Scritto per l'Indro il 31/01/2013
Missione europea del premier Monti, molto
probabilmente la penultima del suo mandato. Ma, come già accaduto la scorsa
settimana al Forum economico mondiale di Davos, quando Monti si muove, di
questi tempi, non viaggiano più in due, come era prima, il premier e il
professore, ma in tre, perché parte pure il candidato. Così, tappe, incontri,
dichiarazioni creano un intreccio di significati, teorici, amministrativi e
politici.
Ieri e stamane a Bruxelles, poi oggi a
Berlino, il presidente del Consiglio italiano ha ufficialmente preparato il
Vertice europeo della prossima settimana, il 7 e l’8, quando i capi di Stato o
di governo dei 27 riprenderanno, e
dovrebbero condurre a termine, la discussione sulle prospettive finanziarie a
medio termine dell’Unione europea: si tratta di decidere, in sostanza, quanti
soldi e come e dove l’Ue potrà spendere dal 2014 al 2020.
Il negoziato rimase in sospeso lo scorso
novembre, quando il Vertice si chiuse con un nulla di fatto e un rinvio
stra-annunciato a del tutto prevedibile, al punto che non s’era capito perché
quel Vertice dovesse proprio farsi. Rispetto alle posizioni allora raggiunte,
l’Italia cerca adesso di recuperare qualche miliardo di euro: si tratta di
ridurre i tagli previsti alle politiche agricola e di coesione rispetto alle
proposte di partenza della Commissione europea. La bozza di compromesso
elaborata dal presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy, che prevede
poco più di 1000 miliardi di spesa in sette anni, dovrà però essere
ulteriormente limata, sotto la spinta dei campioni del rigore.
Monti ne ha parlato con Van Rompuy, dopo
averne già discusso ieri con Manuel Barroso, presidente della Commissione
europea. Stesso tema con la cancelliera
tedesca Angela Merkel, che, per una volta, non è la capofila del ‘partito dei
tagli’: meno di lei, vuole spendere per l’Unione David Cameron, il premier
britannico. Alla Merkel, Monti ha ricordato che il bilancio dell’Ue deve essere
proporzionato ed equo, ha detto che l’Italia ha già pagato più di quanto non fosse
giustificato – il nostro Paese è un contribuente netto – e che ci vuole una
riforma del sistema dei rimborsi e degli sconti, di cui beneficia soprattutto
la Gran Bretagna.
A Bruxelles, il colloquio tra Monti e Van Rompuy è stato piuttosto lungo, circa due ore. Nonostante
ciò, il premier, all’uscita, si è limitato a constatare che “il colloquio è
andato bene”. Evidente, ieri e oggi, specie dopo le recenti polemiche su una
sortita anti-Berlusconi di Olli Rehn, vice-presidente dell’Esecutivo
comunitario, il desiderio degli interlocutori del premier di non farsi
risucchiare nelle beghe italiche.
Se il bilancio quadro per i sette anni dal
2014 al 2020 supera di poco i 1000 miliardi, gli accordi si giocano su pochi
‘spiccioli’. Nella bozza Van Rompuy del novembre 2012, ricorda su EurActiv
Giuseppe Latour, Pac e coesione subivano
taglio per circa 55 miliardi rispetto alle proposte di partenza della
Commissione, facendone perdere una decina all’Italia. L’ultimo tentativo di
accordo prevede che la limatura si riduca, a detrimento di altre voci: in tal
modo Roma potrebbe recuperare circa tre miliardi.
Un passo nella giusta direzione, secondo Monti, ma non ancora abbastanza. L’obiettivo è recuperare almeno un paio di miliardi ancora tra Pac e coesione.
Sulla strada del Vertice,restano però
diverse altre incognite. La presidenza di turno irlandese si dice ottimista e
fa sapere che “le indicazioni sono positive”. Ma Berlino e Londra sono
ancora perplesse perché volevano un taglio di 100 miliardi rispetto alla bozza
Van Rompuy. Il presidente pare, invece, orientato a recuperarne solo una
ventina nelle pieghe del bilancio:
non è detto che bastino.
E poi c’è il Parlamento europeo, che dovrà ratificare l’accordo dopo il
varo. Gli eurodeputati hanno già fatto sapere
di non essere disposti a scendere sotto la quota indicata dall'Esecutivo comunitario: 1.031 miliardi
di euro. E visto che, presumibilmente, i 27 chiuderanno a una quota inferiore,
resta da capire quel che deciderà di fare l’assemblea.
Nella tappa bruxellese della sua missione,
Monti ha anche dovuto spiegare alla Commissione che cosa sta accadendo intorno
alla Banca del Monte dei Paschi di Siena e, in questo contesto, ha sostenuto
che il progetto del completamento dell’unione bancaria è fondamentale.
giovedì 31 gennaio 2013
mercoledì 30 gennaio 2013
Punto: Usa, Kerry al posto di Hillary, non cambia (quasi) nulla
Scritto per l'Indro il 30/01/2013
Gli Stati Uniti hanno un segretario di Stato, cioè un
ministro degli esteri, nuovo: il Senato ha infatti ratificato la larga
maggioranza la designazione di John Kerry. Il successore di Hillary Clinton
s’insedierà ufficialmente a Foggy Bottom venerdì 1.o febbraio, dopo avere
rassegnato le dimissioni da senatore del Massachusetts. E lì si aprirà un’altra
storia, che fra un po’ vi raccontiamo.
Il presidente Barack Obama ha espresso la sua soddisfazione
per il voto del Senato. E, a Kerry, messaggi di congratulazioni, e richieste di
appuntamenti, sono giunti da Lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo; da
Giulio Terzi, ministro degli esteri italiano –Kerry “è un vero amico
dell’Italia”-; e da mezzo mondo, anzi decisamente da più di mezzo mondo. A
conti fatti, Terzi potrebbe essere fra i primi a rendere visita al collega a
Washington, accompagnando negli Stati Uniti il presidente Giorgio Napolitano,
invitato da Obama alla Casa Bianca il 15 febbraio per un incontro di commiato.
Nell'esprimere la soddisfazione per il voto del Senato, il
presidente Usa scrive: "Dal suo servizio come militare decorato nella
guerra del Vietnam, sino ai decenni passati al Senato, la carriera di Kerry è
quella di un campione della leadership globale americana. E' assolutamente
preparato a guidare la diplomazia americana negli anni a venire. S'é guadagnato
il rispetto del mondo e la fiducia di democratici e repubblicani del Senato.
Sono fiducioso che farà un lavoro straordinario ... Non vedo l'ora di lavorare
con lui negli anni a venire nello sforzo comune di assicurare la leadership
americana nel mondo e far avanzare gli interessi e i valori che mantengono
forte la nostra nazione".
L’uscita di scena di Hillary e l’arrivo di Kerry non
dovrebbe cambiare (quasi) nulla nella politica estera americana. Tocchi di
stile a parte: Hillary è più esuberante e, forse, conserva ambizioni di Casa
Bianca per Usa 2016; Kerry, 69 anni, è un ‘pesce lesso’, che ha seppellito le
ambizioni presidenziali dopo essere stato sconfitto da George W. Bush nelle elezioni
2004. A
fine missione, prevedibilmente al termine del secondo mandato del presidente
Obama, sarà pronto per la pensione.
Kerry, negli ultimi anni, ha presieduto la commissione
Esteri del Senato ed ha sempre avuto interesse per gli affari internazionali –é
un americano anomalo, che ha studiato in Svizzera e parla le lingue-: non dovrà
faticare troppo per mettersi a pari sui dossier del momento. Un’idea se la sarà
già fatta scorrendo, oggi, i titoli delle agenzie di stampa internazionali: la
guerra in Mali, che va bene per i francesi e per il contingente africano
schierato al loro fianco –dalla notte scorsa, è stato ripreso ai ribelli
l’aeroporto di Kidal, nel Nord-est del paese, al confine con l’Algeria-;
l’insurrezione in Siria, dove le Nazioni Unite hanno lanciato l’ennesimo
probabilmente inutile grido d’allarme; i fermenti di protesta in Egitto, che
non hanno oggi indotto al presidente Mohamed Morsi a rinunciare alla visita in
Germania, dove la cancelliera Angela Merkel gli ha fatto un predicozzo sul
dialogo; e i negoziati per la formazione del governo in Israele, dopo l’esito
non del tutto atteso delle elezioni politiche del 22 gennaio.
Beh, certo, per essere le notizie dal Mondo vengono tutte
dal Medio Oriente o giù di lì. Ma non c’è dubbio che l’attenzione di Kerry
dovrà concentrarsi su quell’area, senza però dimenticare l’Europa e la Russia , l’Asia e la Cina , l’Africa e il ‘cortile
di casa’, l’America latina.
Obama avrà presto modo di testare sul terreno il suo nuovo
‘capo diplomatico’. La cui nomina potrebbe, però, riservare un cruccio al
presidente, perché i democratici rischiano di perdere un seggio al Senato. Il
Massachusetts, lo Stato dei Kennedy, nel New England, è una sorta di feudo
liberal e progressista, che, però, alla morte di Ted Kennedy, era stato
‘violato’ da Scott Brown, repubblicano moderato, poi a sua volta battuto, il 6
novembre, dalla democratica Liz Warren.
Adesso Brown sarebbe pronto a cercare di riprendersi il
posto al Senato, nelle elezioni suppletive che, probabilmente, si faranno a
giugno, mentre le primarie sono già previste il 30 aprile. Contro di lui, per i
democratici, potrebbe esserci Barney Frank, un veterano del Congresso, 73 anni,
apertamente gay, che alle ultime elezioni non s’è ricandidato. Nel luglio del
2012 Frank è stato il primo parlamentare Usa a sposarsi con il partner di una
vita, mentre era ancora in carica.
Di qui a giugno, il posto di senatore del Massachusetts
vacante sarà tenuto da una persona scelta dal governatore dello Stato: si fanno
nomi che sono pezzi di storia dell’America, Ethel, vedova di Ted, una Kennedy,
oppure Michael Dukakis, ex governatore dello Stato, candidato democratico alla
Casa Bianca nel 1988 –a batterlo, fu George Bush padre-.
E Hillary, in tutto questo? Donna, madre, moglie, leader
mondiale, l’ormai ex segretario di Stato non ha ufficialmente rilanciato la corsa
per diventare la prima inquilina della Casa Bianca. "Deciderò a suo tempo ...
per ora devo recuperare 20 anni di sonno perso", spiega sorridente in tv. Insomma,
se ne parla, forse, nel 2014. Tuttavia –nota Marcello Campo, dell’ANSA- “ogni
sua apparizione è sempre più 'presidenziale', a conferma che, se solo volesse, nel
2016 sarebbe lei, l'ex First Lady, la favorita”. Come emerso chiaramente nella
prima intervista tv congiunta con Obama, domenica scorsa, quasi un endorsement.
martedì 29 gennaio 2013
Punto: Egitto, l'Occidente sta sempre dalla parte del più forte
Scritto per l'Indro il 29/01/2013
Due anni dopo la sua Primavera, l’Egitto è di nuovo
sull’orlo del collasso. La messa in guardia viene dai vertici dell’Esercito,
l’istituzione che ha di fatto garantito un ordine nel Paese dopo la cacciata
del presidente satrapo Hosni Mubarak e l’elezione dell’attuale presidente
Mohamed Morsi, il primo scelto dal popolo con libere elezioni. Esponente dei
Fratelli Musulmani, Morsi sta ora cercando di fronteggiare le sanguinose
proteste scatenate contro di lui dai suoi provvedimenti, ultimo la
proclamazione dello stato d’emergenza.
