Grecia.
Che con Monti sia cresciuta l’attenzione di Washington verso l’Italia, prima circoscritta agli appuntamenti multilaterali e ai contatti di Obama con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lo ha recentemente riconosciuto il ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, uno che ha il polso della situazione e può misurare la differenza tra prima e adesso, visto che, fino a novembre, era ambasciatore d’Italia a Washington. E l’ambasciatore degli Usa a Roma David Thorne spiega che “Monti ha cambiato la dinamica europea”, in un momento in cui la sola spinta del direttorio franco-tedesco appariva inadeguata a tirare fuori l’Unione dalle secche della crisi e a rimettere in moto l’integrazione, fosse pure con procedure inter-governative e non comunitarie.
La visita di Monti a Washington, che sarà seguita, venerdì, da quella all’Onu a New York, è stata preparata da contatti diplomatici e dall’incontro, la scorsa settimana, a Monaco di Baviera, tra il premier e il segretario di Stato Hillary Clinton. Se l’economia sarà il tema forte, la politica internazionale non sarà dimenticata: la situazione in Siria sarà certamente discussa dai due leader, oltre che, nei loro colloqui, dai responsabili degli esteri Clinton e Terzi.
La preoccupazione di fare degli incontri a Washington un’occasione di coesione, e non un momento di confronto, è emersa con chiarezza nelle interviste a media Usa che Monti ha dato prima di partire per gli Stati Uniti: Europa ed America –ha detto, in sintesi, alla tv pubblica Pbs e al Wall Street Journal- stanno lavorando bene per superare la crisi finanziaria, l'euro è una moneta solida e l'Italia sta dimostrando di saper agire con determinazione. Giudicando l'operato di Ue e Usa di fronte alla crisi finanziaria, il premier ha detto che "su entrambe le sponde dell'Atlantico" si sta lavorando bene e "nella direzione desiderata": Obama sta aiutando l'Europa grazie a una "solida gestione dell’economia"; e l'Europa sta lavorando per evitare l'esplosione di tensioni al di fuori dall'eurozona. Insomma, gli amici di sempre s’aiutano mettendo, ciascuno, ordine a casa propria.
Il presidente del Consiglio Mario Monti riporta, fra qualche ora, nello Studio Ovale della Casa Bianca l’Italia e l’Europa: un’Italia diversa da quella che il presidente Barack Obama aveva ostentatamente ‘tenuto a distanza’negli ultimi mesi di governo di Silvio Berlusconi; e un’Europa che non vuole essere un problema per l’America, ma che, anzi, avviandosi al superamento della crisi del debito, può dare un contributo alla ripresa dell’economia e, quindi, alla crescita globale.
Il che è, poi, un modo per contribuire alla rielezione di Obama nelle presidenziali del 6 novembre, quando, a sconfiggere il democratico in carica, non può essere nessuno dei repubblicani in lizza per affrontarlo, ma solo un peggioramento della congiuntura e dell’occupazione.
Monti è il primo leader di un grande Paese dell’Ue a incontrare il presidente Obama dopo il discorso sullo stato dell’Unione del 24 gennaio, nel quale l’Europa era stata praticamente ignorata: il fatto è che questi alleati incapaci di risolvere i problemi di casa loro, oltre che –tradizionalmente- di badare alla propria sicurezza, sono scomodi da esibire per un presidente che aspira a un secondo mandato in un’America senza certezze e senza ottimismo.
Da novembre a oggi, l’evoluzione dell’atteggiamento verso l’Italia è stata rapidissima. Ora, Monti arriva a Washington come portavoce dell’Europa: se non come ‘uomo forte’, certo come ‘esempio da imitare’ –parola di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel- dell’Unione europea, con in tasca una serie di riforme gradite in America, dalle liberalizzazioni alle semplificazioni. Monti è il testimonial credibile di una certezza rassicurante: l’euro, che attraversa una tempesta, resta una moneta solida e, presto, i Paesi dell’eurozona saranno più, e non meno, degli attuali 17, comunque vada a finire l’odissea della Grecia.
Che con Monti sia cresciuta l’attenzione di Washington verso l’Italia, prima circoscritta agli appuntamenti multilaterali e ai contatti di Obama con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lo ha recentemente riconosciuto il ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, uno che ha il polso della situazione e può misurare la differenza tra prima e adesso, visto che, fino a novembre, era ambasciatore d’Italia a Washington. E l’ambasciatore degli Usa a Roma David Thorne spiega che “Monti ha cambiato la dinamica europea”, in un momento in cui la sola spinta del direttorio franco-tedesco appariva inadeguata a tirare fuori l’Unione dalle secche della crisi e a rimettere in moto l’integrazione, fosse pure con procedure inter-governative e non comunitarie.
La visita di Monti a Washington, che sarà seguita, venerdì, da quella all’Onu a New York, è stata preparata da contatti diplomatici e dall’incontro, la scorsa settimana, a Monaco di Baviera, tra il premier e il segretario di Stato Hillary Clinton. Se l’economia sarà il tema forte, la politica internazionale non sarà dimenticata: la situazione in Siria sarà certamente discussa dai due leader, oltre che, nei loro colloqui, dai responsabili degli esteri Clinton e Terzi.
La preoccupazione di fare degli incontri a Washington un’occasione di coesione, e non un momento di confronto, è emersa con chiarezza nelle interviste a media Usa che Monti ha dato prima di partire per gli Stati Uniti: Europa ed America –ha detto, in sintesi, alla tv pubblica Pbs e al Wall Street Journal- stanno lavorando bene per superare la crisi finanziaria, l'euro è una moneta solida e l'Italia sta dimostrando di saper agire con determinazione. Giudicando l'operato di Ue e Usa di fronte alla crisi finanziaria, il premier ha detto che "su entrambe le sponde dell'Atlantico" si sta lavorando bene e "nella direzione desiderata": Obama sta aiutando l'Europa grazie a una "solida gestione dell’economia"; e l'Europa sta lavorando per evitare l'esplosione di tensioni al di fuori dall'eurozona. Insomma, gli amici di sempre s’aiutano mettendo, ciascuno, ordine a casa propria.
mercoledì 8 febbraio 2012
Usa 2012: Santorum fa tripletta, Romney gongola
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 08/02/2012
L’integralista cattolico Rick Santorum fa tripletta: vince a mani basse primarie ed assemblee nel Colorado, uno Stato importante, nel Minnesota e nel Missouri (un successo qui simbolico: non vi sono delegati in palio) e torna in corsa per la nomination repubblicana alla Casa Bianca. Ma il mormone moderato Mitt Romney, finora battistrada nella corsa, gongola lo stesso: lui, infatti, ha fatto poca campagna in questi Stati, ma il campo conservatore che gli è ostile resta diviso tra Santorum e Newt Gingrich, campione del Tea Party a corto di fiato (e di soldi). L’ex speaker della Camera punta ormai tutto sul SuperMartedì, il 6 marzo: si voterà in una dozzina di Stati, molti del Sud e della ‘cintura della Bibbia’, che potrebbero ridargli fiato.
Di qui ad allora, ci sono solo i test nel Michigan e nel Maine –terre di conquista per Romney- e nell’Arizona, Stato aperto a tutti i risultati. Resta in lizza, per il puntiglio e per il principio, l’alfiere libertario Ron Paul, che, in Colorado, è secondo dietro Satorum: per lui, che pure incamera cammin facendo l’appoggio di militari e di lobbies pro-armi locali, speranze zero, ma qualche soddisfazione qua e là e, magari, l’ipotesi di essere l’ago della bilancia.
Con i verdetti della scorsa notte, Santorum ha vinto in 4 degli 8 Stati pronunciatisi: Iowa e, ora, Colorado, Minnesota e Missouri; Romney in tre, New Hampshire, Florida e Nevada; Gingrich solo in uno, la South Carolina. Ma, nel computo dei delegati, Romney è ancora avanti, grazie soprattutto al bottino pieno fatto in Florida (50 per lui, nessuno per gli altri). Attenzione!, però: i delegati finora assegnati non sono neppure 220; siamo ancora lontanissimi dai 1441 necessari per ottenere la nomination.
Giochi, dunque, ancora aperti, pur se, in campo conservatore, il cambio di marcia di Santorum è innegabile e la perdita di velocità di Gingrich anche. Un leader del Tea Party, Judson Phillips, lo ha sferzato nei giorni scorsi: “La tua campagna sta affondando più in fretta della Concordia”, gli ha detto con paragone italiano; “Ora come ora, è un disastro”. Herman Cain, ex candidato alla nomination, gli ha prestato la sua formula magica ‘9+9+9’ (un’aliquota unica del 9% per l’Iva e le tasse sui redditi delle persone fisiche e delle società). E lui attacca Romney ignorando Santorum: “Non c’è praticamente differenza tra Obama e Romney”; e, tra l’originale e il clone, tanto vale scegliere l’originale. Ma, allora, non si è repubblicani.
In Colorado, Santorum ha vinto con il 40% dei voti, davanti a Romney (35%), mentre Gingrich e Paul si sono spartiti l’ultimo quarto (un po’ più e un po’ meno del 12% ciascuno). Nel Minnesota, Santorum ha fatto ancor meglio: 45% dei voti, davanti a Paul (27%), Romney (17%) e Gingrich (11%). In Missouri, dove il test non contava, Santorum è andato oltre il 50%. I dati non sono ufficiali né definitivi.
