P R O S S I M A M E N T E

Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore

sabato 28 aprile 2012

Ue: crisi, quando Moavero piega la Merkel al volere di Monti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/04/2012. Altra versione su EurActiv.it

Prima l’iniziativa dei liberisti, per il completamento del mercato interno. Poi la lettera degli ‘amici dello spendere bene’ per concentrare sulla crescita l’utilizzo delle risorse dell’Unione. La strategia europea dell’Italia, che pareva un po’ ripiegata sul minimo comune denominatore mercantilista, si sviluppa a 180 gradi e  si mostra capace di coinvolgere, sull’uno o sull’altro fronte, tutti i Paesi Ue, che contano, anche la Germania che conta più di tutti.

A tessere la tela delle strategie e delle alleanze, sono il premier Mario Monti negli incontri pubblici e il ministro degli Affari Europei Enzo Moavero nei contatti più discreti. Certo, l’eclisse elettorale della Francia sulla scena europea, evidente dopo il Vertice dei 27 ai primi di marzo, lascia spazio al ‘team Italia’ come interlocutore principale di Angela Merkel e dei suoi collaboratori. Ma il percorso riesce anche per la credibilità e la competenza del premier e del ministro: due che l’Unione la conoscono bene dal di dentro.

Ieri, a Bruxelles, Monti, che partecipava allo European Business Summit, ha scoperto le carte: “Lavoriamo con Berlino per la crescita-ha detto-, ma non è ancora il momento di ricette specifiche. Abbiamo convinto l’Ue che il tema dello sviluppo è prioritario”.

Ufficialmente, il momento delle ricette specifiche potrà venire solo quando la Francia sarà di nuovo della partita: ricette più spinte, e quindi magari più controverse, se il presidente sarà Hollande; e più moderate, se sarà ancora Sarkozy. Ma, in realtà, la percezione di una svolta è emersa con chiarezza dall’ultimo incontro tra Moavero e l’emissario europeo della cancelliera Nikolaus Meyer-Landrut. La Merkel vuole ora salire sul treno delle politiche della crescita per non trovarsi spiazzata, staccata, isolata il 6 maggio, specie se dalle urne in Francia uscirà Hollande.

Moavero e Meyer-Landrut sono gli artefici della lettera che i ‘friends of good spending’, cioè, appunto, la ‘confraternita dello spendere bene’, hanno trasmesso all’inizio della settimana alla Commissione europea: un documento firmato da tutti i Paesi dell’euro contribuenti netti al bilancio dell’Ue, Italia, Germania, Francia, Benelux, Finlandia, più la Svezia. Fa eccezione la Danimarca, che esercita la presidenza di turno dell’Ue e non vuole fare mosse di parte, anche se le condivide.

A muoversi per la crescita, dunque, sono i Paesi cui l’Ue, in termini di flusso di denaro, costa più di quanto non renda. La lettera è scandita in sette punti, quattro dei quali si ritrovano tali e quali nella strategia per l’Europa annunciata da Hollande dopo il primo turno.

L’idea di fondo è quella di sollecitare la Commissione a centrare sulla crescita la spesa comunitaria, nell’imminenza di una revisione dei criteri di bilancio per il periodo 2014/2020 –quando i bilanci dell’Ue varranno un po’ più di mille miliardi di euro-. Per preparare la mossa, Moavero ha dovuto recuperare il tempo perduto, facendo il commesso viaggiatore dell’Italia europea: è stato anche in posti mica sperduti, come l’Aja e Stoccolma, dove però s’erano ormai dimenticati l’ultima visita d’un ministro italiano.

Con la Francia, si profilano problemi sull’agricoltura: la politica agricola europea, che è sulla soglia d’una riforma, assorbe ancora una parte preponderante del bilancio comunitario: la Francia è favorevole alla proporzionalità tra superficie coltivata e aiuti, mentre l’Italia e altri Paesi vorrebbero premiare anche in agricoltura la qualità e l’innovazione.

La lettera sulla spesa è complementare a quella, promossa da Monti a febbraio e inizialmente firmata da 12 capi di Stato o di governo –fra di essi, il britannico Cameron e lo spagnolo Rajoy, ma né Sarkozy né la Merkel-, sul completamento del mercato interno. Una lettera che ha man mano raccolto altre adesioni –oggi, sono una ventina- e che è divenuta per molti aspetti parte integrante delle conclusioni del Vertice di marzo: la Commissione ne è stata indotta a innescare iniziative per la crescita e l’occupazione e la Merkel, alla fine, se n’è lasciata suggestionare, mentre Sarkozy, e pure Hollande, mantengono riserve.

L’azione dell’Italia sulla Germania trova valida sponda nel presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Ma pure il vice-presidente della Commissione europea Antonio Tajani dà una mano: in Germania martedì e mercoledì, ha fatto una chiara richiesta alla cancelliera: mandi un messaggio per la crescita in Europa. "Per ridurre la disoccupazione abbiamo bisogno di un'economia che cresce, altrimenti tutti i sacrifici fatti si riveleranno inutili", ha detto Tajani. E anche il fronte interno spinge:  "Monti e Moavero –scrive su Facebook il leader Udc Pierferdinando Casini-  sono al centro delle iniziative europee per la crescita. Avere fatto i compiti a casa ci dà titolo per essere protagonisti".

Fa sentire la sua voce pure Romano Prodi, ex premier ed ex presidente della Commissione europea, che –su El Pais- “propone un cambiamento di rotta della politica europea”: "Se la Germania sembra essere convinta di poter fare da sola, l'Italia deve lavorare con Francia e Spagna per dare impulso all'Europa". Monti e Moavero sarebber, però, un passo avanti: avrebbero già convinto la Merkel a giocare per la crescita.

giovedì 26 aprile 2012

Usa 2012: Romney avanza, ma Obama ha le chiavi della vittoria

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 25/04/2012

Mitt Romney prosegue la corsa -ormai quasi solitaria- delle primarie repubblicane e incassa cinque vittorie sonanti nel New England, nello Stato di New York e in Pennsylvania e ancora in Rhode Island, Connecticut e Delaware. Ma un professore americano che ‘mixa’ la matematica e la politica è già sicuro che tutto questo ‘ambaradan’ elettorale non serva a nulla, perché il presidente uscente,
il democratico Barack Obama, ha in tasca 10 delle 13 chiavi della Casa Bianca ed è quindi sicuro d’un secondo mandato.

Ma andiamo con ordine. Le primarie vanno avanti, anche se, da quando l’integralista cattolico Rick Santorum s’è ritirato, la ‘nomination’ del moderato mormone Mitt Romney non fa più l’ombra d’un dubbio. Al punto che pure il veterano ultra-conservatore Newt Gingrich sta per annunciare l’abbandono. In corsa con Romney, per il principio, ma non per la vittoria, resta solo il libertario Ron Paul.

Nei cinque Stati alle urne il 24 aprile, Romney ha ottenuto percentuali di voti oscillanti tra tre quinti e due terzi: non ha ancora messo insieme i 1143 delegati necessari a garantire aritmeticamente la ‘nomination’ alla convention di Tampa in Florida a fine agosto, ma è ormai oltre quota 900. “Vinceremo”, ha detto Romney ai suoi sostenitori. E a tutti gli elettori: “Tenete duro ancora un po’: un’America migliore sta per cominciare”, ripetendo le accuse standard al presidente Obama, cioè di non avere mantenuto le promesse di speranza e di cambiamento fatte nella campagna 2008.

E che c’entrano le chiavi, con tutto questo? A ogni campagna elettorale, salta fuori una teoria politico-matematica basata sull’analisi dei risultati delle presidenziali Usa dal 1860 al 1980, cioè da Abraham Lincoln a Ronald Reagan. Il metodo s’è poi rivelato capace di predire esattamente l’esito delle successive. L’idea, di matrice russo-americana, individua 13 variabili, o chiavi: il partito al potere vince, se ne possiede almeno 8. E Obama, attualmente, ne ha addirittura 10. Roba che Romney farebbe meglio a smettere di gettare i soldi dalla finestra da qui a novembre.

Certo, il metodo, di cui i politologi contestano la scientificità perché i criteri sarebbero soggettivi, non è a prova di fallimento, anche se finora è stato infallibile: è basato sul principio che le elezioni sono sostanzialmente un referendum sulla prestazione del partito al potere. Le variabili riguardano, ad esempio, il bilancio del presidente in carica dall’economia alla politica estera e la sua popolarità. Per il professor Allan Lichtman della American University, uno dei padri del metodo, la vittoria d’Obama è acquisita salvo in caso di “catastrofe economica”, “di terribile disastro in politica estera” o di “scandalo presidenziale”. Ma, fin lì, c’eravamo arrivati anche noi, senza chiavi e senza matematica. E allora, poveri repubblicani? Il prof. Lichtman una ciliegina in serbo per loro ce l’ha: le elezioni del 2016 si presentano molto meglio per i conservatori. Andatelglielo a dire a Romney, che s’è sbagliato di quattro anni.

mercoledì 25 aprile 2012

Ostaggi: Italia, prima la vita, poi i principi, e così pagando

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/04/2012

Staffan de Mistura, sotto-segretario agli esteri, ne ha viste e passate un sacco, nella sua lunga e varia carriera di alto funzionario delle Nazioni Unite, dal Kossovo all’Iraq passando per il Libano: non ha il linguaggio reticente dei diplomatici mestieranti. Parlando a un convegno a Roma, nel giorno che gli ostaggi italiani si sono ridotti a due –poi ci sono i marò, ma quella è tutt’altra storia-, de Mistura teorizza i diversi approcci occidentali alla soluzione dei sequestri: da una parte, gli anglosassoni, americani e britannici; dall’altra, gli italiani e gli spagnoli. Per americani e britannici, quel che conta è il principio: il terrorismo non paga, quindi con i rapitori non si negozia. Per italiani e spagnoli, quel che conta è la salvezza dell’ostaggio e, quindi, si tratta –vallo a dire alla famiglia di Moro, ma anche quella era un’altra storia-. E i francesi? A parole, stanno con gli americani; nei fatti, si arrangiano pure loro e negoziano. E chi tratta paga, salvo poi cercare di tenere ben celato il segreto di cosa e quanto.

Dopo la doccia fredda in febbraio della mancata liberazione di Rossella Urru e dopo la tragedia di Franco Lamolinara, l’ingegnere di Gattinara ucciso in Nigeria durante un blitz lanciato per liberarlo delle forze speciali inglesi e locali –morì ammazzato pure un compagno di prigionia britannico-, la tattica italiana ha raccolto successi: aprile è stato il mese del ‘libera tutti’, Paolo Bosusco, guida e amante dell’avventura, in India, nell’Orissa; Maria Sandra Mariani, turista fiorentina di 53 anni, rimasta per oltre un anno nelle mani dei suoi rapitori nel Sahara islamico; infine i sei marittimi italiani della ‘Enrico Ievoli’, sequestrata il 27 dicembre al largo dell’Oman e ora in navigazione dalle coste della Somalia verso l’Italia, con l’intero equipaggio libero.

Prigionieri restano solo la Urru, una cooperante sarda di 30 anni, rapita nel Sud dell’Algeria in ottobre, e Giovanni Lo Porto, un cooperante siciliano, catturato in gennaio con un tedesco nel Punjab, in Pakistan. E poi ci sono i marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due militari italiani detenuti in India, nel Kerala, perché sospettati di avere ucciso il 15 febbraio due pescatori indiani scambiati per errore per pirati. Loro, però, non sono ostaggi: sono nelle mani della giustizia di un Paese democratico, anzi della maggiore democrazia di questo Mondo.

Anche per loro, le ultime 48 ore hanno portato un clima più sereno e spiragli di ottimismo: prima,
la Corte Suprema di Nuova Delhi ha giudicato ricevibile il ricorso dell’Italia sulla giurisdizione –Roma sostiene che il giudizio spetta all’Italia, perché i fatti si sono svolti in acque internazionali-; poi, il tribunale popolare di Kochi ha avallato l’accordo tra l’Italia e le famiglie delle vittime (10 milioni di rupie, circa 150 mila euro, ciascuna). Secondo una tv indiana, i parenti hanno “perdonato i fratelli italiani”. Certo, l’India non abbassa la guardia: così ieri il ministero degli Esteri ha ribadito che il caso “rientra nella nostra giurisdizione”. Ma essere generosi, anche nel Kerala, può indurre i giudici a essere clementi.