Ancora una volta, gli eventi egiziani testimoniano la
difficoltà dell’Occidente ad anticipare quanto possa accadere nel Mondo arabo e
musulmano: questo scoppio di violenza e d’intolleranza nessuno l’aveva
anticipato. E le diplomazie occidentali sono in difficoltà a trovare una
posizione sostenibile fra le fazioni che si scontrano. Si direbbe che la nostra
prima scelta di campo sia sempre dettata dalla convinzione, più che dalla
percezione, che il mantenimento dello statu quo è comunque migliore di
qualsiasi evoluzione.
Così, nel 2011 ci volle del tempo perché gli Stati Uniti e i
loro partner ‘mollassero’ Mubarak e accettassero il possibile avvento di un
presidente espressione dei Fratelli Musulmani, com’è poi puntualmente avvenuto
con elezioni democratiche. E ora l’Occidente praticamente ignora le ragioni
della protesta, nonostante essa venga da settori della società egiziana
‘liberali’ e in linea di massima quindi più vicini alla nostra sensibilità.
E’ vero, del resto, che, negli ultimi giorni,
manifestazioni, proteste, scontri, vittime a decine sono derivati
dall’intreccio di cause diverse: ci sono le preoccupazioni della parte meno
profondamente religiosa della società egiziana per la svolta radicale del
Paese; ma ci sono pure state le opposte violente reazioni alla sentenza
straordinariamente severa del Tribunale di Porto Said, con 31 condanne a morte
per la morte di decine di persone nella ressa a una partita di calcio, dove i
tifosi delle due squadre avevano diverse appartenenze politiche e religiose.
Con i criteri della magistratura della città sul Canale, però, quanti tifosi
del Liverpool dovevano essere condannati alla pena capitale per la strage
dell’Heysel, 39 morti il 25 maggio 1985?
Anche se il numero delle vittime, ieri e oggi, è stato
modesto, o nullo, rispetto ai giorni precedenti, c’è, al Cairo, nervosismo per
quel che potrebbe accadere venerdì, il giorno di festa e di preghiera, quando
l’opposizione ha già chiamato alla protesta i suoi sostenitori. E la situazione
incandescente dell’Egitto non contribuisce certo a stemperare le tensioni nel
Grande Medio Oriente e nell’Africa mediterranea e sub-sahariana. In Siria, dove
la guerra civile è senza tregua, fonti dell’insurrezione anti-al Assad
riferiscono del ritrovamento di almeno 65 cadaveri in un quartiere di Aleppo,
nel nord del Paese: avevano le mani legate ed erano stati apparentemente uccisi
con un colpo alla testa, vittime di una vera e propria esecuzione.
Le tensioni politiche e militari in Egitto e Siria s’intrecciano
con le trattative per la formazione del governo in Israele, dopo le elezioni
politiche della scorsa settimana: un altro di quegli incroci d’eventi ad alto
rischio cui le cronache ci hanno drammaticamente abituati in quest’area del
Mondo.
Invece, in Mali, l’intervento militare francese contro le
milizie jihadiste ‘imparentate’ con al Qaida sembra essere stato risolutivo,
almeno per il momento, complice una spaccatura nei guerriglieri fra
nazionalisti e integralisti. Risultato, le truppe regolari maliani stanno
‘ripulendo’ da esplosivi ed armi abbandonate dai ribelli in rotta le città del
Nord riconquistate, Timbuctu e Gao, mentre Parigi sta già considerando la
possibilità di affidare il completamento delle operazioni alle truppe maliane e
al contingente dell’Africa occidentale nel frattempo allestito.
Punto: Iran, una scimmia come Laika, ma torna a terra viva
Scritto per l'Indro il 28/01/2013
La notizia andrebbe letta mentre scorrono immagini Anni
Cinquanta, rigorosamente bianco e nero: quelle del 3 novembre 1957, quando uno
Sputnik russo portò in orbita per la prima volta un essere vivente, la cagnetta
Laika. L’Iran –si apprende- ha ora lanciato con successo una sonda nello spazio
con una scimmia a bordo. Il vettore ha raggiunto l'altezza di 120 km , tornando a Terra con
l'animale in vita –di Laika, invece, il rientro non venne previsto: la cagnetta
morì in orbita, poche ore dopo, o qualche giorno dopo, il lancio, le versioni
sono tuttora contrastanti-.
Il fermento di notizie dall’Iran di solito è poco più di un
brusio, un po’ perché il regime spesso non gradisce l’attenzione
internazionale, e un po’ perché gli ‘al lupo, al lupo’ della presunta minaccia
nucleare hanno ormai logorato la loro efficacia. Oggi, invece, sovrasta le
informazioni che arrivano dall’Egitto, dove, dopo cinque giorni di proteste
cruente, la proclamazione dello stato d’emergenza e l’autorizzazione all’esercito ad arrestare i
civili placano le manifestazioni – le cronache segnalano un solo morto
ammazzato, dopo la cinquantina dei giorni scorsi. Nel Mali, truppe francesi e
maliane prendono il controllo di Timbuctu, la città incrocio nei secoli di
carovane, merci e culture, che l’Unesco considera patrimonio dell’umanità; ma
gli jihadisti, prima di fuggire, danno alle fiamme diversi edifici, fra cui una
libreria di manoscritti d’incommensurabile valore.
Ma torniamo all’Iran, che aveva già inviato nello spazio una
prima "biocapsula di creature viventi" nel febbraio 2010, usando i
suoi vettori Kavoshgar-3, cioè Explorer-3. Il lancio della scimmia, utilizzando
un Kavoshgar-5 era stato annunciato nel maggio scorso per l'estate seguente, ma
era poi stato rinviato. L'animale è stato addestrato per un anno: gli
esperimenti sui primati preparano –è stato spiegato- la messa in orbita di
astronauti iraniani fra "cinque-otto anni", secondo i programmi – un
po’ vaghi, a dire il vero - dell'Agenzia spaziale iraniana.
L'Iran ha un intenso programma di sperimentazione ed
esplorazione, centrato sul lancio di satelliti. L'anno scorso, aveva già
completato almeno all'80% un proprio centro di ricerca e lancio per queste
attività iniziate nel 2009 con il satellite Omid", Speranza, e proseguite
nel giugno 2011 con il Rasad e, da febbraio, con il Navid portato in orbita da
un razzo Safir B1.
La ‘conquista dello spazio’ iraniana è monitorata con
diffidenza dalla comunità internazionale: c’è il sospetto, che Teheran respinge
come del tutto infondato, che i vettori possano essere progettati per essere
utilizzati per montarvi testate nucleari. L'Iran comunque si considera "la
quinta o sesta maggiore potenza missilistica al mondo", dietro Stati
Uniti, Russia, Ue, Cina e lì lì con Giappone e Corea del Nord; ed esalta i
risultati delle sue esercitazioni militari con testate convenzionali come
elemento di deterrenza nei confronti delle minacce belliche israeliane.
L’invio in orbita di una scimmia alimenterà, probabilmente,
le diffidenza israeliane e occidentali verso l’Iran, che proprio oggi è stato
bacchettato da un suo grande partner internazionale, la Russia. Il ministro
degli esteri Serghiei Lavrov ha espresso "profondo rammarico" per il
rinvio dell'ennesimo incontro con l’Iran dei ‘5+1’ – le 5 potenze nucleari
‘storiche’ con diritto di veto all’Onu più la Germania -.
La ripresa dei negoziati sul dossier nucleare iraniano è
slittata per un problema "futile" come la scelta del luogo dove
tenere le trattative: Mosca auspica che i mediatori internazionali e l'Iran
"la smettano di fare i capricci come i bambini".E, intanto, le
autorità di Teheran smentiscono quanto pubblicano dal Sunday Times su una
presunta esplosione nel sito nucleare di Fordow, nei pressi di Qom, a sud della
capitale. Il giornale britannico, citando fonti di intelligence israeliane,
segnalava "una mega
esplosione" nell'impianto anticipata venerdì con messaggi su Twitter. Le
fonti del Times si rifiutavano di commentare l’indiscrezione che l'area
dell'impianto fosse stata individuata da un aereo israeliano. E responsabili
israeliani hanno a loro volta detto ai media locali di "non sapere
nulla" dell'esplosione e di aver appreso la notizia "leggendo i
giornali".
Tra un successo spaziale e una smentita nucleare, il regime
iraniano porta avanti la sua priorità, che è la repressione della libertà di
espressione all’interno del Paese. Sempre oggi c’è stata una retata di
giornalisti che collaboravano con l’estero, cioè … davano notizie alla Bbc.
sabato 26 gennaio 2013
Punto: Rep. Ceca, ritorno in Europa con nuovo presidente
Scritto per l'Indro il 25/01/2013
Chiunque vinca il ballottaggio presidenziale, in corso da oggi, la Repubblica Ceca,
domani, sarà un po’ più dentro l’Unione europea. I due candidati rimasti in lizza,
dopo il primo turno l’11 e 12 gennaio, Milos Zeman, un veterano della sinistra, e
Karel Schwarzenberg, un aristocratico conservatore, sono entrambi su posizioni
nettamente più europeiste del presidente uscente Vaclav Klaus, che ha costantemente
tenuto il suo Paese ai margini dell’Ue, fuori – insieme alla Gran Bretagna - dal Patto
di Bilancio. Le presidenziali ceche sono le prime elezioni ‘pesanti’ di questo 2013
europeo: le altre consultazioni che contano sono le politiche italiane, a febbraio, e
tedesche, a settembre.
Mentre a Praga si va alle urne. Al Cairo si protesta in strada: il secondo anniversario
della Primavera egiziana è l’occasione di manifestazioni e di scontri con la polizia
sulla piazza Tahrir, luogo simbolo del riscatto egiziano dal regime di Hosni Mubarak
e della rivoluzione che ha condotto all’elezione di quel presidente ora a sua volta
contestato. Le proteste contro Mohamed Morsi, un esponente dei Fratelli Musulmani,
fanno oltre 100 feriti nella capitale e a Suez. Varie sedi dell’organizzazione islamica
vengono assaltate. C’è nel Paese un clima di tensione e s’insoddisfazione, che trova
in parte alimento anche dal momento d’agitazione e di violenza nell’Africa del Nord
e subsahariana e in tutto il Grande Medio Oriente.
In questo clima, diversi Paesi europei hanno sollecitato i loro cittadini a lasciare
Bengasi, il capoluogo della Cirenaica, culla della sommossa anti-Gheddafi due anni
or sono, citando “imminenti e specifiche” minacce contro gli Occidentali, collegate
alla sanguinosa azione terroristica degli integralisti islamici in località In Amenas,
campo di gas nel Sahara algerino. E proprio il conflitto in Libia fornisce guerriglieri
senza bandiera ed estremisti jihadisti alle fila delle organizzazioni armate che si
richiamano ad al Qaida e si muovono tra il Mali e il deserto (e sono pure sempre più
presenti in Siria).
E, mentre in Egitto la protesta popolare s’indirizza contro i Fratelli musulmani,
proprio i Fratelli Musulmani annunciano in Giordania una nuova ondata d’iniziative e
manifestazioni per sollecitare riforme elettorali, dopo che i candidati pro-governativi
hanno ottenuto una facile vittoria nelle elezioni politiche di questa settimana,
boicottate dagli islamici che non le ritenevano eque.
Dal Medio all’Estremo Oriente, dove un focolaio di tensione perennemente acceso
è quello della penisola coreana. La Corea del Nord minaccia d’attaccare quella del
Sud se Seul dovesse adottare nei suoi confronti una nuova serie di sanzioni dell’Onu
rafforzate. Washington, invece, va oltre le disposizioni delle Nazioni Unite e applica
ulteriori restrizioni economiche a Pyongyang, dopo il test di un missile nordcoreano
il mese scorso.