L’integralista cattolico Rick Santorum fa tripletta: vince a mani basse primarie ed assemblee nel Colorado, uno Stato importante, nel Minnesota e nel Missouri (un successo qui simbolico: non vi sono delegati in palio) e torna in corsa per la nomination repubblicana alla Casa Bianca. Ma il mormone moderato Mitt Romney, finora battistrada nella corsa, gongola lo stesso: lui, infatti, ha fatto poca campagna in questi Stati, ma il campo conservatore che gli è ostile resta diviso tra Santorum e Newt Gingrich, campione del Tea Party a corto di fiato (e di soldi). L’ex speaker della Camera punta ormai tutto sul SuperMartedì, il 6 marzo: si voterà in una dozzina di Stati, molti del Sud e della ‘cintura della Bibbia’, che potrebbero ridargli fiato.
Di qui ad allora, ci sono solo i test nel Michigan e nel Maine –terre di conquista per Romney- e nell’Arizona, Stato aperto a tutti i risultati. Resta in lizza, per il puntiglio e per il principio, l’alfiere libertario Ron Paul, che, in Colorado, è secondo dietro Satorum: per lui, che pure incamera cammin facendo l’appoggio di militari e di lobbies pro-armi locali, speranze zero, ma qualche soddisfazione qua e là e, magari, l’ipotesi di essere l’ago della bilancia.
Con i verdetti della scorsa notte, Santorum ha vinto in 4 degli 8 Stati pronunciatisi: Iowa e, ora, Colorado, Minnesota e Missouri; Romney in tre, New Hampshire, Florida e Nevada; Gingrich solo in uno, la South Carolina. Ma, nel computo dei delegati, Romney è ancora avanti, grazie soprattutto al bottino pieno fatto in Florida (50 per lui, nessuno per gli altri). Attenzione!, però: i delegati finora assegnati non sono neppure 220; siamo ancora lontanissimi dai 1441 necessari per ottenere la nomination.
Giochi, dunque, ancora aperti, pur se, in campo conservatore, il cambio di marcia di Santorum è innegabile e la perdita di velocità di Gingrich anche. Un leader del Tea Party, Judson Phillips, lo ha sferzato nei giorni scorsi: “La tua campagna sta affondando più in fretta della Concordia”, gli ha detto con paragone italiano; “Ora come ora, è un disastro”. Herman Cain, ex candidato alla nomination, gli ha prestato la sua formula magica ‘9+9+9’ (un’aliquota unica del 9% per l’Iva e le tasse sui redditi delle persone fisiche e delle società). E lui attacca Romney ignorando Santorum: “Non c’è praticamente differenza tra Obama e Romney”; e, tra l’originale e il clone, tanto vale scegliere l’originale. Ma, allora, non si è repubblicani.
In Colorado, Santorum ha vinto con il 40% dei voti, davanti a Romney (35%), mentre Gingrich e Paul si sono spartiti l’ultimo quarto (un po’ più e un po’ meno del 12% ciascuno). Nel Minnesota, Santorum ha fatto ancor meglio: 45% dei voti, davanti a Paul (27%), Romney (17%) e Gingrich (11%). In Missouri, dove il test non contava, Santorum è andato oltre il 50%. I dati non sono ufficiali né definitivi.
Russia: elezioni, Putin e la carica dei 499 avatar
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/02/2012
Di Vladimir Putin, possiamo raccontare tutto il male che si vuole: uomo forte, frutto del Kgb, oligarca d’un regime corrotto e dispotico. Ma non gli possiamo negare una fantasia da ‘show man’ che spopolerebbe su Canale 5. L’ultima trovata è la campagna elettorale per interposta persona: 499 tra uomini di cultura e di spettacolo (registi, attori, cantanti, musicisti, artisti, scrittori, accademici), sportivi (calciatori, pattinatori, l’astista Isinbayeva), politologi e imprenditori, celebrità e autorità regionali, compariranno al posto di Putin nei dibattiti pubblici e televisivi per le presidenziali russe del 4 marzo. Saranno, come qualcuno li ha già chiamati, gli avatar del premier che vuole prendersi il Cremlino per la terza volta.
E siccome nella Russia del nuovo zar, che non ha ancora dimenticato il vecchio Politburo, le cose si fanno solo se c’è un timbro, anche la lista dei 499 è stata vidimata dalla Commissione elettorale centrale. Già non aveva praticamente rivali, in queste elezioni, il vecchio Vladi, amico per la pelle di Silvio nostro; e, ora, quei malcapitati dei suoi avversari devono fronteggiare la carica non di uno, ma di di 500 Putin. Per fortuna –vien da pensare- che c’è la stampa! Non fidatevi troppo: direttori di media di prima grandezza sono fra i ‘testimonial’.
In realtà, il mettere avanti le controfigure sarà –sì- una dimostrazione di potenza, ma è più un segno di ansia che di forza: rivela il timore degli strateghi della campagna che l’immagine del premier che vuole tornare a essere presidente sia stata logorata da proteste e contestazioni; e mette il candidato al riparo da sconfitte nei confronti diretti con i suoi rivali (alla peggio, perde il suo avatar). Anche sui manifesti non ci sarà il volto del leader perché "già noto a tutti".
Ufficialmente, la lista dei 499 si spiega col fatto che Putin, per fare campagna, dovrebbe prendersi una pausa dagli impegni di governo; ma non può farlo. Ieri, le controfigure sono state catechizzate dal loro ‘originale’: evitare le promesse o l’uso di fogliettini per replicare alle provocazioni. Lui, però, promesse continua a farne: case nuove, pensioni più alte, bollette ‘congelate’, benzina meno cara per gli agricoltori). L’ultima riguarda le auto blu: non vuole ridurle, non ci pensa nemmeno, ma assicura che abbasserà il volume delle sirene.
Il 22 febbraio, nel dibattito televisivo col leader ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky, la parte di Putin spetterà alla presidente della Fondazione prospettive storiche Natalya Narochnitskaya, una ex deputata. Poi, a misurarsi con avatar, saranno il leader comunista Ghennadi Ziuganov, il capo
di Russia Giusta, Sergei Mironov e il miliardario Mikhail Prokhorov. Zyuganov e Prokhorov si sono già scontrati in tv lunedì sera: clima teso e incrocio di accuse pesanti.
Se li sono filati in pochi. Molti, invece, stavano sul web, dove impazza un improbabile cantante tagiko, Tolibdzhon Kurbanhanov, con un brano su Putin "mandato da Dio" per salvare la Russia: 499 avatar così e Vladi è sepolto. Non di voti, ma di risate.
Di Vladimir Putin, possiamo raccontare tutto il male che si vuole: uomo forte, frutto del Kgb, oligarca d’un regime corrotto e dispotico. Ma non gli possiamo negare una fantasia da ‘show man’ che spopolerebbe su Canale 5. L’ultima trovata è la campagna elettorale per interposta persona: 499 tra uomini di cultura e di spettacolo (registi, attori, cantanti, musicisti, artisti, scrittori, accademici), sportivi (calciatori, pattinatori, l’astista Isinbayeva), politologi e imprenditori, celebrità e autorità regionali, compariranno al posto di Putin nei dibattiti pubblici e televisivi per le presidenziali russe del 4 marzo. Saranno, come qualcuno li ha già chiamati, gli avatar del premier che vuole prendersi il Cremlino per la terza volta.
E siccome nella Russia del nuovo zar, che non ha ancora dimenticato il vecchio Politburo, le cose si fanno solo se c’è un timbro, anche la lista dei 499 è stata vidimata dalla Commissione elettorale centrale. Già non aveva praticamente rivali, in queste elezioni, il vecchio Vladi, amico per la pelle di Silvio nostro; e, ora, quei malcapitati dei suoi avversari devono fronteggiare la carica non di uno, ma di di 500 Putin. Per fortuna –vien da pensare- che c’è la stampa! Non fidatevi troppo: direttori di media di prima grandezza sono fra i ‘testimonial’.
In realtà, il mettere avanti le controfigure sarà –sì- una dimostrazione di potenza, ma è più un segno di ansia che di forza: rivela il timore degli strateghi della campagna che l’immagine del premier che vuole tornare a essere presidente sia stata logorata da proteste e contestazioni; e mette il candidato al riparo da sconfitte nei confronti diretti con i suoi rivali (alla peggio, perde il suo avatar). Anche sui manifesti non ci sarà il volto del leader perché "già noto a tutti".
Ufficialmente, la lista dei 499 si spiega col fatto che Putin, per fare campagna, dovrebbe prendersi una pausa dagli impegni di governo; ma non può farlo. Ieri, le controfigure sono state catechizzate dal loro ‘originale’: evitare le promesse o l’uso di fogliettini per replicare alle provocazioni. Lui, però, promesse continua a farne: case nuove, pensioni più alte, bollette ‘congelate’, benzina meno cara per gli agricoltori). L’ultima riguarda le auto blu: non vuole ridurle, non ci pensa nemmeno, ma assicura che abbasserà il volume delle sirene.