Ue: Francia/Olanda, crisi fa montare marea populismi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/04/2012

In fuga dalla recessione. E in fuga dall’Europa. Come se negare i problemi e rifugiarsi nel localismo al tempo della globalizzazione siano risposte efficaci. Certo, le ricette anti-crisi dell’Ue, rigore e sacrifici, tagli e riforme liberiste, non hanno –ancora?- condotto l’eurozona al sicuro, non innescano stimoli alla  ripresa e creano disagio sociale. Risultato, il richiamo dei populisti euroscettici acquista forza e i risultati elettorali lo provano.

“La crescita serve pure a mettere in sicurezza la democrazia”, dice Angelo Panebianco sul Corriere della Sera; e una politica di ‘lacrime e sangue’ senza impatti positivi tangibili la mette in pericolo, specie quando la paura di perdere il lavoro, le certezze del presente, le speranze del futuro, si somma e si salda alla paura del diverso, dello straniero, dell’altro. Euroscettici e xenofobi costituiscono un mix potenzialmente letale per l’Unione e per il disegno di integrazione che pure ha garantito, al nucleo originario, 60 anni e più di libertà, di pace, di democrazia, di progresso economico e sociale, e che ha ne fatto un irresistibile magnete di tutte le realtà circostanti e un catalizzatore di rispetto dei diritti dell’uomo.

E, intanto, tra la mancanza di coraggio dei leader attuali e l’inconsistenza dei demagoghi i burattinai della crisi, la finanza, le banche, le agenzie di rating, tirano ancora le fila dei loro profitti. Certo, la lettura delle elezioni in Francia e della crisi in Olanda varia molto, a seconda dell’orientamento dell’analista: Sarkozy vi dirà che le borse vanno giù perché Hollande, che vuole rinegoziare il Patto di Bilancio fra i 25 –Gran Bretagna e Repubblica Ceca ne sono fuori-, le spaventa; e Hollande vi spiegherà che il nervosismo dei mercati è frutto dell’exploit dell’estrema destra del Front National, con parole d’ordine contro l’euro e l’Unione. Ma se poi Sarkozy va a caccia dei voti ‘lepennisti’ sul terreno della sicurezza e delle frontiere le incertezze s’intrecciano e si rilanciano l’un l’altra.

La sinistra europea, che la crisi economica ha ridotto ai minimi termini – governa in una manciata di Paesi appena, nell’Ue – attende dalla Francia un segnale di riscossa il 6 maggio. Ma, nel cuore dell’Unione, la destra xenofoba ed euro-scettica ha il potere di fare cadere un governo non sui temi dell’immigrazione, ma su quelli del rigore: dopo il ‘dagli all’Islam’, è l’ora del ‘dagli all’euro’. Recessione e austerity fanno un’altra vittima, si confermano un moloch mangia governi.

L’Olanda, solo Paese del nucleo storico dell’integrazione europea ad avere un governo dipendente dall’appoggio esterno dei qualunquisti e populisti dell’estrema destra del Partito della Libertà -toh!- di Geert Wilders, s’avvia a elezioni politiche anticipate, dopo il fallimento dei negoziati per ridurre il deficit, in linea con quanto previsto dal Patto di Bilancio dell’Ue. Sollecitando la tenuta “al più presto” di consultazioni anticipate, gli xenofobi vogliono coagulare destra xenofoba e disagio sociale: Wilders, populisticamente, si erge a difensore delle pensioni e dell’occupazione, "Non lasceremo scorrere, a causa di Bruxelles, il sangue dei nostri pensionati". E c’è in Italia chi lo considera  il capo partigiano di una nuova resistenza.

L’avanzata degli euroscettici, ora con i toni della destra, ora con quelli della sinistra, ma sempre vigorosamente populisti, ha contagiato molti Paesi: in Belgio, i nazionalisti fiamminghi attendono che il governo del socialista francofono Elio Di Rupo cada per fare un balzo in avanti alle urne; e in Olanda, gli xenofobi anti-Islam fanno il governo e lo disfano; in Finlandia, i ‘veri finlandesi’, sorta di leghisti nordici, sono un interlocutore politico inevitabile; in Francia, Marine Le Pen guida l’estrema destra più in su di dove  suo padre Jean-Marie non fosse mai riuscito a portarla; in Italia e in Germania, dove le elezioni sono lontane, ci sono Grillo e i Piraten; in Grecia le urne di maggio rovesceranno il governo dei tecnici e i partiti tradizionali sotto una valanga di voti di protesta.

In Grecia, come in prospettiva in Italia, è in gioco il sistema politico, con la fine del bipartitismo: nel nuovo Parlamento, ci saranno non 5, ma 10 partiti. E i sondaggi rilevano forti contraddizioni: circa il 75% degli elettori dice di volere un governo di coalizione fra i due maggiori partiti (Pasok, socialista, e Nea Democratia, centrodestra), a garanzia della permanenza della Grecia nell’eurozona; ma, nello stesso tempo, dice che voterà per i partiti contro il Memorandum.

martedì 24 aprile 2012

SPIGOLI: 2011, annus horribilis politica estera Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/04/2012
L‘anno della svolta della politica estera dell’Italia, stretta tra il progressivo deterioramento del quadro politico interno e il parallelo crollo della credibilità internazionale: così sarà forse ricordato il 2011, un anno di ‘buchi neri’ e di ‘momenti bui’ sulle scene europea e mondiale, ma pure l’anno dello scarto e dello scatto. A raccontarne i momenti salienti e a metterne in prospettiva gli sviluppi è l'annuario ‘La politica estera dell’Italia’, frutto della collaborazione tra IAI, Ispi e Il Mulino. Severo il giudizio: “La china da risalire non è delle più agevoli” e, per fronteggiare la concorrenza internazionale e recuperare prestigio, occorrono “strategie condivise e uno sforzo collettivo che coinvolga tutte le istituzioni”. Gli esperti dei due ‘think tank’ vedono filtrare tremule luci dalle prime mosse diplomatiche ed europee del governo Monti, pur se il 2012 è stato foriero di difficoltà in scacchieri dove la politica estera dell’Italia è tradizionalmente debole o assente, come l’Africa o l’India. Il tramonto dell’approccio personalistico alla politica estera pare un fatto compiuto: l’approccio ‘alla Berlusconi’, che pensava di ovviare, con l’empatia personale con alcuni leader, non necessariamente i più rispettati e rispettabili sulla scena mondiale, alle carenze del Sistema Italia. Mentre sono ancora tutti da verificare i risultati della svolta: all’accresciuta credibilità devono corrispondere maggiore affidabilità e migliore efficienza. L’Europa, per l’atteggiamento sbagliato verso l’Ue e i partner, e la Libia, per l’impreparazione alla rivolta, sono stati gli anelli più deboli della politica estera italiana 2011. E la percezione dell’isolamento a livello europeo ha avuto un impatto negativo nei rapporti con gli Stati Uniti.

lunedì 23 aprile 2012

Francia: Ue, più Hollande che Sarkozy ma è sempre limbo

Scritto per EurActiv e per l'Indro il 23/04/2012

Che il limbo dell’Europa sarebbe durato altre due settimane, fino al ballottaggio del 6 maggio, era scontato: nessun candidato alle presidenziali francesi poteva farcela al primo turno. Ma dalle urne esce una partita particolarmente incerta: vantaggio a Francois Hollande, candidato socialista, che esce in testa dal primo turno col 28,6% delle preferenze; ma il presidente uscente Nicolas Sarkozy è lì a ridosso, a meno d’un punto, con il 27,8%. E la destra, con l’exploit di Marine Le Pen, che supera il 18%, mette insieme quasi il 46% dei voti, più della sinistra, dove Jean-Luc Melenchon resta al di sotto delle attese suscitate dalla sua campagna (11,1%). L’ago della bilancia appare il centro che sostiene Francois Bayrou: 9,1% di suffragi e la possibilità d’orientare il risultato finale. Quanto ai Verdi, che con Eva Joly ottengono il 2,3%, hanno già scelto Hollande.

Certo, la somma dei voti degli schieramenti non è l’unico criterio valido per valutare le possibilità dell’uno o dell’altro degli ormai due contendenti. Perché, ad esempio, non è affatto detto che i voti ‘lepennisti’ vadano tutti a Sarkozy; ed è molto probabile che i sostenitori di Bayrou si dividano tra Sarkozy e Hollande, anche se il loro ‘campione’ dovesse fare una scelta di campo. Un dato, però, emerge con chiarezza: i francesi hanno sconfitto l’astensionismo, perché l’affluenza alle urne supera l’80%.

Contro Sarkozy, c’è la crisi che finora, in Europa, è stata moloch implacabile coi governi al potere: tutti bocciati, indipendentemente dal loro orientamento, o alle urne o senza neppure arrivare al voto –è successo in Italia e in Grecia-. E c’è pure la statistica: Sarkò è il primo presidente francese in carica a non uscire in testa dal primo turno. Anche il centrista Valerie Giscard d’Estaing, nel 1981, quando venne poi battuto da François Mitterrand, era davanti prima del ballottaggio.

Contro Hollande, c’è la tradizione di una sinistra abituata (in Francia, come altrove) a farsi spesso male da sola con le sue divisioni. I sondaggi, per ora, danno Hollande vincitore al ballottaggio e con un margine piuttosto netto –l’Ipsos gli attribuisce il 54% dei suffragi-. Ma due settimane d’ulteriore campagna possono ancora incidere, specie perché gli indecisi sfiorano un quinto dell’elettorato: il 18%, un serbatoio che può cambiare l’esito della corsa.

Hollande s’aspetta che Sarkozy “faccia leva sulla paura” per mobilitare l’elettorato di destra: paura della crisi, ma anche della violenza e dello straniero. Però, intorno alla Francia, c’è un’Europa, quella della Merkel e di Rajoy, di Cameron e di Monti, che teme, a sua volta, che Hollande faccia saltare gli equilibri nell’Unione e ponga una sorta di alternativa tra rigore e crescita, invece dell’approccio in successione –prima il rigore, poi la crescita- che è stata la linea Merkel-Sarkozy (salvo che alla seconda fase non si è ancora passati). Infatti, c’è chi, anche in Italia, vede nel successo di Hollande un segnale di stop all’Europa delle banche e della finanza. E il candidato socialista dice che con lui “si volta pagina”: in Francia e in Europa.

Sarà forse vero, se il coraggio, una dote che il funzionario di partito Hollande non ha mai mostrato di possedere in grandi quantità, dovesse prevalere sulla prudenza e sulla tendenza al compromesso. C’è l’impressione che la pagina dell’Europa sia, per il momento, un foglio pieno di scarabocchi, dove, accanto alle colonne del rigore, della crescita e del ‘cantiere istituzionale’ per accelerare l’integrazione, ve n’è una quarta: quella della protesta indistinta di chi non tira più avanti e dell’opposizione a 360 gradi, che accomuna nel no xenofobi ed euro-scettici e che talora mescola, come accade in Olanda, i temi dell’estrema destra qualunquista e 'sociale' a quelli della sinistra più radicale e antagonista.

domenica 22 aprile 2012

Olanda: gli xenofobi dettano la crisi contro l'Europa

Scritto per il blog de Il fatto Quotidiano il 22/04/2012

La sinistra europea, che la crisi economica ha ridotto ai minimi termini – governa in una manciata di Paesi appena, nell’Ue – spera dalla Francia per un segnale di riscossa. Ma, intanto, nel cuore dell’Unione, la destra xenofoba ed euro-scettica ha il potere di fare cadere un governo non sui temi dell’immigrazione, ma su quelli del rigore: dopo il ‘dagli all’Islam’, è l’ora del ‘dagli all’euro’. Recessione e austerity fanno un’altra vittima, si confermano un moloch mangia governi.

L’Olanda, unico Paese del nucleo storico dell’integrazione europea ad avere un governo dipendente dall’appoggio esterno dei qualunquisti e populisti dell’estrema destra del Partito della Libertà -toh!- di Geert Wilders, si avvia a elezioni politiche anticipate, dopo il fallimento dei negoziati per ridurre il deficit pubblico, in linea con quanto previsto dal Patto di Bilancio dell’Ue. La coalizione di centro-destra, liberali e cattolici, guidata dal premier Mark Rutte, un liberale, non ha trovato l’intesa con gli alleati del Pvv, che le garantiscono con l’indispensabile appoggio esterno una risicatissima maggioranza.