Negli Stati Uniti, dove il presidente Barack Obama porta avanti un vasto rimpasto
della sua Amministrazione, all’inizio del secondo mandato, il Pentagono autorizza,
per la prima volta, l’impiego delle donne in prima linea: un passo che alcuni
giudicano storico per affermare l’uguaglianza dei generi nelle forze armate degli Usa,
dopo 11 anni di guerre contro il terrorismo, dall’Afghanistan all’Iraq, in cui le donne
sono state sempre più presenti sul campo di battaglia, e vi hanno pure subito perdite,
ma non sono mai state utilizzate in ruoli di combattimento a terra.
La decisione del Pentagono coincide con un’iniziativa dei democratici nel Congresso
di proporre la messa al bando delle armi d’assalto, quelle di derivazione militare,
automatiche, per ridurre il rischio d’altre stragi analoghe a quella del dicembre scorso
in una scuola elementare di Newtown (Connecticut)- Il partito di Obama si rivolge
all’opinione pubblica, perché si mobiliti per battere l’opposizione al provvedimento
della lobby delle armi, trincerata dietro la tutela loro assicurata del II emendamento
della Costituzione statunitense.
Chiunque vinca il ballottaggio presidenziale, in corso da oggi, la Repubblica Ceca,
domani, sarà un po’ più dentro l’Unione europea. I due candidati rimasti in lizza,
dopo il primo turno l’11 e 12 gennaio, Milos Zeman, un veterano della sinistra, e
Karel Schwarzenberg, un aristocratico conservatore, sono entrambi su posizioni
nettamente più europeiste del presidente uscente Vaclav Klaus, che ha costantemente
tenuto il suo Paese ai margini dell’Ue, fuori – insieme alla Gran Bretagna - dal Patto
di Bilancio. Le presidenziali ceche sono le prime elezioni ‘pesanti’ di questo 2013
europeo: le altre consultazioni che contano sono le politiche italiane, a febbraio, e
tedesche, a settembre.
Mentre a Praga si va alle urne. Al Cairo si protesta in strada: il secondo anniversario
della Primavera egiziana è l’occasione di manifestazioni e di scontri con la polizia
sulla piazza Tahrir, luogo simbolo del riscatto egiziano dal regime di Hosni Mubarak
e della rivoluzione che ha condotto all’elezione di quel presidente ora a sua volta
contestato. Le proteste contro Mohamed Morsi, un esponente dei Fratelli Musulmani,
fanno oltre 100 feriti nella capitale e a Suez. Varie sedi dell’organizzazione islamica
vengono assaltate. C’è nel Paese un clima di tensione e s’insoddisfazione, che trova
in parte alimento anche dal momento d’agitazione e di violenza nell’Africa del Nord
e subsahariana e in tutto il Grande Medio Oriente.
In questo clima, diversi Paesi europei hanno sollecitato i loro cittadini a lasciare
Bengasi, il capoluogo della Cirenaica, culla della sommossa anti-Gheddafi due anni
or sono, citando “imminenti e specifiche” minacce contro gli Occidentali, collegate
alla sanguinosa azione terroristica degli integralisti islamici in località In Amenas,
campo di gas nel Sahara algerino. E proprio il conflitto in Libia fornisce guerriglieri
senza bandiera ed estremisti jihadisti alle fila delle organizzazioni armate che si
richiamano ad al Qaida e si muovono tra il Mali e il deserto (e sono pure sempre più
presenti in Siria).
E, mentre in Egitto la protesta popolare s’indirizza contro i Fratelli musulmani,
proprio i Fratelli Musulmani annunciano in Giordania una nuova ondata d’iniziative e
manifestazioni per sollecitare riforme elettorali, dopo che i candidati pro-governativi
hanno ottenuto una facile vittoria nelle elezioni politiche di questa settimana,
boicottate dagli islamici che non le ritenevano eque.
Dal Medio all’Estremo Oriente, dove un focolaio di tensione perennemente acceso
è quello della penisola coreana. La Corea del Nord minaccia d’attaccare quella del
Sud se Seul dovesse adottare nei suoi confronti una nuova serie di sanzioni dell’Onu
rafforzate. Washington, invece, va oltre le disposizioni delle Nazioni Unite e applica
ulteriori restrizioni economiche a Pyongyang, dopo il test di un missile nordcoreano
il mese scorso.
Negli Stati Uniti, dove il presidente Barack Obama porta avanti un vasto rimpasto
della sua Amministrazione, all’inizio del secondo mandato, il Pentagono autorizza,
per la prima volta, l’impiego delle donne in prima linea: un passo che alcuni
giudicano storico per affermare l’uguaglianza dei generi nelle forze armate degli Usa,
dopo 11 anni di guerre contro il terrorismo, dall’Afghanistan all’Iraq, in cui le donne
sono state sempre più presenti sul campo di battaglia, e vi hanno pure subito perdite,
ma non sono mai state utilizzate in ruoli di combattimento a terra.
La decisione del Pentagono coincide con un’iniziativa dei democratici nel Congresso
di proporre la messa al bando delle armi d’assalto, quelle di derivazione militare,
automatiche, per ridurre il rischio d’altre stragi analoghe a quella del dicembre scorso
in una scuola elementare di Newtown (Connecticut)- Il partito di Obama si rivolge
all’opinione pubblica, perché si mobiliti per battere l’opposizione al provvedimento
della lobby delle armi, trincerata dietro la tutela loro assicurata del II emendamento
della Costituzione statunitense.
venerdì 25 gennaio 2013
Usa: Grand Hotel Casa Bianca, chi va e chi viene con l'Obama 2
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/01/2013
Grand Hotel Casa Bianca: come nel film di Edmond
Goulding con Greta Garbo, “gente che va, gente che viene”. Al cambio di
presidente, anzi, tutti vanno e tutti vengono: è lo ‘spoil system’; ci pare
lunare, ma funziona. E pure quando il presidente resta lo stesso, il viavai tra
un mandato e l’altro è elevato: chi lascia per logoramento; chi parte per
siluramento; e chi si posiziona. Potrebbe essere il caso di Hillary Rodham
Clinton, la più popolare nei sondaggi attuali per Usa 2016, giusto davanti al
vice di Obama Joe Biden: ma siamo a un concorso di bellezza della terza età,
c’è tempo per vedere venire avanti candidati meno stagionati.
Verso
la fine del suo secondo quadriennio, il presidente dovrà poi fare fronte a un
vero e proprio esodo: molti dei suoi giocheranno
d’anticipo e coglieranno le occasioni che avranno, per evitare di ritrovarsi a
fine mandato con in mano lo scatolone per svuotare l’ufficio.
Il rimpasto dell’Amministrazione 2013 è profondo,
investe tutti e tre i maggiori dicasteri: esteri, difesa ed economia; e anche
il posto più delicato per l’organizzazione interna, quello di capo dello staff
della Casa Bianca, quello che da noi è il sottosegretario alla presidenza del
Consiglio, ma più alla Gianni Letta che alla Antonio Catricalà.
La Clinton, Leon Panetta e Timothy Geithner non sono però gli unici partenti. Altri due che
se ne vanno, ad esempio, sono Ken Salazar, il ministro dell’Interno, che, negli
Usa, non conta, però, come da noi, e Steven Chu (Energia).
Le sostituzioni non sono mai immediate, perché il
Senato deve avallare le scelte del presidente. E’ bene avviata la ratifica
della nomina di John Kerry a segretario di Stato al posto della Clinton, che ha
praticamente concluso la sua missione con una sofferta audizione in Senato
sulla strage di Bengasi a settembre.
Hillary lascia un monito sulla minaccia che tuttora
incombe sugli occidentali a Bengasi, dove sono attive cellule terroristiche
legate ad al Qaida.
Occuparsene, sarà, però, compito del suo successore: Kerry,
candidato democratico alla presidenza nel 2008, ha il ‘test d’ammissione’ facilitato, perché
l’esame glielo fa la commissione esteri del Senato che lui ha presieduto negli
ultimi quattro anni. Kerry è, però, una seconda scelta: Obama, infatti, puntava
su Susan Rice, l’ambasciatrice degli Usa all’Onu, che l’opposizione
repubblicana ha costretto alla rinuncia preventiva, contestandole reticenze e
falsità proprio in audizioni sulla strage di Bengasi.
Non in discesa la strada di Chuck Hagel, il repubblicano
dissidente scelto per guidare il Pentagono al posto di Panetta. Gli tirano
addosso i repubblicani, e fin qui ci sta; ma gli giocano pure contro i
rallegramenti iraniani alla sua designazione e la fama di ‘anti-israeliano’,
oltre che una gaffe anti-gay, di cui si scusò, quando disse che un omosessuale
non può fare l’ambasciatore.
Per Jacob Lew, uno di cui Obama si fida -lo aveva
capo dello staff e responsabile del bilancio-, l’ok del Senato al posto di
Geithner pare acquisito: la sola pecca che la blogosfera gli ha finora trovato è
una firma illeggibile. Al suo posto, alla Casa Bianca, andrebbe Denis McDonough,
numero due tra i consiglieri per la Sicurezza nazionale.
giovedì 24 gennaio 2013
Punto: negoziati e chiacchiere, una giornata senza cronaca
Scritto per l'Indro il 24/01/2013
Ci sono giorni che il Mondo sembra preso da un tremolio di
notizie incessante e frenetico. E ci sono giorni che pare fermarsi. Oggi, è
come se si fosse fermato: dopo il voto in Israele, dopo i sussulti in Africa,
dopo i panni dell’Europa lavati nel Tamigi dal premier britannico David
Cameron, ci siamo goduti 24 ore di ‘pausa di riflessione’. O –ed è più probabile-
non ci siamo accorti di quel che ci è successo tutto intorno.
In Israele, il premier uscente Benjamin Netanyahu, che
s’accinge a succedere a se stesso, ha già messo dell’acqua nel suo vino
nazionalista e oltranzista e sta adattando il linguaggio agli interlocutori con
cui deve negoziare la formazione di una maggioranza: in primo luogo, il partito
centrista ‘C’è futuro’ del giornalista Yair Lapid. Ecco, allora, l’ipotesi di
un programma di governo sul ‘pane e burro’ delle famiglie israeliane, più che
sulla presunta minaccia nucleare iraniana e sulla questione palestinese. Anche
se, poi, Netanyahu avrà il problema d’imbarcare nella coalizione almeno il
partito dei coloni, se vuole arrivare ai 61 seggi, che sono la maggioranza
minima in una Knesseth di 120 seggi. E, con i rappresentanti dei coloni, altri
argomenti dovrà esibire.
Dal Mali, dove truppe di terra africane e francesi si
preparano a lanciare una grossa offensiva, per stanare dai loro santuari nel
Sahara gli integralisti musulmani vicini ad al Qaida, la Reuters riferisce che
divisioni starebbero emergendo fra gli
jihadisti, non più sicuri dell’inviolabilità del loro territorio e spaccati
sull'esito dell’azione di In Amenas, in
Algeria, conclusasi con una carneficina: decine gli ostaggi e i terroristi
uccisi.
Stallo momentaneo nel deserto sahariano, dunque. E stallo
pure in Siria, dove fonti diplomatiche francesi ammettono che il rovesciamento
del presidente Bashar al-Assad non sarebbe così imminente come Parigi aveva
creduto fino a qualche tempo fa. La strategia diplomatica occidentale basata
sull'ineluttabilità della fine del regime andrà forse rivista.
