Scritto per EurActiv il 30/05/2012
L’ Europa di Barroso somiglia all’ Italia di Monti. E l’una e l’altra hanno in comune la difficoltà dei demiurghi a tradurre l’idea in realtà. Tra il dire e il fare, a Bruxelles come a Roma, non c’è di mezzo il mare, ma le resistenze di chi s’oppone al cambiamento; e, magari, la timidezza di chi lo propone, nei confronti degli Stati, Barroso, o nei confronti dei partiti, Monti.
Presentando, oggi, a Bruxelles, le raccomandazioni della Commissione ai 27 Paesi Ue sui piani di riforma nazionali e sui programmi di stabilità e convergenza, il presidente dell’Esecutivo, il portoghese Barroso, ha tracciato quelle che dovrebbero essere le prossime tappe dell’Unione europea verso la stabilità, la crescita e l’occupazione: attestazioni d’ottimismo (“I farmaci contro la crisi cominciano a fare effetto”); e parziali ‘satisfecit’ (“gli Stati hanno fatto molto per le riforme strutturali” e hanno avviato le finanze pubbliche “nella giusta direzione”). Ma anche messe in guardia, perché “il lavoro non è finito” e “bisogna andare avanti e farlo in fretta”; e, sulle riforme, serve fare di più di quel che è già stato fatto.
Il presidente Barroso lo dice dell’Unione; e il premier Monti lo direbbe dell’Italia. E lo sforzo per il risanamento delle finanze e per la correzione degli “squilibri importanti” che ancora sussistono sono solo una parte dell’opera: ci vuole, al Consiglio europeo di fine giugno, l’accordo sul Patto per la Crescita, che comprende il lancio dei project bond e l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse dei fondi strutturali e l’accettazione, da parte dei governi, che il bilancio dell’Unione è uno strumento per la ripresa e in tal senso va potenziato, non prosciugato.
Ma non basta. Barroso, che si dichiara “fiducioso” che la crisi sarà superata e che si vuole “ambizioso”, punta all’Unione economica, anche se poi esplicita obiettivi concreti significativi, ma non certo capaci di mobilitare le opinioni pubbliche (come il rafforzamento del ‘firewall’ anti-default o la garanzia europea sui depositi bancari). E il presidente chiede una maggiore “legittimazione democratica per le istituzioni europee” (c’è dietro il dibattito sull’elezione diretta di un presidente unico per il Consiglio e la Commissione).
I commissari che accompagnano il presidente nella sceneggiata al Berlaymont trovano accenti coraggiosi. Olli Rehn, finlandese, responsabile dell’economia, stimola “i Paesi con avanzi di bilancio” e con fardelli di debito leggeri a contribuire alla solidità dell’eurozona. Lazlo Andor, ungherese, responsabile degli affari sociali, punta il dito sulla disoccupazione giovanile e sui bassi livelli di occupazione femminile, specie in Italia; e insiste che ad aumenti di produttività corrispondano aumenti dei salari perché “la ripresa non ci sarà se la gente non avrà di che spendere”. Algirdas Semeta, lituano, responsabile della fiscalità, trova “logico” che ci sia “una tassazione della proprietà” e che essa “vada a favore della crescita”; e denuncia un’evasione europea da un milione di miliardi l’anno, all’insegna dell’ormai logoro “se tutti pagano tutti pagano di meno”.
Come non essere d’accordo con l’Europa di Barroso e con l’Italia di Monti, sane, eque, dove il merito è riconosciuto e lo sforzo premiato? Peccato che l’afflato si perda, o si stemperi, nelle alchimie dei rapporti di forza tra Paesi o tra partiti. A meno che non siano i cittadini a dare forza, credendoci, al concetto che “ci vuole più Europa e più integrazione” per essere più competitivi e per continuare a contare in un Mondo che Barroso vede tripolare nel XXI Secolo (Usa, Ue e Cina), forse trascurando il Polo dell’Energia e l’India e gli altri emergenti. L’alternativa a un’Ue più forte non è lo ‘statu quo’, ma è una frammentazione dell’Unione e una rinazionalizzazione delle politiche: senza passi avanti, si va indietro.
giovedì 31 maggio 2012
mercoledì 30 maggio 2012
Usa 2012: il Texas promuove Romney contro Obama
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/05/2012
E arrivò il momento che quota 1.144 venne superata: a 150 giorni (quasi) esatti dal via alla corsa alla nomination, il 3 gennaio, nello Iowa, Mitt Romney ha ormai abbastanza delegati per essere matematicamente certo dell’investitura alla convention di Tampa, in Florida, a fine agosto. A dargli il bollo da sfidante, sono le primarie in Texas, che, sulla carta, dovevano essere favorevoli ai suoi rivali ultra-religiosi e conservatori: l’ex governatore del Massachusetts le affronta, però, senza avversari –tutti gli altri pretendenti si sono ritirati-.
La garanzia della nomination era stata di fatto acquisita in aprile, quando Rick Santorum, integralista cattolico d’origine italiana, e Newt Gingrich, un ex speaker della Camera ora populista, s’erano fatti da parte. Oggi, c’è la certezza matematica. E, a Tampa, ci sarà l’investitura politica.
Ma già da aprile è cominciata la partita a due tra il presidente democratico Barack Obama, che punta a un secondo mandato, e lo sfidante repubblicano, un mormone moderato. I sondaggi dicono che Romney è avversario vero, anche se Obama gli è in genere avanti di qualche punto. Vero è che i rilevamenti, per ora, sono molto volatili e poco attendibili: per il Memorial Day, celebrato lunedì negli Stati Uniti, ne sono stati diffusi almeno due sull’atteggiamento dei veterani verso i due candidati, che, per la prima volta dal 1980, sono entrambi senza un passato militare (da sciorinare o da nascondere). Bene, uno dava Obama ben davanti a Romney; e un altro, Gallup, dava il repubblicano al 54% e il democratico al 34%, com’è logico fra gli ex combattenti, che sono un gruppo tendenzialmente conservatore.
Più serio il computo dei Grandi Elettori, quelli che poi contano davvero nelle presidenziali Usa, fatto dalla Ap e costantemente aggiornato. Lì, il numero magico è 270, quanti ne servono per conquistare la Casa Bianca. Obama ne avrebbe (quasi) in tasca 247, Romney 206. I voti incerti sono 85 e appartengono a sette Stati ‘ballerini’ e decisivi: la Florida e l’Ohio, sempre cruciali, e, da Ovest a Est, il New Hampshire, la Virginia, lo Iowa, il Colorado e il Nevada. Ma anche qui tutto è scritto sulla sabbia: gli umori dell’elettorato si disegneranno davvero dopo le conventions di fine estate.
Che la tappa delle primarie in Texas fosse una formalità, per quanto significativa, lo dimostra anche il fatto che Romney, primo mormone in assoluto a ottenere la nomination alla presidenza, non era lì a celebrare il suo trionfo, ma faceva campagna in Colorado e in Nevada –non a caso, due degli Stati ballerini-. A Las Vegas, Romney ha raccolto fondi in significativa compagnia: c’erano Gingrich, l’ex rivale, e il magnate del gioco Sheldon Adelson, il cassiere di Gingrich all’inizio della corsa –quanto basta per fare nascere voci di ticket-; e c’era pure il ‘tycoon’ con l’hobby della tv e delle mogli Donald Trump, che insiste a sostenere che Obama non è nato alle Hawaii, ma in Kenya –il che gli vieterebbe di fare il presidente-. Romney prende le distanze dalle affermazioni di Trump, ma non dai suoi soldi, che gli fanno comodo.
E, del resto, Obama già gli tira addosso con l’artiglieria degli spot, che dipingono l’uomo d’affari Romney come un “vampiro”, un “distruttore di posti di lavoro”, un “Robin Hood al contrario, che ruba ai poveri per dare ai ricchi”. Uno così, ve lo portereste alla Casa Bianca?
E arrivò il momento che quota 1.144 venne superata: a 150 giorni (quasi) esatti dal via alla corsa alla nomination, il 3 gennaio, nello Iowa, Mitt Romney ha ormai abbastanza delegati per essere matematicamente certo dell’investitura alla convention di Tampa, in Florida, a fine agosto. A dargli il bollo da sfidante, sono le primarie in Texas, che, sulla carta, dovevano essere favorevoli ai suoi rivali ultra-religiosi e conservatori: l’ex governatore del Massachusetts le affronta, però, senza avversari –tutti gli altri pretendenti si sono ritirati-.
La garanzia della nomination era stata di fatto acquisita in aprile, quando Rick Santorum, integralista cattolico d’origine italiana, e Newt Gingrich, un ex speaker della Camera ora populista, s’erano fatti da parte. Oggi, c’è la certezza matematica. E, a Tampa, ci sarà l’investitura politica.
Ma già da aprile è cominciata la partita a due tra il presidente democratico Barack Obama, che punta a un secondo mandato, e lo sfidante repubblicano, un mormone moderato. I sondaggi dicono che Romney è avversario vero, anche se Obama gli è in genere avanti di qualche punto. Vero è che i rilevamenti, per ora, sono molto volatili e poco attendibili: per il Memorial Day, celebrato lunedì negli Stati Uniti, ne sono stati diffusi almeno due sull’atteggiamento dei veterani verso i due candidati, che, per la prima volta dal 1980, sono entrambi senza un passato militare (da sciorinare o da nascondere). Bene, uno dava Obama ben davanti a Romney; e un altro, Gallup, dava il repubblicano al 54% e il democratico al 34%, com’è logico fra gli ex combattenti, che sono un gruppo tendenzialmente conservatore.
Più serio il computo dei Grandi Elettori, quelli che poi contano davvero nelle presidenziali Usa, fatto dalla Ap e costantemente aggiornato. Lì, il numero magico è 270, quanti ne servono per conquistare la Casa Bianca. Obama ne avrebbe (quasi) in tasca 247, Romney 206. I voti incerti sono 85 e appartengono a sette Stati ‘ballerini’ e decisivi: la Florida e l’Ohio, sempre cruciali, e, da Ovest a Est, il New Hampshire, la Virginia, lo Iowa, il Colorado e il Nevada. Ma anche qui tutto è scritto sulla sabbia: gli umori dell’elettorato si disegneranno davvero dopo le conventions di fine estate.
Che la tappa delle primarie in Texas fosse una formalità, per quanto significativa, lo dimostra anche il fatto che Romney, primo mormone in assoluto a ottenere la nomination alla presidenza, non era lì a celebrare il suo trionfo, ma faceva campagna in Colorado e in Nevada –non a caso, due degli Stati ballerini-. A Las Vegas, Romney ha raccolto fondi in significativa compagnia: c’erano Gingrich, l’ex rivale, e il magnate del gioco Sheldon Adelson, il cassiere di Gingrich all’inizio della corsa –quanto basta per fare nascere voci di ticket-; e c’era pure il ‘tycoon’ con l’hobby della tv e delle mogli Donald Trump, che insiste a sostenere che Obama non è nato alle Hawaii, ma in Kenya –il che gli vieterebbe di fare il presidente-. Romney prende le distanze dalle affermazioni di Trump, ma non dai suoi soldi, che gli fanno comodo.
E, del resto, Obama già gli tira addosso con l’artiglieria degli spot, che dipingono l’uomo d’affari Romney come un “vampiro”, un “distruttore di posti di lavoro”, un “Robin Hood al contrario, che ruba ai poveri per dare ai ricchi”. Uno così, ve lo portereste alla Casa Bianca?
domenica 27 maggio 2012
Usa 2012: Obama da giovane inalava forte, non come Clinton
Scritto per Il fatto Quotidiano del 27/05/2012
29 marzo 1992, primarie democratiche: Bill Clinton, aspirante alla ‘nomination’, futuro presidente, risponde a una domanda in conferenza stampa: “Non ho mai infranto una legge dello Stato, ma, quando ero a studiare in Inghilterra, fumai marijuana una volta o due. Non mi piacque, non inalai e, dopo, non ci ho più provato. 25 maggio 2012, campagna presidenziale: un libro racconta che Barack Obama, quand’era studente, ci provava gusto, come molti suoi compagni, a farsi una canna –e, fin qui, lo sapevamo, per diretta ammissione- ed era addirittura un boss della banda di Honolulu cui apparteneva, un ‘profeta’ della ‘total absortion’, fumare inalando completamente il fumo. Chi non ci riusciva, lo sbatteva fuori dalla ‘Choom gang’.
Lo scrive David Maraniss, in un volume di prossima pubblicazione, ‘Barack Obama. The story’, ma largamente anticipato dalla stampa americana. Vent’anni dopo, il racconto delle qualità da leader, sia pure della TA, la ‘total abosortion’, del giovane Obama fa meno impressione delle ammissioni di Clinton: un po’ perché l’imbarazzo di Bill rendeva il suo ‘outing’ divertente, ma, nel contempo, improbabile, come se avesse qualcosa da nascondere; e, soprattutto perché l’America oggi è diversa e più tollerante sulle canne. Anzi, il presidente ha più da temere dal vizio del fumo –mai pubblico- che da quei trascorsi giovanili, magari un po’ bulli.
In fondo, Maraniss, per quanto la biografia sia l’ennesima ‘non autorizzata’, non gli rende affatto un cattivo servizio: studente modello, ‘guru’ giovanile e dispensatore di buoni consigli ai compagni. “Prima di un esame, dormi con il libro sotto il cuscino”, suggeriva per vincere l’ansia (e migliorare la preparazione in extremis). A lui, è andata bene; ai suoi amici, non si sa.
Nella campagna in fase di stanca, perché il traguardo è troppo lontano per sprecare energie (e soldi), c’è spazio per la caccia agli ‘scheletri nell’armadio’ –e se sono tutti qua, Obama può dormire tranquillo, anche senza libro sotto il cuscino-, per le sortite personali e per le gaffes. La ‘first lady’ Michelle dice a People che, se potesse scegliere di essere un’altra persona, vorrebbe essere Beyoncé, pop stare di talento e di bellezza. Il vice di Obama, Joe Biden, suscitato, invece, ilarità e irritazioni, affermando che “anche un idraulico potrebbe fare il presidente”, che non si capisce se sia un complimento per gli idraulici o una ‘diminutio’ per il presidente.
Mentre lo staff di Obama si chiede se uno stile più aggressivo non possa nuocere alla sua immagine, l’inquilino della Casa Bianca fa la corsa in testa: l’ultimo sondaggio nazionale lo dà avanti 47 a 43 % sul candidato repubblicano Mitt Romney; e polls locali lo danno in vantaggio in tre Stati chiave per la Casa Bianca, l’Ohio, la Florida e la Virginia, pur se mai sopra la soglia di sicurezza del 50%.
I sondaggi misurano le reazioni dell’elettorato al sì di Obama ai matrimoni omosessuali. Tra i latini il consenso supera, oggi, il 50%, mentre tra i bianchi è oltre i due quinti dei potenziali elettori; i neri sono i più refrattari all’idea, con meno del 30% favorevoli, ma dopo la dichiarazione del presidente c’è stato un boom di sì per le unioni civili fra persone dello stesso sesso.
Se Barack non corre, anzi si prende una pausa dopo la raffica di Vertici, G8 e Nato, Romney cammina. L’ultima sua sortita, che, con lui presidente, la disoccupazione scenderebbe sotto il 6%, sapeva di propaganda. E Mitt deve guardarsi dai colpi gobbi del suo partito: i repubblicani, in maggioranza alla Camera, vogliono votare a luglio la proroga degli sgravi fiscali ai ricchi dell’era Bush, che scadono a fine anno: uno sfregio alla classe media, che potrebbe costare caro alle urne.
29 marzo 1992, primarie democratiche: Bill Clinton, aspirante alla ‘nomination’, futuro presidente, risponde a una domanda in conferenza stampa: “Non ho mai infranto una legge dello Stato, ma, quando ero a studiare in Inghilterra, fumai marijuana una volta o due. Non mi piacque, non inalai e, dopo, non ci ho più provato. 25 maggio 2012, campagna presidenziale: un libro racconta che Barack Obama, quand’era studente, ci provava gusto, come molti suoi compagni, a farsi una canna –e, fin qui, lo sapevamo, per diretta ammissione- ed era addirittura un boss della banda di Honolulu cui apparteneva, un ‘profeta’ della ‘total absortion’, fumare inalando completamente il fumo. Chi non ci riusciva, lo sbatteva fuori dalla ‘Choom gang’.
Lo scrive David Maraniss, in un volume di prossima pubblicazione, ‘Barack Obama. The story’, ma largamente anticipato dalla stampa americana. Vent’anni dopo, il racconto delle qualità da leader, sia pure della TA, la ‘total abosortion’, del giovane Obama fa meno impressione delle ammissioni di Clinton: un po’ perché l’imbarazzo di Bill rendeva il suo ‘outing’ divertente, ma, nel contempo, improbabile, come se avesse qualcosa da nascondere; e, soprattutto perché l’America oggi è diversa e più tollerante sulle canne. Anzi, il presidente ha più da temere dal vizio del fumo –mai pubblico- che da quei trascorsi giovanili, magari un po’ bulli.
In fondo, Maraniss, per quanto la biografia sia l’ennesima ‘non autorizzata’, non gli rende affatto un cattivo servizio: studente modello, ‘guru’ giovanile e dispensatore di buoni consigli ai compagni. “Prima di un esame, dormi con il libro sotto il cuscino”, suggeriva per vincere l’ansia (e migliorare la preparazione in extremis). A lui, è andata bene; ai suoi amici, non si sa.
Nella campagna in fase di stanca, perché il traguardo è troppo lontano per sprecare energie (e soldi), c’è spazio per la caccia agli ‘scheletri nell’armadio’ –e se sono tutti qua, Obama può dormire tranquillo, anche senza libro sotto il cuscino-, per le sortite personali e per le gaffes. La ‘first lady’ Michelle dice a People che, se potesse scegliere di essere un’altra persona, vorrebbe essere Beyoncé, pop stare di talento e di bellezza. Il vice di Obama, Joe Biden, suscitato, invece, ilarità e irritazioni, affermando che “anche un idraulico potrebbe fare il presidente”, che non si capisce se sia un complimento per gli idraulici o una ‘diminutio’ per il presidente.
Mentre lo staff di Obama si chiede se uno stile più aggressivo non possa nuocere alla sua immagine, l’inquilino della Casa Bianca fa la corsa in testa: l’ultimo sondaggio nazionale lo dà avanti 47 a 43 % sul candidato repubblicano Mitt Romney; e polls locali lo danno in vantaggio in tre Stati chiave per la Casa Bianca, l’Ohio, la Florida e la Virginia, pur se mai sopra la soglia di sicurezza del 50%.
I sondaggi misurano le reazioni dell’elettorato al sì di Obama ai matrimoni omosessuali. Tra i latini il consenso supera, oggi, il 50%, mentre tra i bianchi è oltre i due quinti dei potenziali elettori; i neri sono i più refrattari all’idea, con meno del 30% favorevoli, ma dopo la dichiarazione del presidente c’è stato un boom di sì per le unioni civili fra persone dello stesso sesso.
Se Barack non corre, anzi si prende una pausa dopo la raffica di Vertici, G8 e Nato, Romney cammina. L’ultima sua sortita, che, con lui presidente, la disoccupazione scenderebbe sotto il 6%, sapeva di propaganda. E Mitt deve guardarsi dai colpi gobbi del suo partito: i repubblicani, in maggioranza alla Camera, vogliono votare a luglio la proroga degli sgravi fiscali ai ricchi dell’era Bush, che scadono a fine anno: uno sfregio alla classe media, che potrebbe costare caro alle urne.
venerdì 25 maggio 2012
Cina: prima i debiti, poi i marchi, ora lo sport e lo spettacolo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/05/2012
Prima, si sono comprati i nostri debiti –quelli americani, soprattutto-, così che ci tengono in ostaggio; poi, hanno cominciato a comprarsi i nostri marchi; quindi, si sono comprati fette di Mondo –specie in Africa, letteralmente-; e adesso, s’impossessano dei pezzi pregiati del terziario avanzato, sport e svago. Mai come oggi, la Cina è vicina, anzi è proprio qui da noi; salvo, poi, portarsi a casa, lì da loro, le icone del successo. Per il momento, riusciamo a tenerci stretta la proprietà intellettuale, ma prima o poi dovremo barattare pure quella con i punti di crescita che ci mancano.
La Cina fa sul serio; e con metodo. Mica improvvisa, come i magnati russi che, ricchi d’una ricchezza troppo improvvisa per essere tutta frutto di lavoro e di saggezza, comprano per divertirsi e si riducono a rodersi il fegato: pensate al povero –si fa per dire, ovviamente: è nella ‘top ten’ dei paperoni planetari- Abramovic, che ha penato dieci anni e centinaia di milioni di euro per vedere il Chelsea vincere la Champions, secondo solo al buon –si fa per dire, ovviamente- Moratti, che di anni e di soldi ne ha buttati di più prima di vedere l’Inter vincere qualcosa (e solo dopo essersi tolto di torno con artifizi gli avversari più temibili).
Ma torniamo alla Cina, che dello sport ha sempre fatto uno strumento di prestigio e di penetrazione: certo, una volta c’erano ginnasti e ginnaste, fatica tanta, gloria poca, soldi nisba; poi sono venute le nuotatrici che facevano faville in vasca –tutte dopate, ahi loro, si scoprì ben presto-; infine, i campioni che a Pechino 2008 valsero per la prima volta alla Cina il primato delle medaglie d’oro (51), meglio degli Usa (36) e della Russia (23), che, da quando non è più Urss, fatica a tenere il ritmo. Però, nel calcio la Cina e i cinesi hanno sempre arrancato: ai Mondiali, c’è arrivata una sola volta, nel 2002, e ne uscì subito senza manco segnare un gol; e neppure la Coppa d’Asia ha mai vinto –due volte seconda-, lasciando al Giappone e alle due Coree la palma di potenze calcistiche continentali.