“Le elezioni sono uno sbocco scontato”, dice Rutte: da 7 settimane si discute su come e dove trovare i miliardi di euro da risparmiare –mica tanti in assoluto, tra i sei e i 16-. Il deficit di bilancio olandese è stato del 5,1% nel 2010 ed è sceso al 4,7% nel 2011: 38 miliardi di euro, da ridurre ancora per rispettare gli impegni europei, con un tetto al 3% e l’obiettivo del pareggio. E’ stato proprio Wilders a decretare il fallimento dei negoziati lasciando il tavolo delle trattative quando l’accordo –dice Rutte- era quasi fatto: “Il Pvv ‘sé tirato indietro all’ultimo momento. E ora, sollecitando l’organizzazione “al più presto” di consultazioni anticipate, gli xenofobi puntano a sfruttare, oltre che le paure da immigrazione degli olandesi, che hanno decretato il loro successo nel voto del febbraio 2010, anche l’esasperazione da rigore: vogliono, cioè, coagulare in un certo senso i suffragi della destra xenofoba e del disagio sociale. Per i laburisti, il maggiore partito d’opposizione, si andrà alle urne in autunno, tra settembre e ottobre.

Eppure, le misure di rigore olandesi appaiono modeste, se confrontate con le manovre ‘lacrime e sangue’ attuate in Grecia, ma pure in Italia, Spagna, Portogallo e altrove: un ritocco dell’Iva, il congelamento dei salari pubblici e tagli contenuti per la sanità e la cooperazione allo sviluppo. Ma Wilders, populisticamente, si presenta come il difensore delle pensioni e dell’occupazione: "Non lasceremo scorrere, a causa di Bruxelles, il sangue dei nostri pensionati". Certo, l'Olanda rischia ora di vedere declassato il suo debito dalle agenzie di rating, che già danno segnali di nervosismo.

Ma questo sarebbe un altro regalo a Wilders e al suo partito. Il leader xenofobo, noto per il suo film Fitna, atto di accusa contro l’Islam , e per avere paragonato il Corano al Mein Kampf di Adolf Hitler, non ha certo paura di suscitare critiche e proteste: gestisce un sito razzista contro gli immigrati provenienti dai Paesi dell'Est europeo; e vuole un referendum per l'uscita dall'euro e il ritorno al fiorino. Davvero gli olandesi lo manderanno al potere?, davvero questa è Europa?

sabato 21 aprile 2012

Francia: elezioni, la crisi è un moloch che divora i governi

Scritto per AffarInternazionali.it e pubblicato pure su EurActiv.it il 20/04/2012

L’ultimo miglio della campagna elettorale pare in discesa per François Hollande, candidato socialista, favorito nei sondaggi nelle presidenziali francesi (primo turno, domenica 22 aprile; ballottaggio, domenica 6 maggio). Elisabeth Guigou, ministro degli affari europei, della giustizia, degli affari sociali, quand’era presidente François Mitterrand e poi nei ‘governi della coabitazione’ di Lionel Jospin, non mostra dubbi: Hollande vincerà perché la crisi affossa alle urne chi è al potere; e Nicolas Sarkozy perderà perché le cose in Francia si sono degradate indipendentemente dalla crisi. La Guigou, a Roma, tasta il polso al governo e misura il sostegno della sinistra: una volta eletto –dice, Hollande farà la prima visita ad Angela Merkel, “perché il tandem franco-tedesco è importante e perché ci sono cose che vanno chiarite”. Ma il rapporto con la Germania non sarà esclusivo e sarà piuttosto ispirato alla relazione tra Mitterrand e il cancelliere Kohl, al desiderio di orientare le scelte dei partner senza imporsi loro. “E l’intesa franco-italiana sarà forte, in Europa come pure nel Mediterraneo”.

L’Unione europea vive la vigilia delle presidenziali in Francia in una sorta di limbo istituzionale. Fatto il Patto di Bilancio, i cantieri in corso sono stati provvisoriamente chiusi. Ma qualcosa si prepara a Bruxelles (e potrebbe essere qualcosa di grosso), per il dopo 6 maggio. La cancelliera tedesca, profittando dell’eclissi dell’ ‘amichetto’ suo francese, e fors’anche per attenuare l’immagine da strangolatrice delle economie più dissestate, s’è portata avanti con proposte sorprendenti d’avanzamento istituzionale dell’integrazione, come l’elezione a suffragio universale del presidente della Commissione europea. E lo stesso Sarkozy aveva già messo in tavola le sue idee di sovranità condivisa tra poteri legislativi Ue e nazionali, mentre i federalisti italiani e tedeschi hanno lanciato un appello per l’Unione politica che è stato sottoscritto pure da Jacques Delors, l’artefice dell’ultimo grande balzo in avanti istituzionale dell’Unione tra gli Anni Ottanta e Novanta.

In Italia, il Governo è ancora troppo impegnato a evitare il naufragio del Paese per concentrarsi sul rilancio dell’Europa, ma Mario Monti ha già dimostrato, con la lettera sul completamento del mercato unico, di sapere coagulare, intorno alle sue convinzioni liberiste e mercantiliste, molti leader, anche fra i meno inclini all’integrazione come il premier britannico David Cameron. Non è la cosa che ha meglio impressionato Hollande. Ancora la Guigou: “Sul piano europeo, Monti ha fatto proposte precise che condividiamo sui project bonds e sulla tassa sulle transazioni finanziarie, mentre la lettera per il completamento del mercato interno era interessante, ma discutibile per l’impostazione troppo liberista senza riferimenti all’armonizzazione fiscale e agli aspetti sociali … Questo, però, non vuol dire che la Francia di Hollande sarebbe contro l’approfondimento del mercato unico”.

Certo, l’impressione è che i Grandi dell’Unione preferiscano avere a che fare, dopo il 6 maggio, con chi già conoscono bene, Sarkozy, piuttosto che con l’oggetto relativamente misterioso Hollande: con il primo, il discorso potrebbe ripartire da dove era arrivato al Vertice europeo del 1.o marzo; con il secondo, si rischia un ritorno alla casella di partenza stile gioco dell’oca, perché il socialista vuole rinegoziare il Patto di Bilancio. “Hollande –dice la Guigou- affronta il problema europeo dal punto di vista della crescita e ha avuto il merito di metterlo al centro della campagna elettorale … Se non c’è crescita, il Patto di Bilancio non sarà rispettato, non potrà mai essere applicato”.

A denunciare un complotto ‘anti-Hollande’ dei leader europei, era stato, il mese scorso, il settimanale tedesco Der Spiegel: i capi di Stato o di governo conservatori dei Paesi Ue avrebbero convenuto di non ricevere, durante la campagna elettorale, il candidato socialista. Imbarazzati dalle polemiche suscitate dall’ipotesi dell’esistenza di un fronte europeo per le elezioni presidenziali in Francia, i leader chiamati in causa avevano tutti smentito di essersi coalizzati, seppur tacitamente, per boicottare colui che potrebbe divenire il 6 maggio il loro interlocutore nei Consigli europei. E le fonti di Palazzo Chigi avevano bollato come “una fantasia totale” l’articolo tedesco.

Di fatto, però, Hollande non l’ha ricevuto nessuno. E nessuno dei presunti ‘carbonari’ ha negato le proprie affinità col presidente francese in esercizio, a caccia di un rinnovo del mandato. Il britannico Cameron ha augurato “buona fortuna” all’inquilino dell’Eliseo, già dimentico dello screzio al Vertice europeo del 30 gennaio, quando i due s’erano incrociati a riunione conclusa e il francese non aveva stretto la mano tesagli dall’inglese. Cameron ha pure spiegato che “non è consuetudine vedere i candidati durante la campagna” (ma il suo predecessore Tony Blair, un laburista, per quanto anomalo, ricevette Sarkozy prima delle elezioni del 2007). I portavoce della Merkel, che ha pubblicamente appoggiato Sarkozy e s’è rifiutata d’incontrare Hollande, hanno ricordato che il candidato socialista era stato in Germania nel 2011 ed aveva dato il proprio sostegno all’opposizione social-democratica, auspicando “un nuovo governo” dopo il voto tedesco del 2013: insomma, occhio per occhio, dente per dente. Quanto al capo del governo spagnolo Mariano Rajoy, una sua dichiarazione è stata d’un candore disarmante: “Tutti sanno chi io voglia che vinca le elezioni in Francia, perché io e lui militiamo nello stesso partito”, quel Partito popolare europeo dove, con Sarkozy e Rajoy, c’è pure la Merkel. Monti no, anche perché lui, finora, in un partito non ci sta.

A scandalizzare, o almeno a preoccupare, i Grandi europei, è proprio l’intenzione manifesta di Hollande di rinegoziare, se eletto, il Patto di Bilancio appena concluso e in corso di ratifica, per integrarlo con misure che favoriscano la crescita: il Patto è considerato una pietra angolare del salvataggio della zona euro e ridiscuterne potrebbe equivalere a riaprire il vaso di Pandora. “Ma come – debbono essersi detti la Merkel e Monti-, abbiamo fatto tanta fatica per arrivarci e quello vuole subito smontarcelo?”. Se la molla fosse solo questa, però, Rajoy, che ha già detto che quel Patto la sua Spagna non potrà rispettarlo, e Cameron, che se n’è addirittura tenuto fuori, non sarebbero della ‘combine’ anti-Hollande. Negata, del resto, e non poteva essere diversamente, dallo stesso Sarkozy: “Mai parlato del mio avversario con i leader europei”, il complotto non esiste.

C’è pure il fattore continuità, per cui –come ha spiegato all’Afp il ricercatore britannico Maurice Fraser, Chatam House- “il presidente in carica beneficia sempre, nell’opinione generale, di un vantaggio di credibilità, perché ha dalla sua l’esperienza” e, forse, soprattutto il fatto di essere ormai noto ai partner: “Meglio il diavolo che già conosci”, recita un detto anglosassone. Un fattore, questo, che può giustificare un’inclinazione ‘pro Sarkozy’ dell’Amministrazione americana di Barack Obama, che in quanto democratico dovrebbe non essere ostile a Hollande. Il candidato socialista, dal canto suo, fa spallucce: il presidente lo scelgono i cittadini francesi, mica i leader stranieri; e, una volta che un presidente è eletto, i suoi nuovi ‘pari’ s’affrettano a mandare messaggi di congratulazioni e a organizzare la collaborazione. Come testimonia, sempre in una dichiarazione all’Afp, il ricercatore tedesco Hentik Uterwedde, dell’Istituto di Ludwigsburg: “L’influenza della Merkel sulla scelta dei francesi è vicina a zero”: dopo il voto, la Merkel e Hollande, se sarà lui in vincitore, “si affretteranno a collaborare”.

Da questo punto di vista, conta di più, rispetto alle dichiarazioni di voto di Angela e Mario, David e Mariano, quella di Jacques, soprattutto se si tratta dell'ex presidente francese Chirac: lui e la sua famiglia voteranno Hollande, afferma il quotidiano Le Parisien. "Voterò Hollande", avrebbe detto e ripetuto Chirac, davanti alle telecamere nella Correze, il dipartimento di cui è originario, nel centro della Francia. Claude, la figlia, avrebbe persino pranzato con la giornalista Valerie Trierweiler, la compagna del candidato socialista. E diversi collaboratori dell’ex presidente erano al comizio di Hollande domenica a Vincennes. Del clan Chirac, solo la moglie, Bernadette, continuerebbe a preferire Sarkozy.

Se la freddezza verso Hollande di popolari e conservatori non può stupire, ci si può piuttosto interrogare sul sostegno relativamente tiepido dei socialisti europei. Massimo D’Alema, che a metà marzo a Parigi partecipava a un meeting pro Hollande, ebbe un moto di nevosismo, quando un gruppo di deputati italiani del Pd gli chiese di non sostenere Hollande, la cui storia di funzionario di partito senza carisma è difficilmente cancellabile dalla memoria, ma piuttosto il centrista François Bayrou: “E una scelta che non tocca ai democratici italiani”, aveva ribattuto.

Perché Hollande appaia “un candidato senza sapore”, lo spiega Olivier Passeri, nel lead del suo articolo sull’ultimo numero della newsletter Gazebos: “Il campione della ‘sinistra morbida’, secondo Martine Aubry, che ironia della sorte potrebbe essere il suo primo ministro –dopo essere stata sua rivale nelle primarie, ndr-, ha molto da fare per compattare tutte le sinistre che si sono espresse … nella campagna elettorale. La “sinistra dura” appunto della Aubry, quella deglobalizzatrice di Arnaud Montebourg ma sopratutto quella rivoluzionaria e perentoria di Jean-Luc Mélenchon. Davanti a questo grattacapo Hollande ha scelto: essere il più vago possibile e promettere anche quando sa che il principio di realtà lo raggiungerà subito dopo la corsa per l’Eliseo. A questo gioco, le contraddizioni diventano numerose”. E gli entusiasmi s’appannano.