L’Unione europea s’interroga sul significato e sull'impatto
del discorso fatto ieri dal premier britannico David Cameron: da una parte, il
progetto di un referendum ‘dentro o fuori’; dall'altra, il desiderio
d’allontanare il più possibile questa prova, dopo le prossime elezioni
nazionali –e sempre che i conservatori le vincano di nuovo-, non prima del
2015, forse non prima del 2017. Molti giudicano il monito di Cameron, che
qualsiasi tentativo di approfondire l’integrazione europea verso un’unione
politica sarebbe un errore, e che Londra ne rimarrebbe fuori, un tentativo di
condizionare (e frenare) la volontà dei partner di andare avanti su quella
strada. E molti avvertono, a loro volta, il premier britannico che l’Unione non
è un ‘self service’, dove uno Stato, per quanto importante come il Regno Unito,
decide che cosa prendere e che cosa lasciare.
A Washington, fila invece liscio –pare- il processo di
ratifica della nomina di John Kerry a segretario di Stato, al posto di Hillary
Rodham Clinton, che ha praticamente concluso la sua missione con la sofferta
audizione in Senato sulla strage di Bengasi a settembre, costata la vita
all'ambasciatore in Libia Christopher Stevens e a tre marines. La Clinton ha
lanciato un monito, ripreso oggi da Berlino, sulla minaccia che tuttora incombe
sugli occidentali a Bengasi, dove sono presenti e attive cellule terroristiche
legate ad al Qaida. Occuparsene, sarà, però, compito del suo successore: Kerry
ha il ‘test d’ammissione’ al Dipartimento di Stato facilitato, perché l’esame
glielo fa la commissione esteri del Senato che lui ha presieduto negli ultimi
quattro anni.
Italia 2013: Monti a Davos si fa in tre, prof, premier e candidato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/01/2013
Il World Economic Forum di Davos è uno di quei posti dove
non succede assolutamente nulla, valanghe di parole a parte, ma dove un sacco
di persone vogliono esserci e, soprattutto, essere viste. Anche i Mario Monti,
il professore, il premier, e pure il candidato, sentono il rischiamo del Forum.
Il professore arriva e dice, dati alla mano, di essere fiducioso sul futuro
dell’Italia: promuove l’azione della Bce, ma chiosa che senza i sacrifici
dell’Italia salvare l’euro sarebbe stato più difficile per Mario Draghi. Il
premier racconta, per l’ennesima volta, che il clima nei confronti dell’Italia
è cambiato nei consessi internazionali , che “c’è più rispetto”. E il candidato
annuncia che, se e quando tornerà al governo, rafforzerà la legge contro la
corruzione e continuerà sulla via del rigore e della riduzione del debito, ma
senza più mettere nuove tasse.
E il candidato prende il sopravvento: “La disoccupazione
è intollerabile –dice-. I giovani che la subiscono sono vittime dei governi
precedenti, impegnati in promesse elettorali che non potevano mantenere”. Ma
dall’Italia PierLuigi Bersani lo richiama alle sue responsabilità: “Il premier
pensi agli esodati che ha creato”, ché quel pasticcio va tutto ascritto alla
premiata ditta Monti & Fornero. E Bersani aggiunge: “Né Berlusconi il
miliardario né Monti il tecnico possono risolvere la grave situazione sociale”.
Proprio mentre l’Fmi taglia le stime di crescita dell’Italia: nel 2013, il Pil
si contrarrà ancora dell’1%, altro che “luce al fondo del tunnel”.
Su quanto valgano le analisi e le promesse di Davos, ci
scherza su Der Spiegel, in un articolo dal titolo un po’ cimiteriale: “I
condannati a morte vivono più a
lungo e questo vale anche per la zona euro”. Nell’edizione online, il
settimanale tedesco ricorda che, un anno fa, molti economisti avevano predetto
un “rapido collasso” della moneta europea. E, invece, la zona euro è ancora vegeta
e integra. Per il Forum 2013, il motto è 'Dinamismo resistente', che,
commenta il giornale, "si può semplicemente tradurre con
l'espressione: Urrà, siamo
ancora vivi!".
Sui titoli, quelli di Davos sono davvero super.
L’intervento di Monti, che apre la sessione plenaria –il suo è il primo dei
cinque ‘special addresses’ di questa edizione: gli altri li pronunceranno
Cameron e la Merkel, Medvedev e la Lagarde-, s’intitola ‘leading against the
odds’. Che, a volerlo tradurre, può diventare ‘governare nonostante tutto’, ma
anche ‘indicare la strada contro le avversità’, o ancora ‘essere in testa
contro ogni pronostico’; e che, in realtà, vuole dire un po’ tutte queste cose.
Monti arriva a Davos nella tarda mattinata ed entra
subito nel tourbillon: due incontri a porte chiuse, un ‘business interaction
group’ sull’Italia e un dibattito dell’International Business Council sulla
competitività europea; poi c’è il discorso d’apertura della sessione plenaria.
In serata, una cena, cui il padrone di casa Klaus Schwab invita capi di Stato e
di governo –nella lista, Cameron e la Merkel, un mini-vertice europeo- e leader
delle organizzazioni internazionali.
Oggi, Monti ha un breakfast con gli italiani al Forum,
quindil’incontro informale dei leader economici mondiali sulla ‘rinascita
europea’; e, a seguire, una sessione aperta sulla crisi europea, con sparring
partner il premier irlandese Enda Kenny, presidente di turno del Consiglio
dell’Ue, e il premier olandese Mark Rutte, un falco sulla spalla della Merkel.
Infine, altri due incontri europei e, dopo 28 ore ‘svizzere’, il rientro in Italia.
Più interessante quello che si dice a porte chiuse che i
discorsi pubblici; e più interessanti i colloqui a margine dei dibattiti
programmati. A Monti, questo genere di appuntamenti internazionali piace:
l’aveva già mostrato in estate, andando per un incontro del genere fin sulle
Montagne Rocciose, negli Stati Uniti.
Alcuni degli economisti che nel 2012 avevano predetto il
crollo dell’euro ammettono ora l'errore. Il premio Nobel Paul Krugman, per esempio, che aveva
preannunciato un'incombente “apocalisse”, riconosce: "L'Europa mi ha
sorpreso per la sua resistenza politica".
Willem Buiter,
capo economista di Citigroup,
che aveva annunciato scenari catastrofici per
i paesi della moneta unica, difende, invece, la sua previsione, anche se
rimandata nel tempo e con minore probabilità –a meno che, commenta Der Spiegel,
in Italia non torni Berlusconi-.
mercoledì 23 gennaio 2013
Israele: ben ti sta, Benjamin. Ma la pace?, adesso...
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/01/2013. Altra versione nel Punto dell'Indro
Alla Casa Bianca, Barack Obama, appena svegliatosi, deve avere pensato che questo suo secondo mandato non comincia sotto una cattiva stella, in Medio Oriente: quell'antipatico di Benjamin Netanyahu, che già s’era rassegnato a ritrovarsi di fronte pimpante per i prossimi quattro anni, esce dalle elezioni israeliane con una bacchettata sulle dita. Certo, i francesi fanno la guerra in Mali, i terroristi fanno razzie in Algeria e la Siria è una polveriera. Ma, intanto, Netanyahu si ritrova con la coda fra le gambe e abbasserà un po’ la cresta. Tempo qualche giorno e gli manderà in visita il nuovo segretario di Stato John Kerry, tanto per saggiarne lo spirito.
Alla Casa Bianca, Barack Obama, appena svegliatosi, deve avere pensato che questo suo secondo mandato non comincia sotto una cattiva stella, in Medio Oriente: quell'antipatico di Benjamin Netanyahu, che già s’era rassegnato a ritrovarsi di fronte pimpante per i prossimi quattro anni, esce dalle elezioni israeliane con una bacchettata sulle dita. Certo, i francesi fanno la guerra in Mali, i terroristi fanno razzie in Algeria e la Siria è una polveriera. Ma, intanto, Netanyahu si ritrova con la coda fra le gambe e abbasserà un po’ la cresta. Tempo qualche giorno e gli manderà in visita il nuovo segretario di Stato John Kerry, tanto per saggiarne lo spirito.
A Bruxelles, invece, dove la signora Ashton ha sei ore di
vantaggio sull'Amministrazione statunitense, ma ha bisogno di più tempo per
mettere in ordine i suoi pensieri, stanno ancora provando a raccapezzarcisi.
Così, i Paesi dell’Ue reagiscono per conto loro, auspicando –ma è una banalità-
una pronta ripresa dei negoziati israelo-palestinesi.
In barba ai sondaggi, che davano la coalizione di Netanyahu
vincitrice, il voto israeliano vede un pareggio, almeno aritmetico, tra il
blocco dei partiti confessionali e di destra e quello dei partiti di centro-sinistra:
60 seggi per parte, per lo schieramento che fa capo al premier uscente e per
l’opposizione –nella Knesseth, tradizionalmente frammentata, i seggi sono 120, ripartiti questa volta fra
12 formazioni-.
Il fatto nuovo è Yesh Atid, C’è un futuro, del giornalista
televisivo Yair Lapid, figlio d’arte
(anche il padre era un giornalista poi passato alla politica): la sua
difesa della classe media gli è vale il secondo posto fra i partiti in lizza
con 19 seggi, dietro l’alleanza Likud – Beitenu di Netanyahu e Avigdor
Lieberman, 31 seggi.
Sul fronte della pace, l’incognita principale, però, è
l’apparente distacco dell’opinione pubblica israeliana rispetto alla cosiddetta
‘questione palestinese’, fin quando non si tratta di reagire con raid aerei a
gragnole di missili katiuscia. C’è il sospetto che la ‘generazione Netanyahu’
voglia fare tramontare, tra lungaggini e diffidenze, la visione dei due Stati
che vivano in pace ciascuno all'interno dei propri confini, che è da tempo un
mantra della diplomazia internazionale: Andrea Dessì, dello IAI, l’Istituto
Affari Internazionale, pensa che l’indifferenza possa seppellire l’dea nel giro
di qualche anno.
Su questo sfondo, i risultati elettorali sono un buon
segnale, per la pace e per i negoziati con i palestinesi, dopo che la campagna,
concentrata sulle questioni economiche e sociali, aveva quasi ignorato il tema?
Non necessariamente: l’impatto è tutto da verificare.
Potrebbe risultare negativo, perché un Netanyahu forte sarebbe stato forse più
sicuro di sé e meno chiuso nei rapporti con gli alleati, cioè gli Stati Uniti,
e con gli interlocutori, cioè i palestinesi, mentre un Netanyahu debole può
essere tentato di fare più leva sulla sicurezza d’Israele. Non a caso, le
dichiarazioni a caldo puntano sul fatto
che “la prima sfida è impedire all'Iran di dotarsi dell’atomica”: il messaggio
è che il nemico è alle porte e che, all'interno, bisogna quindi restare uniti,
senza cedimenti né concessioni.
Oppure, potrebbe risultare positivo, perché la ricerca di
una coalizione “la più larga possibile” –su questo, Netanyahu e Yair Lapid
concordano- dovrebbe attenuare l’ancoraggio religioso e nazionalista del
governo, spostandone l’ago dal centro-destra-destra- al centro-destra-centro.
Già si parla, infatti, di un’alleanza tra il Likud di Netanyahu, Yesh Atid di Lapid
al centro e il Focolare ebraico di Naftali Bennett (11 seggi): insieme,
farebbero 61 seggi (su 120). Non è proprio una maggioranza larga, ma si sa che
poi c’è sempre qualcuno che sale sul carro dei vincitori, annacquando le posizioni di partenza in cambio d’una
poltrona.