Ma, adesso, la musica cambia. Prima, i cinesi sono venuti a prendersi Lippi: l’artefice dei Mondiali 2006 allenerà, per 10 milioni di dollari l’anno, il Guangzhou Evergrande, squadra neo-promossa in serie A, ma, evidentemente, di grande ambizioni e di mezzi adeguati; e, forse, lui, sempre vicino ai suoi campioni, si porterà dietro un po’ di vecchie glorie di quella squadra, qui da noi magari consunte, ma in grado di fare ancora meraviglie laggiù. E non pensi Lippi che in Cina sia una passeggiata: fra gli avversari, troverà quel Drogba, che, dopo avere consegnato la Champions ad Abramobvic, lascia il Chelsea e va allo Shanghai Shenhua, squadra più titolata dell’Evergrande e già adusa ai grandi nomi europei, perché l’allena quella testa matta di Nicolas Anelka. E chissà quanti, ora che le chiuse si sono aperte, li seguiranno.
Mentre si allestisce il set del nuovo campionato cinese, il gruppo Dalian Wanda si compra, per 2,6 miliardi di dollari, l’Amc, seconda catena di sale cinematografiche americana, creando, così, il maggior operatore mondiale del settore. L’obiettivo è di avere un’industria cinese del grande schermo capace di competere con Hollywood e con Bollywood e di portare la cultura locale fuori dai confini nazionali. Certo, soggetti e copioni dovranno adattarsi, perché le produzioni cinesi sono spesso ancorate a storie con giapponesi cattivi nella Seconda Guerra Mondiale. Siamo a un’iniziativa speculare rispetto a quella della Dreamworks di Spielberg, che anni fa aveva realizzato una joint venture cinese per andare a caccia di nuovo pubblico.
Economicamente, Wanda, che ha parchi a tema , catene d’alberghi, centri commerciali e locali da karaoke, e il cui amministratore delegato Wamng Jianlin è il super-ricco cinese 2012 per Fortune, non fa un affare acquistando Amc, che, con i suoi oltre 5000 grandi schermi nel Nord America ha perso 73 milioni di dollari nel quarto trimestre 2011. Ma per Wanda sono bruscolini: il suo è per dimensioni il terzo investimento cinese di tutti i tempi sul mercato americano. I primi due riguardavano la finanza. Ora si cambia settore.
Prima, si sono comprati i nostri debiti –quelli americani, soprattutto-, così che ci tengono in ostaggio; poi, hanno cominciato a comprarsi i nostri marchi; quindi, si sono comprati fette di Mondo –specie in Africa, letteralmente-; e adesso, s’impossessano dei pezzi pregiati del terziario avanzato, sport e svago. Mai come oggi, la Cina è vicina, anzi è proprio qui da noi; salvo, poi, portarsi a casa, lì da loro, le icone del successo. Per il momento, riusciamo a tenerci stretta la proprietà intellettuale, ma prima o poi dovremo barattare pure quella con i punti di crescita che ci mancano.
La Cina fa sul serio; e con metodo. Mica improvvisa, come i magnati russi che, ricchi d’una ricchezza troppo improvvisa per essere tutta frutto di lavoro e di saggezza, comprano per divertirsi e si riducono a rodersi il fegato: pensate al povero –si fa per dire, ovviamente: è nella ‘top ten’ dei paperoni planetari- Abramovic, che ha penato dieci anni e centinaia di milioni di euro per vedere il Chelsea vincere la Champions, secondo solo al buon –si fa per dire, ovviamente- Moratti, che di anni e di soldi ne ha buttati di più prima di vedere l’Inter vincere qualcosa (e solo dopo essersi tolto di torno con artifizi gli avversari più temibili).
Ma torniamo alla Cina, che dello sport ha sempre fatto uno strumento di prestigio e di penetrazione: certo, una volta c’erano ginnasti e ginnaste, fatica tanta, gloria poca, soldi nisba; poi sono venute le nuotatrici che facevano faville in vasca –tutte dopate, ahi loro, si scoprì ben presto-; infine, i campioni che a Pechino 2008 valsero per la prima volta alla Cina il primato delle medaglie d’oro (51), meglio degli Usa (36) e della Russia (23), che, da quando non è più Urss, fatica a tenere il ritmo. Però, nel calcio la Cina e i cinesi hanno sempre arrancato: ai Mondiali, c’è arrivata una sola volta, nel 2002, e ne uscì subito senza manco segnare un gol; e neppure la Coppa d’Asia ha mai vinto –due volte seconda-, lasciando al Giappone e alle due Coree la palma di potenze calcistiche continentali.
Ma, adesso, la musica cambia. Prima, i cinesi sono venuti a prendersi Lippi: l’artefice dei Mondiali 2006 allenerà, per 10 milioni di dollari l’anno, il Guangzhou Evergrande, squadra neo-promossa in serie A, ma, evidentemente, di grande ambizioni e di mezzi adeguati; e, forse, lui, sempre vicino ai suoi campioni, si porterà dietro un po’ di vecchie glorie di quella squadra, qui da noi magari consunte, ma in grado di fare ancora meraviglie laggiù. E non pensi Lippi che in Cina sia una passeggiata: fra gli avversari, troverà quel Drogba, che, dopo avere consegnato la Champions ad Abramobvic, lascia il Chelsea e va allo Shanghai Shenhua, squadra più titolata dell’Evergrande e già adusa ai grandi nomi europei, perché l’allena quella testa matta di Nicolas Anelka. E chissà quanti, ora che le chiuse si sono aperte, li seguiranno.
Mentre si allestisce il set del nuovo campionato cinese, il gruppo Dalian Wanda si compra, per 2,6 miliardi di dollari, l’Amc, seconda catena di sale cinematografiche americana, creando, così, il maggior operatore mondiale del settore. L’obiettivo è di avere un’industria cinese del grande schermo capace di competere con Hollywood e con Bollywood e di portare la cultura locale fuori dai confini nazionali. Certo, soggetti e copioni dovranno adattarsi, perché le produzioni cinesi sono spesso ancorate a storie con giapponesi cattivi nella Seconda Guerra Mondiale. Siamo a un’iniziativa speculare rispetto a quella della Dreamworks di Spielberg, che anni fa aveva realizzato una joint venture cinese per andare a caccia di nuovo pubblico.
Economicamente, Wanda, che ha parchi a tema , catene d’alberghi, centri commerciali e locali da karaoke, e il cui amministratore delegato Wamng Jianlin è il super-ricco cinese 2012 per Fortune, non fa un affare acquistando Amc, che, con i suoi oltre 5000 grandi schermi nel Nord America ha perso 73 milioni di dollari nel quarto trimestre 2011. Ma per Wanda sono bruscolini: il suo è per dimensioni il terzo investimento cinese di tutti i tempi sul mercato americano. I primi due riguardavano la finanza. Ora si cambia settore.
giovedì 24 maggio 2012
Ue: crisi, 5 settimane per drogare la crescita e salvare l'euro
Scritto per EurActiv il 24/05/2012
Cinque settimane per spingere la crescita in Europa e salvaguardare l'integrità dell'eurozona: è il tempo che i leader dell'Ue si sono dati in vista di decisioni cruciali. Il premier italiano Mario Monti trova consensi sull'idea degli eurobond, dove resta, però, l'opposizione tedesca, mentre la proposta di scorporare dal computo dei deficit pubblici gli investimenti produttivi suscita qualche diffidenza.
Quella di mercoledì a Bruxelles doveva essere ‘solo’ una cena, per conoscere l’ultimo venuto, il presidente francese François Hollande. E’ stata, invece, una lunga discussione, al termine di una ennesima, e certamente non ultima, ‘giornata nera’ delle borse europee, affossate dai preparativi, sia pure solo precauzionali, per l’uscita della Grecia dall’euro.
Intorno al tavolo, su invito e sotto la presidenza di Herman van Rompuy, i capi di Stato o di governo dei 27 Paesi dell’Unione europea hanno messo in chiaro le loro posizioni, senza, per il momento, giungere a decisioni: non era previsto lo facessero, perché l’ora delle intese sarà, o almeno dovrebbe essere, il ‘Vertice della Crescita’ a fine giugno, a conclusione del semestre di presidenza di turno danese del Consiglio dei Ministri dell’Ue.
Lì si dovrebbe decidere -la discussione è già avanzata e il terreno appare spianato- su project bond, aumento della dotazione della Bei e utilizzo dei fondi strutturali, mentre sugli eurobond, come sul computo degli investimenti, dentro o fuori il Patto di Bilancio, la trattativa prosegue. Monti giudica che vi sono stati passi avanti e “un’accelerazione” del negoziato, dove hanno trovato spazio “gli interessi italiani”; ma aggiunge che, specie sulla crescita, “bisogna fare molto di più”.
L’andamento del confronto ha confermato gli schieramenti già delineatisi: la Francia e l’Italia, e complessivamente “una maggioranza di Paesi”, insistono per l’adozione degli eurobond; la Germania e altri si oppongono. Sul fronte greco, c’è l’impegno a salvaguardare la stabilità dell’eurozona, cioè a mantenere la Grecia nell’euro, ma nessuno, oggi, ci mette la mano sul fuoco e tutti, anzi, predispongono piani, europei e nazionali, nel caso che Atene dovesse abbandonare la moneta unica.
Sulla via del Vertice di fine giugno, ci sarà un appuntamento a Roma, sollecitato da Monti, con il presidente Hollande, la cancelliera Merkel e il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy: la data non è ancora certa. E ci sarà pure, il 17 giugno, il secondo round delle elezioni politiche in Grecia, il cui esito è cruciale per la permanenza di Atene nell'euro. Alexis Tsipras, il leader di Syriza, il partito di sinistra radicale, favorito nei sondaggi alle prossime consultazioni, cerca alleati nell'Unione, ma, per il momento, i leader non gli danno spago.
La 'cena dei capi' rappresentava una sorta di prova del nove, anzi dei 27, per il G8: le indicazioni scaturite lo scorso week-end dai leader dei Grandi riuniti a Camp David, spinta per la crescita senza rinnegare il rigore, hanno ricevuto una prima eco positiva europea. Ma la 'coalizione per la crescita' disegnatasi a camp David è disparata: il socialista Hollande, il conservatore Cameron, il liberista Monti avranno ancora bisogno di buoni argomenti e di capacità persuasive per acquisire alla causa la Merkel, che nella sua Germania riesce già a coniugare rigore e crescita e che non vuole rendersi garante degli altrui deficit.
Cinque settimane per spingere la crescita in Europa e salvaguardare l'integrità dell'eurozona: è il tempo che i leader dell'Ue si sono dati in vista di decisioni cruciali. Il premier italiano Mario Monti trova consensi sull'idea degli eurobond, dove resta, però, l'opposizione tedesca, mentre la proposta di scorporare dal computo dei deficit pubblici gli investimenti produttivi suscita qualche diffidenza.
Quella di mercoledì a Bruxelles doveva essere ‘solo’ una cena, per conoscere l’ultimo venuto, il presidente francese François Hollande. E’ stata, invece, una lunga discussione, al termine di una ennesima, e certamente non ultima, ‘giornata nera’ delle borse europee, affossate dai preparativi, sia pure solo precauzionali, per l’uscita della Grecia dall’euro.
Intorno al tavolo, su invito e sotto la presidenza di Herman van Rompuy, i capi di Stato o di governo dei 27 Paesi dell’Unione europea hanno messo in chiaro le loro posizioni, senza, per il momento, giungere a decisioni: non era previsto lo facessero, perché l’ora delle intese sarà, o almeno dovrebbe essere, il ‘Vertice della Crescita’ a fine giugno, a conclusione del semestre di presidenza di turno danese del Consiglio dei Ministri dell’Ue.
Lì si dovrebbe decidere -la discussione è già avanzata e il terreno appare spianato- su project bond, aumento della dotazione della Bei e utilizzo dei fondi strutturali, mentre sugli eurobond, come sul computo degli investimenti, dentro o fuori il Patto di Bilancio, la trattativa prosegue. Monti giudica che vi sono stati passi avanti e “un’accelerazione” del negoziato, dove hanno trovato spazio “gli interessi italiani”; ma aggiunge che, specie sulla crescita, “bisogna fare molto di più”.
L’andamento del confronto ha confermato gli schieramenti già delineatisi: la Francia e l’Italia, e complessivamente “una maggioranza di Paesi”, insistono per l’adozione degli eurobond; la Germania e altri si oppongono. Sul fronte greco, c’è l’impegno a salvaguardare la stabilità dell’eurozona, cioè a mantenere la Grecia nell’euro, ma nessuno, oggi, ci mette la mano sul fuoco e tutti, anzi, predispongono piani, europei e nazionali, nel caso che Atene dovesse abbandonare la moneta unica.
Sulla via del Vertice di fine giugno, ci sarà un appuntamento a Roma, sollecitato da Monti, con il presidente Hollande, la cancelliera Merkel e il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy: la data non è ancora certa. E ci sarà pure, il 17 giugno, il secondo round delle elezioni politiche in Grecia, il cui esito è cruciale per la permanenza di Atene nell'euro. Alexis Tsipras, il leader di Syriza, il partito di sinistra radicale, favorito nei sondaggi alle prossime consultazioni, cerca alleati nell'Unione, ma, per il momento, i leader non gli danno spago.
La 'cena dei capi' rappresentava una sorta di prova del nove, anzi dei 27, per il G8: le indicazioni scaturite lo scorso week-end dai leader dei Grandi riuniti a Camp David, spinta per la crescita senza rinnegare il rigore, hanno ricevuto una prima eco positiva europea. Ma la 'coalizione per la crescita' disegnatasi a camp David è disparata: il socialista Hollande, il conservatore Cameron, il liberista Monti avranno ancora bisogno di buoni argomenti e di capacità persuasive per acquisire alla causa la Merkel, che nella sua Germania riesce già a coniugare rigore e crescita e che non vuole rendersi garante degli altrui deficit.
Grecia: Ue, crisi, Tsipras cerca (ma non trova) alleati in Europa
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mercoledì 23 maggio 2012
Ue: crisi, la 'cena dei capi', il G8 alla prova del nove, anzi dei 27
Scritto per L'Indro il 23/05/2012
Il G8 alla prova del nove, anzi dei 27: le indicazioni scaturite lo scorso week-end dai leader dei Grandi riuniti a Camp David, spinta per la crescita senza rinnegare il rigore, aspettano, questa sera, una prima eco positiva europea dalla ‘cena dei capi’ di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue. L’invito a Bruxelles è venuto dal presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy: nelle intenzioni, poco più di un’occasione sociale per incontrare il nuovo presidente francese François Hollande, insediatosi la scorsa settimana, giusto in tempo per una visita lampo a Berlino alla cancelliera tedesca Angela Merkel e per la partecipazione ai Vertici del G8 e, a seguire, della Nato a Chicago.
Dall’appuntamento di oggi, dunque, non ci si deve attendere nessuna decisione formale: non è la sede giusta; e neppure i tempi sono quelli giusti. La ‘coalizione per la crescita’ che va disegnandosi è disparata, dal socialista Hollande al premier conservatore britannico David Cameron al presidente del Consiglio italiano Mario Monti, professore e liberista (e dovrebbero pure esserci il centrista spagnolo Mariano Rajoy): ci vorranno buoni argomenti e capacità persuasive per acquisire alla causa la Merkel, che nella sua Germania riesce già a coniugare rigore e crescita e che non vuole rendersi garante degli altrui deficit.
L’obiettivo è di giungere a decisioni al Consiglio europeo di fine giugno, a chiusura del semestre di presidenza di turno danese del Consiglio dei Ministri dell’Ue: per quello che già s’annuncia come il ‘Vertice della crescita’, si lavora al potenziamento della Banca europea per gli investimenti (Bei), ai project bond e alla revisione del Patto di Bilancio. Il primo risultato è quasi certo; il secondo è possibile; il terzo è difficile. Vediamo le proposte in tavola.
I project bond sono obbligazioni legate a specifici progetti, solitamente infrastrutturali. La loro collocazione sul mercato viene guidata dalla Bei, che fissa pure le garanzie e i livelli di rischio, anche allo scopo di rassicurare il mercato. Nell’ottica francese e italiana, si tratta d’uno strumento che farebbe da apripista agli eurobond, titoli di debito comuni all’area euro: uno strumento meno ambizioso, e, dal punto di vista tedesco, meno pericoloso, perché legato a operazioni specifiche, il cui impatto sarebbe più facilmente prevedibile; ma capace, comunque, di smuovere qualcosa come 200 miliardi di euro di investimenti in tutta l’Ue nel prossimo triennio. Ovviamente, dopo avere aumentato la dotazione della Bei per incrementarne la capacità di fare da garante.
I project bond già esistono in molti paesi. Il quasi monopolio del loro utilizzo appartiene alla Gran Bretagna, che controlla circa il 90% di un mercato che, a livello continentale, vale circa cento miliardi di euro l’anno. Il resto è diviso, con quote basse, tra gli altri Paesi. I project bond esistono in Spagna, in Germania, in Francia, in Austria e pure in Italia, dove non sono praticamente mai stati usati: il decreto liberalizzazioni, per questo motivo, ha provato a rivitalizzare la disciplina delle obbligazioni delle società di scopo.
Se sui project bond e sulla ricapitalizzazione della Bei la strada sembra quasi in discesa, più complessa è la partita legata allo scomputo di alcune tipologie di investimenti dai vincoli del Patto di Bilancio: un’idea nata a Roma e promossa a livello internazionale soprattutto dal premier Monti, che l’ha concepita anche per rimediare alla drammatica situazione interna che vede bloccati, a livello nazionale e locale, i pagamenti alle imprese.
In sostanza, la proposta consiste nel non conteggiare nell’equilibrio tra entrate e uscite quello che lo Stato spende per alcuni capitoli ad alto valore aggiunto, considerati così strategici da non poter essere vincolati ai limiti del Patto di Bilancio. L’idea è valida, ma la realizzazione è piena di incognite: la Germania, infatti, teme che i capitoli “ad alto valore aggiunto” siano una testa di ponte per far saltare il rigore, fare lievitare le uscite e dare così il colpo finale ai già drammatici conti pubblici dell’Unione europea.
C’è poi una seconda questione non meno decisiva: l’individuazione dei capitoli. Circolano alcune indiscrezioni: si parla di infrastrutture, agenda digitale, banda larga; aree più circoscritte, come l’agenda digitale, sono viste con un certo favore anche dai paesi più rigoristi. Mentre il tema delle infrastrutture dovrà essere declinato con grande precisione, per evitare gli eccessi.
Infine, nel mese a venire si parlerà di una possibile integrazione del Patto di Bilancio, perché, per bilanciare la spinta del pacchetto franco-italiano, i paesi rigoristi vorrebbero maggiore controllo della spesa di corrente, quella che non riguarda gli investimenti ma l’ordinaria amministrazione. Un menù ‘pesante’, da rendere indigesta la ‘cena dei capi’.
Il G8 alla prova del nove, anzi dei 27: le indicazioni scaturite lo scorso week-end dai leader dei Grandi riuniti a Camp David, spinta per la crescita senza rinnegare il rigore, aspettano, questa sera, una prima eco positiva europea dalla ‘cena dei capi’ di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue. L’invito a Bruxelles è venuto dal presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy: nelle intenzioni, poco più di un’occasione sociale per incontrare il nuovo presidente francese François Hollande, insediatosi la scorsa settimana, giusto in tempo per una visita lampo a Berlino alla cancelliera tedesca Angela Merkel e per la partecipazione ai Vertici del G8 e, a seguire, della Nato a Chicago.
Dall’appuntamento di oggi, dunque, non ci si deve attendere nessuna decisione formale: non è la sede giusta; e neppure i tempi sono quelli giusti. La ‘coalizione per la crescita’ che va disegnandosi è disparata, dal socialista Hollande al premier conservatore britannico David Cameron al presidente del Consiglio italiano Mario Monti, professore e liberista (e dovrebbero pure esserci il centrista spagnolo Mariano Rajoy): ci vorranno buoni argomenti e capacità persuasive per acquisire alla causa la Merkel, che nella sua Germania riesce già a coniugare rigore e crescita e che non vuole rendersi garante degli altrui deficit.
L’obiettivo è di giungere a decisioni al Consiglio europeo di fine giugno, a chiusura del semestre di presidenza di turno danese del Consiglio dei Ministri dell’Ue: per quello che già s’annuncia come il ‘Vertice della crescita’, si lavora al potenziamento della Banca europea per gli investimenti (Bei), ai project bond e alla revisione del Patto di Bilancio. Il primo risultato è quasi certo; il secondo è possibile; il terzo è difficile. Vediamo le proposte in tavola.
I project bond sono obbligazioni legate a specifici progetti, solitamente infrastrutturali. La loro collocazione sul mercato viene guidata dalla Bei, che fissa pure le garanzie e i livelli di rischio, anche allo scopo di rassicurare il mercato. Nell’ottica francese e italiana, si tratta d’uno strumento che farebbe da apripista agli eurobond, titoli di debito comuni all’area euro: uno strumento meno ambizioso, e, dal punto di vista tedesco, meno pericoloso, perché legato a operazioni specifiche, il cui impatto sarebbe più facilmente prevedibile; ma capace, comunque, di smuovere qualcosa come 200 miliardi di euro di investimenti in tutta l’Ue nel prossimo triennio. Ovviamente, dopo avere aumentato la dotazione della Bei per incrementarne la capacità di fare da garante.
I project bond già esistono in molti paesi. Il quasi monopolio del loro utilizzo appartiene alla Gran Bretagna, che controlla circa il 90% di un mercato che, a livello continentale, vale circa cento miliardi di euro l’anno. Il resto è diviso, con quote basse, tra gli altri Paesi. I project bond esistono in Spagna, in Germania, in Francia, in Austria e pure in Italia, dove non sono praticamente mai stati usati: il decreto liberalizzazioni, per questo motivo, ha provato a rivitalizzare la disciplina delle obbligazioni delle società di scopo.