Il 22 febbraio, nel dibattito televisivo col leader ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky, la parte di Putin spetterà alla presidente della Fondazione prospettive storiche Natalya Narochnitskaya, una ex deputata. Poi, a misurarsi con avatar, saranno il leader comunista Ghennadi Ziuganov, il capo
di Russia Giusta, Sergei Mironov e il miliardario Mikhail Prokhorov. Zyuganov e Prokhorov si sono già scontrati in tv lunedì sera: clima teso e incrocio di accuse pesanti.
Se li sono filati in pochi. Molti, invece, stavano sul web, dove impazza un improbabile cantante tagiko, Tolibdzhon Kurbanhanov, con un brano su Putin "mandato da Dio" per salvare la Russia: 499 avatar così e Vladi è sepolto. Non di voti, ma di risate.
martedì 7 febbraio 2012
Maltempo: neve, gelo, il gas ci manca (e Putin ci cova)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/02/2012
Dopo la neve, il freddo. L’Italia 2012 affronta tutte le insidie dell’emergenza maltempo. Il ‘comitato gas’ del ministero dello Sviluppo economico, riunito d’urgenza, decide misure per ovviare alla riduzione delle forniture dalla Russia: l’attivazione di centrali elettriche a olio combustibile, così da contenere i consumi di gas, e la limitazione dei consumi delle industrie per tutelare le famiglie. Le decisioni sono giustificate dalle previsioni di persistenza delle attuali condizioni meteo per tutta la settimana” e dal permanere del calo di forniture dalla Russia”, mentre almeno uno dei due gassificatori disponibili, quello di Rovigo, è fuori uso. C’è preoccupazione, non allarme: i consumi sono al massimo, le forniture conoscono una flessione.
Con l’arma del gas, il Generale Inverno crea ancora scompiglio. Il gelo che viene dalla Siberia fa battere i denti all’Europa e Gazprom, il gigante del gas russo di stretta osservanza ‘putiniana’, serra le valvole dei gasdotti e annuncia tagli delle forniture ai clienti stranieri, quelli buoni, che pagano in euro sonanti, e quelli scamuffi, che pagano in monete post-sovietiche. Questa volta, ci sono pure di mezzo le elezioni presidenziali del mese prossimo e Vladimir Putin, ex presidente ora premier in corsa per tornare a essere presidente, vuole mostrarsi attento ai bisogni della gente: così, Gazprom spiega che il gas serve ai russi, che hanno freddo e devono scaldarsi loro per primi. Gli altri s’arrangino o, se proprio vogliono stare al caldo, paghino (di più, magari senza seguire le procedure di rito): l’oro non ha odore né colore, giallo o nero o, come questo, azzurrino che sia.
E’ una pantomima già vista. Con la variante, rispetto ad altre puntate di questa serie, che Mosca e Kiev si vogliono (quasi) bene, adesso che al potere in Ucraina c’è una fazione filo-russa, che ha i modi autocratici del ‘piccolo padre’ Vladi. Al punto che Kiev fa sapere di essere pronta a venire in soccorso della Russia, prelevando metano dai propri depositi: dichiarazioni di segno opposto rispetto a quelle fatte, giorni fa, da un responsabile di Gazprom, secondo cui gli ucraini assorbono quotidianamente volumi di gas nettamente superiori ai volumi contrattuali”.
Se un messaggio Putin vuole mandare ai suoi partner internazionali, questo può riguardare l’importanza della stabilità al Cremlino: come dire, con me il gas lo pagate caro, ma comunque lo avete; senza di me, potrebbe andarvi peggio.
L’atteggiamento di Mosca mette, naturalmente, sul chi vive la Commissione europea, che è in contatto con il governo di Roma ed è pronta a valutare misure di aiuto, se fossero necessarie. Portavoce dell’Esecutivo di Bruxelles parlano di ‘emergenza gas’: nell’Ue, Germania, Italia, Romania ricevono dalla Russia flussi crescenti, ma ancora inferiori al solito (le percentuali oscillano, a seconda delle fonti e dei Paesi, dall’8 al 30%). La situazione s’è invece normalizzata in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Austria, Bulgaria e Grecia.
Così, l’Italia, che ha già incrementato i rifornimenti da altri Paesi –Nord Europa e Nord Africa-, potrebbe anche ricevere gas dall'Austria: il gasdotto del Tarvisio ha una potenzialità di 112 Msm al giorno ed è utilizzato per 76 Msm al giorno. Gli esperti di Bruxelles notano, inoltre, che c’è disponibilità di gas sul mercato, nonostante la stretta della Russia. Norme Ue impongono a Stati e imprese di disporre di riserve per 30 giorni.
Del comitato consultato dal ministro Corrado Passera, fa parte l'ad di Eni Paolo Scaroni, che, ai microfoni di RaiTre, dichiara, prima della riunione: "Con le misure oggi prese, potremo disporre di 25 milioni di metri cubi di gas al giorno in più, l’8/9% dei consumi circa”. Quanto basta per arrivare tranquilli al week-end, quando la situazione climatica dovrebbe migliorare. L’ansia potrebbe, però, crescere se i tagli di gas dalla Russia dovessero sommarsi a quelli di petrolio dall’Iran. Ma questa è un’altra storia.
Dopo la neve, il freddo. L’Italia 2012 affronta tutte le insidie dell’emergenza maltempo. Il ‘comitato gas’ del ministero dello Sviluppo economico, riunito d’urgenza, decide misure per ovviare alla riduzione delle forniture dalla Russia: l’attivazione di centrali elettriche a olio combustibile, così da contenere i consumi di gas, e la limitazione dei consumi delle industrie per tutelare le famiglie. Le decisioni sono giustificate dalle previsioni di persistenza delle attuali condizioni meteo per tutta la settimana” e dal permanere del calo di forniture dalla Russia”, mentre almeno uno dei due gassificatori disponibili, quello di Rovigo, è fuori uso. C’è preoccupazione, non allarme: i consumi sono al massimo, le forniture conoscono una flessione.
Con l’arma del gas, il Generale Inverno crea ancora scompiglio. Il gelo che viene dalla Siberia fa battere i denti all’Europa e Gazprom, il gigante del gas russo di stretta osservanza ‘putiniana’, serra le valvole dei gasdotti e annuncia tagli delle forniture ai clienti stranieri, quelli buoni, che pagano in euro sonanti, e quelli scamuffi, che pagano in monete post-sovietiche. Questa volta, ci sono pure di mezzo le elezioni presidenziali del mese prossimo e Vladimir Putin, ex presidente ora premier in corsa per tornare a essere presidente, vuole mostrarsi attento ai bisogni della gente: così, Gazprom spiega che il gas serve ai russi, che hanno freddo e devono scaldarsi loro per primi. Gli altri s’arrangino o, se proprio vogliono stare al caldo, paghino (di più, magari senza seguire le procedure di rito): l’oro non ha odore né colore, giallo o nero o, come questo, azzurrino che sia.
E’ una pantomima già vista. Con la variante, rispetto ad altre puntate di questa serie, che Mosca e Kiev si vogliono (quasi) bene, adesso che al potere in Ucraina c’è una fazione filo-russa, che ha i modi autocratici del ‘piccolo padre’ Vladi. Al punto che Kiev fa sapere di essere pronta a venire in soccorso della Russia, prelevando metano dai propri depositi: dichiarazioni di segno opposto rispetto a quelle fatte, giorni fa, da un responsabile di Gazprom, secondo cui gli ucraini assorbono quotidianamente volumi di gas nettamente superiori ai volumi contrattuali”.
Se un messaggio Putin vuole mandare ai suoi partner internazionali, questo può riguardare l’importanza della stabilità al Cremlino: come dire, con me il gas lo pagate caro, ma comunque lo avete; senza di me, potrebbe andarvi peggio.
L’atteggiamento di Mosca mette, naturalmente, sul chi vive la Commissione europea, che è in contatto con il governo di Roma ed è pronta a valutare misure di aiuto, se fossero necessarie. Portavoce dell’Esecutivo di Bruxelles parlano di ‘emergenza gas’: nell’Ue, Germania, Italia, Romania ricevono dalla Russia flussi crescenti, ma ancora inferiori al solito (le percentuali oscillano, a seconda delle fonti e dei Paesi, dall’8 al 30%). La situazione s’è invece normalizzata in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Austria, Bulgaria e Grecia.
Così, l’Italia, che ha già incrementato i rifornimenti da altri Paesi –Nord Europa e Nord Africa-, potrebbe anche ricevere gas dall'Austria: il gasdotto del Tarvisio ha una potenzialità di 112 Msm al giorno ed è utilizzato per 76 Msm al giorno. Gli esperti di Bruxelles notano, inoltre, che c’è disponibilità di gas sul mercato, nonostante la stretta della Russia. Norme Ue impongono a Stati e imprese di disporre di riserve per 30 giorni.