E, infatti, resta da vedere se i partiti accreditati all'una
o all'altra parte resteranno, a negoziati in corso, là dove si erano collocati
prima del voto. Netanyahu ha già
iniziato le consultazioni, in attesa che i risultati diventino definitivi: la
Commissione centrale elettorale attende lo spoglio delle schede degli
israeliani all'estero e la spartizione dei voti alle liste non entrate nella
Knesseth. E l’attuale ripartizione dei seggi,
che vede i laburisti terzi con 15, mentre Kadima s’è ridotto a 2,
potrebbe anche subire qualche ritocco.
martedì 22 gennaio 2013
Francia-Germania: amicizia senza passione, dopo 50 anni
Scritto per l'Indro il 22/01/2013
Al culmine delle celebrazioni a Berlino del 50° anniversario
del Trattato d’Amicizia franco-tedesco, Germania e Francia annunciano l’intenzione
di presentare entro maggio “proposte” per rafforzare l’Unione europea economica
e monetaria. “Le faremo –dice la cancelliera Angela Merkel- in vista del Vertice
europeo di giugno”, con l’intento di consolidare l’euro. Il presidente François
Hollande aggiunge: “Cercheremo di essere il più concreti possibile, cioè il più
utili possibile al rafforzamento della crescita.
I riti dell’amicizia franco-tedesca, affidati in passato a
coppie di statisti di maggiore statura storica, come Charles De Gaulle e Konrad
Adenauer -agli esordi- e Francois Mitterrand e Helmut Kohl -negli Anni
Ottanta-, si ripetono nel giorno in cui gli israeliani vanno alle urne per le
politiche, mentre segnali di guerra e di terrore continuano a venire
dall’Africa: dal Mali, dove truppe francesi e regolari proseguono la
riconquista del Nord del Paese caduto sotto il controllo di milizie
integraliste jihadiste; e dall’Algeria, dove dinamica e bilancio della presa di
ostaggi di In Amenas e del successivo blitz delle forze speciali non sono
ancora chiari.
L’Unione europea si propone d’organizzare, il 5 febbraio, a
Bruxelles, una riunione internazionale sul Mali, con la partecipazione di
Nazioni Unite, Unione africana e Comunità economica dell’Africa occidentale.
A Berlino, Hollande e la Merkel fanno una conferenza stampa dopo
un Consiglio dei Ministri congiunto dei due Paesi e prima di una riunione
congiunta dei Parlamenti francese e tedesco. Ottimo il clima di incontri e
conversazioni, anche se la crisi dell’euro e le strategie per uscirne sono
state al centro di tensioni tra Parigi e Berlino negli ultimi mesi; e, ancora
lunedì sera, a Bruxelles, proprio mentre la Merkel e Hollande aprivano le
celebrazioni con una cena, c’erano state scaramucce all’Eurogruppo tra Francia
e Germania.
Infatti Jeroen
Dijsselbloem, ministro delle finanze olandese, è divenuto il nuovo presidente
del club dei ministri delle Finanze dei Paesi dell’euro per volontà diBerlino e
un po’ a dispetto di Parigi. Dijsselbloem succede a Jean Claude Juncker,
premier e ministro delle finanze lussemburghese, che ha presieduto lunedì l’ultima
riunione del suo mandato. Un ‘euro-tiepido’,
quasi un ‘euro-freddo’, dunque, sul trono della moneta unica, dopo Juncker divenuto
per tutti ‘il rosso’ con le recenti sortite sul salario minimo.
A elezione avvenuta, Dijsselbloem
– leggete ‘daisselblum’, con voce un
po’ gutturale, e fidatevi -, 46 anni,
socialdemocratico, senza grossa esperienza di governo –è ministro solo dal 5
novembre- e neppure di Unione, ha così sintetizzato la sua agenda: completare l'unione
bancaria, proseguire la strategia di consolidamento dei conti, creare
occupazione.
Il responsabile delle finanze dell’Aja ha
battuta la concorrenza del francese Pierre Moscovici, che partiva in pole. Ma Parigi, alla fine, s’è accontentata
della presidenza del consiglio di supervisione della Bce, andata a una donna,
Danielle Nouy. La Germania voleva che l’Eurogruppo restasse guidato da un paese
piccolo (e fidato per Berlino, come solo Olanda e Finlandia lo sono); e voleva tenerne
lontani quegli spendaccioni dei i Piigs
(Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). La scelta
del successore di Juncker non è però
avvenuta
all’unanimità: Madrid ha votato contro.
Al passo d’addio come presidente dell’Eurogruppo, Juncker,
che resta premier lussemburghese, ha reso omaggio alla “forza motrice” in
Europa della coppia franco-tedesca. Forse già sapeva quel che stava per uscire
dal cilindro del Vertice di Berlino; o forse s’immaginava che qualcosa del
genere sarebbe saltato fuori.
Le celebrazioni del Trattato dell’Eliseo, firmato il 22
gennaio 1963, si sono svolte “con solennità”, come si addice a delle nozze
d’oro, ma senza passione: e sono cominciate con l’incontro dei leader con
esponenti del mondo della cultura dei due Paesi. Il regista tedesco Wim Wenders
vi constatava che “tra Francia e Germania c’è oggi una certa indifferenza”, il
che non può stupire “dopo 50 anni di matrimonio”.
E, dopo il Consiglio dei
Ministri congiunto e la conferenza stampa, sono proseguite nel pomeriggio con
una riunione congiunta al Reichstag del Bundestag e dell’Assemblea nazionale.
La Merkel vi sottolineava “la collaborazione straordinaria” fra i due Paesi e
la buona intesa personale con Hollande, non sempre confermata dal linguaggio
del corpo; il presidente francese
insisteva che “siamo noi a indicare la strada all’Ue”.
L’amicizia franco-tedesca è ormai data per scontata, in
Europa e nel Mondo. Ma, avverte Hollande, bisogna smettere di vederla come un
“percorso tranquillo”, perché screzi e tensioni ci sono stati e ci saranno
ancora, pur se essa è stata, resta e sarà “indissociabile dalla costruzione
europea”.
Italia/Ue: FT boccia Monti, poi lo promuove con Bersani
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013
Pugnalato alle spalle. Con l’arma che ne uccide di più, la
penna. Ancora una volta, si conferma saggio l’adagio popolare: “Dagli amici mi
guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Ché da tutti il Professore poteva
aspettarsi un attacco, ma non dal giornale che gli era sempre stato amico e
‘fiancheggiatore’, magari anche nel segno dell’antagonismo di vecchia data con il Cavaliere. E, invece, un commento di Wolfgang Munchau bolla Mario Monti con
il titolo: “Non è l’uomo giusto per guidare l’Italia”; senza per altro
promuovere in alternativa nessuno leader politico italiano, eccetto il
governatore della Bce Mario Draghi.
Esce l’articolo, anticipato domenica sera alle agenzie di
stampa. E nasce un putiferio. Fuori dall’FT, nella politica italiana. Ma pure
dentro il quotidiano economico britannico, l’unico vero giornale a dimensione
europea. Il direttore Lionel Barber affida a un tweet la puntualizzazione che
l’articolo di Munchau non rappresenta l’opinione della testata.
Munchau è un economista e un editorialista: esperto di
eurozona, spesso eterodosso nei suoi pezzi rispetto alle posizioni del
quotidiano, mai tenero con l’Italia quale ne fosse il governo e il leader.
Scrive che il Governo dei Tecnici “ha provato a introdurre riforme strutturali
modeste", annacquate fino alla “irrilevanza macroeconomica”. Monti "ha
promesso riforme", finendo per "aumentare le tasse"; "ha
iniziato come tecnico ed è emerso come un duro politico"; e il calo dello
spread "è legato a un altro Mario, a Draghi".
L’articolo non è tenero neppure con Bersani, che pure,
rispetto a Monti, avrebbe più chances con la Merkel perché potrebbe fare più
leva su Hollande, e con Berlusconi, che però ha finora fatto “una campagna
positiva”, nel senso che conquista consensi promettendo meno tasse e criticando
la Germania.
La stroncatura di Munchau al Professore suscita in Italia
una ridda di dichiarazioni: c’è chi dà l’assalto alla diligenza e chi salta sul
carro, anzi sul carroccio, del ‘tirannicida’. Monti prima prende il telefono,
poi prende anche lui carta e penna e scrive all'FT: una lettera in cui
puntualizza come "ciò che questo governo ha fatto per far calare
l'inflazione e creare più posti di lavoro è senza precedenti in un periodo di
tempo così breve e senza una maggioranza vera in Parlamento". Non solo,
ribatte il premier, "senza il nostro risanamento" anche la Bce non
avrebbe potuto fare molto: come dire che prima del Mario di Francoforte viene
il Mario della Bocconi, in una sorta di riedizione europea del dilemma
dell’uovo e della gallina. E quel che non è riuscito a fare è perché "le
riforme incisive non possono essere portate fino in fondo con i partiti e i
loro apparati".
In serata, intanto, un nuovo editoriale online dell’FT dal
sapore riparatorio ammorbidisce i toni e mette insieme Monti e Bersani: "Devono
sfruttare il voto del mese prossimo per portare avanti l'idea di un nuovo
inizio. Ciò permetterà agli elettori di fare scelte reali sul futuro
dell'Italia".
Monti, del resto, aveva reagito stizzito al giudizio del
quotidiano economico. Stupito, ammette, dal fatto che arrivasse dall’FT ma non
da Munchau, animato da "una vecchia polemica con la Merkel" e dal desiderio
che "tutti dessero colpi d'ariete per far saltare l'eurozona". E siccome
l'Italia "ha dato un forte contributo per migliorare il funzionamento dell'eurozona",
l'editorialista avrebbe trasferito la sua polemica dalla cancelliera tedesca al
premier italiano.
Ue: Eurogruppo, un olandese senza passato al posto di Juncker 'il rosso'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013
Un ‘euro-tiepido’, quasi un ‘euro-freddo’,
sul trono della moneta unica. Juncker ‘il rosso’ –quello del salario minimo-
lascia la presidenza dell’Eurogruppo, il club dei ministri delle finanze dei
Paesi dell’Eurozona. Il posto del premier lussemburghese va a Jeroen
Dijsselbloem –leggete ‘daisselblum’, con voce un po’ gutturale, e fidatevi-, un
olandese giovane (46 anni) e poco volante, senza esperienza né di governo –è
ministro dal 5 novembre-, né di Unione.
Il responsabile delle finanze dell’Aja batte
la concorrenza del francese Pierre Moscovici, che partiva in pole. Ma Parigi s’accontenta della
presidenza del consiglio di supervisione della Bce: una donna, Danielle Nouy. La
Germania vuole affidare l’Eurogruppo a un paese piccolo (e fidato per Berlino,
come solo Olanda e Finlandia); e tenerne lontani i Piigs spendaccioni. La Francia fa buon viso, Italia e Spagna
abbozzano.
Usa: Obama giura, classe media e "fratelli e sorelle" gay
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2013
L’America continua il suo “viaggio che non ha fine”; e il presidente Barack Obama ne guiderà il cammino
per quattro anni ancora. Comandante in capo, ma anche ‘pastore in capo’ d’una Nazione profondamente
religiosa, come lo definisce il sacerdote durante la messa che precede la cerimonia del giuramento, Obama
traccia, nel discorso d’insediamento, un programma di prosperità e di uguaglianza.