Se sui project bond e sulla ricapitalizzazione della Bei la strada sembra quasi in discesa, più complessa è la partita legata allo scomputo di alcune tipologie di investimenti dai vincoli del Patto di Bilancio: un’idea nata a Roma e promossa a livello internazionale soprattutto dal premier Monti, che l’ha concepita anche per rimediare alla drammatica situazione interna che vede bloccati, a livello nazionale e locale, i pagamenti alle imprese.
In sostanza, la proposta consiste nel non conteggiare nell’equilibrio tra entrate e uscite quello che lo Stato spende per alcuni capitoli ad alto valore aggiunto, considerati così strategici da non poter essere vincolati ai limiti del Patto di Bilancio. L’idea è valida, ma la realizzazione è piena di incognite: la Germania, infatti, teme che i capitoli “ad alto valore aggiunto” siano una testa di ponte per far saltare il rigore, fare lievitare le uscite e dare così il colpo finale ai già drammatici conti pubblici dell’Unione europea.
C’è poi una seconda questione non meno decisiva: l’individuazione dei capitoli. Circolano alcune indiscrezioni: si parla di infrastrutture, agenda digitale, banda larga; aree più circoscritte, come l’agenda digitale, sono viste con un certo favore anche dai paesi più rigoristi. Mentre il tema delle infrastrutture dovrà essere declinato con grande precisione, per evitare gli eccessi.
Infine, nel mese a venire si parlerà di una possibile integrazione del Patto di Bilancio, perché, per bilanciare la spinta del pacchetto franco-italiano, i paesi rigoristi vorrebbero maggiore controllo della spesa di corrente, quella che non riguarda gli investimenti ma l’ordinaria amministrazione. Un menù ‘pesante’, da rendere indigesta la ‘cena dei capi’.
lunedì 21 maggio 2012
G8: W la crescita, salvi la Grecia e l'euro
Scritto per EurActivi il 21/05/2012. Altra versione su L'Indro.
"L'Europa emergerà dalla crisi più forte"; e la Grecia resterà nell'Ue e nell'euro. Le certezze, retoriche, ma salde, sono state espresse alla Cnn dal premier italiano Mario Monti, in un'intervista a margine del Vertice del G8, dove il Professore ha goduto di buona stampa. Del resto, Monti a Camp David c'è stato bene: era lì con i suoi veri alleati, Obama e la Merkel, Hollande e Cameron, lontano le mille miglia dai magheggi di Casa Nostra.
Parere di Der Spiegel, non solo nostro. Il settimanale tedesco racconta incontri in cui il premier italiano era cercato da tutti come partner, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel era percepita, o almeno descritta, come il nemico pubblico numero uno. Controcorrente, il professor Wolfgang Wessels, dell’Università di Colonia, afferma, però, che vi è oggi una forte ‘domanda’ di leadership tedesca, negli equilibri inter-istituzionali all’interno dell’Unione europea (soprattutto per quanto riguarda il Consiglio dei Ministri dell'Ue). Una leadership, invocata per esigenza di stabilità in tempi di crisi e con cui Berlino, volente o nolente, deve fare i conti.
I Vertici del lungo week-end americano, da venerdì a lunedì, dei Grandi del Mondo si chiudono senza fratture di facciata: il G8 fa propria la ricetta ormai di tutti contro la crisi, crescita e lavoro, anche se la Germania non deroga dalla linea del rigore (l’una non è del resto necessariamente alternativa all’altra); e la Nato conferma l’obiettivo di ritiro dall’Afghanistan entro il 2014, anche se la Francia di François Hollande stringe i tempi di richiamo delle proprie truppe. Mediaticamente, i Vertici non fanno il botto e non sono certo quello spot elettorale che il presidente statunitense Barack Obama, ospite di turno, auspicava. Anzi, a Chicago, dove l’Alleanza atlantica avalla lo scudo anti-missile in funzione anti-terrorismo e pure contro quelli che una volta erano ‘Stati canaglia’, le manifestazioni di protesta attirano l’attenzione dei media più delle deliberazioni dei leader: ci sono scontri, contusi, arresti.
A ennesima conferma della relativa utilità del format di questi Vertici, ivi compreso il G20 ultimo venuto, che si farà in giugno sotto presidenza di turno messicana, le parole dette dagli Otto Grandi non danno una spinta ai mercati: l’adozione del mantra ‘crescita e lavoro’ non smuove, o meglio non convince, i mercati, che aspettano qualcosa di concreto. Certo, questa volta i Grandi sono solo 7 e mezzo, perché la Russia non fa l’inversione dei ruoli: al posto del neo-‘presidente di ritorno’ Vladimir Putin, c’è il presidente ridiventato premier Dmitri Medvedev. Ma non è per questo che le loro conclusioni hanno poco peso: gli impegni di massima a salvare la Grecia dal fallimento e l’euro dall’erosione; la volontà di stimolare la crescita e di continuare a lottare contro il deficit; l’appello del premier britannico David Cameron a un piano d’emergenza per la zona euro (toh!, guarda chi se ne preoccupa); tutto è ancora vago, in attesa dei prossimi cruciali appuntamenti europei.
E se Romano Prodi, ex presidente della Commissione europea, invita la Germania ad “uscire dall’isolamento”, il governo di Berlino, a sipario appena calato sul G8, riconferma la propria ostilità agli eurobonds, che non sono “uno strumento adeguato” contro la crisi e per la crescita, ma piuttosto uno strumento di condivisione del debito –quel che Berlino non vuole- . Pero' Hollande vuole metterli nel menù della ‘cena dei capi’ fra i leader dei 27 mercoledì 23 maggio a Bruxelles.
Le riunioni americane sono l’occasione di ‘riposizionamenti’ bilaterali: Obama e Hollande stipulano la ‘nuova alleanza’ progressista franco-americana, anche se il presidente Usa deve mandare giù il rospo del ritiro dall’Afghanistan dei francesi; ma Obama ha pure attenzioni per la Merkel, che la stampa italiana vede “assediata”, un termine che non si ritrova in altre cronache – anzi, Barack e Angela concordano che più crescita non significa stop al rigore-; e, anzi, la cancelliera tedesca, a Chicago, trova un partner forte nel premier spagnolo Mariano Rajoy. Mario Monti, che lascia i lavori della Nato prima della conclusione, perché l’Italia è un crogiolo di drammi e atrocità, cerca di mettere insieme i Grandi dell’Euro con un Vertice a Roma con la Merkel, Hollande e Rajoy.
La salvezza della Grecia, la conferma dell’euro, la via della crescita seguono un percorso ben definito: l’appuntamento, informale, ma cruciale, di mercoledì prossimo; il Vertice a quattro di Roma; il ’remake’ delle elezioni greche il 17 giugno; e il vertice europeo di fine giugno, a chiusura del semestre di presidenza di turno danese del Consiglio dell’Ue. Lì si tireranno le somme; e, lungo questo percorso, anche il G20, come il G8, appare un appuntamento più formale che sostanziale.
Che cosa resterà di Camp David? Forse, il piano da 3 miliardi di dollari contro la fame nel mondo annunciato dal presidente Obama, che lo presenta come “un imperativo morale ed economico” dei ricchi che, per quanto in crisi, restano privilegiati in un pianeta dove i poveri sono miliardi.
"L'Europa emergerà dalla crisi più forte"; e la Grecia resterà nell'Ue e nell'euro. Le certezze, retoriche, ma salde, sono state espresse alla Cnn dal premier italiano Mario Monti, in un'intervista a margine del Vertice del G8, dove il Professore ha goduto di buona stampa. Del resto, Monti a Camp David c'è stato bene: era lì con i suoi veri alleati, Obama e la Merkel, Hollande e Cameron, lontano le mille miglia dai magheggi di Casa Nostra.
Parere di Der Spiegel, non solo nostro. Il settimanale tedesco racconta incontri in cui il premier italiano era cercato da tutti come partner, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel era percepita, o almeno descritta, come il nemico pubblico numero uno. Controcorrente, il professor Wolfgang Wessels, dell’Università di Colonia, afferma, però, che vi è oggi una forte ‘domanda’ di leadership tedesca, negli equilibri inter-istituzionali all’interno dell’Unione europea (soprattutto per quanto riguarda il Consiglio dei Ministri dell'Ue). Una leadership, invocata per esigenza di stabilità in tempi di crisi e con cui Berlino, volente o nolente, deve fare i conti.
I Vertici del lungo week-end americano, da venerdì a lunedì, dei Grandi del Mondo si chiudono senza fratture di facciata: il G8 fa propria la ricetta ormai di tutti contro la crisi, crescita e lavoro, anche se la Germania non deroga dalla linea del rigore (l’una non è del resto necessariamente alternativa all’altra); e la Nato conferma l’obiettivo di ritiro dall’Afghanistan entro il 2014, anche se la Francia di François Hollande stringe i tempi di richiamo delle proprie truppe. Mediaticamente, i Vertici non fanno il botto e non sono certo quello spot elettorale che il presidente statunitense Barack Obama, ospite di turno, auspicava. Anzi, a Chicago, dove l’Alleanza atlantica avalla lo scudo anti-missile in funzione anti-terrorismo e pure contro quelli che una volta erano ‘Stati canaglia’, le manifestazioni di protesta attirano l’attenzione dei media più delle deliberazioni dei leader: ci sono scontri, contusi, arresti.
A ennesima conferma della relativa utilità del format di questi Vertici, ivi compreso il G20 ultimo venuto, che si farà in giugno sotto presidenza di turno messicana, le parole dette dagli Otto Grandi non danno una spinta ai mercati: l’adozione del mantra ‘crescita e lavoro’ non smuove, o meglio non convince, i mercati, che aspettano qualcosa di concreto. Certo, questa volta i Grandi sono solo 7 e mezzo, perché la Russia non fa l’inversione dei ruoli: al posto del neo-‘presidente di ritorno’ Vladimir Putin, c’è il presidente ridiventato premier Dmitri Medvedev. Ma non è per questo che le loro conclusioni hanno poco peso: gli impegni di massima a salvare la Grecia dal fallimento e l’euro dall’erosione; la volontà di stimolare la crescita e di continuare a lottare contro il deficit; l’appello del premier britannico David Cameron a un piano d’emergenza per la zona euro (toh!, guarda chi se ne preoccupa); tutto è ancora vago, in attesa dei prossimi cruciali appuntamenti europei.
E se Romano Prodi, ex presidente della Commissione europea, invita la Germania ad “uscire dall’isolamento”, il governo di Berlino, a sipario appena calato sul G8, riconferma la propria ostilità agli eurobonds, che non sono “uno strumento adeguato” contro la crisi e per la crescita, ma piuttosto uno strumento di condivisione del debito –quel che Berlino non vuole- . Pero' Hollande vuole metterli nel menù della ‘cena dei capi’ fra i leader dei 27 mercoledì 23 maggio a Bruxelles.
Le riunioni americane sono l’occasione di ‘riposizionamenti’ bilaterali: Obama e Hollande stipulano la ‘nuova alleanza’ progressista franco-americana, anche se il presidente Usa deve mandare giù il rospo del ritiro dall’Afghanistan dei francesi; ma Obama ha pure attenzioni per la Merkel, che la stampa italiana vede “assediata”, un termine che non si ritrova in altre cronache – anzi, Barack e Angela concordano che più crescita non significa stop al rigore-; e, anzi, la cancelliera tedesca, a Chicago, trova un partner forte nel premier spagnolo Mariano Rajoy. Mario Monti, che lascia i lavori della Nato prima della conclusione, perché l’Italia è un crogiolo di drammi e atrocità, cerca di mettere insieme i Grandi dell’Euro con un Vertice a Roma con la Merkel, Hollande e Rajoy.
La salvezza della Grecia, la conferma dell’euro, la via della crescita seguono un percorso ben definito: l’appuntamento, informale, ma cruciale, di mercoledì prossimo; il Vertice a quattro di Roma; il ’remake’ delle elezioni greche il 17 giugno; e il vertice europeo di fine giugno, a chiusura del semestre di presidenza di turno danese del Consiglio dell’Ue. Lì si tireranno le somme; e, lungo questo percorso, anche il G20, come il G8, appare un appuntamento più formale che sostanziale.
Che cosa resterà di Camp David? Forse, il piano da 3 miliardi di dollari contro la fame nel mondo annunciato dal presidente Obama, che lo presenta come “un imperativo morale ed economico” dei ricchi che, per quanto in crisi, restano privilegiati in un pianeta dove i poveri sono miliardi.
domenica 20 maggio 2012
G8: Ue, crisi, la Grecia alla corte dei Grandi tra gaffe ed errori
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/05/2012
Un piccolo alla corte dei Grandi. Ed è il guastafeste di turno: altro che convitato di pietra. La Grecia diventa protagonista al Vertice del G8 di Camp David, dove i leader per discutere, ancora una volta, come uscire dalla crisi economica. L’emergenza dei conti di Atene e il rischio di un effetto domino su altri Paesi, che comprometta la stabilità dell’euro e l’assetto della finanza internazionale, aleggiano sulla riunione. E a dare al Vertice un’atmosfera un po’ surreale contribuiscono due ‘fughe di notizie’ che sono altrettanti ‘incidenti di percorso’.
Il Times di Londra scrive che De La Rue, l'azienda britannica che produce banconote per oltre 150 Paesi del mondo, si sta preparando a un ritorno della dracma: la società, che stampa pure le sterline e l'euro, avrebbe infatti avviato la valutazione degli eventuali rischi per una nuova moneta e starebbe recuperando una collezione di matrici di rame per la filigrana, da utilizzare nel caso in cui la Grecia dovesse uscire dall'euro e ritornare alla vecchia divisa.
E, a Bruxelles, il commissario europeo Karel De Gucht, belga, responsabile del commercio internazionale, rivela l’esistenza di un piano B della Commissione europea in caso che Atene abbandoni l’euro. De Gucht viene zittito (‘Taci!, tu che c’entri?’) e sommerso dalle smentite: Olli Rehn, responsabile dell’economia, finlandese, nega che l’Esecutivo dell’Ue stia lavorando a uno scenario del genere e assicura che, anzi, tutti stanno dandosi da fare perché Atene resti nell’Ue e nell’euro.
In realtà, hanno ragione entrambi i commissari e pure il Times. L’Unione europea non vuole che la Grecia molli, ma, nel contempo, sarebbe assurdo che non studiasse le conseguenze di un’eventualità del genere sia come deterrente (‘Guardare, greci, che cosa succederebbe’) sia come scialuppa di salvataggio in caso di naufragio.
Il mix di indiscrezioni di stampa e sviluppi sul terreno, con la Grecia che si ritrova in campagna elettorale, proprio quando s’insedia il nuovo Parlamento, produce l’ennesima giornata di alta tensione sui mercati, con le borse che chiudono in calo e lo spread che resta lì a 438. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiama il presidente greco Karolos Papoulias, per capire come stanno le cose, ma la telefonata da Berlino non basta di certo a rassicurare i cittadini ellenici che continuano a ritirare i soldi dalle banche –e lo fanno pure gli spagnoli, riferiscono le cronache da Madrid-.
Del resto, la linea della Merkel, sostanzialmente coincidente, almeno nelle prese di posizione ufficiali, con quella dei partner, è chiara: “Vogliamo che la Grecia resti nell’Ue e nell’euro, ma Atene deve prima fare la sua parte”. La Merkel e Monti, Cameron e Hollande lo hanno convenuto in video-conferenza, giovedì sera, prima di partire per Camp David.
Dove, al presidente Obama, che lo chiede esplicitamente, dicono che il loro credo è coniugare il rigore con la crescita. Sarà il Professore a spiegarlo, aprendo, su invito del presidente americano, la sessione di lavoro sull’economia. Il premier italiano arriva a Camp David con il biglietto da visita ‘rooseveltiano’ del piano di lavori pubblici da 100 miliardi di euro e 400mila posti di lavoro varato ieri: il ministro Passera ci crede (“Tutti cantieri che possono essere aperti presto”), i sindacati un po’ meno (e parlano del 2015). Ma la mossa autorizza Monti a dire che l'Italia ha le carte in regola per chiedere piu' crescita a livello mondiale ed europeo e anche per mantenere gli equilibri di bilancio.
Il Vertice, dove, sul piano politico, si parlerà pure di Siria e di Afghanistan, sarà, di sicuro, un successo: Obama si gioca la carta dei Grandi anche in chiave elettorale e non vuole screzi. Ma, concretamente, questo G8, svuotato di contenuti dal G20, a sua volta privo di poteri, potrà fare ben poco. Gli europei, però, possono ripartire da Camp David con un piano di lavoro ‘avallato’ dal presidente americano: avranno un mese, di qui al Vertice europeo di fine giugno, per impostare una strategia della crescita senza rinnegare il rigore.
Ne parleranno, a 27, già nella cena di lavoro del 23 maggio. La Germania e' la guardiana del rigore, ma sottoscrive che rigore e crescita "sono entrambi necessari”. E Cameron, inopinatamente, rivendica il diritto di Londra a dire la sua sulla situazione dell'euro e brandisce gli eorobonds: “O l’Europa si dota di una stabile eurozona con un’efficace firewall, banche regolamentate e ben capitalizzate, un sistema di condivisione del peso del debito e una politica monetaria a sostegno, o ci troveremo in territori inesplorati che pongono rischi per tutti”.
Italia e Francia appaiono molto vicine sulla necessità di integrare il Patto di Bilancio, stabilendo che gli investimenti non vanno computati nel calcolo del deficit di bilancio. Nel pacchetto, probabilmente, si cerchera' d'inserire altri due punti: il potenziamento del ruolo della Banca europea per gli investimenti e l’introduzione dello strumento dei 'project bonds', obbligazioni europee legate a singoli progetti, soprattutto infrastrutturali. Sempre che Berlino ci stia.
Un piccolo alla corte dei Grandi. Ed è il guastafeste di turno: altro che convitato di pietra. La Grecia diventa protagonista al Vertice del G8 di Camp David, dove i leader per discutere, ancora una volta, come uscire dalla crisi economica. L’emergenza dei conti di Atene e il rischio di un effetto domino su altri Paesi, che comprometta la stabilità dell’euro e l’assetto della finanza internazionale, aleggiano sulla riunione. E a dare al Vertice un’atmosfera un po’ surreale contribuiscono due ‘fughe di notizie’ che sono altrettanti ‘incidenti di percorso’.
Il Times di Londra scrive che De La Rue, l'azienda britannica che produce banconote per oltre 150 Paesi del mondo, si sta preparando a un ritorno della dracma: la società, che stampa pure le sterline e l'euro, avrebbe infatti avviato la valutazione degli eventuali rischi per una nuova moneta e starebbe recuperando una collezione di matrici di rame per la filigrana, da utilizzare nel caso in cui la Grecia dovesse uscire dall'euro e ritornare alla vecchia divisa.
E, a Bruxelles, il commissario europeo Karel De Gucht, belga, responsabile del commercio internazionale, rivela l’esistenza di un piano B della Commissione europea in caso che Atene abbandoni l’euro. De Gucht viene zittito (‘Taci!, tu che c’entri?’) e sommerso dalle smentite: Olli Rehn, responsabile dell’economia, finlandese, nega che l’Esecutivo dell’Ue stia lavorando a uno scenario del genere e assicura che, anzi, tutti stanno dandosi da fare perché Atene resti nell’Ue e nell’euro.
In realtà, hanno ragione entrambi i commissari e pure il Times. L’Unione europea non vuole che la Grecia molli, ma, nel contempo, sarebbe assurdo che non studiasse le conseguenze di un’eventualità del genere sia come deterrente (‘Guardare, greci, che cosa succederebbe’) sia come scialuppa di salvataggio in caso di naufragio.
Il mix di indiscrezioni di stampa e sviluppi sul terreno, con la Grecia che si ritrova in campagna elettorale, proprio quando s’insedia il nuovo Parlamento, produce l’ennesima giornata di alta tensione sui mercati, con le borse che chiudono in calo e lo spread che resta lì a 438. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiama il presidente greco Karolos Papoulias, per capire come stanno le cose, ma la telefonata da Berlino non basta di certo a rassicurare i cittadini ellenici che continuano a ritirare i soldi dalle banche –e lo fanno pure gli spagnoli, riferiscono le cronache da Madrid-.
Del resto, la linea della Merkel, sostanzialmente coincidente, almeno nelle prese di posizione ufficiali, con quella dei partner, è chiara: “Vogliamo che la Grecia resti nell’Ue e nell’euro, ma Atene deve prima fare la sua parte”. La Merkel e Monti, Cameron e Hollande lo hanno convenuto in video-conferenza, giovedì sera, prima di partire per Camp David.
Dove, al presidente Obama, che lo chiede esplicitamente, dicono che il loro credo è coniugare il rigore con la crescita. Sarà il Professore a spiegarlo, aprendo, su invito del presidente americano, la sessione di lavoro sull’economia. Il premier italiano arriva a Camp David con il biglietto da visita ‘rooseveltiano’ del piano di lavori pubblici da 100 miliardi di euro e 400mila posti di lavoro varato ieri: il ministro Passera ci crede (“Tutti cantieri che possono essere aperti presto”), i sindacati un po’ meno (e parlano del 2015). Ma la mossa autorizza Monti a dire che l'Italia ha le carte in regola per chiedere piu' crescita a livello mondiale ed europeo e anche per mantenere gli equilibri di bilancio.
Il Vertice, dove, sul piano politico, si parlerà pure di Siria e di Afghanistan, sarà, di sicuro, un successo: Obama si gioca la carta dei Grandi anche in chiave elettorale e non vuole screzi. Ma, concretamente, questo G8, svuotato di contenuti dal G20, a sua volta privo di poteri, potrà fare ben poco. Gli europei, però, possono ripartire da Camp David con un piano di lavoro ‘avallato’ dal presidente americano: avranno un mese, di qui al Vertice europeo di fine giugno, per impostare una strategia della crescita senza rinnegare il rigore.