Ma la Guigou passa la spugna sulle percezioni polemiche e parla di “solidarietà totale della sinistra europea” ad Hollande, anche perché c’è l’attesa e la speranza che una vittoria dei socialisti in Francia apra la via a una stagione di successi della sinistra in Europa nelle elezioni del 2012, tra l’altro in Italia e in Germania. Sarà un Sarà un funzionario di partito senza carisma a rovesciare gli equilibri d’un’Europa “a destra tutta”? I sondaggi dicono di sì; gli elettori lo diranno il 6 maggio. Ma il premier di Sarkozy François Fillon è già certo del verdetto come la Guigou: il presidente è spacciato, dice in un incauto ‘fuori onda’, perché la crisi è un moloch che reclama il sacrificio dei governi.

Francia: elezioni, Guigou, Hollande se eletto subito da Merkel

Scritto per EurActiv.it il 19/04/2012

Elisabeth Guigou, ministro francese della giustizia e poi del lavoro nei governi socialisti di Lionel Jospin dal 1997 al 2002, attualmente deputata socialista all’Assemblea nazionale, è in Italia per una serie di contatti elettorali, nell’imminenza del primo turno - domenica 22 - delle presidenziali francesi: mercoledì sera, ha visto i francesi di Roma, che, domenica, potranno votare in ambasciata, presenti numerosi esponenti della sinistra italiana; giovedì, ha partecipato ad una conferenza sul futuro dell’Europa con Massimo D’Alema –s’è pure affacciato Pier Luigi Bersani-; e poi ha avuto colloqui con il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero e la vice-presidente del Senato Emma Bonino.

“Dalla sinistra europea, in questa campagna abbiamo avuto una solidarietà totale”, dice la Guigou, ricordando, in particolare, gli appuntamenti di metà marzo a Parigi, presenti alti esponenti di tutti i partiti socialisti e progressisti europei. C’è l’attesa e la speranza che una vittoria in Francia di François Hollande, candidato socialista, sul presidente uscente Nicolas Sarkozy apra la via a una stagione di successi della sinistra in Europa nelle elezioni del 2013, fra l’altro in Italia e in Germania. E la Guigou osserva di avere raccolto segnali di attesa di un cambiamento anche in ambienti di centro-destra.

Se Hollande vince, sarà un successo suo o una sconfitta di Sarkozy, travolto dalla crisi come tutti i governi andati alle urne in Europa negli ultimi tempi? “La crisi pesa molto e la situazione è assai difficile per tutti i governi. Ma le difficoltà francesi sono pure specifiche: l’andamento economico dello Stato francese è peggiorato negli ultimi dieci anni”, cioè a partire dalla fine della coabitazione tra la presidenza di centro-destra di Jacques Chirac e i governi di Jospin; "e poi c’è stata una degradazione molto sensibile dopo lo scoppio della crisi nel 2008".

La Guigou, già stretta collaboratrice di Jacques Delors e del presidente François Mitterrand, conosce bene gli affari europei, di cui fu pure ministro all’inizio degli Anni Novanta. Qual è la posizione sull’Europa di Hollande? “Hollande affronta il problema europeo dal punto di vista della crescita e ha avuto il merito di metterlo al centro della campagna elettorale … Se non c’è crescita, il Patto di Bilancio non sarà rispettato, non potrà mai essere applicato”.

E’ qual è il giudizio sulle scelte di Monti in Italia? “Innanzitutto, c’è stato un immenso sollievo in molti Paesi nel vedere Berlusconi uscire di scena. Monti, poi, è riuscito a ristabilire la fiducia e beneficia del sostegno di tutti i maggiori partiti”, anche se l’elogio più schietto e le espressioni d’ maggiore ammirazione della Guigou vanno al presidente Napolitano. “Spero che Monti e il suo governo abbiano successo, anche se ci sono difficoltà da superare e se ci sono proteste sociali. Monti è capace di ascoltare e lui e Hollande sapranno agire insieme per ritrovare la crescita. Sul piano europeo, Monti ha fatto proposte precise che condividiamo sui project bonds e sulla tassa sulle transazioni finanziarie, mentre la lettera per il completamento del mercato interno era interessante, ma discutibile per l’impostazione troppo liberista senza riferimenti all’armonizzazione fiscale e agli aspetti sociali … Questo, però, non vuol dire che la Francia di Hollande sarebbe contro l’approfondimento del mercato unico”.

Se sarà eletto, quale sarà il primo leader europeo che Hollande incontrerà? “Penso che la prima visita sarà ad Angela Merkel, perché il tandem franco-tedesco è importante e perché ci sono cose che vanno chiarite. Ma il rapporto con la Germania non sarà esclusivo e sarà piuttosto ispirato alla relazione tra il presidente Mitterrand e il cancelliere Kohl e al desiderio di orientare le scelte dei partner senza imporsi loro … E l’intesa franco-italiana sarà forte, in Europa come pure nel Mediterraneo”.

giovedì 19 aprile 2012

Francia: elezioni, l'Unione in stallo nell'incertezza

Scritto per L'Indro il 19/04/2012

L’Unione europea vive la vigilia delle presidenziali in Francia in una sorta di limbo istituzionale. Fatto il Patto di Bilancio, i cantieri in corso sono stati provvisoriamente chiusi. Ma qualcosa si prepara a Bruxelles (e potrebbe essere qualcosa di grosso), per il dopo 6 maggio, la data del ballottaggio. La cancelliera tedesca Angela Merkel, profittando dell’eclissi elettorale dell’ ‘amichetto’ suo francese, e fors’anche per attenuare l’immagine da strangolatrice delle economie più dissestate, s’è portata avanti con proposte sorprendenti d’avanzamento istituzionale dell’integrazione europea, come l’elezione a suffragio universale del presidente della Commissione europea. In attesa di sapere se dovrà discuterne con Nicolas o con François. E lo stesso Sarkozy aveva già messo in tavola le sue idee di sovranità condivisa tra poteri legislativi Ue e nazionali, mentre i federalisti italiani e tedeschi hanno lanciato un appello per l’Unione politica che è stato sottoscritto pure da Jacques Delors, l’artefice dell’ultimo grande balzo in avanti istituzionale dell’Unione tra gli Anni Ottanta e Novanta. In Italia, il Governo è ancora troppo impegnato a evitare il naufragio del Paese per concentrarsi sul rilancio dell’Europa, ma Mario Monti ha già dimostrato, con la lettera sul completamento del mercato unico, di sapere coagulare, intorno alle sue convinzioni liberiste e mercantiliste, molti leader, anche fra i meno inclini all’integrazione come il premier britannico David Cameron. Certo, l’impressione è che i Grandi dell’Unione preferiscano avere a che fare, dopo il 6 maggio, con chi già conoscono bene, Sarkozy, piuttosto che con l’oggetto relativamente misterioso Hollande: con il primo, il discorso potrebbe ripartire da dove era arrivato al Vertice europeo del 1.o marzo; con il secondo, si rischia un ritorno alla casella di partenza stile gioco dell’oca, perché il socialista vuole rinegoziare il Patto di Bilancio. ... Se la freddezza verso Hollande di popolari e conservatori non può stupire, ci si può piuttosto interrogare sul sostegno relativamente tiepido dei socialisti europei. Massimo D’Alema, che a metà marzo a Parigi partecipava a un meeting pro Hollande, ebbe un moto di nevosismo, quando un gruppo di deputati italiani del Pd gli chiesero di non sostenere Hollande, la cui storia di funzionario di partito senza carisma è difficilmente cancellabile dalla memoria, ma piuttosto il centrista François Bayrou: “E una scelta che non tocca ai democratici italiani”, aveva ribattuto. Perché Hollande appaia “un candidato senza sapore”, lo spiega Olivier Passeri, nel lead del suo articolo sull’ultimo numero della newsletter Gazebos: “Il campione della ‘sinistra morbida’, secondo Martine Aubry, che ironia della sorte potrebbe essere il suo primo ministro –dopo essere stata sua rivale nelle primarie, ndr-, ha molto da fare per compattare tutte le sinistre che si sono espresse … nella campagna elettorale. La “sinistra dura” appunto della Aubry, quella deglobalizzatrice di Arnaud Montebourg ma sopratutto quella rivoluzionaria e perentoria di Jean-Luc Mélenchon. Davanti a questo grattacapo Hollande ha scelto: essere il più vago possibile e promettere anche quando sa che il principio di realtà lo raggiungerà subito dopo la corsa per l’Eliseo. A questo gioco, le contraddizioni diventano numerose”. E gli entusiasmi s’appannano.

mercoledì 18 aprile 2012

Francia: elezioni, Grandi Ue tifano Sarkò, boicottano Hollande

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/04/2012

A denunciare il complotto ‘anti-Hollande’ dei leader europei, era stato, il mese scorso, il settimanale tedesco Der Spiegel: i capi di Stato o di governo conservatori dei Paesi Ue avrebbero convenuto di non ricevere, durante la campagna elettorale, il candidato socialista. Imbarazzati dalle polemiche suscitate dall’ipotesi dell’esistenza di un fronte europeo per le elezioni presidenziali in Francia, i leader chiamati in causa avevano tutti smentito di essersi coalizzati, seppur tacitamente, per boicottare colui che potrebbe divenire il 6 maggio il loro interlocutore nei Consigli europei. E le fonti di Palazzo Chigi avevano bollato come “una fantasia totale” l’articolo tedesco. Di fatto, però, Hollande non l’ha ricevuto nessuno.

Ma nessuno dei presunti ‘carbonari’ ha negato le proprie affinità con il presidente francese in esercizio Nicolas Sarkozy, a caccia di un rinnovo del mandato. Il premier britannico David Cameron ha augurato “buona fortuna” all’inquilino dell’Eliseo, già dimentico dello screzio al Vertice europeo del 30 gennaio, quando i due s’erano incrociati a riunione conclusa e il francese non aveva stretto la mano tesagli dall’inglese. Cameron ha pure spiegato che “non è consuetudine vedere i candidati durante la campagna” (ma il suo predecessore Tony Blair, un laburista, per quanto anomalo, ricevette Sarkozy prima delle elezioni del 2007).

I portavoce della cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha pubblicamente appoggiato Sarkozy e s’è rifiutata d’incontrare Hollande, hanno ricordato che il candidato socialista era stato in Germania nel 2011 ed aveva dato il proprio sostegno all’opposizione social-democratica, auspicando “un nuovo governo” dopo il voto tedesco del 2013: insomma, occhio per occhio, dente per dente. Quanto al capo del governo spagnolo Mariano Rajoy, una sua dichiarazione è stata d’un candore disarmante: “Tutti sanno chi io voglia che vinca le elezioni in Francia, perché militiamo nello stesso partito”, quel Partito popolare europeo dove, con Sarkozy e Rajoy, c’è pure la Merkel. Monti no, anche perché lui, finora, in un partito non ci sta; ma ha già dimostrato, con la sua lettera sul completamento del mercato unico, di sapere andare d’accordo con conservatori e liberali di tutta Europa, in due parole con i liberisti e i mercantilisti.

A scandalizzare, o almeno a preoccupare, i Grandi europei, sarebbe stata l’intenzione manifesta di Hollande di rinegoziare, se eletto, il Patto di Bilancio appena concluso e in corso di ratifica, per integrarlo con misure che favoriscano la crescita: il Patto è considerato una pietra angolare del salvataggio della zona euro e ridiscuterne potrebbe equivalere a riaprire il vaso di Pandora. “Ma come – debbono essersi detti la Merkel e Monti-, abbiamo fatto tanta fatica per arrivarci e quello vuole subito smontarcelo?”. Se la molla fosse solo questa, però, Rajoy, che ha già detto che quel Patto la sua Spagna non potrà rispettarlo, e Cameron, che se n’è addirittura tenuto fuori, non sarebbero della ‘combine’ anti-Hollande. Negata, del resto, e non poteva essere diversamente, dallo stesso Sarkozy: “Mai parlato del mio avversario con i leader europei”, il complotto non esiste.