La ripresa –dice- poggia sulle spalle “di una classe media forte”, che lui vuole tenere lontana dal ‘fiscal cliff’,
il baratro fiscale: “Finito un decennio di guerre, cogliamo ora l’opportunità dello sviluppo”. E l’uguaglianza
non è più questione di colore della pelle –lui, primo nero alla Casa Bianca, ne è testimone-, ma di parità
dei diritti, anche per gli omosessuali, "fratelli e sorelle" che “siano trattati come tutti gli altri”. E il presidente prende impegni sull’immigrazione –la sua seconda grande riforma, dopo quella della sanità- e sulla lotta all’effetto serra.
Ad ascoltarlo, sul mall, la spianata di fronte al Congresso degli Stati Uniti, ci sono ‘solo’ 7/800 mila persone,
rispetto ai due milioni della prima investitura: ovvio, perché la seconda volta non è mai come la prima,
che te la ricordi per sempre. E, poi, tutto è diverso intorno: quattro anni fa ad ascoltare il presidente
messia c’era un’America attonita per la crisi e che ancora non si capacitava di come e di quanto fosse
repentinamente caduta in basso.
Oggi, ad ascoltare il presidente prammatico, che misura le promesse sulla capacità di realizzarle, c’è
un’America impaziente di mettersi la crisi alle spalle, di tornare a crescere ai suoi ritmi ed a produrre posti
di lavoro. Rispetto all’insediamento 2009, la situazione e òe prospettive economiche sono migliori, a parte
le beghe con l’opposizione repubblicana su deficit e debito (“basta discutere, dobbiamo agire”).
Invece, il contesto internazionale appare più agitato oggi di quattro anni or sono, quando l’America aveva
voglia di finirla con le guerre in Iraq e in Afghanistan: il conflitto che spacca il Mali; il terrore che insanguina
il deserto d’Algeria; l’insurrezione senza tregua in Siria; e un voto in Israele premessa a un supplemento di
diffidenza verso Washington, se il premier Benjamin Netanyahu ne uscirà vincitore.
Dal Sahara, l’emiro Belmoctar, il capo dell’organizzazione integralista islamica responsabile della carneficina
a In Amenas, rivendica l’azione “in nome di al Qaida’ e si dice pronto a negoziare con l’Occidente “se cessa
la guerra in Mali”. E, mentre i francesi in Mali proseguono l’avanzata verso Nord, Obama dice “sosterremo
la democrazia ovunque” –una frase cult per i presidenti Usa- e non è disposto a fare sconti ai terroristi.
In realtà, quella sul Campidoglio è tutta una finta: il presidente aveva già giurato in casa, domenica, perché
la legge prevede l’insediamento il 20 gennaio. A Obama, sempre due giuramenti tocca fare perché almeno
uno sia valido; e quelli in pubblico, a conti fatti, sono sempre fasulli. Nel 2009, un errore del presidente
della Corte Suprema John Roberts lo costrinse alla ripetizione ‘privata’.
Il giuramento familiare, presenti moglie e figlie – per Michelle, nuova acconciatura e nuovo look-, coincide
con l’ennesima strage di un adolescente armato: nel New Mexico, un ragazzo di 15 anni uccide cinque suoi
familiari. Se ci fosse stato bisogno -e non ce n’era- di sottolineare una priorità del secondo mandato del
44.o presidente degli Stati Uniti, la tragedia conferma che il controllo sulla vendita delle armi è davvero
diventata un’emergenza nazionale.
L’America continua il suo “viaggio che non ha fine”; e il presidente Barack Obama ne guiderà il cammino
per quattro anni ancora. Comandante in capo, ma anche ‘pastore in capo’ d’una Nazione profondamente
religiosa, come lo definisce il sacerdote durante la messa che precede la cerimonia del giuramento, Obama
traccia, nel discorso d’insediamento, un programma di prosperità e di uguaglianza.
La ripresa –dice- poggia sulle spalle “di una classe media forte”, che lui vuole tenere lontana dal ‘fiscal cliff’,
il baratro fiscale: “Finito un decennio di guerre, cogliamo ora l’opportunità dello sviluppo”. E l’uguaglianza
non è più questione di colore della pelle –lui, primo nero alla Casa Bianca, ne è testimone-, ma di parità
dei diritti, anche per gli omosessuali, "fratelli e sorelle" che “siano trattati come tutti gli altri”. E il presidente prende impegni sull’immigrazione –la sua seconda grande riforma, dopo quella della sanità- e sulla lotta all’effetto serra.
Ad ascoltarlo, sul mall, la spianata di fronte al Congresso degli Stati Uniti, ci sono ‘solo’ 7/800 mila persone,
rispetto ai due milioni della prima investitura: ovvio, perché la seconda volta non è mai come la prima,
che te la ricordi per sempre. E, poi, tutto è diverso intorno: quattro anni fa ad ascoltare il presidente
messia c’era un’America attonita per la crisi e che ancora non si capacitava di come e di quanto fosse
repentinamente caduta in basso.
Oggi, ad ascoltare il presidente prammatico, che misura le promesse sulla capacità di realizzarle, c’è
un’America impaziente di mettersi la crisi alle spalle, di tornare a crescere ai suoi ritmi ed a produrre posti
di lavoro. Rispetto all’insediamento 2009, la situazione e òe prospettive economiche sono migliori, a parte
le beghe con l’opposizione repubblicana su deficit e debito (“basta discutere, dobbiamo agire”).
Invece, il contesto internazionale appare più agitato oggi di quattro anni or sono, quando l’America aveva
voglia di finirla con le guerre in Iraq e in Afghanistan: il conflitto che spacca il Mali; il terrore che insanguina
il deserto d’Algeria; l’insurrezione senza tregua in Siria; e un voto in Israele premessa a un supplemento di
diffidenza verso Washington, se il premier Benjamin Netanyahu ne uscirà vincitore.
Dal Sahara, l’emiro Belmoctar, il capo dell’organizzazione integralista islamica responsabile della carneficina
a In Amenas, rivendica l’azione “in nome di al Qaida’ e si dice pronto a negoziare con l’Occidente “se cessa
la guerra in Mali”. E, mentre i francesi in Mali proseguono l’avanzata verso Nord, Obama dice “sosterremo
la democrazia ovunque” –una frase cult per i presidenti Usa- e non è disposto a fare sconti ai terroristi.
In realtà, quella sul Campidoglio è tutta una finta: il presidente aveva già giurato in casa, domenica, perché
la legge prevede l’insediamento il 20 gennaio. A Obama, sempre due giuramenti tocca fare perché almeno
uno sia valido; e quelli in pubblico, a conti fatti, sono sempre fasulli. Nel 2009, un errore del presidente
della Corte Suprema John Roberts lo costrinse alla ripetizione ‘privata’.
Il giuramento familiare, presenti moglie e figlie – per Michelle, nuova acconciatura e nuovo look-, coincide
con l’ennesima strage di un adolescente armato: nel New Mexico, un ragazzo di 15 anni uccide cinque suoi
familiari. Se ci fosse stato bisogno -e non ce n’era- di sottolineare una priorità del secondo mandato del
44.o presidente degli Stati Uniti, la tragedia conferma che il controllo sulla vendita delle armi è davvero
diventata un’emergenza nazionale.
lunedì 21 gennaio 2013
Punto: Obama giura, l'America lo guarda, i terroristi lo sfidano
Scritto per l'Indro il 21/01/2013
Aveva già giurato in casa, domenica, perché la legge prevede
che il presidente Usa s’insedi il 20 gennaio. E ha oggi ripetuto il rito in
pubblico. A Barack Obama, sempre due giuramenti tocca fare perché almeno uno
sia valido; e quelli in pubblico, a conti fatti, sono sempre fasulli. Quattro
anni or sono, un errore di formula del presidente della Corte Suprema John
Roberts lo costrinse alla ripetizione ‘privata’. Questa volta, l’inghippo è che
il giorno fatidico è la domenica, che non va bene per l’appuntamento in
Campidoglio.
Il giuramento familiare, alla presenza di moglie e figlie –
per Michelle, nuova acconciatura e nuovo look, meno vistosi -, coincide con
l’ennesima strage di un adolescente armato: un ragazzo di 15 anni uccide cinque
persone, suoi familiari, nel New Mexico. Se ci fosse stato bisogno -e non ce
n’era-, di sottolineare una priorità, quasi un’emergenza, del secondo mandato
del 44.o presidente degli Stati Uniti, il primo nero, la tragedia conferma che
il controllo sulla vendita delle armi sta davvero diventando un problema
urgente. Nel mese trascorso dalla carneficina nella scuola di Newtown, nel
Connecticut, gli acquisti di armi si sono impennati e le stragi si sono
susseguite –una , persino, ad Aurora, in Colorado, un sobborgo di Denver, dove
c’era già stata la sparatoria alla prima di Batman in luglio-.
Oggi, sul mall di fronte al Congresso degli Stati Uniti,
c’erano ‘solo’ 800 mila persone, rispetto ai due milioni della prima
investitura di Obama: ovvio, perché la seconda volta non è mai come la prima,
che te la ricordi per sempre. E, poi, tutto è diverso intorno: quattro anni fa
ad ascoltare il presidente messia c’era un’America attonita per la crisi e che
ancora non si capacitava di come e di quanto era repentinamente caduta in
basso.
Ora, ad ascoltare il presidente prammatico, che misura le
promesse sulla capacità di realizzarle, c’è un’America impaziente di mettersi
la crisi alle spalle, di tornare a crescere ai suoi ritmi ed a produrre posti
di lavoro. E lui afferma che la ripresa poggia sulle spalle “di una classe
media forte”, da tenere quindi lontana dal ‘fiscal cliff’, il baratro fiscale.
“Finito un decennio di guerre –dice Obama-, ora cogliamo l’opportunità dello
sviluppo”; e prende impegni sull'immigrazione –la sua seconda grande riforma,
dopo quella della sanità-, sui diritti degli omosessuali e sulla lotta all'effetto
serra.
Se, rispetto all'insediamento 2009, le prospettive
economiche sono migliori, il contesto internazionale appare, invece, più
agitato, con la guerra che esplode nel Mali e il terrore che insanguina il
deserto d’Algeria: secondo gli ultimi dati, la presa di ostaggi sul campo di
gas di In Amenas e il blitz delle forze speciali algerine hanno fatto oltre 60
vittime, 37 ostaggi di otto Paesi –molti uccisi dai loro sequestratori- e 27
jihadisti; inoltre, cinque terroristi sarebbero stati presi vivi, almeno tre
sarebbero ancora in fuga. L’emiro Belmoctar, il capo dell’organizzazione
integralista islamica responsabile dell’azione, conferma che la strage è
avvenuta “in nome di al Qaida’ e si dice pronto a negoziare con l’Occidente “se
cessa la guerra in Mali”. Ma proprio lì, nel Mali, le truppe francesi
proseguono l’avanzata alla riconquista del Nord occupato dagli jihadisti.
In Europa, il presidente francese François Hollande e la
cancelliera tedesca Angela Merkel celebrano i riti dell’amicizia franco-tedesca,
con una cena all’Eliseo, a 50 anni dalla firma del Trattato tra i leader di
allora, Charles De Gaulle e Konrad Adenauer –due nomi che mettono i brividi, al
di là delle controversie che possono suscitare, nel contesto dell’Europa del
dopoguerra-. Ma l’umore di Hollande e
della Merkel non è dei migliori. E, a togliere loro il sorriso, non è certo lo
screzio sul nuovo presidente dell’Eurogruppo, il club dei ministri delle
finanze dell’Eurozona: nonostante la candidatura del ministro francese Pierre
Moscovici, Berlino impone, come successore di Jean Claude Juncker, l’olandese
Jeroen Dijsselbloem, un carneade, ministro da neppure cento giorni.