Ne parleranno, a 27, già nella cena di lavoro del 23 maggio. La Germania e' la guardiana del rigore, ma sottoscrive che rigore e crescita "sono entrambi necessari”. E Cameron, inopinatamente, rivendica il diritto di Londra a dire la sua sulla situazione dell'euro e brandisce gli eorobonds: “O l’Europa si dota di una stabile eurozona con un’efficace firewall, banche regolamentate e ben capitalizzate, un sistema di condivisione del peso del debito e una politica monetaria a sostegno, o ci troveremo in territori inesplorati che pongono rischi per tutti”.
Italia e Francia appaiono molto vicine sulla necessità di integrare il Patto di Bilancio, stabilendo che gli investimenti non vanno computati nel calcolo del deficit di bilancio. Nel pacchetto, probabilmente, si cerchera' d'inserire altri due punti: il potenziamento del ruolo della Banca europea per gli investimenti e l’introduzione dello strumento dei 'project bonds', obbligazioni europee legate a singoli progetti, soprattutto infrastrutturali. Sempre che Berlino ci stia.
venerdì 18 maggio 2012
Ue: crisi, Italia, Monti bene in trasferta, ma non segna in casa
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 17/05/2012
I campionati si vincono in trasferta, ma si perdono in casa. E, in trasferta, la squadra Monti va fortissimo, mentre in casa fatica ad andare in gol. Il presidente Obama chiede al premier professore di aprire la sessione dell’economia del Vertice del G8, da domani a Camp David negli Stati Uniti: la linea, condivisa, è quella di maggiori sforzi per la crescita e l’occupazione. E Monti partecipa al consulto fra i Grandi d’Europa prima del Vertice, mentre l’Fmi pubblica una pagella lusinghiera dei “notevoli progressi” dell’Italia verso il risanamento e le riforme. “Un modello nell’Ue”, dice il Fondo monetario internazionale, che attende l’azione sul mercato del lavoro e prospetta 6 punti in più di Pil con gli interventi strutturali: una manna, per un Paese che continua a essere in recessione e che, se va bene, l’anno prossimo avrà una crescita del Pil di qualche decimale.
Ma i dolori sono tutti interni, economici e politici. L’economia batte in testa e la politica fa passi indietro: nel 1.o trimestre 2012, la frenata del Pil è brusca (-0,8%, la peggiore dal 2009) e riguarda soprattutto industria e servizi; su base annua la contrazione del Pil è dell’1,3%, la previsione per il 2012 pure un – 1,3%. L’agenzia di rating Moody’s declassa 26 banche, fra le proteste dell’Abi, (“un’aggressione”, “un giudizio irresponsabile” e “da ignorare” perché parziale e contraddittorio). L’Ocse ci coinvolge nell’allarme per la disoccupazione giovanile, che è oltre il 17% in media tra i 15 e i 24 anni nell’area dell’Organizzazione, con picchi in Spagna e in Portogallo e in Grecia, oltre il 50%, mentre in Italia è al 35,9%.
L’antitesi del rendimento in trasferta e in casa della squadra Monti è palese. A Bruxelles, il presidente del Consiglio partecipa, come ministro delle finanze, a Eurogruppo ed Ecofin e incontra il presidente della Commissione europea Barroso, per tratteggiare una strategia della crescita e discutere l’ipotesi di escludere gli investimenti dal computo del Patto di Bilancio; la cancelliera tedesca Merkel lo considera con rispetto; il neo-presidente francese Hollande lo ritiene un alleato; il premier britannico Cameron lo vede come l’anello di collegamento tra lui e l’Ue. E l’invito di Obama è un segno del prestigio di cui gode personalmente il professore negli Stati Uniti.
Ma i dati sull’Italia sono negativi. E il Parlamento fa ammuina sul falso in bilancio, dove i ‘furbetti’ tentano l’ennesimo colpo gobbo e il governo, magari per sbaglio, dà loro una mano.
Insomma, nell’Eurozona che vive il rischio Grecia, c’è un’Italia che, come la Spagna, dalla zona rischio non è ancora uscita. Ma una parte della politica, che pure a parole sostiene il governo, pare non rendersene conto o, comunque, non curarsene: guarda al voto, quando che sia, in autunno o fra un anno; fa scelte oggi in funzione non dell’interesse del Paese, ma del proprio tornaconto alle urne; già promette di disfare domani quel che avalla oggi (l’Imu) o lascia andare avanti gli altri sulla riforma del lavoro, prendendo le distanze. Così, in casa non si vince: la difesa, magari, non prende gol, ma l’attacco non ne segna. E troppi 0 a 0 magari non fanno neppure l’Europa League.
mercoledì 16 maggio 2012
Ue: Angela e François si parlano, Barack chiama Mario
Scritto per EurActiv il 16/05/2012
L’intesa franco-tedesca riparte, in uno dei giorni più neri
per l’Unione europea. E l’Italia, dove l’economia batte in testa e la politica
fa passi indietro, rischia di perdere un’occasione per inserirsi con
credibilità nel dialogo fra Berlino e Parigi: nel 1.0 trimestre 2012, la
frenata del Pil è brusca (-0,8%) e riguarda soprattutto industria e servizi,
mentre l’agricoltura si salva; e, mentre l’agenzia di rating Moody’s declassa
26 banche, fra le proteste dell’Abi, in Parlamento si fa ammoina sul falso in
bilancio, dove i ‘furbetti’ tentano l’ennesimo colpo gobbo e il governo, magari
per sbaglio, dà loro una mano.
A Bruxelles, il presidente del Consiglio Mario Monti
partecipa, come ministro delle finanze, a Eurogruppo ed Ecofin e incontra il
presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, sul tema della
crescita e sull’ipotesi di escludere gli investimenti dal computo del Patto di
Bilancio. E Monti riceve dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama l’invito ad aprire
la sessione economica del prossimo G8: segno del prestigio di cui gode
personalmente il Professore.
Ma i dati sull’Italia sono negativi: su base annua la
contrazione del Pil è dell’1,3%, la previsione per il 2012 pure un – 1,3% . E
mentre l’Abi denuncia come “irresponsabile” il giudizio di Moody’s
(“un’aggressione all’Italia”, “un giudizio da ignorare” perché parziale e
contraddittorio), l’Ocse ci coinvolge nell’allarme per la disoccupazione
giovanile, che è oltre il 17% in media tra i 15 e i 24 anni nell’area
dell’Organizzazione, però con picchi in Spagna e in Portogallo e in Grecia,
oltre il 50%, mentre in Italia è al 35,9% . ... ... ...
Ue: Germania-Francia, prove di dialogo (e di direttorio)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/05/2012
Si sono incontrati in ritardo. Ma solo di un’ora. E hanno già scoperto –parola di cancelliera- d’avere “punti di vista in comune” sulla crescita. Il fulmine che ha colpito l’aereo presidenziale di François Hollande in volo da Parigi a Berlino ha provocato solo un lieve slittamento dei tempi, ma non ha impedito il gesto simbolico d’una visita alla cancelliera tedesca Angela Merkel proprio nel giorno dell’insediamento all’Eliseo.
Un’apoteosi per Hollande: esordio da presidente, discorso programmatico, prima missione. E una Merkel nelle peste per una serie di risultati elettorali mediocri, o decisamente negativi, come quello di domenica nel Nord Reno Westfalia.
Un’apoteosi per Hollande: esordio da presidente, discorso programmatico, prima missione. E una Merkel nelle peste per una serie di risultati elettorali mediocri, o decisamente negativi, come quello di domenica nel Nord Reno Westfalia.
Tema obbligato del primo vertice franco-tedesco della nuova coppia Merkel-Hollande, che per il momento non si presta ad acronimi tipo Merkozy (Merkande suona decisamente male, almeno in francese): la crisi dell’euro, mentre la Grecia sprofonda di nuovo nella crisi e riprende la strada delle urne. La Merkel esordisce chiara, in conferenza stampa: “Noi –lei e Hollande, la Germania e la Francia- vogliamo che la Grecia resti nell’euro”. E il presidente conferma: loro, rileva, hanno “una responsabilità per l’Europa”.
Alla cancelliera, Hollande ha tratteggiato l’idea di un Patto per la Crescita, da affiancare al Patto di Bilancio appena sottoscritto da 25 dei 27 (il francese vorrebbe emendarlo, per favorire gli investimenti pubblici). E la Merkel ha rinnovato il suo credo che il rigore e la crescita non sono né antitetici né alternativi: la Germania ne è la prova, virtuosa nei bilanci e capace di crescere più del previsto (0,5%) nel 1.o trimestre 2012, nell’Unione che stagna o –vedi Italia- arretra.
Alla cancelliera, il presidente ha detto sapere di volere “un rapporto franco-tedesco equilibrato e rispettoso”, cioè non proprio come quello degli ultimi tempi del duo Merkozy, dove –si diceva a Bruxelles- Angela decideva e Nicolas annunciava. L’incontro “per conoscersi” e la cena per creare un’atmosfera d’intesa e di collaborazione non erano certo il momento delle decisioni. Hollande ha spiegato alla Merkel che vuole “rimettere in piedi” la Francia, che Sarkozy gli avrebbe lasciato in ginocchio, e di volere tracciare per l’Europa, insieme, se possibile, “una nuova via che coniughi crescita e rigore”, unità e giustizia sociale: un patto per la crescita che protegga “i nostri interessi e i nostri valori”, che ridia il senso dell’essere Unione.
La Merkel, invece, teneva a fargli capire di non essere, o almeno di non sentirsi, azzoppata dalla sconfitta della Cdu nel Nord Reno Westfalia: la batosta regionale non influirà sulla politica europea della Germania. Ma aggiunge di ritenere che tra lei e Hollande vi siano “dei punti di vista in comune” sulla crescita.
La Merkel, invece, teneva a fargli capire di non essere, o almeno di non sentirsi, azzoppata dalla sconfitta della Cdu nel Nord Reno Westfalia: la batosta regionale non influirà sulla politica europea della Germania. Ma aggiunge di ritenere che tra lei e Hollande vi siano “dei punti di vista in comune” sulla crescita.
La partita delle decisioni si giocherà di qui al Consiglio europeo di fine giugno, dopo la parata dei Vertici dei prossimi giorni (G8 e Nato negli Usa questa settimana, una cena dei leader dei 27 a Bruxelles la sera del 23), che saranno ancora occasione per sfoggiare sorrisi e intesa. Hollande lo mette in chiaro: sul tavolo dell’Ue, metterà tutte le sue idee, compresi quegli ‘eurobonds’ che, a sentirli nominare, ad Angela viene l’itterizia.
Ue: fulmini sull'euro, ma l'asse franco-tedesco galleggia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/05/2012
Un fulmine sull’Europa, ma non a ciel sereno: colpito da una
saetta in volo verso Berlino, l’aereo di Hollande, alla prima missione da
presidente francese, inverte la rotta e rientra a Parigi. Hollande ne riparte con
un altro velivolo, mentre l’Unione è nella bufera: l’incontro con la Merkel,
simbolo dell’intesa franco-tedesca, che tiene, anche se i protagonisti cambiano,
subisce un ritardo, ma si fa, in un clima d’ansia per il futuro della Grecia,
dell’euro, dell’Ue.
Il messaggio è che l’asse tra Berlino e Parigi, cui spesso
s’è aggrappata l’Ue, galleggia ancora, quando Atene pare affondare nel mare del
debito e portarsi giù la credibilità dell’Unione. Le Istituzioni di Bruxelles,
l’Italia, la Spagna, altri Paesi, puntellano come possono la speranza.
In Grecia, tramonta l’ipotesi di un governo d’unità nazionale
tecnico: a giugno, si voterà di nuovo. Il leader socialista Venizelos, ministro
delle finanze della crisi, dice: “Torniamo alle urne perché gli interessi partitici
hanno prevalso su quelli nazionali”. E c’è sentore che questo stia avvenendo
pure altrove, anche in Italia.
Il fallimento ad Atene delle trattative per un governo che
rispetti i patti con i partner e porti
il Paese fuori dalla sfiducia e della rabbia, fa andare in tilt i mercati, che di
questi tempi hanno la fibrillazione da panico (e da speculazione) facile: spread
a 440 punti, euro in calo, borse a picco. I dati del Pil nel 1.o trimestre dicono
che l’Ue resta in recessione, che la Francia stagna, che l’Italia cala dello
0,8% -mai così male dal 2009-.
Un quadro da tregenda. E’ questo il giorno che la Grecia
uscì dall’euro e inizio l’agonia della moneta unica e dell’integrazione
europea? Dopo una riunione dei ministri delle finanze, il presidente dell’Eurogruppo
Juncker afferma: “Faremo di tutto perché ciò non accada”. E una speranza arriva
dalla Francia: nel discorso di insediamento, Hollande s’impegna a indicare
all’Ue “una nuova via che coniughi crescita e rigore”, unità e giustizia
sociale: un patto per la crescita che protegga i nostri interessi e i nostri
valori, che ci ridia il senso dell’essere Unione. Chissà se suona bene,
tradotto in tedesco.
Germania: Italia, tutti contro Angela, euro-scettici e voltagabbana
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/05/2012
In Italia, votano tutti contro Angela Merkel: fosse qui da noi il Nord Reno Westfalia, i cristiano-democratici della cancelliera tedesca se ne uscirebbero con le pive nel sacco peggio di quanto successo a casa loro (ed è già stata una batosta). Le votano contro destra e sinistra, specie le estreme, e l’Idv, all’insegna de “l’Italia deve cambiare rotta”, adesso che “in Europa soffra un vento nuovo”; qualunquisti ed euro-scettici, che spesso si equivalgono; e i voltagabbana sotto tutte le bandiere. E Il Giornale tira la sarabanda, titolando elegantemente ‘Figura di Merkel’.
Intendiamoci, le votano contro soprattutto quelli per cui io non voterei mai. Senza, per questo, votare necessariamente per Angela, ché Hannelore, la sua nemesi socialdemocratica, donna e bionda come lei, sembra meglio –politicamente, sia ben chiaro-. Si direbbe, a leggere in particolare i commenti targati Pdl, che la sconfitta della Merkel abbia il sapore di una vendetta: come la defenestrazione di Nicolas Sarkozy, ripaga i portaborse di Mr B dei sorrisetti ironici che il presidente francese e la cancelliera tedesca si scambiavano quando c’era di mezzo Silvio.
Perché ci sta che il successo socialdemocratico ‘gasi’ le sinistre d’opposizione e pure quelle di governo. E ci sta pure che la sconfessione alla linea del rigore dia forza al ‘partito della crescita’ nel governo e dentro le Istituzioni. Il presidente Napolitano constata l’emergere da Francia e Germania di “elementi di novità” nel panorama europeo. Il ministro Passera vi legge “una crescita di sensibilità nell’Ue per l’occupazione”. E il ministro Barca “una domanda di crescita”. Solo la ministra Fornero va controcorrente, sostenendo che il voto di domenica “non è una sconfessione della linea del rigore”, anche se a vincere è la ‘regina dei debiti’.
Sono in tanti, in Italia e in Europa, a sentirsi stretti nella gabbia dei conti in ordine in cui la Germania ci tiene chiusi. NYT e Pd hanno analisi equivalenti: il giornale americano ritiene che l’esito del voto “aumenta le possibilità di un cambio di linea nell’Ue”, che, detto per inciso, farebbe solo piacere al presidente Usa Barack Obama; e il Partito democratico giudica ormai “isolata” la cancelliera e “al capolinea” la sua politica. E anche nel Pdl c’è chi conserva una misura diplomatica nei commenti, come Frattini, che, memore d’essere stato ministro degli esteri, s’esprime con garbo: “La Merkel capisce che il rigore da solo non basta” (e vorrei pure vedere che il tagliare fosse un fine e non un mezzo).
Ma la Meloni addirittura “gioisce” per la sconfitta della cancelliera, come se Hannelore la rossa fosse un’amica sua, e i dioscuri di tutti i commenti, Cicchitto e Gasparri, gongolano e pontificano. "I tedeschi hanno esodato la Merkel”, dice Gasparri, che se ne intende, perché già esodato a sua volta. E aggiunge, non solo vagamente minaccioso: “Monti ne prenda atto. Noi lo faremo. Meglio che il governo faccia altrettanto". Cicchitto è più didascalico e spiega: "La linea della Merkel è in crisi anche in Germania, perché i tedeschi si rendono conto che questa linea ultrarigorista uccide il consumo degli altri Paesi; e dunque anche la Germania, che ha imprese esportatrici, viene a subirne indirettamente le conseguenze". Elementare, Fabrizio! Che tonta ‘sta Angela che non l’ha ancora capito, pur se la Germania, a dire il vero, continua a crescere più degli altri in Europa.
Che succede in Europa?, e soprattutto in Italia? Tutti a sinistra, sotto le insegne di Hollande e della Kraft, che pare un po’ la vecchia abitudine si salire sul carro del vincitore? Il problema non è volere la crescita, ché quella la vogliono tutti, persino la Merkel; il problema è capire come innescarla (e in fretta). Hollande che vince, la Merkel che perde: pare il coro dell’Adelchi, con tutti i godere perché l’oppressore è battuto. Finchè il nuovo signore non si mesce al vinto nemico e l’un popolo e l’altro sul collo ci sta. Scommettiamo che, se non ci diamo da fare, al Vertice europeo di fine giugno siamo di nuovo a parlare del direttorio franco-tedesco?
In Italia, votano tutti contro Angela Merkel: fosse qui da noi il Nord Reno Westfalia, i cristiano-democratici della cancelliera tedesca se ne uscirebbero con le pive nel sacco peggio di quanto successo a casa loro (ed è già stata una batosta). Le votano contro destra e sinistra, specie le estreme, e l’Idv, all’insegna de “l’Italia deve cambiare rotta”, adesso che “in Europa soffra un vento nuovo”; qualunquisti ed euro-scettici, che spesso si equivalgono; e i voltagabbana sotto tutte le bandiere. E Il Giornale tira la sarabanda, titolando elegantemente ‘Figura di Merkel’.
Intendiamoci, le votano contro soprattutto quelli per cui io non voterei mai. Senza, per questo, votare necessariamente per Angela, ché Hannelore, la sua nemesi socialdemocratica, donna e bionda come lei, sembra meglio –politicamente, sia ben chiaro-. Si direbbe, a leggere in particolare i commenti targati Pdl, che la sconfitta della Merkel abbia il sapore di una vendetta: come la defenestrazione di Nicolas Sarkozy, ripaga i portaborse di Mr B dei sorrisetti ironici che il presidente francese e la cancelliera tedesca si scambiavano quando c’era di mezzo Silvio.
Perché ci sta che il successo socialdemocratico ‘gasi’ le sinistre d’opposizione e pure quelle di governo. E ci sta pure che la sconfessione alla linea del rigore dia forza al ‘partito della crescita’ nel governo e dentro le Istituzioni. Il presidente Napolitano constata l’emergere da Francia e Germania di “elementi di novità” nel panorama europeo. Il ministro Passera vi legge “una crescita di sensibilità nell’Ue per l’occupazione”. E il ministro Barca “una domanda di crescita”. Solo la ministra Fornero va controcorrente, sostenendo che il voto di domenica “non è una sconfessione della linea del rigore”, anche se a vincere è la ‘regina dei debiti’.
Sono in tanti, in Italia e in Europa, a sentirsi stretti nella gabbia dei conti in ordine in cui la Germania ci tiene chiusi. NYT e Pd hanno analisi equivalenti: il giornale americano ritiene che l’esito del voto “aumenta le possibilità di un cambio di linea nell’Ue”, che, detto per inciso, farebbe solo piacere al presidente Usa Barack Obama; e il Partito democratico giudica ormai “isolata” la cancelliera e “al capolinea” la sua politica. E anche nel Pdl c’è chi conserva una misura diplomatica nei commenti, come Frattini, che, memore d’essere stato ministro degli esteri, s’esprime con garbo: “La Merkel capisce che il rigore da solo non basta” (e vorrei pure vedere che il tagliare fosse un fine e non un mezzo).
Ma la Meloni addirittura “gioisce” per la sconfitta della cancelliera, come se Hannelore la rossa fosse un’amica sua, e i dioscuri di tutti i commenti, Cicchitto e Gasparri, gongolano e pontificano. "I tedeschi hanno esodato la Merkel”, dice Gasparri, che se ne intende, perché già esodato a sua volta. E aggiunge, non solo vagamente minaccioso: “Monti ne prenda atto. Noi lo faremo. Meglio che il governo faccia altrettanto". Cicchitto è più didascalico e spiega: "La linea della Merkel è in crisi anche in Germania, perché i tedeschi si rendono conto che questa linea ultrarigorista uccide il consumo degli altri Paesi; e dunque anche la Germania, che ha imprese esportatrici, viene a subirne indirettamente le conseguenze". Elementare, Fabrizio! Che tonta ‘sta Angela che non l’ha ancora capito, pur se la Germania, a dire il vero, continua a crescere più degli altri in Europa.
Che succede in Europa?, e soprattutto in Italia? Tutti a sinistra, sotto le insegne di Hollande e della Kraft, che pare un po’ la vecchia abitudine si salire sul carro del vincitore? Il problema non è volere la crescita, ché quella la vogliono tutti, persino la Merkel; il problema è capire come innescarla (e in fretta). Hollande che vince, la Merkel che perde: pare il coro dell’Adelchi, con tutti i godere perché l’oppressore è battuto. Finchè il nuovo signore non si mesce al vinto nemico e l’un popolo e l’altro sul collo ci sta. Scommettiamo che, se non ci diamo da fare, al Vertice europeo di fine giugno siamo di nuovo a parlare del direttorio franco-tedesco?