Del comitato consultato dal ministro Corrado Passera, fa parte l'ad di Eni Paolo Scaroni, che, ai microfoni di RaiTre, dichiara, prima della riunione: "Con le misure oggi prese, potremo disporre di 25 milioni di metri cubi di gas al giorno in più, l’8/9% dei consumi circa”. Quanto basta per arrivare tranquilli al week-end, quando la situazione climatica dovrebbe migliorare. L’ansia potrebbe, però, crescere se i tagli di gas dalla Russia dovessero sommarsi a quelli di petrolio dall’Iran. Ma questa è un’altra storia.
lunedì 6 febbraio 2012
Neve a Roma: il marciapiede meglio spalato della via
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 06/02/2012
Ci sono (piccole) soddisfazioni che ti ricompensano di (grandi) fatiche. Lunedì mattina, dopo il week-end della “grande neve a Roma”: incontri sul portone il vicino del piano di sopra, un sorriso e il complimento, “Ha spalato lei la neve ieri, vero? Si vede: il nostro e’ il marciapiede meglio pulito della strada”. E tu ti senti beato, senza neppure stare a chiederti perché a spalare non ci sia messo pure lui.
In fondo, già domenica non t’era dispiaciuto quell’esercizio, naturale per chi ha abitato a lungo in posti dove la neve cade abbondante ogni inverno. A Washington, e ovunque negli Usa, i cittadini sanno che, finita la nevicata, devono liberare il marciapiede davanti alla loro abitazione: se non lo fai, ti becchi la multa e resti bollato con un marchio d’infamia nel quartiere, oltre a rischiare cause per risarcimento da chi scivola e cade sul ghiaccio del tuo marciapiede.
E, così, dopo la neve, tutti a spalare, in un clima di solidarietà fra vicini: ci si presta gli attrezzi, si chiacchiera di sport nelle pause (purtroppo, ti tocca parlare del Super-Bowl, invece che del rigore solare –l’aggettivo è climatico- negato alla Juventus). Spalare è un esercizio che stimola la partecipazione, anche a Roma: domenica, passanti che incoraggiano e padroni di cani che sospingono in là i loro quadrupedi perché rispettino il marciapiede appena liberato.
Certo, qui mancano gli attrezzi adatti e ci s’arrangia un po’: scope come badili e niente carriole. Del resto, una nevicata così arriva una volta ogni generazione: logico che uno non abbia in casa nel centro pale e carriole; così come è logico che il Comune sia meno attrezzato di Ottawa contro l’ ‘emergenza inverno’. Credo che tutti siano disposti ad accettarlo e a convenirne: giudicheremmo uno spreco se Roma disponesse d’una flotta di mezzi anti-neve, da tenere in efficienza per usarli del tutto saltuariamente. E, almeno in città, i disagi sono stati, in fondo, limitati e comunque contenibili con comportamenti personali appropriati e prudenti.
Ma allora perché trasformare un’occasione di solidarietà in un momento di rissa? La neve, qui, viene troppo di rado perché ci si possa contare per un corso annuo di educazione civica. Ma non si perde un pretesto, quali che siano i livelli di responsabilità, per esercitare la mancanza d’educazione, non solo civica, di chi gioca sempre e solo allo scarica barile. C’è sempre un altro da additare; e “il dottore è sempre fuori stanza” (e state tranquilli che non è mai a spalare).
Ci sono (piccole) soddisfazioni che ti ricompensano di (grandi) fatiche. Lunedì mattina, dopo il week-end della “grande neve a Roma”: incontri sul portone il vicino del piano di sopra, un sorriso e il complimento, “Ha spalato lei la neve ieri, vero? Si vede: il nostro e’ il marciapiede meglio pulito della strada”. E tu ti senti beato, senza neppure stare a chiederti perché a spalare non ci sia messo pure lui.
In fondo, già domenica non t’era dispiaciuto quell’esercizio, naturale per chi ha abitato a lungo in posti dove la neve cade abbondante ogni inverno. A Washington, e ovunque negli Usa, i cittadini sanno che, finita la nevicata, devono liberare il marciapiede davanti alla loro abitazione: se non lo fai, ti becchi la multa e resti bollato con un marchio d’infamia nel quartiere, oltre a rischiare cause per risarcimento da chi scivola e cade sul ghiaccio del tuo marciapiede.
E, così, dopo la neve, tutti a spalare, in un clima di solidarietà fra vicini: ci si presta gli attrezzi, si chiacchiera di sport nelle pause (purtroppo, ti tocca parlare del Super-Bowl, invece che del rigore solare –l’aggettivo è climatico- negato alla Juventus). Spalare è un esercizio che stimola la partecipazione, anche a Roma: domenica, passanti che incoraggiano e padroni di cani che sospingono in là i loro quadrupedi perché rispettino il marciapiede appena liberato.
Certo, qui mancano gli attrezzi adatti e ci s’arrangia un po’: scope come badili e niente carriole. Del resto, una nevicata così arriva una volta ogni generazione: logico che uno non abbia in casa nel centro pale e carriole; così come è logico che il Comune sia meno attrezzato di Ottawa contro l’ ‘emergenza inverno’. Credo che tutti siano disposti ad accettarlo e a convenirne: giudicheremmo uno spreco se Roma disponesse d’una flotta di mezzi anti-neve, da tenere in efficienza per usarli del tutto saltuariamente. E, almeno in città, i disagi sono stati, in fondo, limitati e comunque contenibili con comportamenti personali appropriati e prudenti.
Ma allora perché trasformare un’occasione di solidarietà in un momento di rissa? La neve, qui, viene troppo di rado perché ci si possa contare per un corso annuo di educazione civica. Ma non si perde un pretesto, quali che siano i livelli di responsabilità, per esercitare la mancanza d’educazione, non solo civica, di chi gioca sempre e solo allo scarica barile. C’è sempre un altro da additare; e “il dottore è sempre fuori stanza” (e state tranquilli che non è mai a spalare).
domenica 5 febbraio 2012
Usa 2012: Nevada, la tripletta di Romney vale oro
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 05/02/2012
E tre: dopo il New Hampshire e la Florida, Mitt Romney vince pure le primarie in Nevada e continua a incamerare delegati –ne ha ancora pochi, però, in assoluto- e finanziatori ‘eccellenti’, cioè ricchissimi. Come in Florida, anche in Nevada l’ex governatore del Massachussetts stacca nettamente il suo maggiore rivale, Newt Gingrich, 44% contro 25% -i dati non sono definitivi-. Questa volta, Gingrich gli resta ben dietro pure sommando i suoi voti a quelli dell’altro candidato religioso e conservatore, Rick Santorum, che gli contende i favori di evangelici e Tea Party.
Il risultato del Nevada, quasi scontato, non cambia molto nella corsa alla nomination repubblicana, che avrà altre tre tappe martedì 7, nel Missouri, in Colorado, dove sta facendo campagna Santorum, che non parla –per ora- di ritiro, e in Minnesota, dove è già arrivato il terzo incomodo Ron Paul, portavoce libertario che, ovunque va, annuncia la sua ‘rivoluzione’: neo-isolazionismo, abolizione della Fed e drastica riduzione dell’intervento pubblico nel sociale e nell’economia-. In Nevada, Paul è stato terzo, al 18%, meglio di Santorum.
Romney vinse in Nevada anche nel 2008, il che non gli impedì, però, di perdere la nomination, finendo dietro John McCain, poi battuto nelle presidenziali da Barack Obama. Da Reno, la capitale dello Stato del gioco d’azzardo e dei matrimoni facili, l’ex governatore del Massachussetts parla già da candidato repubblicano alla presidenza: “Mi avete ridato il vostro voto. Questa volta, lo porterò alla Casa Bianca”; e attacca solo il presidente Obama, non i suoi rivali: “Obama aprì il suo mandato chiedendo scusa per l’America. Ora, deve chiedere scusa all’America”.
Gingrich, invece, evita il bagno di folla fra i suoi fans delusi, si limita a una conferenza stampa, smentisce tutte le voci d’un suo abbandono e se la prende con Romney, “Non ho mai visto accanto a me in un dibattito un candidato così apertamente falso. Se lo è ora (falso, ndr), come sarebbe se fosse presidente?”.
Sarà falso, Romney, ma è ricco, del suo e dei suoi finanziatori. Nei giorni scorsi, ne è uscita la lista, che ha rivelato come il potere finanziario ed economico americano sostenga il candidato mormone: ieri, s’è saputo che i fratelli Kock, magnati del carbone ultra-conservatori, si sono aggiunti alla lista dei paperoni d’America che vogliono cacciare dalla Casa Bianca il presidente Obama. Il quale punta sempre sulla colletta via internet fra milioni di cittadini. Gingrich, invece, ha dalla sua soltanto il re dei casino di Las Vegas: in Nevada, avrebbe dovuto giocare in casa ed ha perso.
E tutto il mese di febbraio rischia di essere un calvario per l’ex speaker della Camera, Penna Bianca della politica americana: Romney, nel 2008, vinse in Colorado e in Minnesota, dove si vota martedì; l’11, poi, si conteranno i suffragi nel Maine, dove le assemblee sono in corso; e,quindi sarà la volta del Michigan, dove Romney è cresciuto e dove suo padre è stato governatore.
Per trovare terreni a lui favorevoli, Gingrich deve arrivare al 6 marzo, il ‘Super-Martedì’, quando si voterà in una dozzina di Stati, molti del Sud e ci saranno in palio oltre 400 candidati. Per ottenere la nomination, ne occorrono 1.444 (e finora non ne sono stati assegnati neppure 150).