Ma il problema non è quello. Il presidente ha in mente il
Mali. E la cancelliera il brutto risultato rimediato dal suo partito nelle
elezioni in Bassa Sassonia, dove la Cdu ha perso quasi 6 punti, magari pure per
aiutare gli alleati liberali a restare a galla. Così che, per un seggio, la
guida del land dovrebbe andare alla coalizione rosso-verde di Spd e Verdi. Pirati
e Sinistra restano fuori dal Parlamento regionale. Il risultato dell’ultimo
test regionale prima delle elezioni federali di settembre incrina l’ottimismo
che, nelle ultime settimane, s’era creato intorno alla Merkel e alla
possibilità di conferma alla guida della Germania.
Elezioni 2013: campagna, il solito ritornello del tutto diverso
Scritto per Media Duemila online il 20/01/2013
Ecco!, ci risiamo. E’ dagli Anni Novanta, beh diciamo dalla metà degli Anni Novanta, che, ad ogni elezione, i guru della comunicazione ci spiegano che questa volta è tutto diverso, che la campagna sarà un’altra cosa, perché adesso c’è –turno a turno- Internet, il web, il 2.0, i social network.
E, poi, puntualmente, i leader, una volta adempiuto il loro dovere di presenza mediatica sulle nuove frontiere della comunicazione politica, eccoli addensarsi su tutte le Tv possibili, di servizio pubblico e private, all news e puro entertainement, in chiaro e a pagamento, nazionali e locali. Nessuno che denunci la colonizzazione del web da parte dell’altro; e tutti a contarsi i minuti delle presenze in video.
Intendiamoci. Non è un fenomeno italiano, ma vale ovunque in Occidente e non solo. Lo abbiamo visto, e pure raccontato in questi appunti, l’anno scorso negli Stati Uniti: Usa 2012, la campagna più social network di tutti i tempi –e ti credo: prima, Twitter quasi non c’era e Facebook era solo un luogo simbolo di confidenze adolescenziali-, s’è accesa ed è divenuta incerta al primo dibattito televisivo fra i due principali contendenti. Romney perdeva con Obama tutti i duelli a colpi di tweet ed aveva la metà dei followers –per altro, pure fasulli-, ma gli è bastato vincere un match televisivo per rimettere il risultato in forse.
E se Obama con internet e i tweet è a suo agio i personaggi di casa nostra, poi, paiono, e spesso sono, a disagio con le nuove frontiere della comunicazione politica. Se il loro primo ‘cinguettio’ ufficiale viene annunciato con un enfasi che uno potrebbe credere riservata a quelli di Benedetto XVI, poi il flusso si perde o è affidato a ‘replicanti’ . E – ancora - prendete poi la pubblicazione sul web della subito mitica Agenda Monti: difficile trovare, su tutta la rete, un documento presentato in modo altrettanto piatto. Simile in tutto e per tutto a un testo di un Professore, o a un documento dei federalisti, che sono parenti prossimi dei volantini Anni Settanta – non per i contenuti, per carità, ma per l’aspetto grafico assolutamente scoraggiante-.
Strano, per certi versi, perché questi nostri politici impacciati con i social media si sono, invece, adattati benissimo alle esigenze televisive dei ‘sound bites’, le battute ‘mordi e fuggi’: una frase che magari non vuole dire nulla di preciso, ma è efficace e, se possibile, graffiante e polemica – meglio se chiaramente indirizzata contro qualcuno, per altro senza nominarlo-. I nostri Tg ne sono già pieni d’abitudine, ne diventano addirittura zeppi in tempi di campagna: c’è tutta una scenografia dietro, chi li preferisce davanti a una libreria, chi in strada sul portone di casa, chi al parco.
Ecco, quando i nostri leader, o aspiranti tali, metteranno la stessa cura a studiare un tweet che un ‘sound bite’, vorrà dire che la loro campagna è davvero un’altra cosa. Ma, allora, magari, la tecnologia si sarà già inventata qualche altra frontiera e tweet e social network saranno diventati cimiteri degli elefanti.
sabato 19 gennaio 2013
Italia/Ue: Nelli Feroci, temi forti 2013 e le insidie della 'fase bianca'
Scritto per EurActiv il 19/01/2013
L’Italia è stata un po’ la ‘sorvegliata speciale’
dell’Unione europea, nel 2011, quando era l’anello debole dell’Eurozona, e
“sarebbe strano” se non tornasse ad esserlo nei prossimi mesi, dopo le elezioni
politiche del 24 e 25 febbraio, quando ci sarà da capire gli orientamenti e da
seguire i primi passi del nuovo governo. Se lo aspetta Ferdinando Nelli Feroci,
rappresentante dell’Italia a Bruxelles presso l’Unione europea, una delle voci più ascoltate nel Coreper: parlando
con EurActiv.it, indica i grandi momenti europei 2013 per il nostro Paese; ed
esprime il timore che nella ‘fase bianca’ della politica italiana dopo il voto
“si possa perdere qualche treno”.
In ordine di tempo, il
primo dossier che sarà affrontato è la conclusione del negoziato sul quadro
finanziario a medio termine 2014/2020: c’è stato un
tentativo d’accordo a novembre, non andato a buon fine; e, ora, il Vertice
europeo è stato convocato il 7 e 8 febbraio con la speranza di chiudere. “E’
una decisione necessaria –spiega Nelli Feroci- per definire un quadro di
ordinata programmazione” delle spese comunitarie e ha “un impatto notevole di
politica interna, perché comporta allocazioni di spesa significative in settori
come l’agricoltura e i fondi di coesione, oltre che la definizione di un saldo
netto sostenibile”. Viste le date, l’impegno riguarda, ovviamente, il governo
in carica, che ha i poteri per decidere.
Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha
confermato ai 27, nei giorni scorsi, l’intenzione di chiudere ai primi di
febbraio, partendo dalla proposta di compromesso formulata a novembre con –ci
si attende- ulteriori ritocchi al ribasso: “Bisogna vedere quanto e dove”.
Il secondo dossier
verrà in primo piano nella fase di transizione italiana, dopo le elezioni e
quando si starà formando e insediando il nuovo governo: si tratta della
“definizione di tutti gli adempimenti del cosiddetto ‘semestre europeo’ da
parte dell’Italia, del confronto su di essi con la Commissione europea e,
quindi, dell’approvazione delle raccomandazioni specifiche Paese per Paese”. E’
un esercizio tanto più importante quanto più i governi vi prestano attenzione:
“Se è preso sul serio, costituisce un programma di governo vero e proprio”,
perché fissa i grandi assi d’azione per i prossimi anni, sia per il bilancio
che per le riforme e ha un Impatto sulla competitività del sistema Paese. Per
l’Italia, si tratta di individuare “un giusto mix tra politiche di austerità,
controllo della spesa pubblica, consolidamento del bilancio, e politiche che
diano ossigeno all'economia reale”.
Tutto ciò dovrebbe
avvenire in primavera quando l’Italia sarà prevedibilmente in una fase di
passaggio. Ma gli impegni previsti dal ‘semestre
europeo’ che valore hanno?, si possono disattendere? Attualmente, non c’è
nulla di legalmente vincolante: l’Ue può solo esercitare, con i suoi documenti,
una ‘moral suasion’. “Il valore del
‘semestre europeo’ dipende, in larga misura, dalla volontà politica: un
governo può utilizzare le raccomandazioni della Commissione per fare meglio
passare le riforme, oppure può trascurarle”.
Il terzo dossier
è la riforma della governance della zona euro, dove, sulla scorta delle
decisioni del Vertice di dicembre, c’è “un percorso abbastanza definito
sull’Unione bancaria”: “E’ un adempimento importante per l’Europa e un passo
avanti enorme non sufficientemente apprezzato”. “Noi –dice l’ambasciatore-
abbiamo fatto e stiamo facendo il nostro ruolo: non vedo particolari criticità
per l’Italia”.
Unione bancaria a parte, “il resto, invece, è più
controverso”, dai cosiddetti “contractual arrangements”, che dovrebbero in
sostanza rendere vincolanti le indicazioni del ‘semestre europeo’, per finire
all’idea di dotare l’Eurozona di un proprio bilancio. Sui ‘contractual
arrangements’, si lavora per giungere a decisioni non prima di giugno; sul
bilancio dell’eurozona, ci sono resistenze, specie da parte tedesca, e “sarà
difficile fare qualcosa prima delle elezioni in Germania a settembre”.
Infine, c’è da portare avanti l’esercizio ripreso e
rilanciato dal Consiglio europeo sulla politica di sicurezza e di difesa: qui,
decisioni sono previste a dicembre. Si tratta di “riappropriarsi di un dossier
un po’ abbandonato a se stesso”, in tutte le sue componenti, da quella della
sicurezza a quella industriale all'aspetto mercato interno.
Questo quadro e questi tempi – avverte Nelli Feroci- sono
validi “a bocce ferme”, cioè “senza sussulti” di cronaca internazionale e/o di
crisi economico-finanziaria “che inducano a provvedimenti d’emergenza”. Il che
ha lo svantaggio che “i governi non avvertono la pressione che li spinge a
decidere”.
Qual è
l’atteggiamento dell’Unione, della Commissione, dei partner verso l’Italia in
questo momento?
Anche se, dal 20 dicembre, ci sono state alcune settimane di
pausa europea, “registro –dice l’ambasciatore- straordinaria curiosità e
interesse” per quanto sta avvenendo e avverrà in Italia, dopo che, “nel 2011,
eravamo diventati la maggiore fonte di preoccupazione” per i partner europei.
“L’arrivo di Monti –ricorda Nelli Feroci- era stato salutato con favore, perché
c’era il sollievo di vedere finalmente un Paese importante tornare sulla scena
europea e farvi la sua parte su un piede di parità dopo anni di clamorosa e
notata assenza”. Adesso, “tutto quello che farà il nuovo esecutivo sarà seguito
con enorme attenzione”: in Europa, ci si aspetta che l’Italia continui a fare
la sua parte e a restare protagonista, anche se possono magari cambiare le
priorità, e neppure tantissimo. Scontato, come avviene per tutti i Paesi dopo
elezioni politiche, che il voto sia seguito da una fase di relativa debolezza,
che, per l’Italia, potrebbe coincidere con il Vertice europeo del 15 marzo.
E’ ancora vero che
l’Italia soffre di una debolezza delle sue presenze nelle Istituzioni
comunitarie?
“Le presenze di italiani nelle posizioni di vertice non sono
mai state così buone –afferma l’ambasciatore-: abbiamo 6 direttori generali, alcuni
dei quali in posizioni di grossa responsabilità”. Certo, “la performance
europea del sistema Paese è sempre migliorabile e sono consapevole e so che
abbiamo margini”. Molto dipende da come il governo si attrezza per partecipare
da protagonista alla vicenda europea: “Nell’ultimo anno, il miglioramento è
stato spettacolare”. Stare in Europa e starci da protagonisti è una grande
sfida: la Rappresentanza ne è il terminale, ma a Roma si deve pensare e reagire
in termini europei e “moltissimo dipende dal ruolo, dalla personalità, dal
protagonismo del capo del governo”.
E c’è un ricambio di
italiani nelle Istituzioni comunitarie?
“I giovani italiani
arrivano con numeri spettacolari, impressionanti … Negli ultimi concorsi
d’idoneità alle Istituzioni comunitarie, la quota più alta, come partecipanti e
come vincitori, è quella dei giovani italiani, che si dimostrano determinati e
capaci”. Ciò rispecchia, da un lato, l’entusiasmo per lavorare in Europa; e,
dall’altro, il fatto che il mercato del lavoro in Italia lascia a desiderare.