C’è pure il fattore continuità, per cui –come ha spiegato all’Afp il ricercatore britannico Maurice Fraser, dell’istituto Chatam House- “il presidente in carica beneficia sempre, nell’opinione generale, di un vantaggio di credibilità, perché ha dalla sua l’esperienza” e, forse, soprattutto il fatto di essere ormai noto ai partner: “Meglio il diavolo che già conosci”, recita un detto anglosassone. Un fattore, questo, che può giustificare un’inclinazione ‘pro Sarkozy’ dell’Amministrazione americana di Barack Obama, che in quanto democratico dovrebbe non essere ostile a Hollande. Il candidato socialista, dal canto suo, fa spallucce: il presidente lo scelgono i cittadini francesi, mica i leader stranieri; e, una volta che un presidente è eletto, i suoi nuovi ‘pari’ s’affrettano a mandare messaggi di congratulazioni e a organizzare la collaborazione.

Da questo punto di vista, conta di più, rispetto alle dichiarazioni di voto di Angela e Mario, David e Mariano, quella di Jacques, soprattutto se si tratta dell'ex presidente francese Chirac: lui e la sua famiglia voteranno Hollande, afferma il quotidiano Le Parisien."Voterò Hollande", avrebbe detto e ripetuto Chirac, davanti alle telecamere nella Correze, il dipartimento di cui è originario, nel centro della Francia. Claude, la figlia, avrebbe persino pranzato con la giornalista Valerie Trierweiler, la compagna del candidato socialista. E diversi collaboratori dell’ex presidente erano al comizio di Hollande domenica a Vincennes.Del clan Chirac, solo la moglie, Bernadette, continuerebbe a preferire Sarkozy.

Se la freddezza verso Hollande di popolari e conservatori non può stupire, ci si potrebbe piuttosto interrogare sul sostegno relativamente tiepido dei socialisti europei all’anti-Sarkozy. Come si può osservare che la Merkel, profittando dell’eclissi elettorale dell’ ‘amichetto’ francese, s’è portata avanti con proposte d’avanzamento istituzionale dell’integrazione europea, come l’elezione a suffragio universale del presidente della Commissione europea. In attesa di sapere se dovrà discuterne con Nicolas o con François.

SPIGOLI: MO, l'inviato Ue, un tedesco, sonda l'Italia

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/04/2012 -altra versione su EurActiv.it-

Nel Medio Oriente, l’Italia ha “un ruolo sostanziale e importante”, specie perché “conosce il Mediterraneo”. Parola dell’ambasciatore tedesco Andreas Reinicke, il nuovo rappresentante speciale dell’Ue nel processo di pace tra israeliani e palestinesi. Ieri, Reinicke era a Roma: un primo incontro con il ministro degli esteri Giulio Terzi e consultazioni a Palazzo Chigi, dopo la ‘visita di Pasqua’ del premier Mario Monti in Libano, Israele, nei Territori e in Egitto. Nessun giudizio su un maggior bilanciamento della politica estera italiana rispetto alla fase decisamente pro-israeliana del Governo Berlusconi.

Che nel conflitto mediorientale, non si muoverà foglia fino all’autunno inoltrato, perché vi sono “altri temi” su un’agenda già complicatissima, la Siria, l’Iran, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, tutti sono consci. Ma “bisogna preparare il terreno” perché, quando i negoziati possano davvero ripartire, le parti siano pronte e ben disposte. La visita dell’ambasciatore, che, fino all’inizio dell’anno, rappresentava la Germania in Siria, coincide con la consegna, da parte ai palestinesi agli israeliani, di un documento che è stato oggetto di un ‘pre-negoziato’ con la mediazione del Quartetto, il team diplomatico che segue il processo di pace, Onu, Ue, Usa e Russia. Il gesto potrebbe –è l’auspicio- “contribuire a migliorare il clima fra le parti”. Di più, al momento, non c’è da sperare.

martedì 17 aprile 2012

Usa 2012: il no alla Buffet Rule un handicap per Romney

Scritto per L'Indro il 17/04/2012

Uccidendo la Buffet Rule, si sono forse suicidati: i senatori repubblicani che hanno bloccato la legge ispirata dal finanziere filantropo Warren Buffet, che vorrebbe introdurre elementi d’equità nel sistema fiscale Usa, potrebbero avere compromesso in modo definitivo la possibilità che un repubblicano conquisti quest’anno la Casa Bianca. Il presidente democratico Barack Obama ha buon gioco ad accusarli di proteggere i paperoni d’America a spese del ceto medio.

La Buffet Rule prende il nome da un’aforisma del finanziere, che segnalò come la sua segretaria pagasse percentualmente più tasse di lui, perché, negli Usa, i redditi da capitale sono tassati molto meno dei redditi da lavoro. Una norma di cui beneficia pure Mitt Romney, che sarà il candidato repubblicano alla presidenza nelle elezioni del 6 novembre.

Ma pur se il voto del certo medio risulterà decisivo, resta però escluso che un povero arrivi alla Casa Bianca. “The best democracy that money can buy”, la miglior democrazia che il denaro può comprare, è il titolo d’un libro inchiesta del 2002 di Greg Palast, giornalista investigativo, sull’America che elesse George W. Bush (pur votando di più Al Gore). In un succoso articolo, il professor James Walston lo adatta ora all’Italia, ma il titolo resta valido anche per Usa 2012, perché, parafrasando il vangelo, “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un povero vada alla Casa Bianca”.

A ogni elezione, si battono i record di soldi raccolti e di spese fatte: nel 2008, per la prima volta i candidati alla Casa Bianca superarono il miliardo di dollari spesi, 730 milioni di dollari il democratico (e vincitore) Barack Obama - gli restò un gruzzoletto di 15 milioni, dopo l’Election Day - e 333 milioni il repubblicano (e sconfitto) John McCain – a lui, restarono in cassa ben 35 milioni di dollari, ma se pure li avesse spesi tutti non avrebbe mai colmato il gap di consensi dal primo nero presidente -. Certo, ci fu pure chi fece tutta la campagna con meno di 200 mila dollari, come la candidata verde Cynthia McKinney, ma non è un caso se nessuno l’ha mai sentita nominare.

Quest’anno, si è ben partiti per battere quel record, grazie pure a una modifica delle regole che facilita l’intervento dei grandi donatori. I dati che citiamo vengono dal sito della Commissione elettorale federale, attraverso le rielaborazioni di un sito specializzato, opensecrets.org. Obama, che finora ha fatto campagna ai minimi termini, perché i repubblicani si sbranavano fra di loro e non c’era bisogno di sprecare risorse ed energie, aveva raccolto, al 29 febbraio, oltre 157 milioni di dollari e ne aveva spesi meno della metà, neppure 75. Al 45%, le sue casse sono riempite da piccoli finanziamenti individuali, con una raccolta via internet capillare: la sua ‘arma letale’ nel 2008 e –forse- pure quest’anno.

Esattamente il contrario di Mitt Romney: il mormone, milionario del suo, di soldi ne ha raccolti 74 milioni, ma ne ha spesi il 90%. E, a lui, i fondi arrivano soprattutto da grandi aziende e gruppi di pressione: soltanto il 10% viene da piccoli finanziamenti individuali. Dopo Romney, il repubblicano più ricco è a sorpresa il libertario Ron Paul, 34 milioni raccolti, praticamente tutti spesi, quasi al 50% frutto di piccoli versamenti. E poi c’è Newt Gingrich, quasi 21 milioni raccolti, quasi tutti spesi, fidando come Paul sui piccoli contributi. A fine febbraio, Rick Santorum, l’antagonista più temibile di Romney,fattosi da parte la scorsa settimana, era il più povero dei repubblicani in lizza: aveva persino raccolto meno fondi di due aspiranti alla nomination ritiratisi alle prime battute, Herman Cain, milionario molestatore, e Rick Perry, governatore del Texas dalla gaffe facile. E, come Paul e Gingrich, Santorum doveva soprattutto affidarsi alle donazioni individuali.

Adesso che la corsa è di fatto a due –Gingrich e Paul restano in lizza, ma nessuno ci scommette un dollaro-, i contributi possono meglio canalizzarsi, anche se, probabilmente, la campagna vivrà una fase di stanca, fino alle conventions repubblicana (Tampa, fine agosto) e democratica (Charlotte, inizio settembre). Di lì, i 60 giorni più intensi e più dispendiosi. Per Romney, si mobiliteranno la finanza e l’impresa. Per Obama, la gente comune e la cultura liberal: s’è dato da fare De Niro a New York; si sta dando da fare Clooney in California, con una festa da 150 ‘invitati’ tutti disposti a pagare 40mila dollari per cenare con il presidente (obiettivo, versare 6 milioni di dollari al fondo Victory Obama).

domenica 15 aprile 2012

Morosini: stop ipocrita, demagogia del consenso e dell'emozione

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano del 15/04/2012

Io non sono d’accordo: non penso sia stato giusto sospendere tutti i campionati per la morte in campo di un giocatore, tragica, ma naturale; non penso sia stata la risposta giusta a quanto avvenuto, né il modo giusto di mostrare rispetto e condividere il dolore. E io non sono d’accordo, nonostante il conformismo omologato di tutti gli apprezzamenti pubblici e mediatici per la decisione della Federazione, suggeriti i primi dalla facile demagogia del consenso funereo e dettata la seconda dal timore delle critiche che un atteggiamento diverso avrebbe comportato.

Intendiamoci e non giochiamo su facili equivoci: il decesso improvviso di un giovane di 25 anni è una tragedia umana; e lo sarebbe parimenti stata se fosse avvenuto su un banco d’Università o a un tavolo di lavoro o durante una gita con gli amici o al tavolino di un bar; ed è una tragedia che colpisce di più perché avviene sotto gli occhi delle telecamere –a proposito di ipocrisia, vogliamo parlare delle immagini di Morosini che s’accascia in campo riproposte all’infinito e ‘moviolizzate’ sugli schermi televisivi?-.

Ma è una morte accidentale, come ne sono sempre avvenute e, purtroppo, sempre avverranno, anche se gli esami medici saranno sempre più accurati; anche se la prevenzione in campo sarà migliorata; anche se l’arrivo dei soccorsi sarà più tempestivo. E’ una tragedia umana, non una tragedia da attribuire al ‘sistema’: non è la morte di un agente, o di un tifoso, vittima di scontri tra opposte fazioni prima, durante o dopo un match; non è la morte di un giocatore vittima di un’aggressione in campo (o fuori dal campo)… Il ‘sistema’ ha tante enormi responsabilità, ma non Morosini, come non Curi molti anni or sono e i tanti purtroppo venuti dopo di lui, in Italia e ovunque: e chi dice ‘mai più’ nega la friabilità della vita.

Giusto, giustissimo, sospendere il match in corso. Ma bloccare tutte le attività, senza che questo abbia alcun rilievo preventivo rispetto a ulteriori incidenti analoghi, non mi pare giusto: mi pare, piuttosto, un lavarsi la coscienza dall’accusa, forse emotiva e infondata, e magari pure dal dubbio di non avere fatto abbastanza per impedire la tragedia. Se muore d’infarto – non un incidente sul lavoro, un infarto - un impiegato alla scrivania in ufficio –e succede-, se muore un operaio al tornio in fabbrica –e succede-, se muore un giornalista al computer –e succede-, nessuno si aspetta che tutte le attività del loro settore si fermino.

Una volta si diceva che ‘the show must go on’; oggi, sembra blasfemo dirllo. Io sarò blasfemo, ma lo penso e lo dico: non conoscevo Morosini, anzi –pur essendo tifoso e appassionato di calcio- non avevo alcuna conoscenza del suo percorso sportivo e personale, ma credo che scendere in campo con impegno e con lealtà, dopo avere osservato un minuto di silenzio e portando il lutto al braccio, sarebbe stata da parte del ‘sistema’ risposta migliore di una domenica di stadi vuoti e di dolore ufficiale.

Se Morosini era atleta corretto e onesto, come non dubito che fosse, una partita venduta in meno sarebbe stata, da parte di tutti i suoi colleghi, risposta mille volte più adeguata di cento partite non giocate.

sabato 14 aprile 2012

Usa 2012: chi sono gli sponsor di Obama e Romney

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/04/2012

George W. Bush, che aveva la cultura del cow-boy, chiamava i suoi finanziatori ‘pioneers’, pionieri, e ‘rangers’, a seconda di quanti soldi gli avevano offerto; e li premiava, una volta conquistata la presidenza, con un’ambasciata di loro gradimento: arrivarono così in Italia Mel Sembler dalla Florida e Richard Spogli dalla California, uomini d’affare di mestiere, diplomatici a tempo perso, ambasciatori degli Stati Uniti in Italia per pratica simoniaca. Negli Usa, il finanziamento dei candidati da parte di lobbies e corporations è prassi diffusa e accettata (quest’anno, addirittura, facilitata rispetto al passato); e anche la ricompensa – posti nell’Amministrazione o, appunto, ambasciate – non fa scandalo.