E tre: dopo il New Hampshire e la Florida, Mitt Romney vince pure le primarie in Nevada e continua a incamerare delegati –ne ha ancora pochi, però, in assoluto- e finanziatori ‘eccellenti’, cioè ricchissimi. Come in Florida, anche in Nevada l’ex governatore del Massachussetts stacca nettamente il suo maggiore rivale, Newt Gingrich, 44% contro 25% -i dati non sono definitivi-. Questa volta, Gingrich gli resta ben dietro pure sommando i suoi voti a quelli dell’altro candidato religioso e conservatore, Rick Santorum, che gli contende i favori di evangelici e Tea Party.
Il risultato del Nevada, quasi scontato, non cambia molto nella corsa alla nomination repubblicana, che avrà altre tre tappe martedì 7, nel Missouri, in Colorado, dove sta facendo campagna Santorum, che non parla –per ora- di ritiro, e in Minnesota, dove è già arrivato il terzo incomodo Ron Paul, portavoce libertario che, ovunque va, annuncia la sua ‘rivoluzione’: neo-isolazionismo, abolizione della Fed e drastica riduzione dell’intervento pubblico nel sociale e nell’economia-. In Nevada, Paul è stato terzo, al 18%, meglio di Santorum.
Romney vinse in Nevada anche nel 2008, il che non gli impedì, però, di perdere la nomination, finendo dietro John McCain, poi battuto nelle presidenziali da Barack Obama. Da Reno, la capitale dello Stato del gioco d’azzardo e dei matrimoni facili, l’ex governatore del Massachussetts parla già da candidato repubblicano alla presidenza: “Mi avete ridato il vostro voto. Questa volta, lo porterò alla Casa Bianca”; e attacca solo il presidente Obama, non i suoi rivali: “Obama aprì il suo mandato chiedendo scusa per l’America. Ora, deve chiedere scusa all’America”.
Gingrich, invece, evita il bagno di folla fra i suoi fans delusi, si limita a una conferenza stampa, smentisce tutte le voci d’un suo abbandono e se la prende con Romney, “Non ho mai visto accanto a me in un dibattito un candidato così apertamente falso. Se lo è ora (falso, ndr), come sarebbe se fosse presidente?”.
Sarà falso, Romney, ma è ricco, del suo e dei suoi finanziatori. Nei giorni scorsi, ne è uscita la lista, che ha rivelato come il potere finanziario ed economico americano sostenga il candidato mormone: ieri, s’è saputo che i fratelli Kock, magnati del carbone ultra-conservatori, si sono aggiunti alla lista dei paperoni d’America che vogliono cacciare dalla Casa Bianca il presidente Obama. Il quale punta sempre sulla colletta via internet fra milioni di cittadini. Gingrich, invece, ha dalla sua soltanto il re dei casino di Las Vegas: in Nevada, avrebbe dovuto giocare in casa ed ha perso.
E tutto il mese di febbraio rischia di essere un calvario per l’ex speaker della Camera, Penna Bianca della politica americana: Romney, nel 2008, vinse in Colorado e in Minnesota, dove si vota martedì; l’11, poi, si conteranno i suffragi nel Maine, dove le assemblee sono in corso; e,quindi sarà la volta del Michigan, dove Romney è cresciuto e dove suo padre è stato governatore.
Per trovare terreni a lui favorevoli, Gingrich deve arrivare al 6 marzo, il ‘Super-Martedì’, quando si voterà in una dozzina di Stati, molti del Sud e ci saranno in palio oltre 400 candidati. Per ottenere la nomination, ne occorrono 1.444 (e finora non ne sono stati assegnati neppure 150).
sabato 4 febbraio 2012
Stragi naziste in Italia: Corte l'Aja, la Germania vince ancora
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/02/2012
Non ci sarà indennizzo per le vittime civili delle stragi naziste in Italia, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Boves, tutti i circa 400 eccidi di quella guerra sporca (15mila i morti). La Corte di giustizia internazionale dell'Aja ha accolto il ricorso della Germania contro l'Italia per ottenere il blocco dei risarcimenti per i crimini compiuti dal Terzo Reich. Per i giudici, il diritto internazionale riconosce a Berlino l'immunità per quei reati.
La sentenza è definitiva: giustizia è fatta, la giustizia degli uomini, perché quella assoluta, se ve n’è una, e quella della storia non concedono prescrizioni e tanto meno immunità per simili crimini. In politica estera, spesso si parla di ‘realpolitik’, una parola tedesca. Questa volta, si potrebbe parlare di ‘realjustiz’: la sentenza blocca sul nascere una spirale di rivendicazioni, tiene chiuso il vaso di Pandora dei ‘revanchismi’ di un secolo di decisioni controverse, dal Trattato di Versailles del ’19 (la ‘pugnalata alla schiena’ per i tedeschi, la ‘vittoria mutilata’ per gli italiani).
Nella lunga sentenza -80 minuti la lettura-, la Corte accoglie tutti i punti del ricorso tedesco. E i giudici avallano la richiesta di Berlino di "ordinare all'Italia” di fare quanto necessario perché le decisioni contestate siano nulle e perché i suoi tribunali non pronuncino più sentenze del genere.
Il verdetto non desta sorpresa; e trova reazioni misurate. Il ministro degli esteri tedesco Westerwelle dice: "E' positivo ed è negli interessi di tutti avere una certezza legale"; e ricorda che "il ricorso non era contro le vittime del nazionalsocialismo”, né “vuole mettere in dubbio la responsabilità tedesca per i crimini della seconda guerra mondiale”. Il ministro italiano Terzi dichiara “rispetto” per la sentenza e prospetta “un dialogo” tra Roma e Berlino. Altri hanno parole più amare.
Il contenzioso Italia / Germania presso il più alto organo giudiziario Onu risale al dicembre 2008, quando Berlino fece ricorso contro la sentenza della Cassazione del 21 ottobre 2008 che riconosceva la Germania 'mandante' dei militari nazisti che il 29 giugno 1944 uccisero 203 abitanti di Civitella, Cornia e San Pancrazio (Arezzo), sparando a bambini, donne, uomini e vecchi.
Non ci sarà indennizzo per le vittime civili delle stragi naziste in Italia, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Boves, tutti i circa 400 eccidi di quella guerra sporca (15mila i morti). La Corte di giustizia internazionale dell'Aja ha accolto il ricorso della Germania contro l'Italia per ottenere il blocco dei risarcimenti per i crimini compiuti dal Terzo Reich. Per i giudici, il diritto internazionale riconosce a Berlino l'immunità per quei reati.
La sentenza è definitiva: giustizia è fatta, la giustizia degli uomini, perché quella assoluta, se ve n’è una, e quella della storia non concedono prescrizioni e tanto meno immunità per simili crimini. In politica estera, spesso si parla di ‘realpolitik’, una parola tedesca. Questa volta, si potrebbe parlare di ‘realjustiz’: la sentenza blocca sul nascere una spirale di rivendicazioni, tiene chiuso il vaso di Pandora dei ‘revanchismi’ di un secolo di decisioni controverse, dal Trattato di Versailles del ’19 (la ‘pugnalata alla schiena’ per i tedeschi, la ‘vittoria mutilata’ per gli italiani).
Nella lunga sentenza -80 minuti la lettura-, la Corte accoglie tutti i punti del ricorso tedesco. E i giudici avallano la richiesta di Berlino di "ordinare all'Italia” di fare quanto necessario perché le decisioni contestate siano nulle e perché i suoi tribunali non pronuncino più sentenze del genere.
Il verdetto non desta sorpresa; e trova reazioni misurate. Il ministro degli esteri tedesco Westerwelle dice: "E' positivo ed è negli interessi di tutti avere una certezza legale"; e ricorda che "il ricorso non era contro le vittime del nazionalsocialismo”, né “vuole mettere in dubbio la responsabilità tedesca per i crimini della seconda guerra mondiale”. Il ministro italiano Terzi dichiara “rispetto” per la sentenza e prospetta “un dialogo” tra Roma e Berlino. Altri hanno parole più amare.
Il contenzioso Italia / Germania presso il più alto organo giudiziario Onu risale al dicembre 2008, quando Berlino fece ricorso contro la sentenza della Cassazione del 21 ottobre 2008 che riconosceva la Germania 'mandante' dei militari nazisti che il 29 giugno 1944 uccisero 203 abitanti di Civitella, Cornia e San Pancrazio (Arezzo), sparando a bambini, donne, uomini e vecchi.
venerdì 3 febbraio 2012
Privacy: proposte Ue, riserve garante, contrasti Reding-Kroes
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/02/2012
I toni sono cortesi, ma la sostanza è dura: le Autorità per la protezione dei dati e la tutela della privacy di molti Paesi dell’Unione europea hanno riserve sulle proposte presentate la scorsa settimana dalla Commissione di Bruxelles, un regolamento e una bozza di direttiva, il primo intervento normativo europeo in materia dal 1995 -17 anni fa, quando la rete era molto meno diffusa e invasiva-. Francesco Pizzetti, il garante italiano, anima il fronte della critica nei contenuti all’iniziativa dell’Esecutivo dell’Ue, pur nel contesto “di un generale apprezzamento positivo”.