Germania: Angela e Hannelore, oggi nemiche, domani forse alleate
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/05/2012
Angela, la 'ragazza' è diventata la 'signora del rigore'
Angela Merkel, cancelliera tedesca dal 2005 -prima donna in quel ruolo-, ha 58 anni ed è, secondo Forbes, la donna più potente al Mondo (di sicuro, d’Europa). Ma questi non sono per lei i giorni migliori: nell’Ue, le sue scelte anti-crisi, improntate al rigore, sono contestate; e in Germania, i test elettorali –l’ultimo, quello di domenica nel Nord Reno Westfalia, il land più popoloso- non premiano la sua coalizione tra Cdu, cristiano-democratici, e Fdp, liberali.
Figlia d’un pastore luterano, la Merkel nasce ad Amburgo e cresce e vive nella Germania Est. Laureata in chimica, sposata con un professore molto discreto –e che viaggia ‘low cost’, quando lo fa per conto suo-, Angela parla bene il russo, come praticamente tutti quelli della sua generazione che fecero gli studi nella Rdt. Ma la circostanza, come la facilità con cui la famiglia si muoveva tra le allora due Germanie, valsero al padre sospetti di collaborazionismo con il regime comunista e la sua onnipresente polizia segreta, la Stasi.
Dopo la riunificazione, la Merkel fu il più giovane ministro di un governo Kohl –per tutti era 'la ragazza', das Maedchen-. Cancelliera nel 2005, alla guida di una coalizione Cdu-Spd, e confermata nel 2009, in alleanza con l’Fdp, intende puntare a un terzo mandato l’anno prossimo. Magari, con un ritorno alle origini, cioè con una riedizione della ‘grosse koalition’. Oggi, Hannelore Kraft, la presidente del Nord Reno Westfalia, che ha appena inferto alla Cdu una bruciante sconfitta, e Angela sono figure contrapposte. Domani, cioè dopo le politiche fra 16 mesi, potrebbero essere alleate, in una Germania a trazione tutta femminile.
Il voto di domenica segna per i cristiano-democratici il risultato più negativo della loro storia nel Land. Ma la Merkel ne esce più indebolita sul piano europeo che su quello nazionale, perché la sua sconfitta dà forza, o almeno coraggio, a quanti sostengono che non di soli tagli vive l’Unione e predicano azioni per la crescita.
L’impatto della batosta regionale della Cdu resta, però, da valutare. A Berlino, almeno nell’immediato, potrebbe non cambiare nulla, anche se il ministro dell’ambiente, Norbert Roettgen, leader locale, rischia il posto. A Bruxelles, può darsi che la Merkel, sentendosi più debole, si mostri più morbida; ma può anche darsi che, come la fiera ferita, sia più feroce nella difesa delle proprie convinzioni. E, tanto per cominciare, fa sapere che la sconfitta non influirà sulla sua politica europea.
Del resto, i sondaggi dicono che la linea della fermezza della Merkel verso i partner europei spendaccioni e inaffidabili resta popolare in Germania: tre tedeschi su cinque sono contrari a misure che inneschino la crescita con nuovi debiti. Con buona pace, almeno per ora, del neopresidente francese François Hollande e del premier italiano Mario Monti, che hanno in mente una ricetta fatta d’investimenti pubblici senza impatto sui deficit nazionali.
Certo, il risultato elettorale non è un buon viatico per i fitti impegni dei prossimi giorni: oggi, la cancelliera vede a Berlino il presidente Hollande, appena insediatosi all’Eliseo; poi andrà ai Vertici del G8 e della Nato -entrambi a Chicago, cioè a casa di quel Barack Obama che pure non le dà tregua con la crescita-; e il 23 sarà a Bruxelles alla cena dei leader dell’Ue.
Hannelore, che forza!, la 'regina del debiti'
Che forza!, Hannelore Kraft. Per noi, quel nome è al massimo sinonimo di sottilette. Ma in tedesco kraft vuol dire forza, o anche energia. E la Kraft d’energia ne ha un sacco. Oggi, è lei l’Hannelore più famosa di Germania, mentre un tempo lo era la moglie del cancelliere Helmut Kohl, autrice di libri di ricette tedesche di buon successo –il marito le faceva da assaggiatore-. Bionda come la cancelliera Angela Merkel, ma più bionda, con i capelli che le incorniciano il volto, mentre Angela preferisce il taglio a scodella, la presidente del Nord Reno Westfalia, il land più popoloso di Germania, ha appena inflitto una clamorosa batosta alla Cdu, il partito della Merkel.
Fortemente industrializzato, da sempre roccaforte della sinistra, il Nord Reno Westfalia rappresentava l’ultimo test elettorale tedesco significativo di quest’anno. I socialdemocratici dell’Spd erano i favoriti, ma il loro successo è stato più netto del previsto. Spd e Cdu, alla pari nei risultati 2010, si ritrovano oggi staccati di quasi 13 punti: i socialdemocratici poco sotto il 39%, i cristiano-democratici poco sopra il 26%. Tengono i Verdi (11,5%), vanno meglio del temuto i liberali dell’Fdp (8,4%), vengono avanti i Pirati (7,6%) -per la quarta volta consecutiva, entrano in un parlamento regionale-; male, invece, la sinistra della Linke, come se il testimone del voto di protesta e di rifiuto sia ormai passato dagli anziani nostalgici ai giovani euro-scettici.
Moglie di un compagno d’Università conosciuto a una festa di carnevale, madre di un ragazzo di 19 anni che le sale accanto sul palco più per dovere che per convinzione, 51 anni, un fisico che non le meriterebbe certo i commenti grossolani che Mr B ebbe per la cancelliera, Hannelore Kraft è una donna solida, che parla con l’accento della Ruehr e ha una laurea in economia conseguita dopo avere lavorato in banca da impiegata. Fa politica dal ’94, sempre con i socialdemocratici: ministro regionale dal 2001, vicepresidente del partito dal 2009, presidente del Land dal 2010, oggi è una potenziale candidata cancelliera socialdemocratica alle elezioni politiche del settembre 2013 –ma finora lei ha sempre detto no alle sirene di Berlino-.
Se la Merkel è nell’Ue l’alfiere del rigore al tempo della crisi, Hannelore è la ‘regina dei debiti’: il suo governo è andato in crisi proprio sul disavanzo di bilancio; e lei ha centrato la sua campagna su una riduzione del deficit graduale. Per lei, la maggioranza rosso-verde a Duesseldorf –vuole governare coi Verdi- è un "forte segnale” a Berlino (e, magari, pure a Bruxelles).
Angela, la 'ragazza' è diventata la 'signora del rigore'
Angela Merkel, cancelliera tedesca dal 2005 -prima donna in quel ruolo-, ha 58 anni ed è, secondo Forbes, la donna più potente al Mondo (di sicuro, d’Europa). Ma questi non sono per lei i giorni migliori: nell’Ue, le sue scelte anti-crisi, improntate al rigore, sono contestate; e in Germania, i test elettorali –l’ultimo, quello di domenica nel Nord Reno Westfalia, il land più popoloso- non premiano la sua coalizione tra Cdu, cristiano-democratici, e Fdp, liberali.
Figlia d’un pastore luterano, la Merkel nasce ad Amburgo e cresce e vive nella Germania Est. Laureata in chimica, sposata con un professore molto discreto –e che viaggia ‘low cost’, quando lo fa per conto suo-, Angela parla bene il russo, come praticamente tutti quelli della sua generazione che fecero gli studi nella Rdt. Ma la circostanza, come la facilità con cui la famiglia si muoveva tra le allora due Germanie, valsero al padre sospetti di collaborazionismo con il regime comunista e la sua onnipresente polizia segreta, la Stasi.
Dopo la riunificazione, la Merkel fu il più giovane ministro di un governo Kohl –per tutti era 'la ragazza', das Maedchen-. Cancelliera nel 2005, alla guida di una coalizione Cdu-Spd, e confermata nel 2009, in alleanza con l’Fdp, intende puntare a un terzo mandato l’anno prossimo. Magari, con un ritorno alle origini, cioè con una riedizione della ‘grosse koalition’. Oggi, Hannelore Kraft, la presidente del Nord Reno Westfalia, che ha appena inferto alla Cdu una bruciante sconfitta, e Angela sono figure contrapposte. Domani, cioè dopo le politiche fra 16 mesi, potrebbero essere alleate, in una Germania a trazione tutta femminile.
Il voto di domenica segna per i cristiano-democratici il risultato più negativo della loro storia nel Land. Ma la Merkel ne esce più indebolita sul piano europeo che su quello nazionale, perché la sua sconfitta dà forza, o almeno coraggio, a quanti sostengono che non di soli tagli vive l’Unione e predicano azioni per la crescita.
L’impatto della batosta regionale della Cdu resta, però, da valutare. A Berlino, almeno nell’immediato, potrebbe non cambiare nulla, anche se il ministro dell’ambiente, Norbert Roettgen, leader locale, rischia il posto. A Bruxelles, può darsi che la Merkel, sentendosi più debole, si mostri più morbida; ma può anche darsi che, come la fiera ferita, sia più feroce nella difesa delle proprie convinzioni. E, tanto per cominciare, fa sapere che la sconfitta non influirà sulla sua politica europea.
Del resto, i sondaggi dicono che la linea della fermezza della Merkel verso i partner europei spendaccioni e inaffidabili resta popolare in Germania: tre tedeschi su cinque sono contrari a misure che inneschino la crescita con nuovi debiti. Con buona pace, almeno per ora, del neopresidente francese François Hollande e del premier italiano Mario Monti, che hanno in mente una ricetta fatta d’investimenti pubblici senza impatto sui deficit nazionali.
Certo, il risultato elettorale non è un buon viatico per i fitti impegni dei prossimi giorni: oggi, la cancelliera vede a Berlino il presidente Hollande, appena insediatosi all’Eliseo; poi andrà ai Vertici del G8 e della Nato -entrambi a Chicago, cioè a casa di quel Barack Obama che pure non le dà tregua con la crescita-; e il 23 sarà a Bruxelles alla cena dei leader dell’Ue.
Hannelore, che forza!, la 'regina del debiti'
Che forza!, Hannelore Kraft. Per noi, quel nome è al massimo sinonimo di sottilette. Ma in tedesco kraft vuol dire forza, o anche energia. E la Kraft d’energia ne ha un sacco. Oggi, è lei l’Hannelore più famosa di Germania, mentre un tempo lo era la moglie del cancelliere Helmut Kohl, autrice di libri di ricette tedesche di buon successo –il marito le faceva da assaggiatore-. Bionda come la cancelliera Angela Merkel, ma più bionda, con i capelli che le incorniciano il volto, mentre Angela preferisce il taglio a scodella, la presidente del Nord Reno Westfalia, il land più popoloso di Germania, ha appena inflitto una clamorosa batosta alla Cdu, il partito della Merkel.
Fortemente industrializzato, da sempre roccaforte della sinistra, il Nord Reno Westfalia rappresentava l’ultimo test elettorale tedesco significativo di quest’anno. I socialdemocratici dell’Spd erano i favoriti, ma il loro successo è stato più netto del previsto. Spd e Cdu, alla pari nei risultati 2010, si ritrovano oggi staccati di quasi 13 punti: i socialdemocratici poco sotto il 39%, i cristiano-democratici poco sopra il 26%. Tengono i Verdi (11,5%), vanno meglio del temuto i liberali dell’Fdp (8,4%), vengono avanti i Pirati (7,6%) -per la quarta volta consecutiva, entrano in un parlamento regionale-; male, invece, la sinistra della Linke, come se il testimone del voto di protesta e di rifiuto sia ormai passato dagli anziani nostalgici ai giovani euro-scettici.
Moglie di un compagno d’Università conosciuto a una festa di carnevale, madre di un ragazzo di 19 anni che le sale accanto sul palco più per dovere che per convinzione, 51 anni, un fisico che non le meriterebbe certo i commenti grossolani che Mr B ebbe per la cancelliera, Hannelore Kraft è una donna solida, che parla con l’accento della Ruehr e ha una laurea in economia conseguita dopo avere lavorato in banca da impiegata. Fa politica dal ’94, sempre con i socialdemocratici: ministro regionale dal 2001, vicepresidente del partito dal 2009, presidente del Land dal 2010, oggi è una potenziale candidata cancelliera socialdemocratica alle elezioni politiche del settembre 2013 –ma finora lei ha sempre detto no alle sirene di Berlino-.
Se la Merkel è nell’Ue l’alfiere del rigore al tempo della crisi, Hannelore è la ‘regina dei debiti’: il suo governo è andato in crisi proprio sul disavanzo di bilancio; e lei ha centrato la sua campagna su una riduzione del deficit graduale. Per lei, la maggioranza rosso-verde a Duesseldorf –vuole governare coi Verdi- è un "forte segnale” a Berlino (e, magari, pure a Bruxelles).
martedì 15 maggio 2012
Ue: Merkel sconfitta in Germania, vincitore in Europa cercasi
Scritto per EurActiv il 14/05/2012. Altra versione su L'Indro
Ride, nel Nord Reno Westfalia, Hannelore; e piange, in Germania, Angela. In Europa, s’interrogano e sperano François e un po’ pure Mario e Mariano e Euangelos. Il voto del land tedesco più popoloso, oltre 18 milioni di abitanti, infligge alla Cdu della cancelliera Angela Merkel la batosta più severa mai rimediata da queste parti: indebolisce, così, quali che ne siano state le ragioni, la paladina del rigore nell’Ue e dà per contro forza, o almeno coraggio, a quanti ammoniscono che non di soli tagli vive l’Unione e predicano politiche per la crescita. Oltre ad esaltare Hannelore Kraft, presidente uscente e, a questo punto, confermatissimo.
L’impatto nazionale ed europeo della sconfitta regionale della cancelliera resta, però, da valutare. A Berlino, almeno nell’immediato, potrebbe non cambiare nulla, anche se il ministro dell’ambiente, alfiere della Cdu nel Land, Norbert Roettgen, rischia il posto. A Bruxelles, può darsi che la Merkel, sentendosi più debole, si mostri più morbida; ma può anche darsi che, come la fiera ferita, appaia più feroce nella difesa delle proprie convinzioni. Tanto per cominciare, la cancelliera fa sapere che la sconfitta non influirà sulla sua politica europea.
Del resto, i sondaggi dicono che la linea della fermezza della Merkel nei confronti dei partner europei spendaccioni e inaffidabili è popolare in Germania: per il settimanale Stern, tre tedeschi su cinque sono contrari a misure che inneschino la crescita con nuovi debiti. Con buona pace, almeno per ora, del neopresidente francese François Hollande e del premier italiano Mario Monti, che hanno in mente una ricetta fatta d’investimenti pubblici senza impatto sui deficit nazionali.
Il voto nel Nord Reno Westfalia è ultimo grande test elettorale tedesco di quest’anno: alle politiche, che saranno fra 16 mesi, nel settembre 2013, l’attuale coalizione potrebbe, a questo punto, arrivare senza scossoni, perché, se i cristiano-democratici della Cdu escono ‘bastonati’, i loro alleati liberali dell’Fdp mostrano una certa tenuta dopo le recenti emorragie.
Certo, un risultato non negativo domenica sarebbe stato un buon viatico per la Merkel, specie in vista degli appuntamenti dei prossimi giorni: martedì 15, vede a Berlino il presidente Hollande, appena insediatosi all’Eliseo; poi andrà ai Vertici del G8 e della Nato -entrambi a Chicago, cioè a casa di quel Barack Obama che pure non le dà tregua con la crescita-; e il 23 sarà a Bruxelles alla cena dei leader dell’Ue. La parola d’ordine dello staff della cancelliera è smorzare le attese: l’incontro con Hollande e la cena del 23 non preludono a decisioni, ma serviranno solo a fare conoscenza.
La Merkel pensa di potere instaurare con Hollande, che ha le priorità della crescita e della Grecia, un rapporto di collaborazione “stabile” . Ma Alex Weber, capo della Bundesbank, richiama il presidente al rispetto del Patto di Bilancio. E, quanto alla Grecia, mette le cose in chiaro: se non taglia, Atene non avrà gli aiuti dell’Ue; e l’uscita dall’euro è un problema più per i greci che per i partner. Giudizi come macigni, mentre il presidente Karolos Papoulias, il leader del Pasok Euangelos Venizelos e pochi altri leader giocano la carta del governo d’emergenza.
Se Olli Rehn fosse un elettore del Nord Reno Westfalia, la cancelliera avrebbe un cruccio in meno: non passa giorno senza che il responsabile della Commissione europea per gli Affari economici dia sostegno alla cancelliera e bacchetti quelli che, come il professor Monti, sono tentati dal finanziare la crescita facendo nuovi debiti: “La strada maestra -dice Rehn- sono riforme strutturali e riduzione del deficit”, parole che sono musica per la Merkel. Ma Rehn è un finlandese –e pure liberale, manco cristiano-democratico.
E il suo parere, evidentemente, non ha molto influito sulla consultazione nel cuore della Germania, in un Land fortemente industriale (niente a che vedere con lo Schleswig Holstein piccolo e rurale andato alle urne il 6 maggio), da sempre un bastione della sinistra. I socialdemocratici dell’Spd erano favoriti, ma il loro successo è stato più netto delle previsioni. Spd e Cdu, alla pari nei risultati 2010, si ritrovano distaccati di quasi 13 punti: i socialdemocratici poco sotto il 39%, i cristiano-democratici poco sopra il 26%. Tengono i Verdi (11,5%), vanno meglio del temuto i liberali (8,4%), vengono avanti i Pirati (7,6%) -per la quarta volta consecutiva, entrano in un parlamento regionale-; male, invece, la sinistra della Linke, come se il testimone del voto di protesta e di rifiuto sia ormai passato dagli anziani ai giovani.
E l’Italia, in tutto questo? Proprio quando molti in Europa, e pure in America, s’aspettano che Monti persuada la Merkel e faccia opera di mediazione tra il presidente francese e la cancelliera tedesca, ecco che beghe e trappole di Casa Nostra paiono spingere il Professore verso la casella di partenza. Sempre che non sia quella di fine corsa. E l’Italia ripropone in filigrana un suo ‘scenario greco’, intriso marcio di calcoli della politica.
La stampa anglosassone più autorevole -e la meno sospetta di lassismo sul fronte del rigore, dal WSJ al FT- presta al premier italiano l’autorevolezza e l’influenza per avvicinare al partito della crescita la Merkel, che ha per il Professore un’attenzione speciale. Ma Monti ha più difficoltà a conquistare ‘i cuori e le menti’ dei politici italiani che quelli dei leader europei. E se l’Italia fa marcia indietro, se i calcoli politici interni fanno deragliare l'azione di risanamento e quella di riforma, la credibilità internazionale di Monti e del paese subirà un colpo forse irrimediabile.
Nella casella dei delusi, accanto ad Angela la tedesca, e anche a François il francese, che, da neofita del Club dei Grandi, ha bisogno d’alleati e mediatori, ci sarebbe il presidente Usa Barak Obama. Adesso che s’avvicinano i Vertici di Chicago e che le notizie dell’economia americana sono positive, Obama risale un po’ in cattedra e bistratta l’Europa, che non ha seguito la strada americana dell’immissione di denaro pubblico nell’economia per stimolare la ripresa. Se l’Ue fatica a uscire dalla crisi, rallenta pure la crescita degli Stati Uniti (e, quindi, non semplifica la vita a Obama, cioè la sua rielezione il 6 novembre).
Dunque, forza Mario sulla via della detrazione degli investimenti pubblici dai deficit nazionali: Hollande, Rajoy, le istituzioni comunitarie sono già convinti; basta spiegarlo bene alla Merkel. E, invece, sul punto di diventare protagonista, o almeno ago della bilancia, l’Italia ‘batte in testa’. E i numeri non sono buoni: inflazione ai massimi dal 2008, debito pubblico record, entrate tributarie in calo. La Commissione europea ha appena pubblicato le previsioni sull’andamento delle economie dell’Ue: la situazione italiana è peggiore del previsto, la crescita resta negativa, la disoccupazione cresce ancora. Secondo Bruxelles, nel 2012 il Pil italiano calerà dell’1,4% (a febbraio la previsione era di -1,3%), mentre nel 2013 aumenterà dello 0,4% (a gennaio la previsione era di +0,5%). C’è pure una revisione delle stime di pareggio del bilancio: il rapporto deficit/Pil sarà del 2% nel 2012 e dell’1,1% nel 2013. Appena circola la voce che la Commissione suggerisca un’altra manovra, dell’ordine di 8 miliardi di euro, arriva la smentita di Rehn: “L’Italia è sulla buona strada”, dice, purché –appunto, non scatti il gioco dell’oca. E ci si ritrovi alla casella di partenza. O peggio in prigione, fermi un giro, quello decisivo.
Ride, nel Nord Reno Westfalia, Hannelore; e piange, in Germania, Angela. In Europa, s’interrogano e sperano François e un po’ pure Mario e Mariano e Euangelos. Il voto del land tedesco più popoloso, oltre 18 milioni di abitanti, infligge alla Cdu della cancelliera Angela Merkel la batosta più severa mai rimediata da queste parti: indebolisce, così, quali che ne siano state le ragioni, la paladina del rigore nell’Ue e dà per contro forza, o almeno coraggio, a quanti ammoniscono che non di soli tagli vive l’Unione e predicano politiche per la crescita. Oltre ad esaltare Hannelore Kraft, presidente uscente e, a questo punto, confermatissimo.
L’impatto nazionale ed europeo della sconfitta regionale della cancelliera resta, però, da valutare. A Berlino, almeno nell’immediato, potrebbe non cambiare nulla, anche se il ministro dell’ambiente, alfiere della Cdu nel Land, Norbert Roettgen, rischia il posto. A Bruxelles, può darsi che la Merkel, sentendosi più debole, si mostri più morbida; ma può anche darsi che, come la fiera ferita, appaia più feroce nella difesa delle proprie convinzioni. Tanto per cominciare, la cancelliera fa sapere che la sconfitta non influirà sulla sua politica europea.