Anche perché tutto, o almeno molto, è dichiarato, pubblico. Per Usa 2012, fra i dieci maggiori sostenitori finanziari di Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, milionario del suo e ormai certo dell’investitura a candidato repubblicano alla Casa Bianca, vi sono la Goldman Sachs al primo posto –e dire che il presidente democratico Barack Obama la salvò con mezza Wall Street dal fallimento, proprio all’inizio del suo mandato- e poi il gruppo Crédit Suisse, Morgan Stanley, Hig Capital, Barclays, Kirkland & Ellis, Bank of America, Price WaterHouse Coopers, Emc Corp. Insomma, il gotha della finanza a stelle e strisce, che fa una scelta di campo precisa.
Dalla parte di Obama, invece, l’industria della comunicazione, dello spettacolo e della cultura: nella hit parade Microsoft, Comcast, Google, Time Warner e le Università di California, Harvard, Stanford. Ma presidente e sfidante sono diversi soprattutto per la natura dei finanziamenti: il presidente riempie le casse al 50% con i contributi dei cittadini e per il resto con quelli dei grandi donatori; lo sfidante s’affida al 90% all’impresa e alla finanza.

Una distinzione netta e destinata a confermarsi nei prossimi mesi, anche se Romney cercherà di rendere più capillare la rete di raccolta e Obama giocherà le sue carte –ad esempio- nei settori dell’energia e della ‘green economy’, finora poco attivi. Capita pure, quando le cose sono molto incerte, o - al contrario - prendono un indirizzo ben preciso, che i grandi finanziatori del candidato votato alla sconfitta riequilibrino un po’ la loro posizione, per stornare da sé l’ostilità vendicativa della Casa Bianca. Così, la Goldman Sachs, che sta al primo posto fra i finanziatori di Romney, era al 19° fra quelli di Obama qualche settimana or sono.

Posizioni che, naturalmente, variano a ogni rilevamento della Commissione elettorale federale, cui, a fine mese, i candidati devono sempre fare rapporto su quanto hanno ricevuto e da chi e su quanto hanno speso e come. I Luzi e i Belsito d’America se lo sognano il lassismo di rendicontazione all’italiana.

Anche i super-biscazzieri scendono in campo: a sostenere le aspirazioni presidenziali di Newt Gingrich, è stato soprattutto Sheldon Adelson, uno degli uomini più ricchi d’America, proprietario di casino a Las vegas e altrove e da molto tempo amico e sostenitore del politico georgiano. Milioni buttati, come una puntata alla roulette.

giovedì 12 aprile 2012

Usa 2012: il prezzo d'un presidente, i conti di Obama e Romney

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/04/2012

Più che l’amore di un papà potè il denaro. Rick Santorum ha lasciato la corsa alla nomination repubblicana dopo una riunione di famiglia intorno al tavolo della cucina: ufficialmente per stare vicino a Bella, la figlia più piccola, tre anni e una brutta malattia; ma di fatto perché aveva quasi finito i soldi (15 milioni e mezzo di dollari incassati a fine febbraio, 14 milioni già spesi) e non poteva più andare lontano, anzi era quasi costretto a fare campagna solo in Pennsylvania, il suo Stato.

“The best democracy that money can buy”, la miglior democrazia che il denaro può comprare, è il titolo d’un libro inchiesta del 2002 di Greg Palast, giornalista investigativo, sull’America che elesse George W. Bush (pur votando di più Al Gore). In un succoso articolo, il professor James Walston lo adatta ora all’Italia, ma il titolo resta valido anche per Usa 2012, perché, parafrasando il vangelo, “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un povero vada alla Casa Bianca”.

A ogni elezione, si battono i record di soldi raccolti e di spese fatte: nel 2008, per la prima volta i candidati alla Casa Bianca superarono il miliardo di dollari spesi, 730 milioni di dollari il democratico (e vincitore) Barack Obama - gli restò un gruzzoletto di 15 milioni, dopo l’Election Day - e 333 milioni il repubblicano (e sconfitto) John McCain – a lui, restarono in cassa ben 35 milioni di dollari, ma se pure li avesse spesi tutti non avrebbe mai colmato il gap di consensi dal primo nero presidente -. Certo, ci fu pure chi fece tutta la campagna con meno di 200 mila dollari, come la candidata verde Cynthia McKinney, ma non è un caso se nessuno l’ha mai sentita nominare.

Quest’anno, si è ben partiti per battere quel record, grazie pure a una modifica delle regole che facilita l’intervento dei grandi donatori. I dati che citiamo vengono dal sito della Commissione elettorale federale, attraverso le rielaborazioni di un sito specializzato, opensecrets.org. Obama, che finora ha fatto campagna ai minimi termini, perché i repubblicani si sbranavano fra di loro e non c’era bisogno di sprecare risorse ed energie, aveva raccolto, al 29 febbraio, oltre 157 milioni di dollari e ne aveva spesi meno della metà, neppure 75. Al 45%, le sue casse sono riempite da piccoli finanziamenti individuali, con una raccolta via internet capillare: la sua ‘arma letale’ nel 2008 e –forse- pure quest’anno.

Esattamente il contrario di Mitt Romney, che, dopo il ritiro di Santorum, è praticamente certo di essere, il 6 novembre, lo sfidante repubblicano: il mormone, milionario del suo, di soldi ne ha raccolti 74 milioni, ma ne ha spesi il 90%. E, a lui, i fondi arrivano soprattutto da grandi aziende e gruppi di pressione: solo il 10% viene da piccoli finanziamenti individuali. Dopo Romney, il repubblicano più ricco è a sorpresa il libertario Ron Paul, 34 milioni raccolti, praticamente tutti spesi, quasi al 50% frutto di piccoli versamenti. E poi c’è Newt Gingrich, quasi 21 milioni raccolti, quasi tutti spesi, fidando come Paul sui piccoli contributi. A fine febbraio, Santorum era il più povero dei repubblicani in lizza: aveva persino raccolto meno fondi di due aspiranti alla nomination ritiratisi alle prime battute, Herman Cain, milionario molestatore, e Rick Perry, governatore del Texas dalla gaffe facile. E, come Paul e Gingrich, Santorum doveva soprattutto affidarsi alle donazioni individuali.

Adesso che la corsa è di fatto a due –Gingrich e Paul restano in lizza, ma nessuno ci scommette un dollaro-, i contributi possono meglio canalizzarsi, anche se, probabilmente, la campagna vivrà una fase di stanca, fino alle conventions repubblicana (Tampa, fine agosto) e democratica (Charlotte, inizio settembre). Di lì, i 60 giorni più intensi e più dispendiosi. Per Romney, si mobiliteranno la finanza e l’impresa. Per Obama, la gente comune e la cultura liberal: s’è dato da fare De Niro a New York; si sta dando da fare Clooney in California, con una festa da 150 ‘invitati’ tutti disposti a pagare 40mila dollari per cenare con il presidente (obiettivo, versare 6 milioni di dollari al fondo Victory Obama).

mercoledì 11 aprile 2012

Usa 2012: fuori Santorum, è match Romney -Obama

Scritto per L'Indro l'11/04/2012

Sembra la notizia più scontata di questo Mondo, anzi del Nuovo Mondo: Mitt Romney, un uomo d’affari ricco e di successo, un moderato, un mormone, sarà lo sfidante repubblicano del presidente democratico Barack Obama nelle elezioni del 6 novembre negli Stati Uniti. Ma all’epilogo che pareva già scritto s’è giunti dopo cento giorni di primarie frammentate, oltre 30 voti o assemblee in oltre la metà degli Stati dell’Unione e in una mezza dozzina di territori tra Atlantico e Pacifico.

Alla fine, Romney ha vinto; o, almeno, Rick Santorum, il principale avversario, uno che nessuno s’aspettava sarebbe andato così lontano, s’è ritirato. Nel segno dei valori della famiglia, che hanno segnato tutta la sua campagna, Santorum, integralista cattolico, italo-americano, ex senatore della Pennsylvania, s’è fatto da parte quando doveva apparentemente scegliere tra lo stare vicino alla figlia più piccola, gravemente malata, o l’andare in giro per l’Unione a fare campagna.

In realtà, la partita era già decisa. Santorum, il 24 aprile poteva pure vincere le primarie in Pennsylvania , ma avrebbe perso quelle a New York e altrove. E maggio poteva ancora consentirgli successi al Sud e lungo la Cintura della Bibbia, soprattutto in Texas. Ma ai primi di giugno la California, lo Stato più popoloso, avrebbe chiuso i conti a favore di Romney, che dispone già di oltre la metà dei delegati necessari a garantirsi la nomination alla convention di Tampa, a fine agosto.

L’annuncio del ritiro di Santorum è arrivato martedì 11 aprile, un po’ bruscamente: “Questa campagna presidenziale è finita per me”, ha detto l’ex senatore, amico di George W. Bush, parlando a Gettysburg, nella sua Pennsylvania. Ufficialmente, il ritiro ha qualcosa a che vedere con le traversie di salute di Bella, oggi tre anni, cui i medici, alla nascita, avevano pronosticato una morte precoce. Ma più che l’amore d’un papà potè il denaro, perché Santorum era rimasto senza soldi e non ce la faceva più a competere con Romney, che, invece, ha le casse piene (non quanto Obama, ma abbastanza per schiantare i suoi rivali di partito).

Fra i primi a commentare, proprio Romney, che ha finalmente avuto parole di apprezzamento per l’ormai ex antagonista. “E’ stato una voce importante per il partito e per il Paese”, ha detto con un comunicato, consacrato, però, per l’essenziale, a mettere sotto tiro il presidente Obama: “La cosa più importante è lasciarci alle spalle i fallimenti di questi ultimi tre anni e di rimettere l’America sulla strada della prosperità”.

La campagna di Obama ha risposto a giro di mail, prendendo di mira Romney il ricco che paga poche tasse (non che le evada, ma approfitta di tutte le scappatoie della legge): Jim Messina, direttore della campagna del presidente, giudica “non stupefacente che Romney sia finalmente riuscito a logorare i suoi concorrenti sotto una valanga di pubblicità negativa”.

Formalmente, Romney ha ancora dei rivali interni: l’ultra-conservatore Newt Gingrich, che fu speaker della Camera negli Anni Novanta, e il libertario Ron Paul, un ginecologo che fu deputato del Texas al Congresso. Ma i dati di RealClearPolitics parlano chiaro: Romney può già contare su 656 delegati (ne servono 1144 per blindare la nomination), Santorum ne aveva 272 –e non li ha riversati su nessun altro concorrente-, Gingrich 140 e Paul 67. Gingrich e Paul intendono restare in lizza: il primo sollecita i sostenitori di Santorum a schierarsi con lui; mentre Paul si definisce “l’ultima vera risposta conservatrice” al moderato Romney.

Fuochi fatui di primarie ormai consumate. Usa 2012 sarà un testa a testa fra il primo presidente nero, che punta a un secondo mandato, e un moderato per bene e un po’ noioso, ma competente, che non piace all’ultra-destra del suo partito, ma che può sottrarre consensi ai democratici al centro. Certo, la scelta si riduce a essere tra il vero Obama e un suo clone, appena un po’ più moderato, e bianco; e, se puoi portarti a casa l’originale, perché dovresti scegliere l’imitazione?