Per la rete, è un momento di allarmi, in Italia, in Europa, negli Usa, globali. Da noi, il dibattito sulle proposte di Bruxelles s’intreccia con le polemiche sul ‘bavaglio al web’, che un emendamento leghista voleva inserire nella Legge Comunitaria 2011: alla fine, l'ipotesi che gli hosting provider dovessero eliminare o rendere inaccessibile qualunque contenuto ospitato sui loro server su richiesta di un qualunque soggetto interessato è stata cancellata.
Negli Stati Uniti, Camera e Senato, sommersi da proteste e critiche, hanno frenato l’esame di provvedimenti dalle buffe sigle (Sopa e Pipa) che sanno di censura in rete. E, a livello globale, suscita reazioni contrastanti l'accordo multilaterale contro la contraffazione e la pirateria (in inglese Acta, acronimo di Anti-counterfeiting trade agreement), in discussione da molti anni, ma ora giunto al punto d’arrivo.
Delle proposte europee, il garante Pizzetti aveva subito rilevato che "rispondono ai cambiamenti già avvenuti, ma rischiano di non essere sufficientemente flessibili per intervenire sui processi di cambiamento futuri". E’ "una normativa molto dettagliata che fa tesoro dell’esperienza accumulata. Attualmente –osserva però Pizzetti-, conta molto il contesto internazionale: da questo punto di vista una normativa così minuziosa può rappresentare un potenziale ostacolo a forme di accordo internazionali".
Da un incontro fra la Commissione e il comitato delle Autorità nazionali, è emerso che le riserve di Pizzetti trovano larga eco: Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Lussemburgo e altri Paesi le condividono.“Non mettiamo la polvere sotto il tappeto”, è stato l’invito di Pizzetti, ieri, a un incontro confronto organizzato dalla rappresentanza in Italia dell’Esecutivo.
Di varia natura rilievi e obiezioni: da una parte, le Autorità non sono inclini a cedere poteri alla Commissione, anche sulla base di motivate considerazioni giuridiche (e sospettano Bruxelles di mirare a una gestione autocratica); dall'altra, osservano che fare regole europee, e farle per di più rigide, dove la materia è globale, e cangiante, può risultare alla meglio inutile e alla peggio controproducente. C’è, cioè, il rischio di costruire una ‘fortezza Europa’, per di più sapendola fin dall’inizio destinata a cadere (o, comunque, a non servire).
I negoziati nel Consiglio dei Ministri dell’Ue e nel Parlamento europeo andranno avanti a lungo. E, all’interno dell’Esecutivo, vi sono posizioni dialettiche: Neelie Kroes, olandese, responsabile dell’agenda informatica, è più sensibile all’internazionalizzazione della materia di Viviane Reding, lussemburghese, responsabile della Giustizia, titolare del dossier. E le nuove regole, se va bene, scatteranno fra due anni, quando l'evoluzione della tecnologia potrebbe già averle rese obsolete.
I toni sono cortesi, ma la sostanza è dura: le Autorità per la protezione dei dati e la tutela della privacy di molti Paesi dell’Unione europea hanno riserve sulle proposte presentate la scorsa settimana dalla Commissione di Bruxelles, un regolamento e una bozza di direttiva, il primo intervento normativo europeo in materia dal 1995 -17 anni fa, quando la rete era molto meno diffusa e invasiva-. Francesco Pizzetti, il garante italiano, anima il fronte della critica nei contenuti all’iniziativa dell’Esecutivo dell’Ue, pur nel contesto “di un generale apprezzamento positivo”.
Per la rete, è un momento di allarmi, in Italia, in Europa, negli Usa, globali. Da noi, il dibattito sulle proposte di Bruxelles s’intreccia con le polemiche sul ‘bavaglio al web’, che un emendamento leghista voleva inserire nella Legge Comunitaria 2011: alla fine, l'ipotesi che gli hosting provider dovessero eliminare o rendere inaccessibile qualunque contenuto ospitato sui loro server su richiesta di un qualunque soggetto interessato è stata cancellata.
Negli Stati Uniti, Camera e Senato, sommersi da proteste e critiche, hanno frenato l’esame di provvedimenti dalle buffe sigle (Sopa e Pipa) che sanno di censura in rete. E, a livello globale, suscita reazioni contrastanti l'accordo multilaterale contro la contraffazione e la pirateria (in inglese Acta, acronimo di Anti-counterfeiting trade agreement), in discussione da molti anni, ma ora giunto al punto d’arrivo.
Delle proposte europee, il garante Pizzetti aveva subito rilevato che "rispondono ai cambiamenti già avvenuti, ma rischiano di non essere sufficientemente flessibili per intervenire sui processi di cambiamento futuri". E’ "una normativa molto dettagliata che fa tesoro dell’esperienza accumulata. Attualmente –osserva però Pizzetti-, conta molto il contesto internazionale: da questo punto di vista una normativa così minuziosa può rappresentare un potenziale ostacolo a forme di accordo internazionali".
Da un incontro fra la Commissione e il comitato delle Autorità nazionali, è emerso che le riserve di Pizzetti trovano larga eco: Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Lussemburgo e altri Paesi le condividono.“Non mettiamo la polvere sotto il tappeto”, è stato l’invito di Pizzetti, ieri, a un incontro confronto organizzato dalla rappresentanza in Italia dell’Esecutivo.
Di varia natura rilievi e obiezioni: da una parte, le Autorità non sono inclini a cedere poteri alla Commissione, anche sulla base di motivate considerazioni giuridiche (e sospettano Bruxelles di mirare a una gestione autocratica); dall'altra, osservano che fare regole europee, e farle per di più rigide, dove la materia è globale, e cangiante, può risultare alla meglio inutile e alla peggio controproducente. C’è, cioè, il rischio di costruire una ‘fortezza Europa’, per di più sapendola fin dall’inizio destinata a cadere (o, comunque, a non servire).
I negoziati nel Consiglio dei Ministri dell’Ue e nel Parlamento europeo andranno avanti a lungo. E, all’interno dell’Esecutivo, vi sono posizioni dialettiche: Neelie Kroes, olandese, responsabile dell’agenda informatica, è più sensibile all’internazionalizzazione della materia di Viviane Reding, lussemburghese, responsabile della Giustizia, titolare del dossier. E le nuove regole, se va bene, scatteranno fra due anni, quando l'evoluzione della tecnologia potrebbe già averle rese obsolete.
giovedì 2 febbraio 2012
Usa 2012: Romney vince e ci ricasca, ma ora è protetto
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/02/2012
Mitt Romney vince e ci ricasca. Il battistrada repubblicano non è più preciso come un metronomo e, soprattutto, non è più a tenuta di gaffe: aveva già ‘sbarellato’ una volta, dicendo che a lui “piace licenziare” –e gli elettori repubblicani, almeno quelli della Florida, gliel’hanno perdonata-; e, ora, dopo avere incamerato successo e delegati alla convention, 50 tutti in una volta, dichiara alla Cnn
di “non essere preoccupato per i poveri” d’America, perché “loro hanno una rete di protezione”, e neppure per i ricchi –bontà sua-, ma di volersi concentrare “su come aiutare il ceto medio”.
Ora, è vero che negli Usa i più poveri spesso non vanno a votare (e che, se ci vanno, rarissimamente votano repubblicano). Ma Romney quella dichiarazione a rischio boomerang poteva evitarsela: avrà anche un nuovo allenatore per i dibattiti, Brett O’Donnell, di cui si dicono meraviglie, ma gli serve pure un allenatore per le interviste. E non è stato un lapsus: l’ha detto e l’ha ripetuto, i poveri sono poveri, crisi o non crisi, mentre la recessione è sentita soprattutto dalla classe media. Ecco un brano delle sue dichiarazioni: “Sono preoccupato per il cuore dell’America, quel 90-95% di cittadini che in questo momento stanno lottando”; mentre “sono fiducioso che buoni pasto, buoni alloggio, programmi Medicaid e altre forme di assistenza siano in grado di tenere a galla i più poveri”. Insomma, a loro basta la carità, sia pure di Stato.
E’ vero che anche il presidente Barack Obama imposta la sua campagna sulla classe media, puntando ad esempio su una riforma fiscale che non la penalizzi rispetto ai più ricchi e a chi guadagna non lavorando ma speculando. Però, resta l’impressione che Romney sia di nuovo inciampato nelle sue parole, proprio nel giorno in cui i risultati delle primarie in Florida lo rilanciano in testa, dopo la battuta d’arresto nella South Carolina, anche se non gli consegnano ancora la nomination.
Il mormone milionario vince a mani basse (il 46% dei suffragi), ma la partita non è ancora vinta: ‘penna bianca’ Newt Gingrich finisce staccato di 14 punti, ma, se si sommano ai suoi voti quelli dell’integralista cattolico Rick Santorum (13%), fa praticamente match pari. L’operazione non è cervellotica: Santorum, ex senatore, ultra-conservatore, vincitore a sorpresa nello Iowa il 3 gennaio, può essere al passo dell’addio, dopo avere infilato da allora solo risultati deludenti. Dal Nevada, dove si vota sabato, commenta: “L’America vuole vedere la sconfitta di Obama”; un messaggio d’unione repubblicana che può preludere all’uscita di scena. E i suoi voti, e i suoi delegati, andranno a Gingrich, cui ha finora conteso le aree ultra-conservatrice religiosa e populista-qualunquista del Tea Party.