Del resto, i sondaggi dicono che la linea della fermezza della Merkel nei confronti dei partner europei spendaccioni e inaffidabili è popolare in Germania: per il settimanale Stern, tre tedeschi su cinque sono contrari a misure che inneschino la crescita con nuovi debiti. Con buona pace, almeno per ora, del neopresidente francese François Hollande e del premier italiano Mario Monti, che hanno in mente una ricetta fatta d’investimenti pubblici senza impatto sui deficit nazionali.
Il voto nel Nord Reno Westfalia è ultimo grande test elettorale tedesco di quest’anno: alle politiche, che saranno fra 16 mesi, nel settembre 2013, l’attuale coalizione potrebbe, a questo punto, arrivare senza scossoni, perché, se i cristiano-democratici della Cdu escono ‘bastonati’, i loro alleati liberali dell’Fdp mostrano una certa tenuta dopo le recenti emorragie.
Certo, un risultato non negativo domenica sarebbe stato un buon viatico per la Merkel, specie in vista degli appuntamenti dei prossimi giorni: martedì 15, vede a Berlino il presidente Hollande, appena insediatosi all’Eliseo; poi andrà ai Vertici del G8 e della Nato -entrambi a Chicago, cioè a casa di quel Barack Obama che pure non le dà tregua con la crescita-; e il 23 sarà a Bruxelles alla cena dei leader dell’Ue. La parola d’ordine dello staff della cancelliera è smorzare le attese: l’incontro con Hollande e la cena del 23 non preludono a decisioni, ma serviranno solo a fare conoscenza.
La Merkel pensa di potere instaurare con Hollande, che ha le priorità della crescita e della Grecia, un rapporto di collaborazione “stabile” . Ma Alex Weber, capo della Bundesbank, richiama il presidente al rispetto del Patto di Bilancio. E, quanto alla Grecia, mette le cose in chiaro: se non taglia, Atene non avrà gli aiuti dell’Ue; e l’uscita dall’euro è un problema più per i greci che per i partner. Giudizi come macigni, mentre il presidente Karolos Papoulias, il leader del Pasok Euangelos Venizelos e pochi altri leader giocano la carta del governo d’emergenza.
Se Olli Rehn fosse un elettore del Nord Reno Westfalia, la cancelliera avrebbe un cruccio in meno: non passa giorno senza che il responsabile della Commissione europea per gli Affari economici dia sostegno alla cancelliera e bacchetti quelli che, come il professor Monti, sono tentati dal finanziare la crescita facendo nuovi debiti: “La strada maestra -dice Rehn- sono riforme strutturali e riduzione del deficit”, parole che sono musica per la Merkel. Ma Rehn è un finlandese –e pure liberale, manco cristiano-democratico.
E il suo parere, evidentemente, non ha molto influito sulla consultazione nel cuore della Germania, in un Land fortemente industriale (niente a che vedere con lo Schleswig Holstein piccolo e rurale andato alle urne il 6 maggio), da sempre un bastione della sinistra. I socialdemocratici dell’Spd erano favoriti, ma il loro successo è stato più netto delle previsioni. Spd e Cdu, alla pari nei risultati 2010, si ritrovano distaccati di quasi 13 punti: i socialdemocratici poco sotto il 39%, i cristiano-democratici poco sopra il 26%. Tengono i Verdi (11,5%), vanno meglio del temuto i liberali (8,4%), vengono avanti i Pirati (7,6%) -per la quarta volta consecutiva, entrano in un parlamento regionale-; male, invece, la sinistra della Linke, come se il testimone del voto di protesta e di rifiuto sia ormai passato dagli anziani ai giovani.
E l’Italia, in tutto questo? Proprio quando molti in Europa, e pure in America, s’aspettano che Monti persuada la Merkel e faccia opera di mediazione tra il presidente francese e la cancelliera tedesca, ecco che beghe e trappole di Casa Nostra paiono spingere il Professore verso la casella di partenza. Sempre che non sia quella di fine corsa. E l’Italia ripropone in filigrana un suo ‘scenario greco’, intriso marcio di calcoli della politica.
La stampa anglosassone più autorevole -e la meno sospetta di lassismo sul fronte del rigore, dal WSJ al FT- presta al premier italiano l’autorevolezza e l’influenza per avvicinare al partito della crescita la Merkel, che ha per il Professore un’attenzione speciale. Ma Monti ha più difficoltà a conquistare ‘i cuori e le menti’ dei politici italiani che quelli dei leader europei. E se l’Italia fa marcia indietro, se i calcoli politici interni fanno deragliare l'azione di risanamento e quella di riforma, la credibilità internazionale di Monti e del paese subirà un colpo forse irrimediabile.
Nella casella dei delusi, accanto ad Angela la tedesca, e anche a François il francese, che, da neofita del Club dei Grandi, ha bisogno d’alleati e mediatori, ci sarebbe il presidente Usa Barak Obama. Adesso che s’avvicinano i Vertici di Chicago e che le notizie dell’economia americana sono positive, Obama risale un po’ in cattedra e bistratta l’Europa, che non ha seguito la strada americana dell’immissione di denaro pubblico nell’economia per stimolare la ripresa. Se l’Ue fatica a uscire dalla crisi, rallenta pure la crescita degli Stati Uniti (e, quindi, non semplifica la vita a Obama, cioè la sua rielezione il 6 novembre).
Dunque, forza Mario sulla via della detrazione degli investimenti pubblici dai deficit nazionali: Hollande, Rajoy, le istituzioni comunitarie sono già convinti; basta spiegarlo bene alla Merkel. E, invece, sul punto di diventare protagonista, o almeno ago della bilancia, l’Italia ‘batte in testa’. E i numeri non sono buoni: inflazione ai massimi dal 2008, debito pubblico record, entrate tributarie in calo. La Commissione europea ha appena pubblicato le previsioni sull’andamento delle economie dell’Ue: la situazione italiana è peggiore del previsto, la crescita resta negativa, la disoccupazione cresce ancora. Secondo Bruxelles, nel 2012 il Pil italiano calerà dell’1,4% (a febbraio la previsione era di -1,3%), mentre nel 2013 aumenterà dello 0,4% (a gennaio la previsione era di +0,5%). C’è pure una revisione delle stime di pareggio del bilancio: il rapporto deficit/Pil sarà del 2% nel 2012 e dell’1,1% nel 2013. Appena circola la voce che la Commissione suggerisca un’altra manovra, dell’ordine di 8 miliardi di euro, arriva la smentita di Rehn: “L’Italia è sulla buona strada”, dice, purché –appunto, non scatti il gioco dell’oca. E ci si ritrovi alla casella di partenza. O peggio in prigione, fermi un giro, quello decisivo.
domenica 13 maggio 2012
Germania: Nord Reno Westfalia, Merkel che perde non si cambia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/05/2012
Se Olli Rehn fosse un elettore del Nord Reno Westfalia, Angela Merkel avrebbe un cruccio in meno: non passa giorno senza che Rehn dia sostegno alla cancelliera e bacchetti quelli che, come il Professor Monti, sono inclini a finanziare la crescita facendo nuovi debiti: “la strada maestra –dice- sono le riforme strutturali e la riduzione del deficit”, parole che sono musica per la Merkel.
Ma il responsabile europeo per gli affari economici è un finlandese. E il suo parere non pesa sulla consultazione di oggi nel cuore della Germania: un test nel land tedesco più popoloso -18 milioni di abitanti-, fortemente industriale (niente a che vedere con lo Schleswig Holstein piccolo e rurale alle urne una settimana fa)..
Il Nord Reno Westfalia è un bastione della sinistra tedesca e i socialdemocratici dell’Spd, che lo governano, partono favoriti. Da loro, venerdì, è venuto il no del Bundesrat, la Camera delle Regioni a Berlino, a un’iniziativa del governo per ridurre le tasse di circa 6 miliardi di euro l’anno: i laender di sinistra hanno bocciato i tagli fiscali, nel timore che fossero compensati da tagli della spesa pubblica.
Cristiano-sociali e liberali al potere a Berlino temono un’altra botta, dopo avere conosciuto un 2011 ‘nero’ –siamo alla terza consultazione regionale in otto settimane-: la Cdu della Merkel tiene, ma i liberali vanno giù. Quelle di oggi sono le ultime elezioni di quest’anno. E le politiche ci saranno fra 16 mesi, nel settembre 2013.
Un risultato non negativo nel Nord Reno Westfalia sarebbe un viatico per la Merkel in vista degli appuntamenti dei prossimi giorni: mercoledì, riceverà a Berlino il neo-presidente francese, il socialista François Hollande, appena insediatosi all’Eliseo –lo stesso giorno, vedrà il presidente afghano Hamid Karzai, ma è un’altra storia-; poi andrà ai Vertici del G8 e della Nato –entrambi a Chicago-; e il 23 sarà a Bruxelles alla cena dei leader dell’Ue. Lo staff della Merkel smorza le attese: l’incontro con Hollande e la cena del 23 non preludono a decisioni, ma serviranno a fare conoscenza.
Se il presidente francese ha le priorità della crescita e della Grecia, la cancelliera tedesca è convinta di potere instaurare con Hollande un rapporto di collaborazione “stabile” . Ma Alex Weber, capo della Bundesbank, richiama Hollande al rispetto del Patto di Bilancio. Quanto alla Grecia, Weber mette le cose in chiaro: se non taglia, Atene non avrà gli aiuti dell’Ue; e l’uscita dall’euro è un problema più per i greci che per i partner. Giudizi che cadono mentre il presidente Papoulias gioca l’ultima carta del governo d’emergenza.
Nel Nord Reno Westfalia, i sondaggi attribuiscono all’Spd il 38% dei suffragi e alla Cdu il 30%. I Verdi, che potrebbero allearsi con l’Spd, sarebbero sopra il 10% e i liberali oltre la barra del 5%, arginando un po’ l’emorragia di suffragi. Quanto ai Pirati, provano a entrare per la quarta volta di fila in un parlamento regionale.
Su queste basi, il voto non dovrebbe cambiare gli equilibri di forza nazionali. E la linea della fermezza della Merkel rimane popolare in Germania. Secondo il settimanale Stern, tre tedeschi su cinque sono contrari a misure che inneschino la crescita con nuovi debiti. Con buona pace, per ora, di Hollande e pure di Monti.
Se Olli Rehn fosse un elettore del Nord Reno Westfalia, Angela Merkel avrebbe un cruccio in meno: non passa giorno senza che Rehn dia sostegno alla cancelliera e bacchetti quelli che, come il Professor Monti, sono inclini a finanziare la crescita facendo nuovi debiti: “la strada maestra –dice- sono le riforme strutturali e la riduzione del deficit”, parole che sono musica per la Merkel.
Ma il responsabile europeo per gli affari economici è un finlandese. E il suo parere non pesa sulla consultazione di oggi nel cuore della Germania: un test nel land tedesco più popoloso -18 milioni di abitanti-, fortemente industriale (niente a che vedere con lo Schleswig Holstein piccolo e rurale alle urne una settimana fa)..
Il Nord Reno Westfalia è un bastione della sinistra tedesca e i socialdemocratici dell’Spd, che lo governano, partono favoriti. Da loro, venerdì, è venuto il no del Bundesrat, la Camera delle Regioni a Berlino, a un’iniziativa del governo per ridurre le tasse di circa 6 miliardi di euro l’anno: i laender di sinistra hanno bocciato i tagli fiscali, nel timore che fossero compensati da tagli della spesa pubblica.
Cristiano-sociali e liberali al potere a Berlino temono un’altra botta, dopo avere conosciuto un 2011 ‘nero’ –siamo alla terza consultazione regionale in otto settimane-: la Cdu della Merkel tiene, ma i liberali vanno giù. Quelle di oggi sono le ultime elezioni di quest’anno. E le politiche ci saranno fra 16 mesi, nel settembre 2013.
Un risultato non negativo nel Nord Reno Westfalia sarebbe un viatico per la Merkel in vista degli appuntamenti dei prossimi giorni: mercoledì, riceverà a Berlino il neo-presidente francese, il socialista François Hollande, appena insediatosi all’Eliseo –lo stesso giorno, vedrà il presidente afghano Hamid Karzai, ma è un’altra storia-; poi andrà ai Vertici del G8 e della Nato –entrambi a Chicago-; e il 23 sarà a Bruxelles alla cena dei leader dell’Ue. Lo staff della Merkel smorza le attese: l’incontro con Hollande e la cena del 23 non preludono a decisioni, ma serviranno a fare conoscenza.
Se il presidente francese ha le priorità della crescita e della Grecia, la cancelliera tedesca è convinta di potere instaurare con Hollande un rapporto di collaborazione “stabile” . Ma Alex Weber, capo della Bundesbank, richiama Hollande al rispetto del Patto di Bilancio. Quanto alla Grecia, Weber mette le cose in chiaro: se non taglia, Atene non avrà gli aiuti dell’Ue; e l’uscita dall’euro è un problema più per i greci che per i partner. Giudizi che cadono mentre il presidente Papoulias gioca l’ultima carta del governo d’emergenza.
Nel Nord Reno Westfalia, i sondaggi attribuiscono all’Spd il 38% dei suffragi e alla Cdu il 30%. I Verdi, che potrebbero allearsi con l’Spd, sarebbero sopra il 10% e i liberali oltre la barra del 5%, arginando un po’ l’emorragia di suffragi. Quanto ai Pirati, provano a entrare per la quarta volta di fila in un parlamento regionale.
Su queste basi, il voto non dovrebbe cambiare gli equilibri di forza nazionali. E la linea della fermezza della Merkel rimane popolare in Germania. Secondo il settimanale Stern, tre tedeschi su cinque sono contrari a misure che inneschino la crescita con nuovi debiti. Con buona pace, per ora, di Hollande e pure di Monti.
sabato 12 maggio 2012
Ue: crisi, Barack, Angela, Mario e il gioco dell'oca
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano l'11/05/2012
Proprio quando molti in Europa, e pure in America, s’aspettano che Mario convinca Angela e faccia opera di mediazione tra il nuovo presidente francese, socialista, e la cancelliera tedesca, ecco che beghe e trappole di Casa Nostra spingono il Professore verso la casella di partenza. Sempre che non sia quella di fine corsa. E l’Italia ripropone in filigrana un suo ‘scenario greco’, intriso marcio di calcoli della politica.
La stampa anglosassone più autorevole e meno sospetta di lassismo sul fronte del rigore, dal WSJ al FT, presta al premier italiano l’autorevolezza e l’influenza per avvicinare al partito della crescita la Merkel, che ha per il Professore un’attenzione speciale. Ma Monti ha più problemi a conquistare ‘i cuori e le menti’ dei politici italiani che quelli dei leader europei. E se l’Italia fa marcia indietro, se i calcoli politici interni fanno deragliare l'azione di risanamento e quella di riforma, la credibilità internazionale di Monti e del Paese subirà un colpo forse irrimediabile.
Nella casella dei delusi, accanto ad Angela la tedesca, e anche a François il francese, che, da neofita del Club dei Grandi, ha bisogno d’alleati e mediatori, ci sarebbe in prima fila il presidente Usa Barak Obama. Adesso che s’avvicinano i Vertici di Chicago la prossima settimana –G8 e Nato- e che le notizie dell’economia americana sono positive, Obama risale un po’ in cattedra e bacchetta l’Europa: l’accusa di non avere seguito la strada americana dell’immissione di denaro pubblico nell’economia per stimolare la ripresa. Se l’Ue fatica a uscire dalla crisi, rallenta pure la crescita degli Stati Uniti (e, quindi, non semplifica la vita a Obama, cioè la sua rielezione il 6 novembre). Dunque, forza Mario sulla via della detrazione degli investimenti pubblici dai deficit nazionali: Barroso e Hollande sono già convinti, basta spiegarlo bene alla Merkel.
E, invece, sul punto di diventare protagonista, o almeno ago della bilancia, l’Italia ‘batte in testa’. E i numeri non sono buoni. La Commissione europea ha appena pubblicato le sue previsioni sull’andamento delle economie dell’Ue: la situazione italiana è peggiore del previsto, la crescita resta negativa, la disoccupazione cresce ancora Secondo Bruxelles, nel 2012 il Pil italiano calerà dell’1,4% (a febbraio la previsione era di -1,3%,) mentre nel 2013 aumenterà dello 0,4% (a gennaio la previsione era di +0,5%). C’è pure una revisione delle stime di pareggio del bilancio: il rapporto deficit/Pil sarà del 2% nel 2012 e dell’1,1% nel 2013. Appena circola la voce che la Commissione suggerisca un’altra manovra, dell’ordine di 8 miliardi di euro, arriva la smentita del responsabile Ue per gli Affari economici Olli Rehn: “L’Italia è sulla buona strada”, purché non scatti il gioco dell’oca.
giovedì 10 maggio 2012
Israele: il 'governissimo' riaccende l'allarme 'attacco all'Iran'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/05/2012
Un governissimo farcito di generali (ben tre), un governo -noi diremmo- di solidarieta' nazionale, che mette insieme partiti, come Likud e Kadima, che fino a ieri si guardavano in cagnesco. La scelta del premier israeliano Benjamin Netanyahu suscita interrogativi in Europa e in America e desta allarme in Medio Oriente.
Chi non ha dubbi sono i dirigenti della jihad islamica palestinese: il nuovo governo israeliano è stato formato "in vista di una nuova offensiva militare su Gaza", scrivono in una nota. Il nuovo esecutivo di unità nazionale e' -osservano- "un governo composto da numerosi militari che hanno commesso crimini di guerra contro i palestinesi". E "tra loro ci sono generali il cui obiettivo è una nuova guerra su Gaza".
Per altri, invece, nel Golfo, ma pure in Europa e negli Usa, governo più solido e' uguale a governo più libero di colpire l'Iran: un'azione preventiva destinata a distruggere gli impianti nucleari iraniani e a cancellare l'incubo d'una atomica integralista. Lo 'strike' sarebbe, inoltre, un modo, per Netanyahu, di creare un grattacapo al presidente Usa Barack Obama, che con il premier israeliano ha rapporti che definire freddi non e' esagerato. E c'e' gia' chi ipotizza che l'attacco all'Iran possa essere la sorpresa d'ottobre di Usa 2012, cioe' l'evento in grado di cambiare corso alla campagna.
Piani da dottor Stranamore, forse. E chi li avalla con la densita' di generali nell'equipe di Netanyahu ignora, o sottovaluta, che i generali in politica e al potere sono una tradizione israeliana consolidata, da Moshe Dayan ad Ariel Sharon.
Il governo Netanyahu allargato e' una coalizione di sette partiti, con 94 seggi su 120 alla Knesseth: 27 del Likud del premier, 15 della destra radicale, 5 degli ortodossi ashkenaziti, 11 degli ortodossi sefarditi, 3 dei nazional-religiosi, 5 della lista dell'ex premier ed ex generale Ehud Barak; a questi si aggiungono, dopo l'accordo con Shaul Mofaz, i 28 di Kadima, il partito centrista.
La nuova coalizione permette d'evitare la trappola di elezioni politiche anticipate a luglio. Ma questo non basta a giustificare la mossa, per gli islamici palestinesi, "Israele -sostengono- vive ormai da tempo in stato d’allerta in vista di nuove guerre e dopo le rivoluzioni arabe non si sente più al sicuro".
Un'analisi di parte, ma documentata: se diverse unità sarebbero state richiamate e dispiegate lungo il confine con l’Egitto, il pericolo percepito più acuto e' l’Iran verso cui intenderebbe compiere un attacco preventivo; e pure il sud del Libano e Gaza sarebbero "prossimi obiettivi".
Militarmente, l'ipotesi d'attacco. all'Iran non e' campata in aria. Israele ha la possibilità di lanciare varie ondate di attacco simultaneo di tre pacchetti di 18 velivoli ciascuno, per un totale quindi di 54 velivoli per ogni operazione. Il limite è dato non dai mezzi di attacco, ma dalle capacità autonome di rifornimento in volo. Potrebbero essere usati velivoli F.15 di ultima e penultima generazione o una parte dei 150 nuovi F.16.
Per distruggere siti protetti o sotterranei come Nantaz, Isfahan e Arak, Israele già disporrebbe di una sufficiente quantità di armamento convenzionale di precisione, fornito in parte dagli Stati Uniti. Potrebbero esserci in inventario bombe pesanti da 5.000 libbre, ad alta penetrazione - del tipo già usato in Afghanistan contro le caverne di Tora Bora e in Libia per i bunker di Gheddafi - e altro armamento di caduta sganciabile da alta quota a distanza di oltre 50 miglia dall’obiettivo, fuori dal raggio delle difese, capace di una precisione inferiore ai due metri. Con la chiusura dello spazio aereo turco - attualmente scontata - l’operazione sarebbe più complessa, ma resterebbe fattibile.
Un governissimo farcito di generali (ben tre), un governo -noi diremmo- di solidarieta' nazionale, che mette insieme partiti, come Likud e Kadima, che fino a ieri si guardavano in cagnesco. La scelta del premier israeliano Benjamin Netanyahu suscita interrogativi in Europa e in America e desta allarme in Medio Oriente.
Chi non ha dubbi sono i dirigenti della jihad islamica palestinese: il nuovo governo israeliano è stato formato "in vista di una nuova offensiva militare su Gaza", scrivono in una nota. Il nuovo esecutivo di unità nazionale e' -osservano- "un governo composto da numerosi militari che hanno commesso crimini di guerra contro i palestinesi". E "tra loro ci sono generali il cui obiettivo è una nuova guerra su Gaza".
Per altri, invece, nel Golfo, ma pure in Europa e negli Usa, governo più solido e' uguale a governo più libero di colpire l'Iran: un'azione preventiva destinata a distruggere gli impianti nucleari iraniani e a cancellare l'incubo d'una atomica integralista. Lo 'strike' sarebbe, inoltre, un modo, per Netanyahu, di creare un grattacapo al presidente Usa Barack Obama, che con il premier israeliano ha rapporti che definire freddi non e' esagerato. E c'e' gia' chi ipotizza che l'attacco all'Iran possa essere la sorpresa d'ottobre di Usa 2012, cioe' l'evento in grado di cambiare corso alla campagna.