SPIGOLI: Agcom, un no dall'Ue complica la scelta di Monti

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/04/2012

Quando vuole andare sul sicuro per una nomina, Mario Monti pesca nel serbatoio delle istituzioni europee: lì, ha preso buona parte del suo ‘inner circle’, fra cui le responsabili comunicazione Betti Olivi e Amelia Torres; lì, ha trovato uno dei suoi ministri più efficienti e competenti, Enzo Moavero. E lì avrebbe ancora voluto pescare per sostituire alla presidenza dell’Agcom Corrado Calabrò, in scadenza alla metà di maggio. La guida dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è delicata: l’Agcom ha voce in capitolo su temi come le frequenze tv e la par condicio. E la faccenda potrebbe intrecciarsi con il rinnovo del collegio del Garante per la privacy, con la composizione della nuova Authority dei Trasporti e anche, forse soprattutto, con il rinnovo dei vertici della Rai. Per la presidenza dell’Agcom, sui media s’è parlato di Antonio Catricalà, sottosegretario alla presidenza del Consiglio: segno di quanto il posto conti. E quando fonti di stampa hanno attribuito a Bersani il via libera a un ennesimo professore, Vincenzo Zeno Zencovich (Roma Tre), è subito arrivata la smentita dal Pd. Pensa e ripensa, Monti aveva trovato il profilo giusto in Fabio Colasanti, 65 anni, suo stretto e apprezzato collaboratore alla Commissione europea, poi per anni direttore generale della Società dell’Informazione. Ma Colasanti, prima ancora che la proposta gli giungesse, ha soppesato pro e contro familiari e professionali e ha fatto sapere al premier di non essere disponibile, evitandogli l’imbarazzo d’un rifiuto ex post: il diniego è stata incassato con rammarico. Ma il serbatoio europeo non è mica vuoto: lì, se vuole, Monti può ancora pescare. Un italiano, Roberto Viola, segretario generale dell’Agcom, è, ad esempio, il presidente del Gruppo dei regolatori europei del radiospettro.

2012: cento anni dopo, voglia, o paura?, di Titanic

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 10/04/2012

Sarà che è il centesimo anniversario (e gli anniversari, si sa, solleticano l’emulazione, anche dei disastri). Sarà che non c’è nulla di più universale che il ricordo di qualcosa che nessuno più ha né visto né vissuto – manco una foto: solo illustrazioni di fantasia e ricostruzioni documentarie o cinematografiche -, ma che tutti conoscono. Sarà che tutto va a picco, in questa primavera che di ripresa si parla solo, mentre il Pil va giù come il piombo e gli schettino di turno ci ripropongono dai mari della Terra echi timidi di quella tragedia: la Concordia al Giglio, l’Allegra nell’Oceano Indiano.

Sta di fatto che c’è voglia, o paura?, di Titanic, adesso che gli iceberg non sono più quelli di una volta, causa riscaldamento globale, e che le navi non viaggiano a vista, ma con il radar. Lo dimostrano gli incassi del film di James Cameron che 15 anni or sono fu un successo planetario e che oggi, riconfezionato in 3d, conquista il primato degli incassi nel week-end di Pasqua, esibendo l’ormai improbabile freschezza di Leonardo Di Caprio e Kate Winslet.

E lo testimoniano quei 1.309 passeggeri della Balmoral, la nave da crociera salpata l’8 aprile, a Pasqua, dal porto inglese di Southampton e che ora, dopo una sosta in Irlanda, sta solcando l’Atlantico lungo la rotta del transatlantico ‘inaffondabile’ inabissatosi nel viaggio inaugurale, perenne monito all’umana ‘ubris’. Una carnevalata, questa crociera, con passeggeri in abiti d’epoca. Ma anche un pellegrinaggio,almeno per alcuni discendenti delle vittime di quel naufragio, la notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, 2.223 persone a bordo (oltre 800 i membri dell’equipaggio), 1.517 le vite perdute dopo la collisione con un iceberg. Il viaggio del ricordo ha un tocco dell’antica ‘maledizione’: ritardi in partenza per il mare mosso, mentre quello di allora era un olio mai visto; e pure il contrattempo di un’inversione di rotta per il malore d’un passeggero.

La crociera commemorativa è stata organizzata da Miles Morgan, i biglietti erano tutti venduti da due anni (la voglia di Titanic, dunque, è una costante dell’umanità), a prezzi tra i 3.390 e i 7.265 euro –altro che quello che pagarono allora i disperati della terza classe-. Un viaggio preparato –assicurano gli organizzatori- in modo meticoloso perché sia “il più autentico possibile”: tutto come allora, i piatti del menù dell’epoca e l’orchestrina ispirata a quella che suonò –riferiscono le cronache, o è solo una leggenda- sul ponte fino all’inabissamento …

Tutto come allora, tranne l’impatto con l’iceberg alle 23.40 del 14 aprile: ci sarà un momento di raccoglimento sul luogo esatto della collisione. E ce ne sarà un altro alle 02.20 del 15 aprile, l’ora in cui il Titanic sparì nell’oceano. Poi i ‘sopravvissuti’ della Balmoral proseguiranno per New York, dove l’ ‘inaffondabile’ non arrivò mai: un modo, forse, per esorcizzare la paura di un 2012 ‘titanico’.

lunedì 9 aprile 2012

Asia: MO: missioni Monti, ma questo Prof non c'è mai...

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 09/04/2012

Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi. E il premier Monti, che, da quando partì per l’Asia, domenica 25 marzo, trascorre più tempo all’estero che in Italia –rientrato a Roma il 2 aprile, ne è ripartito il 7-, è andato a passare la Pasqua in Medio Oriente, tra Libano, i Territori, Israele e, oggi, Egitto. Una missione, diversamente da quella asiatica, che s’iscrive fra gli impegni standard, quasi gli atti dovuti d’un premier italiano; e svolta –si noti- senza perdere un giorno di lavoro in Italia, perché, qui, si sa, dal Venerdì Santo a Pasquetta, non succede proprio nulla, a parte il ‘sorpasso’ (ma quella è un’altra pagina).

E Monti, un po’ statista e un po’ turista, con l’ “emozione molto intensa” –sua e della moglie-
al Santo Sepolcro, dice, anzi spesso legge, cose un po’ scontate ma ‘giuste’, senza sbavature. Garantisce che l’Italia manterrà l’impegno nella forza di pace in Libano, l’Unifil, anche –spiega-
per consolidare la propria credibilità in Europa e nel Mondo. Ricorda ai palestinesi che l’Italia è favorevole al superamento del conflitto con la soluzione, da raggiungere negoziando, dei due Stati indipendenti, Israele e la Palestina, ciascuno sicuro all’interno dei propri confini, che sono quelli degli accordi del ’67 –e, comunque, si ancora prudentemente alla posizione dell’Ue-. Definisce “legittimi” i timori israeliani per i programmi nucleari dell’Iran. E testimonia l’impegno dell’Italia contro l’anti-semitismo, con la visita “commovente e sconvolgente” allo Yad Vashem, il memoriale delle vittime dell’Olocausto.

Tutte cose magari ovvie, ma mai inopportune e magari utili da ribadire, senza scoprire le carte e senza passi falsi né affermazioni ‘sbilanciate’: una missione per ricordare chi siamo e che ci siamo, sempre con un occhio agli interessi economici e commerciali (la fornitura a Israele di velivoli d’addestramento della Alenia - Aermacchi farà fare "un salto di qualità" ai rapporti fra i due Paesi – addirittura? -); non certo una missione per risolvere i problemi della Regione, che, ad essere onesti, nessuno è in grado di risolvere oggi e che, nella migliore delle ipotesi, resteranno congelati fino alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti il 6 novembre (e non c’è nessuna certezza che dopo si sblocchino).

Certo, oggi, lì, in Medio Oriente, l’attenzione è puntata soprattutto sulla Siria, dove è ormai prossimo il ‘D-Day’ del piano di pace dell’Onu avallato dalla Lega araba, ma dove le cronache, sia pure di parte e spesso né verificate né verificabili, non segnalano un’attenuazione della violenza. Se è stata calma in quella che in questi giorni soprattutto i media chiamano Terra Santa, la Pasqua è stata insanguinata altrove: mentre il papa esprimeva sostegno ai cristiani d’Africa, specie in Nigeria e nel Malì, e implorava “basta sangue” in Siria, una bomba vicino a una chiesa di Kaduna, nel Nord della Nigeria, faceva una ventina di morti e decine di feriti e in Siria le vittime dell’ultima settimana di proteste e repressioni superavano le mille.

Ma sull’agenda del Professore non possono starci i mali del Mondo. Quelli dell’Italia la riempiono già: torna a casa, Mario!; e, per un po’, restaci.

sabato 7 aprile 2012

Usa: pena di morte, schizofrenia d'America tra Stati e Stato

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/04/2012

Schizofrenia americana sulla pena di morte: sempre più Stati dell’Unione decidono, o progettano, d’abolirla, mentre il potere federale riesuma, dieci anni dopo, un mostro giuridico dell’Amministrazione Bush, del resto mai attuato, per processare e condannare a morte cinque presunti terroristi di al Qaida sospettati di avere ordito gli attacchi dell’11 Settembre 2001. I cinque sono detenuti nella prigione vergogna di Guantanamo, che Barack Obama, prima d’essere eletto presidente, s’era impegnato a chiudere.

Attualmente 16 dei 50 Stati dell’Unione non hanno la pena di morte: un terzo circa. Dei 34 che l’hanno, solo alcuni la praticano in modo sistematico. Il Connecticut, nel New England, s’appresta ad abolirla, dopo che il Senato statale ha detto sì con 20 voti a favore e 16 contrari. Dopo Pasqua, dovrà pronunciarsi la Camera, il cui sì è scontato, come la firma del governatore Daniel Malloy. Le condanne capitali saranno sostituite da ergastoli senza possibilità di sconti. E la sorte degli 11 detenuti in attesa d’esecuzione resta in bilico: in teoria, potrebbero ancora passare dal braccio della morte al lettino del boia.

Il Connecticut sarà così il quinto Stato a cancellare la pena capitale negli ultimi cinque anni, dopo i vicini New York e New Jersey, l’Illinois di Obama e il New Mexico. E la lista si potrebbe presto allungare, come informa il Death Penalty Information Center, con Stati anche del Sud e del Centro, il Kentucky e il Kansas. Ma l’attenzione è concentrata soprattutto sulla California, lo Stato più popoloso dell’Unione, dove l’abolizione sarà oggetto di referendum il 6 novembre, il giorno delle elezioni presidenziali, Il Golden State è da poco uscito da una moratoria di quattro anni nell’applicazione delle sentenze capitali, conclusasi nel 2010.

Con la California, dopo New York, fra gli Stati ‘abolizionisti’, la pena di morte s’avvierebbe, così, a essere minoritaria negli Stati Uniti e a restare retaggio del Sud e del Far West, lungo l’arco di quella ‘cintura della Bibbia’ che dovrebbe ispirarsi ai valori cristiani, ma che è invece forcaiola come i suoi ‘campioni’ politici Rick Santorum e Newt Gingrich, che difendono i valori della vita in modo selettivo.

Eppure, l’America federale del democratico Obama si muove in senso contrario: in settimana, il Pentagono ha deciso di incriminare formalmente cinque presunti terroristi che avrebbero avuto un ruolo negli attentati dell’11 Settembre 2001, costati la vita a 2.976 persone. Tra essi, c’è l’uomo ritenuto la mente della strage ideata da Osama bin Laden, Khalid Sheikh Mohammed. I cinque sono rinchiusi nella base di Guantanamo, in una struttura speciale chiamata 'Camp 7'.

A giudicarli, non sarà un tribunale normale, perché non c’è stato modo d’individuare una corte adeguata e competente né territorialmente né giuridicamente, ma una commissione militare, cui aveva già pensato l’Amministrazione Bush, che avrà il potere di condannarli a morte. E davanti al boia potrebbe pure finire il sergente americano Robert Bales, responsabile senz’ombra di dubbio della recente strage di 17 civili afghani. Ma per lui non ci sarà bisogno d’inventarsi nulla: basterà una buona vecchia Corte marziale.

giovedì 5 aprile 2012

Usa 2012: è ormai match Obama - Romney

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/04/2012

Per l’aritmetica, non è finita. Per la politica, e il buon senso, sì. E, infatti, la campagna è cambiata, almeno quella di Mitt Romney e del presidente Barack Obama: da ieri, il milionario mormone sfoggia il sorriso del vincitore, ignora i suoi antagonisti per la nomination repubblicana e attacca, invece, il presidente; e Obama, a sua volta, ‘sdogana’ l’ex governatore del Massachusetts chiamandolo in causa in un discorso, quasi un’investitura della Casa Bianca al rivale nelle elezioni del 6 novembre.

Segno che loro ora sanno che andrà a finire così. E, in conversazioni private, lo staff del presidente mostra per Romney un timore persino esagerato, se misurato sui sondaggi che danno Obama ben davanti allo sfidante: a Chicago, città feudo e fulcro della campagna per la rielezione, c’è chi dice ‘off the record’ a visitatori eccellenti che “vada come vada c’è il rischio che Romney vinca”.