Il duello tra Romney e Gingrich andrà di sicuro avanti almeno fino al Super-Martedì del 6 marzo, quando si voterà in una dozzina di Stati, fra cui il Texas –di qui ad allora, ci sono Nevada, Maine, Colorado, Minnesota, Arizona e Michigan-. Ron Paul, il campione libertario, resterà probabilmente in gara fino in fondo: una testimonianza, la sua, senza speranze di successo.
L’elettorato repubblicano appare volatile. South Carolina e Florida hanno dato risultati rovesciati: là, Gingrich avanti a valanga; qui Romney. Ma, avanti in voti e delegati –ancora pochi, sui 1144 necessari per avere l’investitura dalla convention di Tampa a fine agosto-, l’ex governatore ha pure pieni i forzieri: finora, ha incassato quasi 48 milioni di dollari e non ha debiti. Gingrich ha accumulato molto meno e ha un unico ‘mecenate’, il re dei casinò di Las Vegas Sheldon Adelson. Solo Obama è più ricco di fondi: non per nulla è di buon umore e, rivela la moglie Michelle, “adora cantare”, mentre lui assicura di “essere più determinato che mai, più che nel 2008”.
L’ultimo segnale di giornata lo manda il Secret Service. Il servizio di sicurezza che protegge il presidente Usa tutela, da oggi, Romney: l’ha chiesto lui stesso, ma l’ha ottenuto. Gingrich e gli altri devono badarsi da soli. Un atto di prudenza, ma anche l’indice che il Secret Service un po’ ci punta, su Romney candidato; e che, magari, qualche esaltato lo sta puntando.
Mitt Romney vince e ci ricasca. Il battistrada repubblicano non è più preciso come un metronomo e, soprattutto, non è più a tenuta di gaffe: aveva già ‘sbarellato’ una volta, dicendo che a lui “piace licenziare” –e gli elettori repubblicani, almeno quelli della Florida, gliel’hanno perdonata-; e, ora, dopo avere incamerato successo e delegati alla convention, 50 tutti in una volta, dichiara alla Cnn
di “non essere preoccupato per i poveri” d’America, perché “loro hanno una rete di protezione”, e neppure per i ricchi –bontà sua-, ma di volersi concentrare “su come aiutare il ceto medio”.
Ora, è vero che negli Usa i più poveri spesso non vanno a votare (e che, se ci vanno, rarissimamente votano repubblicano). Ma Romney quella dichiarazione a rischio boomerang poteva evitarsela: avrà anche un nuovo allenatore per i dibattiti, Brett O’Donnell, di cui si dicono meraviglie, ma gli serve pure un allenatore per le interviste. E non è stato un lapsus: l’ha detto e l’ha ripetuto, i poveri sono poveri, crisi o non crisi, mentre la recessione è sentita soprattutto dalla classe media. Ecco un brano delle sue dichiarazioni: “Sono preoccupato per il cuore dell’America, quel 90-95% di cittadini che in questo momento stanno lottando”; mentre “sono fiducioso che buoni pasto, buoni alloggio, programmi Medicaid e altre forme di assistenza siano in grado di tenere a galla i più poveri”. Insomma, a loro basta la carità, sia pure di Stato.
E’ vero che anche il presidente Barack Obama imposta la sua campagna sulla classe media, puntando ad esempio su una riforma fiscale che non la penalizzi rispetto ai più ricchi e a chi guadagna non lavorando ma speculando. Però, resta l’impressione che Romney sia di nuovo inciampato nelle sue parole, proprio nel giorno in cui i risultati delle primarie in Florida lo rilanciano in testa, dopo la battuta d’arresto nella South Carolina, anche se non gli consegnano ancora la nomination.
Il mormone milionario vince a mani basse (il 46% dei suffragi), ma la partita non è ancora vinta: ‘penna bianca’ Newt Gingrich finisce staccato di 14 punti, ma, se si sommano ai suoi voti quelli dell’integralista cattolico Rick Santorum (13%), fa praticamente match pari. L’operazione non è cervellotica: Santorum, ex senatore, ultra-conservatore, vincitore a sorpresa nello Iowa il 3 gennaio, può essere al passo dell’addio, dopo avere infilato da allora solo risultati deludenti. Dal Nevada, dove si vota sabato, commenta: “L’America vuole vedere la sconfitta di Obama”; un messaggio d’unione repubblicana che può preludere all’uscita di scena. E i suoi voti, e i suoi delegati, andranno a Gingrich, cui ha finora conteso le aree ultra-conservatrice religiosa e populista-qualunquista del Tea Party.
Il duello tra Romney e Gingrich andrà di sicuro avanti almeno fino al Super-Martedì del 6 marzo, quando si voterà in una dozzina di Stati, fra cui il Texas –di qui ad allora, ci sono Nevada, Maine, Colorado, Minnesota, Arizona e Michigan-. Ron Paul, il campione libertario, resterà probabilmente in gara fino in fondo: una testimonianza, la sua, senza speranze di successo.
L’elettorato repubblicano appare volatile. South Carolina e Florida hanno dato risultati rovesciati: là, Gingrich avanti a valanga; qui Romney. Ma, avanti in voti e delegati –ancora pochi, sui 1144 necessari per avere l’investitura dalla convention di Tampa a fine agosto-, l’ex governatore ha pure pieni i forzieri: finora, ha incassato quasi 48 milioni di dollari e non ha debiti. Gingrich ha accumulato molto meno e ha un unico ‘mecenate’, il re dei casinò di Las Vegas Sheldon Adelson. Solo Obama è più ricco di fondi: non per nulla è di buon umore e, rivela la moglie Michelle, “adora cantare”, mentre lui assicura di “essere più determinato che mai, più che nel 2008”.
L’ultimo segnale di giornata lo manda il Secret Service. Il servizio di sicurezza che protegge il presidente Usa tutela, da oggi, Romney: l’ha chiesto lui stesso, ma l’ha ottenuto. Gingrich e gli altri devono badarsi da soli. Un atto di prudenza, ma anche l’indice che il Secret Service un po’ ci punta, su Romney candidato; e che, magari, qualche esaltato lo sta puntando.
mercoledì 1 febbraio 2012
Usa 2012: Florida, Romney vince ma non è finita
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 01/02/2012
Mitt Romney vince in Florida a mani basse (quasi il 50% dei suffragi) e incamera tutti e 50 i delegati dello Stato alla convention. Ma la corsa alla nomination non è finita: ‘penna bianca’ Newt Gingrich è staccato di 14 punti (32%, contro il 46% del rivale mormone), ma se somma ai suoi voti quelli dell’integralista cattolico Rick Santorum (13%) fa match pari.
L’operazione non è cervellotica: Santorum, ex senatore, ultra-conservatore, vincitore a sorpresa nello Iowa il 3 gennaio, può essere al passo dell’addio, dopo avere infilato risultati deludenti nel New Hampshire, in South Carolina e
in Florida. Ora, sta già facendo campagna nel Nevada, la prossima tappa. E di lì commenta: “L’America vuole vedere la sconfitta di Barack Obama” (però, non
la sua vittoria. Un messaggio di coesione repubblicana, che può preludere all’uscita di scena. E i suoi voti, e i suoi delegati, andranno a Gingrich, cui ha finora conteso le aree ultra-conservatrice religiosa e populista-qualunquista
del Tea Party.
La Florida, dunque, non consegna la nomination a Romney, anche se ne rilancia la corsa in testa, dopo la battuta d’arresto nella South Carolina; e sancisce
il duello con Gingrich, che di sicuro andrà avanti almeno fino al ‘Super-Martedì del 6 marzo, quando si voterà in una decina di Stati –di qui ad allora, ci sono solo Nevada e Maine-. Ron Paul, il campione libertario, resterà probabilmente in gara fino in fondo: una testimonianza, la sua, senza speranze di successo.
Nel giro di dieci giorni, South Carolina e Florida hanno dato risultati rovesciati: là, Gingrich avanti a valanga, qui Romney. Ma i due Stati non sono confrontabili per composizione demografica e tendenza politica; e là Romney aveva perso il dibattito televisivo, che qui ha vinto. Merito, si dice, del suo nuovo ‘allenatore’ Brett O’Donnell, un guro dei dibattiti, che in 48 ore avrebbe trasformato Mitt l’indeciso in un oratore aggressivo e convincente. Anche in America, dunque, la squadra che cambia l’allenatore vince la prima partita, anche se non è detto che poi vinca il campionato (o si salvi).
Mitt Romney vince in Florida a mani basse (quasi il 50% dei suffragi) e incamera tutti e 50 i delegati dello Stato alla convention. Ma la corsa alla nomination non è finita: ‘penna bianca’ Newt Gingrich è staccato di 14 punti (32%, contro il 46% del rivale mormone), ma se somma ai suoi voti quelli dell’integralista cattolico Rick Santorum (13%) fa match pari.