Piani da dottor Stranamore, forse. E chi li avalla con la densita' di generali nell'equipe di Netanyahu ignora, o sottovaluta, che i generali in politica e al potere sono una tradizione israeliana consolidata, da Moshe Dayan ad Ariel Sharon.
Il governo Netanyahu allargato e' una coalizione di sette partiti, con 94 seggi su 120 alla Knesseth: 27 del Likud del premier, 15 della destra radicale, 5 degli ortodossi ashkenaziti, 11 degli ortodossi sefarditi, 3 dei nazional-religiosi, 5 della lista dell'ex premier ed ex generale Ehud Barak; a questi si aggiungono, dopo l'accordo con Shaul Mofaz, i 28 di Kadima, il partito centrista.
La nuova coalizione permette d'evitare la trappola di elezioni politiche anticipate a luglio. Ma questo non basta a giustificare la mossa, per gli islamici palestinesi, "Israele -sostengono- vive ormai da tempo in stato d’allerta in vista di nuove guerre e dopo le rivoluzioni arabe non si sente più al sicuro".
Un'analisi di parte, ma documentata: se diverse unità sarebbero state richiamate e dispiegate lungo il confine con l’Egitto, il pericolo percepito più acuto e' l’Iran verso cui intenderebbe compiere un attacco preventivo; e pure il sud del Libano e Gaza sarebbero "prossimi obiettivi".
Militarmente, l'ipotesi d'attacco. all'Iran non e' campata in aria. Israele ha la possibilità di lanciare varie ondate di attacco simultaneo di tre pacchetti di 18 velivoli ciascuno, per un totale quindi di 54 velivoli per ogni operazione. Il limite è dato non dai mezzi di attacco, ma dalle capacità autonome di rifornimento in volo. Potrebbero essere usati velivoli F.15 di ultima e penultima generazione o una parte dei 150 nuovi F.16.
Per distruggere siti protetti o sotterranei come Nantaz, Isfahan e Arak, Israele già disporrebbe di una sufficiente quantità di armamento convenzionale di precisione, fornito in parte dagli Stati Uniti. Potrebbero esserci in inventario bombe pesanti da 5.000 libbre, ad alta penetrazione - del tipo già usato in Afghanistan contro le caverne di Tora Bora e in Libia per i bunker di Gheddafi - e altro armamento di caduta sganciabile da alta quota a distanza di oltre 50 miglia dall’obiettivo, fuori dal raggio delle difese, capace di una precisione inferiore ai due metri. Con la chiusura dello spazio aereo turco - attualmente scontata - l’operazione sarebbe più complessa, ma resterebbe fattibile.
mercoledì 9 maggio 2012
Ue: crisi, e la Merkel restò quasi sola. Fortuna che Mario c'è
Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 09/05/2012
Com’è carica l’agenda della signora Merkel. La prossima settimana, subito dopo un voto che potrebbe risultarle indigesto, come e più di quelli in Francia e in Grecia domenica scorsa, nel land più popoloso della sua Germania, il Nord Reno Westfalia, Angela la cancelliera riceverà in visita il 16 François Hollande, neo-presidente francese; poi, dovrà sobbarcarsi una faticaccia transatlantica di cui avrebbe fatto volentieri a meno, con i vertici a Chicago del G8 e della Nato; e, subito dopo, il 23, ecco il Vertice europeo straordinario e informale convocato dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, per discutere –toh!, che sorpresa!- di crescita.
Gliene parlano ormai tutti, alla Merkel, della crescita, mentre lei non ha mica rinunciato al mantra del rigore. Intorno a lei, a fare quadrato sull’austerità, sui tagli e sul riequilibrio dei conti, restano la Finlandia e l’Olanda, l’Austria e l’Estonia: un quadrato di pretoriani che sarà più solido dell’ultimo quadrato del generale Custer al Little Big Horn, ma che degli scricchiolii li avverte. In Finlandia, l’insofferenza anti-europea trova sfogo nel successo alle urne dei ‘veri finlandesi’, che però non hanno voce in capitolo nel governo, mentre l’Olanda va verso elezioni anticipate perché democristiani e liberali s’erano affidati all’appoggio esterno del partito xenofobo e anti-islam, che li ha mollati proprio contro il rigore.
Il ‘fronte della crescita’ ha ora trovato il suo leader in Hollande, che può coagulare intorno a sé Belgio e Lussemburgo, Spagna e Slovenia. E l’Italia del professor Monti si candida al ruolo di pontiere tra la cancelliera del rigore e il presidente della crescita; nel gruppo di quelli di mezzo, che vanno dove li porta il vento, ci possono stare Irlanda e Portogallo, che l’aiuto dell’Europa l’hanno già avuto per evitare il tracollo, la Slovacchia, l’opportunista Malta.
Fuori dalla conta dell’eurozona, resta la Grecia, che, se va avanti così, con un parlamento senza maggioranza, un paese senza governo e gente senza speranza, rischia di trovarsi presto fuori dall’eurozona ‘tout court’, e Cipro, perché l’isola si prepara al ruolo inedito di presidente di turno del Consiglio dei ministri dell’Ue nel secondo semestre 2012: un ruolo che suggerisce equidistanza e mediazione.
Insomma, la Merkel, nel ridotto del rigore, proprio assediata non è, ma un po’ pressata deve sentirsi. A Hollande, manda le felicitazioni e dice che bisogna prendere “le decisioni necessarie” per l’Unione e per l’euro e “preparare le nostre società al futuro, garantendone o rafforzandone la prosperità”. Un colpo al cerchio e uno alla botte; ma più forte al cerchio, le decisioni necessarie, non quelle che vorremmo. Gli uomini di Hollande assicurano che “si troverà un compromesso”.
Da Bruxelles, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso sprona a mobilitarsi per la crescita. Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, tedesco, ma socialdemocratico, dice che il “rigore non è un fine in sé” (e in Germania la vittoria di Hollande ringalluzzisce l’opposizione di sinistra). Monti, che incontra a Roma un ‘merkelliano’ convinto, il responsabile dell’economia nella Commissione Olli Rehn, chiede a Berlino nuove regole per gli investimenti pubblici, una delle leve della crescita, e avverte che è ora di agire: “Non basta più studiare che cosa fare”. Lo stesso Rehn, che invita la Grecia al rispetto dei patti, sgrida la Spagna e bacchetta l’Italia per i ritardi nei pagamenti, l’iniquità fiscale, le lentezze nella riforma del lavoro, ammette che i giri di vite non servono a innescare la crescita nell’Ue.
Com’è carica l’agenda della signora Merkel. La prossima settimana, subito dopo un voto che potrebbe risultarle indigesto, come e più di quelli in Francia e in Grecia domenica scorsa, nel land più popoloso della sua Germania, il Nord Reno Westfalia, Angela la cancelliera riceverà in visita il 16 François Hollande, neo-presidente francese; poi, dovrà sobbarcarsi una faticaccia transatlantica di cui avrebbe fatto volentieri a meno, con i vertici a Chicago del G8 e della Nato; e, subito dopo, il 23, ecco il Vertice europeo straordinario e informale convocato dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, per discutere –toh!, che sorpresa!- di crescita.
Gliene parlano ormai tutti, alla Merkel, della crescita, mentre lei non ha mica rinunciato al mantra del rigore. Intorno a lei, a fare quadrato sull’austerità, sui tagli e sul riequilibrio dei conti, restano la Finlandia e l’Olanda, l’Austria e l’Estonia: un quadrato di pretoriani che sarà più solido dell’ultimo quadrato del generale Custer al Little Big Horn, ma che degli scricchiolii li avverte. In Finlandia, l’insofferenza anti-europea trova sfogo nel successo alle urne dei ‘veri finlandesi’, che però non hanno voce in capitolo nel governo, mentre l’Olanda va verso elezioni anticipate perché democristiani e liberali s’erano affidati all’appoggio esterno del partito xenofobo e anti-islam, che li ha mollati proprio contro il rigore.
Il ‘fronte della crescita’ ha ora trovato il suo leader in Hollande, che può coagulare intorno a sé Belgio e Lussemburgo, Spagna e Slovenia. E l’Italia del professor Monti si candida al ruolo di pontiere tra la cancelliera del rigore e il presidente della crescita; nel gruppo di quelli di mezzo, che vanno dove li porta il vento, ci possono stare Irlanda e Portogallo, che l’aiuto dell’Europa l’hanno già avuto per evitare il tracollo, la Slovacchia, l’opportunista Malta.
Fuori dalla conta dell’eurozona, resta la Grecia, che, se va avanti così, con un parlamento senza maggioranza, un paese senza governo e gente senza speranza, rischia di trovarsi presto fuori dall’eurozona ‘tout court’, e Cipro, perché l’isola si prepara al ruolo inedito di presidente di turno del Consiglio dei ministri dell’Ue nel secondo semestre 2012: un ruolo che suggerisce equidistanza e mediazione.
Insomma, la Merkel, nel ridotto del rigore, proprio assediata non è, ma un po’ pressata deve sentirsi. A Hollande, manda le felicitazioni e dice che bisogna prendere “le decisioni necessarie” per l’Unione e per l’euro e “preparare le nostre società al futuro, garantendone o rafforzandone la prosperità”. Un colpo al cerchio e uno alla botte; ma più forte al cerchio, le decisioni necessarie, non quelle che vorremmo. Gli uomini di Hollande assicurano che “si troverà un compromesso”.
Da Bruxelles, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso sprona a mobilitarsi per la crescita. Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, tedesco, ma socialdemocratico, dice che il “rigore non è un fine in sé” (e in Germania la vittoria di Hollande ringalluzzisce l’opposizione di sinistra). Monti, che incontra a Roma un ‘merkelliano’ convinto, il responsabile dell’economia nella Commissione Olli Rehn, chiede a Berlino nuove regole per gli investimenti pubblici, una delle leve della crescita, e avverte che è ora di agire: “Non basta più studiare che cosa fare”. Lo stesso Rehn, che invita la Grecia al rispetto dei patti, sgrida la Spagna e bacchetta l’Italia per i ritardi nei pagamenti, l’iniquità fiscale, le lentezze nella riforma del lavoro, ammette che i giri di vite non servono a innescare la crescita nell’Ue.
martedì 8 maggio 2012
Ue: voti, la Merkel perde in Francia e Grecia, non in Germania
Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 08/05/2012
“Ha perso la Merkel”: il titolo ritorna, come un ritornello, sulla stampa di mezza Europa, dopo la domenica in cui i cittadini europei, dalla Francia alla Grecia, dal Nord della Germania ai comuni d’Italia, hanno votato sulla crisi e sulle scelte dell’Ue per uscirne, rigore, austerità, sacrifici, tutte dure ricette tedesche. Ed è vero che Angela Merkel, cancelliera tedesca, ha perso in Francia, dove gli elettori hanno puntato sulla crescita e l’occupazione, le sirene del neo-presidente socialista François Hollande, e pure in Grecia, dove hanno detto no ai tagli e i giri di vite.
Ma Angela non ha perso a casa sua: nello Schleswig-Holstein, piccolo land lungo il confine danese, la Cdu, il suo partito, ha sostanzialmente mantenuto il 31% del 2009 e resta quello più votato. Gli elettori, invece, hanno di nuovo castigato i liberali dell’Fdp, alleati della Merkel a Berlino e in questa regione rurale, povera e scarsamente popolata. I liberali hanno quasi dimezzato i loro suffragi dal 15 all’8% -e sono già contenti d’essere rimasti al di sopra della barra del 5%, dopo lo smacco nella Saar il 25 marzo-.
Risultato, la coalizione non potrà più continuare a governare lo Schleswig-Holstein. Al potere s’installerà probabilmente un’alleanza tra i socialdemocratici dell’Spd, saliti dal 25 al 30%, ma delusi perché volevano diventare il primo partito; i Verdi, passati dal 13 al 14%; e la lista dei ‘danesi’ , che non arriva al 5% dei voti, ma che, per un’eccezione regionale, avrà lo stesso seggi nel Parlamento del land. Ne resta fuori, invece, la sinistra della Linke, mentre , per la terza volta consecutiva, i Pirati, l’elemento nuovo del panorama politico tedesco, superano la soglia del 5% in un land.
Sul piano nazionale, conterà di più, domenica prossima, il test del Nord Reno – Westfalia, una regione molto più importante, la più popolosa della Germania. A 16 mesi dalle elezioni politiche dell’autunno 2013, la conferma della coalizione Cdu-Fdp appare sempre più improbabile. In teoria, lo Schlewig-Holstein potrebbe divenire un banco di prova della ‘grande coalizione’ tra Cdu e Spd, cioè fra i due maggiori partiti, che molti giudicano la più probabile nella prossima legislatura. Ma Torsten Albig, leader Spd locale, sembra non volerne sapere: “Chi l’ha detto –chiede- che non possiamo governare con i Verdi e i ‘danesi’?”, anche se la maggioranza sarebbe risicata, d’un solo seggio.
Pur se la domenica elettorale non è stata delle migliori, la Merkel, sconfessata da francesi e greci, mantiene stabile la sua popolarità in Germania, dove molti tedeschi apprezzano la sua fermezza con i partner Ue. Ma la cancelliera rischia di ritrovarsi isolata in Europa, anche se è improbabile che il neo-presidente francese François Hollande voglia metterla alle corde e che il premier italiano Mario Monti, che il WSJ presenta come il suo nuovo ‘fidanzato’ europeo, non le porga il braccio. La prospettiva più inquietante è quella di trovarsi ‘schiacciata’ tra l’opinione pubblica tedesca e le pressioni europee: la Merkel potrebbe, dunque, accettare di discutere “misure di crescita supplementari”, come le chiedono Hollande, Monti e molti altri leader Ue, continuando, però, a non cedere sugli eurobonds e sul ruolo della Banca centrale europea. Quanto al Patto di Bilancio, Hollande vuole rinegoziarlo e lei non ne vuole sentire parlare: vedremo come andrà a finire.
“Ha perso la Merkel”: il titolo ritorna, come un ritornello, sulla stampa di mezza Europa, dopo la domenica in cui i cittadini europei, dalla Francia alla Grecia, dal Nord della Germania ai comuni d’Italia, hanno votato sulla crisi e sulle scelte dell’Ue per uscirne, rigore, austerità, sacrifici, tutte dure ricette tedesche. Ed è vero che Angela Merkel, cancelliera tedesca, ha perso in Francia, dove gli elettori hanno puntato sulla crescita e l’occupazione, le sirene del neo-presidente socialista François Hollande, e pure in Grecia, dove hanno detto no ai tagli e i giri di vite.
Ma Angela non ha perso a casa sua: nello Schleswig-Holstein, piccolo land lungo il confine danese, la Cdu, il suo partito, ha sostanzialmente mantenuto il 31% del 2009 e resta quello più votato. Gli elettori, invece, hanno di nuovo castigato i liberali dell’Fdp, alleati della Merkel a Berlino e in questa regione rurale, povera e scarsamente popolata. I liberali hanno quasi dimezzato i loro suffragi dal 15 all’8% -e sono già contenti d’essere rimasti al di sopra della barra del 5%, dopo lo smacco nella Saar il 25 marzo-.
Risultato, la coalizione non potrà più continuare a governare lo Schleswig-Holstein. Al potere s’installerà probabilmente un’alleanza tra i socialdemocratici dell’Spd, saliti dal 25 al 30%, ma delusi perché volevano diventare il primo partito; i Verdi, passati dal 13 al 14%; e la lista dei ‘danesi’ , che non arriva al 5% dei voti, ma che, per un’eccezione regionale, avrà lo stesso seggi nel Parlamento del land. Ne resta fuori, invece, la sinistra della Linke, mentre , per la terza volta consecutiva, i Pirati, l’elemento nuovo del panorama politico tedesco, superano la soglia del 5% in un land.
Sul piano nazionale, conterà di più, domenica prossima, il test del Nord Reno – Westfalia, una regione molto più importante, la più popolosa della Germania. A 16 mesi dalle elezioni politiche dell’autunno 2013, la conferma della coalizione Cdu-Fdp appare sempre più improbabile. In teoria, lo Schlewig-Holstein potrebbe divenire un banco di prova della ‘grande coalizione’ tra Cdu e Spd, cioè fra i due maggiori partiti, che molti giudicano la più probabile nella prossima legislatura. Ma Torsten Albig, leader Spd locale, sembra non volerne sapere: “Chi l’ha detto –chiede- che non possiamo governare con i Verdi e i ‘danesi’?”, anche se la maggioranza sarebbe risicata, d’un solo seggio.
Pur se la domenica elettorale non è stata delle migliori, la Merkel, sconfessata da francesi e greci, mantiene stabile la sua popolarità in Germania, dove molti tedeschi apprezzano la sua fermezza con i partner Ue. Ma la cancelliera rischia di ritrovarsi isolata in Europa, anche se è improbabile che il neo-presidente francese François Hollande voglia metterla alle corde e che il premier italiano Mario Monti, che il WSJ presenta come il suo nuovo ‘fidanzato’ europeo, non le porga il braccio. La prospettiva più inquietante è quella di trovarsi ‘schiacciata’ tra l’opinione pubblica tedesca e le pressioni europee: la Merkel potrebbe, dunque, accettare di discutere “misure di crescita supplementari”, come le chiedono Hollande, Monti e molti altri leader Ue, continuando, però, a non cedere sugli eurobonds e sul ruolo della Banca centrale europea. Quanto al Patto di Bilancio, Hollande vuole rinegoziarlo e lei non ne vuole sentire parlare: vedremo come andrà a finire.
lunedì 7 maggio 2012
Ue: voti, Monti tra la speranza francese e l'incubo greco
Scritto per Euractiv lo 07/05/2012. Altra versione su L'Indro
L’Unione europea esce dalla domenica del voto sulla crisi, in Francia, in Grecia, in un land tedesco, in quasi mille comuni italiani, incerta tra la speranza di poter ora imboccare la via della crescita e l’incubo di dover invece ripiombare nelle ansie per l’euro. La Francia è la speranza. La Grecia è l’incubo. E il premier italiano Mario Monti è fra i primi a mettersi al lavoro perché le speranze si concretizzino e l’incubo svanisca.
Il problema per l’Unione non è l’ingresso all’Eliseo del socialista François Hollande, che ne caccia il centrista Nicolas Sarkozy, ma la friabilità e l’instabilità del quadro politico greco uscito dalle urne: nel Parlamento di Atene, non c’è una maggioranza a favore del piano di rigore del governo uscente del ‘tecnico’ Luca Papademos.
Nell’Ue, l’incognità è, dunque, più greca che francese. Hollande rappresenta la speranza di quanti vogliono che l’Europa, per uscire dalla crisi, non si identifichi solo con il rigore, che pure è necessario, ma punti anche (e ora soprattutto) alla crescita. Il caos greco, però, con l’avanzata, a destra e a sinistra, di estremismi euro-scettici e nazional-sociali, compromette la stabilità dell’euro, preoccupa i mercati e getta un’ombra sulle prospettive di rilancio dell’eurozona: borse deboli ed euro ai minimi sul dollaro da febbraio sono le risposte della finanza mondiale.
Appena sono stati chiari i risultati, il premier Monti ha chiamato i leader di Francia, Germania e Gran Bretagna, per valutare insieme le conseguenze e le prospettive delle presidenziali in Francia e delle politiche in Grecia, “in particolare ai fini della crescita”, che il governo italiano pone “al centro dell’agenda europea”. Monti ha parlato con il neo-presidente Hollande, con la cancelliera Angela Merkel, con il premier David Cameron.
I voti di domenica sono stati le ennesime sanzioni dei cittadini europei ai governi che hanno gestito la crisi con misure magari necessarie -gli strumenti dell’austerità-, ma incapaci d’innescare crescita e occupazione: sono stati chiesti sacrifici senza indicare l’obiettivo da conseguire con essi. Monti, che ha telefonato pure al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, sollecita ora iniziative in tal senso.
La Francia di Hollande dichiara di volere “giocare il gioco” della crescita e dell’occupazione: c’è chi, come Monti, se ne rallegra pragmaticamente, perché trova una spalla che conta nell’esercitare pressioni in tal senso sulla cancelliera Merkel; ma c’è pure chi, in una logica europeista federalista del ‘tutto subito’, invita il neo-presidente francese a pigiare sull’acceleratore dell’integrazione.
Ma l’esito della consultazione in Grecia, con la frammentazione e l’estremizzazione del Parlamento, desta interrogativi sulla tenuta del piano di salvataggio del Paese ellenico e può indurre a prudenza. L’Ue lancia un appello, alla Grecia, dopo avere constatato che i partiti pro-austerità, ND e Pasok, non hanno la maggioranza dei seggi: “Le forze politiche abbiano spirito responsabilità –dice Bruxelles-, formino una maggioranza di governo stabile e rispettino gli impegni presi”. Più facile dirlo che farlo, con i neo-nazisti e la sinistra radicale a interferire nelle trattative per la formazione e il programma del nuovo Esecutivo.
Nel nuovo contesto, s’attenuano, invece, gli interrogativi sulle relazioni franco-tedesche: la Merkel, con il presidente Usa Barack Obama, è fra i primi a fare al neo-presidente francese i propri auguri e a dichiarargli la volontà di lavorare insieme. E, sull’agenda di Hollande, ci sono già una missione in Germania e la partecipazione, la prossima settimana, a Chicago, ai vertici del G8 e della Nato.
Dalla domenica elettorale, del resto, la Merkel non esce politicamente molto confortata: anzi, esce sconfitta –almeno così la stampa francese legge il verdetto anti-Sarkozy-. Nello Scleswig-Holstein, il land al confine con la Danimarca, il partito della cancelliera ha tenuto, ma la sua coalizione s’è dissolta; e domenica prossima, in Germania, si vota ancora, nel NordReno-Westfalia, un test più importante.