Scaramanzia, forse. O segno d’impazienza, che il presidente vada all’attacco. In fondo, come scrive sulla Reuters con auguzia Andy Sullivan, Romney è stato appena “promosso da battistrada” fra i repubblicani ad “outsider” nella competizione presidenziale: è lo sfidante che parte sfavorito. E che, al primo scambio di battute al vetriolo, serve un assist al presidente, sotto la cui guida –dice- “la ripresa è la più tiepida, la più debole, la più dolorosa dall’inizio della nostra storia economica”: sarà pure lenta, ma è ripresa, con il pil in crescita e la disoccupazione in calo, mentre i repubblicani avevano consegnato al democratico nero un’America nella crisi peggiore dopo quella del ’29.

Il momento di svolta sono tre primarie senza grande pathos, quasi scontate: Romney vince, come previsto, nel Wisconsin, nel Maryland e a Washington, allunga il passo e supera i 650 delegati. Alla convention di Tampa, a fine agosto, ne serviranno 1144 per garantirsi la nomination. Ormai, è solo una questione di somme: Rick Santorum, integralista cattolico d’origine italiana, il rivale più pericoloso, ha meno di 280 delegati; Newt Gingrich, ex speaker della Camera, e Ron Paul, campione libertario, sono fermi a 135 e a 51.

Romney non salderà il conto ad aprile, nonostante il calendario gli sia favorevole, con l’eccezione della Pennsylvania, lo Stato di Santorum. E maggio offre all’ex senatore vicino a George W. Bush speranze di successi, ma parziali. Per chiudere aritmeticamente i conti bisognerà forse attendere il 5 giugno e la California.

Le vittorie di Romney di ieri hanno avuto dimensioni diverse: un plebisicito a Washington, dove Santorum non era neppure in lizza; netta nel Maryland; contrastata nel Wisconsin. Santorum non s’arrende. “Siamo alla fine del primo tempo –dice-. Il secondo inizierà dalla Pennsylvania”, il 24 aprile. Ma se dovesse perdere nel suo Stato, dove Romney s’accinge a fare campagna spendendo un sacco di soldi, l’italo-americano potrebbe abbandonare la corsa.

mercoledì 4 aprile 2012

Usa 2012: Romney ne fa tre, nomination più vicina

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 04/04/2012

Mitt Romney ne fa tre, come il Barcellona. Rick Santorum manco uno. Le primarie repubblicane nel Wisconsin, nel Maryland e a Washington, la capitale, consentono al moderato mormone, ex governatore del Massachusetts, di allungare il passo verso la nomination, superando i 650 delegati. Alla convention di Tampa, a fine agosto, ne serviranno 1144 per garantirsi la nomination: Romney non salderà il conto ad aprile, nonostante il calendario gli sia favorevole, a parte la Pennsylvania, lo Stato del suo rivale, un integralista cattolico italo-americano. E maggio offre a Santorum speranze di recupero, ma parziale. Per chiudere matematicamente i conti bisognerà forse attendere il 5 giugno e la California. Ma, ormai, sembra più una questione d’aritmetica che di politica.

I successi di Romney di ieri hanno avuto dimensioni diverse: a Washington, dove Santorum non era neppure in lizza, Romney ha sfiorato il 70% dei suffragi; nel Maryland, è arrivato vicino al 50% con Santorum al 30%; il Wisconsin è stato più combattuto, col 43% a Romney e il 38% a Santorum (i dati sono ancora provvisori).

La conta dei delegati è ancora in corso. Ma, prima delle primarie di ieri, Romney ne aveva già 572, la metà esatta dei 1144 necessari. Santorum era a 272, Gingrich a 135 e Paul a 51. Tra Wisconsin, Maryland e Washington, ce n’erano in palio 95: Romney ha sicuramente superato i 650..

Santorum non s’arrende. “Siamo alla fine del primo tempo –dice-. Il secondo inizierà dalla Pennsylvania”, il 24 aprile: “Di qui, partirà la mia rimonta”. O, forse, quel giorno sarà un po’ come segnare il gol della bandiera, quando l’avversario ha ormai preso il largo. Che poi, se dovesse invece perdere nel suo Stato, dove Romney s’accinge a fare campagna spendendo un sacco di soldi, Santorum potrebbe abbandonare la corsa.

Quanto agli altri due contendenti, erano già fuori gioco e ci restano: Newt Gingrich, ultra-conservatore populista, ex speaker della Camera, ha già ammesso, fuori dai denti, che Romney sarà il candidato repubblicano alla Casa Bianca; e Ron Paul il libertario è in gara per il gusto e il principio, non certo per la vittoria.

Anche il presidente Barack Obama sembra pensarla così: in un discorso, ieri, ha menzionato Romney. Quasi un’investitura della Casa Bianca all’ex governatore del Massachusetts come antagonista del presidente nelle elezioni presidenziali del 6 novembre. E Romney agisce in parallelo: non parla (quasi) più dei suoi antagonisti repubblicani, ma attacca il presidente, sotto la cui guida –dice- “la ripresa è la più tiepida, la più debole, la più dolorosa dall’inizio della nostra storia economica”.

Usa: sanità, riforma Obama dipende da 'giudice tentenna'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/04/2012

Il presidente ostenta fiducia: la Corte Suprema degli Stati Uniti avallerà la sua riforma sanitaria, anche perché –dice la Casa Bianca- rovesciandola i giudici si metterebbero contro il Congresso, con un gesto “senza precedenti” nello storia americana “di attivismo giudiziario”. Però, dopo le ultime udienze, la sorte della misura faro dell’Amministrazione Obama appare appesa al giudizio più che della Corte nel suo insieme di un singolo giudice, perché gli altri otto appaiono schierati lungo linee ideologiche e politiche: contro i quattro conservatori di nomina repubblicana; a favore, i quattro progressisti di nomina democratica. In mezzo, c’è Anthony Kennedy, ago della bilancia ormai consueto nelle sentenze della Corte che suscitano confronti ideologici, abituato a stare ora con gli uni e ora con gli altri.

Il giudice Kennedy, un omone dal viso rotondo e lo sguardo sereno, 76 anni –i membri della Corte Suprema degli Stati Uniti sono nominati a vita: possono decidere di dimettersi, ma non possono essere cacciati-, venne nominato da un presidente repubblicano, Ronald Reagan nel 1988. Ma non è mai stato uno ligio alla consegna. Ed è lui che spesso determina l’esito delle votazioni più controverse, quelle che finiscono 5 a 4, anche se proprio non gli piace essere considerato uno ‘swing vote’, un voto ballerino.

Eppure le cifre stanno lì a indicarlo; e le critiche dei conservatori che gli danno del traditore pure. Su 23 casi recenti in cui la Corte s’è pronunciata 5 a 4, Kennedy è stato decisivo 18 volte. Di quei 23 casi, 16 vennero giudicati lungo linee strettamente ideologiche: Kennedy stette 11 volte con i conservatori, 5 con i liberals. Aborto, religione, pena di morte e pure diritti degli omosessuali sono i terreni su cui il ‘giudice girella’ si discosta più spesso dal suo campo.

E’ questo che rende ottimisti Obama e i democratici, sulla sorte della riforma sanitaria? Durante le udienze della scorsa settimana, Kennedy ha posto domande che lasciavano trasparire numerose riserve. E una bocciatura della riforma smantellerebbe il maggior risultato di politica interna del quadriennio Obama, segnando un arretramento del potere federale e compromettendo l’immagine del presidente che, invece, negli ultimi sondaggi, appare in grado di sbarazzarsi senza troppi problemi dell’avversario repubblicano, quale che sia, nelle elezioni presidenziali del 6 novembre.

L’attesa della sentenza durerà fino a giugno, come le primarie per designare il candidato repubblicano. Ieri, s’è votato nel Wisconsin, nel Maryland e a Washington. Il moderato mormone Mitt Romney s’è presentato agli scrutini, che assegnano 95 delegati alla convention di Tampa a fine agosto, forte di 572 delegati, cioè
la metà esatta dei 1144 necessari per la nomination. Rick Santorum, integralista cattolico d’origine italiana, con 272 delegati, è staccato. Newt Gingrich, ex speaker della Camera, ne ha 135. Il libertario Ron Paul 51.

I voti di ieri consentiranno a Romney di consolidarsi come battistrada, ma non sbloccheranno lo stallo. Santorum ha di fronte un mese di aprile difficile, ma punta su maggio, quando si pronunceranno il Texas e altri Stati d’impronta conservatrice.

domenica 1 aprile 2012

Terremoto: Barca, L'Aquila meglio di quel che sembra, ma...

Intervista a EurActiv.it pubblicata il 29/03. Altre parti il 30/03 e lo 01/04

“Le cose sono migliori di quello che parevano” e di quello che viene spesso presentato dai media: Fabrizio Barca, economista, ministro per la coesione territoriale, ha, fra le sue responsabilità, il rilancio della rinascita dell’Aquila dopo il terremoto del 2009. E’ stato nella città ferita; considera la ricostruzione “non bloccata, ma rallentata”; ha incontrato autorità, esperti, almeno 400 cittadini in un momento “di scontro e di confronto” collettivo. E ne è uscito rafforzato nella sua convinzione che “i momenti di conflitto incentivano l’innovazione”: “Conflitto – innovazione – sviluppo: questa è la catena magica”, dice e argomenta in questa intervista a EurActiv.it, in cui parla dell’Aquila e di molti altri temi.

Le cose sono migliori di quello che parevano “nei numeri, nelle procedure di ricostruzione delle periferie, nella quantità di macerie rimosse”. Tanto per cominciare, buona parte dei numeri che circolano non sono veri: “E’ probabilmente colpa di tutti noi, che non abbiamo neanche saputo dare quei pochi che ci stavano. Il vuoto informativo è parte del problema: se io ho delle ambizioni, alte o basse che siano, e non le traduco in numeri e non le monitoro e non ne racconto nulla agli italiani che ci hanno messo sopra 10,7 miliardi di euro, per fare loro capire che cosa ne è di quei soldi e dove vengono spesi, io sto deludendo gli italiani che hanno scommesso sull’Aquila e non sto dando agli abitanti della città strumenti per dire ‘questo va bene’ e ‘questo va male’”.

In primo luogo, chiarisce il ministro, “come mostrano le migliori ricostruzioni” post-terremoto, “e il nostro Paese ne ha tante, dal Friuli alle Marche e all’Umbria, ricostruire è molto difficile e molto lungo”. In secondo luogo, “questo sisma è molto più complicato dei precedenti perché tocca per la prima volta, dai tempi di Messina e Reggio Calabria, una città che al tempo stesso è grande, è un centro culturale ed è la capitale istituzionale di una regione”. Per di più, il terremoto non l’abbatte completamente: “Quindi, ai problemi già enormi, si somma il dovere di ricostruzione di tutto quello che è salvabile”.

La somma di queste circostanze, osserva Barca, rende “più complessa” la decisione “tra la ricostruzione del ‘tutto com’era’ ovvero la rifondazione, o comunque il cambiamento, il rinnovamento, l’ammodernamento, puntando sulla città innovativa”. Su questo quadro oggettivo s’è poi sovrapposta, “dopo una prima straordinaria fase dove, indipendentemente dal giudizio sulle scelte compiute, la guida era molto decisa, così che la fase d’emergenza di ricostruzione delle prime abitazioni temporanee è stata condotta con vigore, una fase dove il livello di coesione nazionale era meno alto e dove pure il livello di attenzione nazionale si è stemperato”. E così s’è anche “stemperato il disegno di che cosa dovesse essere fatto, si è stemperato il dibattito, si è stemperato il confronto, che era stato molto vivace”.

Oggi, il clima di vivacità e di mobilitazione dell’estate 2009 appare recuperato. Il 23 marzo, il presidente del Consiglio Mario Monti ha firmato la nuova ordinanza sulla ricostruzione dell'Aquila, che prevede un impegno di spesa di 187,5 milioni di euro. E, lo stesso giorno, il Cipe ha sostenuto finanziariamente il rinnovato impegno per la ricostruzione post-terremoto del capoluogo e del suo territorio. Preso atto della relazione del ministro Barca, il Comitato ha assegnato circa 540 milioni di euro per la riparazione e ricostruzione del patrimonio abitativo danneggiato e altri 168 milioni di euro per il finanziamento degli interventi di ripristino di immobili pubblici danneggiati. “Una fase culturalmente vivace parte e poi entra in ibernazione –osserva Barca-; e ora riparte” con la forza dei giorni dell’emergenza.