L’operazione non è cervellotica: Santorum, ex senatore, ultra-conservatore, vincitore a sorpresa nello Iowa il 3 gennaio, può essere al passo dell’addio, dopo avere infilato risultati deludenti nel New Hampshire, in South Carolina e
in Florida. Ora, sta già facendo campagna nel Nevada, la prossima tappa. E di lì commenta: “L’America vuole vedere la sconfitta di Barack Obama” (però, non
la sua vittoria. Un messaggio di coesione repubblicana, che può preludere all’uscita di scena. E i suoi voti, e i suoi delegati, andranno a Gingrich, cui ha finora conteso le aree ultra-conservatrice religiosa e populista-qualunquista
del Tea Party.
La Florida, dunque, non consegna la nomination a Romney, anche se ne rilancia la corsa in testa, dopo la battuta d’arresto nella South Carolina; e sancisce
il duello con Gingrich, che di sicuro andrà avanti almeno fino al ‘Super-Martedì del 6 marzo, quando si voterà in una decina di Stati –di qui ad allora, ci sono solo Nevada e Maine-. Ron Paul, il campione libertario, resterà probabilmente in gara fino in fondo: una testimonianza, la sua, senza speranze di successo.
Nel giro di dieci giorni, South Carolina e Florida hanno dato risultati rovesciati: là, Gingrich avanti a valanga, qui Romney. Ma i due Stati non sono confrontabili per composizione demografica e tendenza politica; e là Romney aveva perso il dibattito televisivo, che qui ha vinto. Merito, si dice, del suo nuovo ‘allenatore’ Brett O’Donnell, un guro dei dibattiti, che in 48 ore avrebbe trasformato Mitt l’indeciso in un oratore aggressivo e convincente. Anche in America, dunque, la squadra che cambia l’allenatore vince la prima partita, anche se non è detto che poi vinca il campionato (o si salvi).
Usa 2012: frecciate liberal a Obama da disegnatori e 'cartoonist'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/02/2012
Un asino esilarato assiste ai goffi –e infruttuosi- tentativi di Mitt Romney di montare sulla groppa d’un elefante: l’asino è il simbolo del partito democratico, l’elefante quello del partito repubblicano. La scenetta di un video della serie American Democracy indica le difficoltà di Romney ad assumere il controllo del Great Old Party. Ma a un certo punto l’asino ammutolisce, perplesso: s’è accorto che Barack Obama è salito a cavalcioni sulla sua groppa. Solo che il presidente è voltato al contrario e agita una carota in cima a un bastone non davanti al muso del somaro, per farlo avanzare, ma verso il suo deretano.
Come dire che, se i repubblicani non hanno un leader, i democratici ne hanno uno che conclude poco. Il video è molto cliccato, e vivacemente commentato, nel giorno in cui le primarie fanno tappa in Florida. Romney, reduce dalla batosta nella South Carolina, sembra, stando ai sondaggi, potersi prendere la rivincita su Newt Gingrich: sarebbe avanti addirittura di 15 punti, resterebbe primo anche se Gingrich incamerasse tutti i voti di Rick Santorum, che potrebbe essere al capolinea.
Nell’America delle elezioni, anche i disegnatori di fumetti fanno i loro ‘endorsements’, cioè schierano se stessi e i loro personaggi per l’uno o per l’altro candidato. Ma, essendo la satira e l’ironia il loro mestiere, non risparmiamo frecciate neppure al loro beniamino. Così, è innegabile che Obama sia il favorito di tutti i disegnatori progressisti d’America, quelli, tanto per intenderci, che siamo abituati a trovare sulle pagine di Linus, dal principe dei liberal Garry B. Trudeau (Doonesbury) a Darby Conley (Get Fuzzy), fino ai meno inclini a includere frammenti d’attualità nelle loro strisce Scott Adams di Dilbert, Jim Meddick di Monty, Stephan Pastis di Perle ai Porci e Richard Thompson di Cul de Sac.
Trudeau e –meno- Conley non hanno risparmiato al presidente critiche e frecciare, per la mancanza di leadership, specie sul fronte interno. Ma, adesso che la partita si fa dura, Trudeau è meno pungente. Del resto, mica tutti i fumetti e i cartoonssono liberal e pro Obama. Esempio: la famiglia dei Simpson ha ben poco di progressista e di democratico nei suoi comportamenti. Buon per Obama che Homer, al 90%, sarà troppo pigro per andare a votare e che Bart non ha l’età. Ma se Homer si trascinasse, tra una birra e un rutto, alle urne, rischierebbe di votare quello zombi di Newt Gingrich. E quanto a Bart, bastian contrari com’è, se non altro per fare dispetto alla sorellina Lisa, l’illuminata di famiglia, voterebbe Ron Paul il libertario.
Ora, i Simpson si mettono in combutta con uno che all’Amministrazione Obama ha dichiarato guerra (e viceversa): Julian Assange, il discusso fondatore e animatore di Wikileaks, l’uomo di tutte le fughe, tranne la sua dall’Inghilterra, dove si batte per non essere estradato in Svezia - Stoccolma lo vuole processare per stupro. Assange sarà protagonista (e darà la sua voce al suo personaggio) di una puntata dei Simpson: non una qualsiasi, il 500.o episodio, in onda negli Usa il 19 febbraio (troppo lontano dall’Election Day del 6novembre, comunque, per contare qualcosa). Le creature di Matt Groening sono abituate a ospiti d’eccezione e leader politici, da Tony Blair a Nicolas Sarkozy. Ma Julian è uno scomodo: per Casa Simpson e per la Casa Bianca.
Un asino esilarato assiste ai goffi –e infruttuosi- tentativi di Mitt Romney di montare sulla groppa d’un elefante: l’asino è il simbolo del partito democratico, l’elefante quello del partito repubblicano. La scenetta di un video della serie American Democracy indica le difficoltà di Romney ad assumere il controllo del Great Old Party. Ma a un certo punto l’asino ammutolisce, perplesso: s’è accorto che Barack Obama è salito a cavalcioni sulla sua groppa. Solo che il presidente è voltato al contrario e agita una carota in cima a un bastone non davanti al muso del somaro, per farlo avanzare, ma verso il suo deretano.
Come dire che, se i repubblicani non hanno un leader, i democratici ne hanno uno che conclude poco. Il video è molto cliccato, e vivacemente commentato, nel giorno in cui le primarie fanno tappa in Florida. Romney, reduce dalla batosta nella South Carolina, sembra, stando ai sondaggi, potersi prendere la rivincita su Newt Gingrich: sarebbe avanti addirittura di 15 punti, resterebbe primo anche se Gingrich incamerasse tutti i voti di Rick Santorum, che potrebbe essere al capolinea.
Nell’America delle elezioni, anche i disegnatori di fumetti fanno i loro ‘endorsements’, cioè schierano se stessi e i loro personaggi per l’uno o per l’altro candidato. Ma, essendo la satira e l’ironia il loro mestiere, non risparmiamo frecciate neppure al loro beniamino. Così, è innegabile che Obama sia il favorito di tutti i disegnatori progressisti d’America, quelli, tanto per intenderci, che siamo abituati a trovare sulle pagine di Linus, dal principe dei liberal Garry B. Trudeau (Doonesbury) a Darby Conley (Get Fuzzy), fino ai meno inclini a includere frammenti d’attualità nelle loro strisce Scott Adams di Dilbert, Jim Meddick di Monty, Stephan Pastis di Perle ai Porci e Richard Thompson di Cul de Sac.
Trudeau e –meno- Conley non hanno risparmiato al presidente critiche e frecciare, per la mancanza di leadership, specie sul fronte interno. Ma, adesso che la partita si fa dura, Trudeau è meno pungente. Del resto, mica tutti i fumetti e i cartoonssono liberal e pro Obama. Esempio: la famiglia dei Simpson ha ben poco di progressista e di democratico nei suoi comportamenti. Buon per Obama che Homer, al 90%, sarà troppo pigro per andare a votare e che Bart non ha l’età. Ma se Homer si trascinasse, tra una birra e un rutto, alle urne, rischierebbe di votare quello zombi di Newt Gingrich. E quanto a Bart, bastian contrari com’è, se non altro per fare dispetto alla sorellina Lisa, l’illuminata di famiglia, voterebbe Ron Paul il libertario.
Ora, i Simpson si mettono in combutta con uno che all’Amministrazione Obama ha dichiarato guerra (e viceversa): Julian Assange, il discusso fondatore e animatore di Wikileaks, l’uomo di tutte le fughe, tranne la sua dall’Inghilterra, dove si batte per non essere estradato in Svezia - Stoccolma lo vuole processare per stupro. Assange sarà protagonista (e darà la sua voce al suo personaggio) di una puntata dei Simpson: non una qualsiasi, il 500.o episodio, in onda negli Usa il 19 febbraio (troppo lontano dall’Election Day del 6novembre, comunque, per contare qualcosa). Le creature di Matt Groening sono abituate a ospiti d’eccezione e leader politici, da Tony Blair a Nicolas Sarkozy. Ma Julian è uno scomodo: per Casa Simpson e per la Casa Bianca.
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