Certo, creare l’intesa con Hollande non sarà inizialmente facile, ma è una via obbligata. La Merkel dice “Lo accoglierò a braccia paerte, lavoreremo insieme”, ma poi avverte subito che “non è possibile rinegoziare il Patto di Bilancio”, come vuole il successore di Sarkozy, perché “servono solide finanze e maggiore crescita”. E ad Atene la cancelliera chiede di “continuare nell’attuazione delle riforme concordate”, quasi come se la gente non avesse detto la sua.
Una nota di Palazzo Chigi, diffusa mentre la Francia socialista festeggiava la vittoria di Hollande e mentre la Grecia ancora soppesava le possibili coalizioni, con i grandi partiti tutti molto indeboliti e l’avanzata a destra e a sinistra dei movimenti ‘anti-rigore’, spiegava che le telefonate fatte da Monti ai ‘grandi’ dell’Ue miravano “a valutare congiuntamente le prospettive che i risultati elettorali aprono alla politica europea, in particolare ai fini della crescita, obiettivo che il governo italiano considera prioritario e che ha posto al centro dell’agenda europea”.
Nella conversazione con Hollande, Monti ha espresso al presidente neo-eletto le sue congratulazioni e il suo desiderio del l’Italia “di collaborare strettamente con la Francia, specie nel quadro europeo, ai fini di un’Unione sempre più efficace e orientata alla crescita”. Hollande ha condiviso e ha auspicato una “stretta cooperazione” fra i governi francese e italiano.
Per l’Italia dei Professori, si conferma e si precisa, dunque, la prospettiva di un ruolo europeo accanto, e non in subordine, a Germania e Francia. E circola pure l’ipotesi di un pre-Vertice, senza attendere il Consiglio europeo di fine giugno, a suggello della presidenza di turno semestrale danese: non è chiaro, però, con quale formato e su quale agenda.
L’Unione europea esce dalla domenica del voto sulla crisi, in Francia, in Grecia, in un land tedesco, in quasi mille comuni italiani, incerta tra la speranza di poter ora imboccare la via della crescita e l’incubo di dover invece ripiombare nelle ansie per l’euro. La Francia è la speranza. La Grecia è l’incubo. E il premier italiano Mario Monti è fra i primi a mettersi al lavoro perché le speranze si concretizzino e l’incubo svanisca.
Il problema per l’Unione non è l’ingresso all’Eliseo del socialista François Hollande, che ne caccia il centrista Nicolas Sarkozy, ma la friabilità e l’instabilità del quadro politico greco uscito dalle urne: nel Parlamento di Atene, non c’è una maggioranza a favore del piano di rigore del governo uscente del ‘tecnico’ Luca Papademos.
Nell’Ue, l’incognità è, dunque, più greca che francese. Hollande rappresenta la speranza di quanti vogliono che l’Europa, per uscire dalla crisi, non si identifichi solo con il rigore, che pure è necessario, ma punti anche (e ora soprattutto) alla crescita. Il caos greco, però, con l’avanzata, a destra e a sinistra, di estremismi euro-scettici e nazional-sociali, compromette la stabilità dell’euro, preoccupa i mercati e getta un’ombra sulle prospettive di rilancio dell’eurozona: borse deboli ed euro ai minimi sul dollaro da febbraio sono le risposte della finanza mondiale.
Appena sono stati chiari i risultati, il premier Monti ha chiamato i leader di Francia, Germania e Gran Bretagna, per valutare insieme le conseguenze e le prospettive delle presidenziali in Francia e delle politiche in Grecia, “in particolare ai fini della crescita”, che il governo italiano pone “al centro dell’agenda europea”. Monti ha parlato con il neo-presidente Hollande, con la cancelliera Angela Merkel, con il premier David Cameron.
I voti di domenica sono stati le ennesime sanzioni dei cittadini europei ai governi che hanno gestito la crisi con misure magari necessarie -gli strumenti dell’austerità-, ma incapaci d’innescare crescita e occupazione: sono stati chiesti sacrifici senza indicare l’obiettivo da conseguire con essi. Monti, che ha telefonato pure al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, sollecita ora iniziative in tal senso.
La Francia di Hollande dichiara di volere “giocare il gioco” della crescita e dell’occupazione: c’è chi, come Monti, se ne rallegra pragmaticamente, perché trova una spalla che conta nell’esercitare pressioni in tal senso sulla cancelliera Merkel; ma c’è pure chi, in una logica europeista federalista del ‘tutto subito’, invita il neo-presidente francese a pigiare sull’acceleratore dell’integrazione.
Ma l’esito della consultazione in Grecia, con la frammentazione e l’estremizzazione del Parlamento, desta interrogativi sulla tenuta del piano di salvataggio del Paese ellenico e può indurre a prudenza. L’Ue lancia un appello, alla Grecia, dopo avere constatato che i partiti pro-austerità, ND e Pasok, non hanno la maggioranza dei seggi: “Le forze politiche abbiano spirito responsabilità –dice Bruxelles-, formino una maggioranza di governo stabile e rispettino gli impegni presi”. Più facile dirlo che farlo, con i neo-nazisti e la sinistra radicale a interferire nelle trattative per la formazione e il programma del nuovo Esecutivo.
Nel nuovo contesto, s’attenuano, invece, gli interrogativi sulle relazioni franco-tedesche: la Merkel, con il presidente Usa Barack Obama, è fra i primi a fare al neo-presidente francese i propri auguri e a dichiarargli la volontà di lavorare insieme. E, sull’agenda di Hollande, ci sono già una missione in Germania e la partecipazione, la prossima settimana, a Chicago, ai vertici del G8 e della Nato.
Dalla domenica elettorale, del resto, la Merkel non esce politicamente molto confortata: anzi, esce sconfitta –almeno così la stampa francese legge il verdetto anti-Sarkozy-. Nello Scleswig-Holstein, il land al confine con la Danimarca, il partito della cancelliera ha tenuto, ma la sua coalizione s’è dissolta; e domenica prossima, in Germania, si vota ancora, nel NordReno-Westfalia, un test più importante.
Certo, creare l’intesa con Hollande non sarà inizialmente facile, ma è una via obbligata. La Merkel dice “Lo accoglierò a braccia paerte, lavoreremo insieme”, ma poi avverte subito che “non è possibile rinegoziare il Patto di Bilancio”, come vuole il successore di Sarkozy, perché “servono solide finanze e maggiore crescita”. E ad Atene la cancelliera chiede di “continuare nell’attuazione delle riforme concordate”, quasi come se la gente non avesse detto la sua.
Una nota di Palazzo Chigi, diffusa mentre la Francia socialista festeggiava la vittoria di Hollande e mentre la Grecia ancora soppesava le possibili coalizioni, con i grandi partiti tutti molto indeboliti e l’avanzata a destra e a sinistra dei movimenti ‘anti-rigore’, spiegava che le telefonate fatte da Monti ai ‘grandi’ dell’Ue miravano “a valutare congiuntamente le prospettive che i risultati elettorali aprono alla politica europea, in particolare ai fini della crescita, obiettivo che il governo italiano considera prioritario e che ha posto al centro dell’agenda europea”.
Nella conversazione con Hollande, Monti ha espresso al presidente neo-eletto le sue congratulazioni e il suo desiderio del l’Italia “di collaborare strettamente con la Francia, specie nel quadro europeo, ai fini di un’Unione sempre più efficace e orientata alla crescita”. Hollande ha condiviso e ha auspicato una “stretta cooperazione” fra i governi francese e italiano.
Per l’Italia dei Professori, si conferma e si precisa, dunque, la prospettiva di un ruolo europeo accanto, e non in subordine, a Germania e Francia. E circola pure l’ipotesi di un pre-Vertice, senza attendere il Consiglio europeo di fine giugno, a suggello della presidenza di turno semestrale danese: non è chiaro, però, con quale formato e su quale agenda.
domenica 6 maggio 2012
Ue: crisi, al voto, al voto; e, poi, l'Italia...
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 06/05/2012 (variante del post del 04/05)
Domenica di maggio con mezza Europa che va alle urne: Francia, Grecia, un land della Germania, mille comuni in Italia, la Serbia al bivio tra un futuro nell’Ue le nostalgie slave. Un voto sulla crisi, è la formula di sintesi dei media. E, finora, nessun governo europeo è sopravvissuto alla crisi: con le elezioni, come in Spagna, Portogallo, Irlanda, e pure Finlandia, Danimarca, Olanda, Belgio e altrove, o senza, come in Italia e Grecia. Il che suona campane a morto per il presidente francese Nicolas Sarkozy, anche se gli ultimi sondaggi alimentano l’incertezza.
Quale che ne sia l’esito, le presidenziali in Francia e anche le politiche in Grecia avranno rilevanti ripercussioni nell’Ue. E, per l’Italia, si potrebbe consolidare il nuovo ruolo che s’è andato delineando negli ultimi mesi. Da Merkozy a Merkonti: il gioco di parole sul cambio di cavaliere in Europa della cancelliera tedesca Angela Merkel gira dal Vertice di Bruxelles, a inizio marzo. Troppo preso dalla campagna elettorale, Sarkozy non teneva più bordone alla Merkel sul fronte europeo; e Monti cercava di convincere la Germania a guadare il fiume della crisi, dalla sponda del rigore a quella della crescita.
E la storia va avanti: in settimana, il Wall Street Journal, che non sarà una bibbia sull’Europa, ma che non manca d’autorevolezza, scriveva che Mario sarà il prossimo fidanzato europeo di Angela. Un titolo ammiccante ("Il nuovo spasimante (romano)" della Merkel), ma dentro nulla di pruriginoso. La tesi è che se Sarkozy perdesse le elezioni contro il rivale socialista Francois Hollande, la lunga e proficua intesa franco-tedesca a guida dell'Europa si concluderebbe o, almeno, attraversarebbe una fase di aggiustamento. In tal caso, afferma il WSJ, "Roma è pronta a rimpiazzare Parigi".
In realtà, c’è qualcosa di più che semplici illazioni giornalistiche. Negli ultimi mesi, Monti e il suo governo, dove spiccano le competenze europee del ministro per gli Affari europei –appunto- Enzo Moavero e del ministro per la coesione Fabrizio Barca, hanno saputo costruire un sistema di alleanze a geometria variabile –la definizione è dello stesso Barca- che ha riportato l’Italia nel cuore dei giochi europei (e che ha pure saputo ‘riportare a bordo’ la Gran Bretagna, quando, dopo il no al Patto di Bilancio, Londra poteva essere tentata di ‘prendere il largo’ da sola).
Prima, la ‘lettera dei liberisti e mercantilisti’: l’iniziativa per completare il mercato unico e liberarne le risorse, inizialmente sottoscritta da 12 capi di Stato o di governo –Monti e il britannico David Cameron in primo luogo, ma anche lo spagnolo Rayoj e il polacco Tusk fra gli altri- e inviata alla Commissione e al Consiglio nell’imminenza dell’ultimo Vertice europeo: Germania e Francia non c’erano, ma la Germania s’è poi lasciata convincere, con vari Paesi –oggi, sono una ventina- che quella era una via giusta, mentre la Francia mantiene le sue riserve (Sarkozy o Hollande, qui, fa poca differenza).
Poi, l’alleanza asimmetrica, cucita da Barca sul fronte della coesione, con la Gran Bretagna e la Polonia, unendo tre visioni diverse sui fondi strutturali: l’anglosassone, la centro-orientale e la mediterranea.
Infine, la lettera dei cosiddetti ‘amici dello spendere bene’, cioè tutti i Paesi contribuenti netti al bilancio Ue –tranne uno, la Gran Bretagna-, ben decisi a re-orientare nel senso della crescita il bilancio dell’Ue (ma non ancora pronti a investirvi di più: la battaglia sulle risorse finanziarie 2014-2020 s’annuncia aspra). Anche in questo caso, nei contenuti, Sarkozy o Hollande fa poca differenza: da domani, la Francia metterà di più l’accento sulla crescita.
E c’è pure l’idea che i parlamenti nazionali italiano e tedesco ratifichino insieme, simultaneamente, il Patto di Bilancio, con un gesto simbolico destinato a enfatizzare i legami fra i due Paesi.
Una serie di iniziative che il premier Monti e i suoi ministri non nascondono. Monti dice: “Siamo divenuti più presenti e, mi auguro, più persuasivi nel contesto europeo”. E racconta: “Il presidente Obama mi ha recentemente chiesto come si possono persuadere i tedeschi” a spingere per la crescita; e lui gli ha spiegato che, per i tedeschi, “la crescita è il premio a un comportamento virtuoso". Si tratta di lasciarsi alle spalle il capo del Rigore per puntare, navigando di cabotaggio, alla baia della Crescita: "Quello che stiamo dicendo al Consiglio europeo, alla Commissione europea e alla cancelliera Merkel è che noi stiamo facendo le riforme strutturali con una riduzione del disavanzo forte, ma che è chiaro che il tema della domanda è altrettanto fondamentale". Però, la Germania considera la domanda “un'entità cattiva", soprattutto quella che viene "dal settore pubblico”.
Certo, l’Italia non si propone alla Germania come alternativa alla Francia. Ma quanto accade in Francia oggi influirà, e molto, sui rapporti europei prossimi venturi; e Monti crede che “l’Italia si sia piazzata in una buona posizione per aiutare Francia e Germania a trovare un nuovo equilibrio”, specie se Sarkozy perde e Hollande vince (ma non solo). La Merkel non ha nascosto in campagna elettorale la sua preferenza per Sarkozy, un po’ per solidarietà politica –entrambi stanno nel Partito popolare europeo-, un po’ per consolidata amicizia –o, almeno, frequentazione- e un po’ perché Hollande la irrita e la spaventa, andando in giro a promettere che, se sarà eletto, chiederà di rinegoziare il Patto di Bilancio, nonostante la cancelliera lo consideri ‘blindato’.
Ma il tandem, o l’asse, o il direttorio Parigi-Berlino non sparirà. Pur lontano dall’idea d’un'Unione piena, ma subordinando piuttosto l’integrazione a una visione intergovernativa, Sarkozy ha fatto asse con la Merkel per affrontare la questione del salvataggio di Atene e, soprattutto, per salvare l'euro. Il presidente e la cancelliera , da ultimo con l’aiuto del Professore, hanno trascinato 25 dei 27 – tutti tranne Londra e Praga - alla firma del trattato che serra i bulloni del rigore di bilancio, senza dare respiro alla crescita. Una vittoria di Hollande può spingere l’Unione verso politiche di crescita, ma senza rompere con la Merkel. Stretti collaboratori del candidato socialista non hanno dubbi: se sarà presidente, Hollande andrà in Germania per la sua prima missione estera. L’intesa franco-tedesca è stata forte anche quando è stata asimmetrica: anzi, il socialista Mitterrand ed il popolare Kohl andarono, mano nella mano, alla riunificazione tedesca, al passaggio dalla Comunità all’Unione e alla decisione di creare l’euro.
Domenica di maggio con mezza Europa che va alle urne: Francia, Grecia, un land della Germania, mille comuni in Italia, la Serbia al bivio tra un futuro nell’Ue le nostalgie slave. Un voto sulla crisi, è la formula di sintesi dei media. E, finora, nessun governo europeo è sopravvissuto alla crisi: con le elezioni, come in Spagna, Portogallo, Irlanda, e pure Finlandia, Danimarca, Olanda, Belgio e altrove, o senza, come in Italia e Grecia. Il che suona campane a morto per il presidente francese Nicolas Sarkozy, anche se gli ultimi sondaggi alimentano l’incertezza.
Quale che ne sia l’esito, le presidenziali in Francia e anche le politiche in Grecia avranno rilevanti ripercussioni nell’Ue. E, per l’Italia, si potrebbe consolidare il nuovo ruolo che s’è andato delineando negli ultimi mesi. Da Merkozy a Merkonti: il gioco di parole sul cambio di cavaliere in Europa della cancelliera tedesca Angela Merkel gira dal Vertice di Bruxelles, a inizio marzo. Troppo preso dalla campagna elettorale, Sarkozy non teneva più bordone alla Merkel sul fronte europeo; e Monti cercava di convincere la Germania a guadare il fiume della crisi, dalla sponda del rigore a quella della crescita.
E la storia va avanti: in settimana, il Wall Street Journal, che non sarà una bibbia sull’Europa, ma che non manca d’autorevolezza, scriveva che Mario sarà il prossimo fidanzato europeo di Angela. Un titolo ammiccante ("Il nuovo spasimante (romano)" della Merkel), ma dentro nulla di pruriginoso. La tesi è che se Sarkozy perdesse le elezioni contro il rivale socialista Francois Hollande, la lunga e proficua intesa franco-tedesca a guida dell'Europa si concluderebbe o, almeno, attraversarebbe una fase di aggiustamento. In tal caso, afferma il WSJ, "Roma è pronta a rimpiazzare Parigi".
In realtà, c’è qualcosa di più che semplici illazioni giornalistiche. Negli ultimi mesi, Monti e il suo governo, dove spiccano le competenze europee del ministro per gli Affari europei –appunto- Enzo Moavero e del ministro per la coesione Fabrizio Barca, hanno saputo costruire un sistema di alleanze a geometria variabile –la definizione è dello stesso Barca- che ha riportato l’Italia nel cuore dei giochi europei (e che ha pure saputo ‘riportare a bordo’ la Gran Bretagna, quando, dopo il no al Patto di Bilancio, Londra poteva essere tentata di ‘prendere il largo’ da sola).
Prima, la ‘lettera dei liberisti e mercantilisti’: l’iniziativa per completare il mercato unico e liberarne le risorse, inizialmente sottoscritta da 12 capi di Stato o di governo –Monti e il britannico David Cameron in primo luogo, ma anche lo spagnolo Rayoj e il polacco Tusk fra gli altri- e inviata alla Commissione e al Consiglio nell’imminenza dell’ultimo Vertice europeo: Germania e Francia non c’erano, ma la Germania s’è poi lasciata convincere, con vari Paesi –oggi, sono una ventina- che quella era una via giusta, mentre la Francia mantiene le sue riserve (Sarkozy o Hollande, qui, fa poca differenza).
Poi, l’alleanza asimmetrica, cucita da Barca sul fronte della coesione, con la Gran Bretagna e la Polonia, unendo tre visioni diverse sui fondi strutturali: l’anglosassone, la centro-orientale e la mediterranea.
Infine, la lettera dei cosiddetti ‘amici dello spendere bene’, cioè tutti i Paesi contribuenti netti al bilancio Ue –tranne uno, la Gran Bretagna-, ben decisi a re-orientare nel senso della crescita il bilancio dell’Ue (ma non ancora pronti a investirvi di più: la battaglia sulle risorse finanziarie 2014-2020 s’annuncia aspra). Anche in questo caso, nei contenuti, Sarkozy o Hollande fa poca differenza: da domani, la Francia metterà di più l’accento sulla crescita.
E c’è pure l’idea che i parlamenti nazionali italiano e tedesco ratifichino insieme, simultaneamente, il Patto di Bilancio, con un gesto simbolico destinato a enfatizzare i legami fra i due Paesi.
Una serie di iniziative che il premier Monti e i suoi ministri non nascondono. Monti dice: “Siamo divenuti più presenti e, mi auguro, più persuasivi nel contesto europeo”. E racconta: “Il presidente Obama mi ha recentemente chiesto come si possono persuadere i tedeschi” a spingere per la crescita; e lui gli ha spiegato che, per i tedeschi, “la crescita è il premio a un comportamento virtuoso". Si tratta di lasciarsi alle spalle il capo del Rigore per puntare, navigando di cabotaggio, alla baia della Crescita: "Quello che stiamo dicendo al Consiglio europeo, alla Commissione europea e alla cancelliera Merkel è che noi stiamo facendo le riforme strutturali con una riduzione del disavanzo forte, ma che è chiaro che il tema della domanda è altrettanto fondamentale". Però, la Germania considera la domanda “un'entità cattiva", soprattutto quella che viene "dal settore pubblico”.
Certo, l’Italia non si propone alla Germania come alternativa alla Francia. Ma quanto accade in Francia oggi influirà, e molto, sui rapporti europei prossimi venturi; e Monti crede che “l’Italia si sia piazzata in una buona posizione per aiutare Francia e Germania a trovare un nuovo equilibrio”, specie se Sarkozy perde e Hollande vince (ma non solo). La Merkel non ha nascosto in campagna elettorale la sua preferenza per Sarkozy, un po’ per solidarietà politica –entrambi stanno nel Partito popolare europeo-, un po’ per consolidata amicizia –o, almeno, frequentazione- e un po’ perché Hollande la irrita e la spaventa, andando in giro a promettere che, se sarà eletto, chiederà di rinegoziare il Patto di Bilancio, nonostante la cancelliera lo consideri ‘blindato’.
Ma il tandem, o l’asse, o il direttorio Parigi-Berlino non sparirà. Pur lontano dall’idea d’un'Unione piena, ma subordinando piuttosto l’integrazione a una visione intergovernativa, Sarkozy ha fatto asse con la Merkel per affrontare la questione del salvataggio di Atene e, soprattutto, per salvare l'euro. Il presidente e la cancelliera , da ultimo con l’aiuto del Professore, hanno trascinato 25 dei 27 – tutti tranne Londra e Praga - alla firma del trattato che serra i bulloni del rigore di bilancio, senza dare respiro alla crescita. Una vittoria di Hollande può spingere l’Unione verso politiche di crescita, ma senza rompere con la Merkel. Stretti collaboratori del candidato socialista non hanno dubbi: se sarà presidente, Hollande andrà in Germania per la sua prima missione estera. L’intesa franco-tedesca è stata forte anche quando è stata asimmetrica: anzi, il socialista Mitterrand ed il popolare Kohl andarono, mano nella mano, alla riunificazione tedesca, al passaggio dalla Comunità all’Unione e alla decisione di creare l’euro.
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