Punto: terrorismo in Algeria, guerra in Mali, rinvio in India
Scritto per l'Indro il 18/01/2013
Attacchi terroristici e apprensioni elettorali, l’Occidente se la vede
male. E l’Oriente (Estremo) non è proprio in gran forma: il 2012 è stato l’anno
peggiore dell’economia cinese del XXI Secolo. Era dal 1999 che i cinesi non
registravano una crescita così lenta, anche se una percentuale del 7,8% resta
‘da sogno’ per l’Europa e l’America .
Ad In Amenas, un campo per l’estrazione di gas nel deserto
del Sahara, nel sud-est dell’Algeria, decine di stranieri sono tuttora tenuti
in ostaggio o mancano all’appello e sono forse stati uccisi, dopo che le forze
speciali algerine avevano tentato, ieri, un blitz per liberare centinaia di
persone sequestrate da estremisti islamici, che minacciano ora di attaccare
altre installazioni energetiche nel Paese. Nell’azione algerina, susseguente
all’irruzione terroristica di mercoledì, sarebbe stato eliminato il capo del
commando di jihaddisti Abu al-Baraa,
E sud del Sahara, nel
Mali, le truppe regolai hanno completamente liberato dai ribelli islamici
Konna, una città nel centro del Paese, che può ora costituire una testa di
ponte strategica per lanciare attacchi contro i gruppi legati ad al Qaeda che
mantengono il controllo del Nord del Mali. A Bamako, la capitale, intanto,
affluiscono forze provenienti dall’Africa occidentale, che devono costituire un
contingente sollecitato dall’Onu: le avanguardie arrivano dal Togo e dalla
Nigeria. Entro il 26 gennaio, i soldati africani sul territorio maliano saranno
almeno 2000 (sui 3300 globalmente previsti): di che permettere, forse, alle
forze francesi di terra e aeree di ridurre progressivamente la loro presenza.
Si ignora, invece, per ora, quando arriveranno gli istruttori europei promessi
alle forze maliane (fra essi, 24 italiani).
Le vicende d’Algeria e Mali sono strettamente legate, nel
contesto d’un sussulto del terrorismo integralista islamico che sta scuotendo non
solo il Nord Africa e la Regione sub-sahariana, ma anche il Corno d’Africa e
tutto il Grande Medio Oriente. I ribelli algerini propongono di scambiare gli
stranieri nelle loro mani con terroristi detenuti negli Stati Uniti e chiedono
di fermare l’escalation di guerra nel Mali
E le valutazioni politiche e diplomatiche restano tuttora discordanti
sull’opportunità e la tempestività dell’intervento militare occidentale e sui
rischi da esso indotti nell’area, ma anche sul territorio dei Paesi coinvolti.
Meno convulsa, ma ancora lontana da una conclusione, la
vicenda dei due marò italiani detenuti da quasi un anno in India con l’accusa
di avere ucciso per errore, durante una missione anti-pirateria, due pescatori
indiani scambiati, appunto, per pirati. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
sono stati trasferiti dal Kerala a New Delhi, perché sarà una corte speciale a
pronunciarsi su a chi tocca giudicarli: se all’India o all’Italia, come
sostengono le autorità italiane. I militari sono ora sotto tutela dell’ambasciata
d’Italia in India e potranno muoversi liberamente. La decisione della corte del
Kerala dà adito a un cauto ottimismo, ma il caso resta aperto a tutti gli
sviluppi.
A Washington, intanto, si prepara la cerimonia
d’insediamento lunedì del presidente Barack Obama per il suo secondo mandato:
il discorso inaugurale, che sarà pronunciato sul Campidoglio, potrà però
difficilmente suscitare emozioni simili a quelle destate dal primo, quattro
anni or sono. Però, Obama resta capace, con il suo esempio, di ispirare in
altri l’impegno politico: il suo fratellastro Malik, che vive in Kenya, ha
deciso di lanciarsi nella corsa per le presidenziali del marzo prossimo.
Elezioni cruciali, la prossima settimana, nel Medio Oriente,
in Israele (e, poi, in Giordania, ma contano di meno). A quattro giorni dal
voto di martedì 22, il premier uscente Benjamin Netanyahu resta avanti nei
sondaggi, anche se il sostegno al suo partito non è mai stato così basso
durante la campagna. Un quadro ben diverso in Germania, dove la cancelliera
Angela Merkel cavalca l’onda della popolarità nell’imminenza delle elezioni di
domenica nel land della Bassa Sassonia, che il suo partito, la Cdu, dovrebbe
vincere: un buon viatico, a nove mesi dalle politiche di settembre,
l’appuntamento elettorale più importante di questo 2013 europeo, insieme alle
elezioni in Italia di febbraio.
giovedì 17 gennaio 2013
Punto: Algeria, terrorismo infiamma Sahara, blitz fa carneficina
Scritto per l'Indro il 17/01/2013
Era stato gioco facile, paventare che la guerra al
terrorismo in Mali si sarebbe allargata, a rischio d’incendiare il Sahara: troppi
i nuclei di jihadisti disseminati su un territorio smisurato, inospitale,
impossibile da controllare. Così, mentre in Mali si continua a combattere,
nell'Algeria confinante finisce in un bagno di sangue il sequestro di
stranieri, una quarantina, sul campo di estrazione di gas della Bp a In Amenas,
nel deserto.
Le forze algerine danno l’assalto con elicotteri ai
rapitori: il quadro è tuttora incerto e confuso, ma quello che è certo è che ne
è nata una carneficina. Secondo fonti dei terroristi, sarebbero stati uccisi 34
ostaggi e 15 guerriglieri su un bus in fuga colpito dagli algerini, mentre
fonti di stampa riferiscono di solo sei vittime. L’azione non si sarebbe ancora
esaurita. Il presidente francese François Hollande definisce la situazione
drammatica; il premier britannico David Cameron segnala che Londra non sarebbe
stata avvertita delle intenzioni di Algeri, la Casa Bianca segue l’evoluzione
con preoccupazione.
La situazione in Algeria precipita proprio mentre i ministri
degli esteri dei 27 dell’Ue si riuniscono a Bruxelles per parlare di Mali,
dove, la scorsa settimana, la Francia ha lanciato, su sollecitazione del governo
di Bamako, un’azione per arrestare l’avanzata degli estremisti integralisti, già
padroni del Nord, verso il Sud. I ministri danno via libera a una missione
europea di addestramento dell’esercito del Mali. Gli italiani saranno presenti
con 24 uomini massimo, su un totale di 450 massimo, di cui 200 istruttori:
costo complessivo, 12,3 milioni di euro; mandato iniziale, 15 mesi. Si sa che il
quartier generale della missione europea sarà Bamako, ma che l’addestramento
avverrà nel sud del Paese. Escluso il coinvolgimento in operazioni militari.
A lavori conclusi, il ministro degli esteri Giulio Terzi
spiega che il supporto logistico europeo e italiano all'azione della Francia
“non sarà in nessun modo un intervento militare diretto”, perché “non è
previsto nessuno spiegamento di forze italiane nel teatro operativo”. Sul piano
politico, l’Italia dà “una valutazione positiva dell'azione della comunità
internazionale nel suo insieme”, espressa dalla risoluzione 2085 del Consiglio
di Sicurezza dell’Onu e dalla dichiarazione unanime dello stesso Consiglio,
comprese Russia e Cina, che rivolge un appello “perché tutti i Paesi sostengano
il governo maliano nel contrasto alle forze terroristiche”.
E’ evidente la sproporzione tra conflitto maliano e massacro
algerino, da una parte, e lo ‘sforzo’ europeo concordato e annunciato,
dall'altra. Si ha la sensazione che l’Unione e, più in generale, la comunità
internazionale non fossero preparati al repentino peggioramento della
situazione nell'Africa sub-sahariana e all'allargamento del conflitto con
propaggini dal Nord Africa al Corno d’Africa e ripercussioni in tutto il Grande
Medio Oriente. E i riflessi dello scontro potrebbero riverberare anche sul
territorio europeo, dove le misure di sicurezza anti-terrorismo vengono ovunque
rafforzate.
“Come la mitica Idra, il mostro del terrorismo islamico
sembra avere molte teste –scrive sull’ANSA Diego Minuti-, ciascuna con una vita
ed un percorso autonomo, ma che nascono tutte dal medesimo corpo: gli islamici
che, negli Anni Novanta, insanguinarono l'Algeria dopo che l'esercito aveva loro
bloccato con le armi l’ascesa al potere dopo le elezioni”.
Mali: anche l'Italia va alla guerra (e finisce nel mirino)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/01/2013
L’Italia
appoggia l’azione della Francia in Mali “per fermare l’avanzata jihadista”: il
ministro della difesa Giampaolo Di Paola lo ripete, dopo un incontro a Roma con
il segretario alla Difesa uscente degli Stati Uniti, Leon Panetta. Il ministro
degli Esteri Giulio Terzi e lo stesso Di Paola lo avevano già detto in
commissione, al Senato, durante un’audizione sulle missioni militari italiane
all'estero.
Washington è
già al fianco di Parigi, con sostegno politico e supporto logistico. Oggi, a Bruxelles,
ci sarà una riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri degli Esteri dei
27. Lì, “si avrà un’idea –dice Di Paola- del tipo di azione che l’Europa può
condurre e del tipo di assistenza da fornire, secondo le richieste della
Francia”.
Nel Mali,
intanto, l’esercito francese ha ieri lanciato il primo attacco terrestre contro
le postazioni dei ribelli islamici, allargando lo spettro delle operazioni contro
i guerriglieri del Nord, che sono affiliati ad al Qaida e che hanno resistito a
sei giorni di raid aerei, riuscendo anche pure a compiere azioni beffa contro
le forze regolari. In attesa che si formi l’annunciato contingente di Paesi
dell’Africa occidentale, la Francia prevede lo spiegamento in Mali di 2500
uomini e prosegue senza sosta i raid aerei. Una trentina di blindati avevano
lasciato martedì sera la capitale maliana, diretti verso nord.
Noi, gli
Occidentali, lì, che sia l’Afghanistan o il Mali, ci andiamo con l’obiettivo di
evitare che loro, i terroristici, portino la guerra qui da noi. Ma, così, va a
finire che li rendiamo più determinati a portarci la paura in casa:
conseguenza, misure di sicurezza rafforzate e clima da 11 Settembre. E’ il
paradosso della lotta contro il terrorismo, che si ripropone dopo l’intervento
francese nel Mali. Se la Francia
ha già rinforzato il suo piano Vigipirate, Londra e Roma dovranno alzare la
guardia.
La guerra in
Mali s’inasprisce in un contesto di tensione e di conflitto che si estende
senza discontinuità dall'Africa sub-sahariana al Corno d’Africa, a sud-est, e al
Nord Africa e all'intero Grande Medio Oriente a nord-est. I terroristi
islamici, che restano padroni di fette della Somalia, conducono all’alba un
raid nel Sahara contro un campo di estrazione del gas nel sud dell’Algeria, a
località In Amenas, sequestrando oltre 40 stranieri e uccidendone due, un
francese e un britannico. Un’azione doppiamente punitiva: verso l’Algeria, che
favorisce, concedendo il sorvolo aereo, l’azione della Francia nel Mali, e
verso gli stranieri che l’appoggiano –nessun italiano, questa volta, fra gli
ostaggi-. E il terrorismo è virulento, mercoledì, in Siria –una ventina di
vittime-, in Iraq –almeno 35-, in Afghanistan.
In Italia, per
il Mali, la Difesa vaglia la possibilità di fornire, o di utilizzare, Predator,
cioè aerei senza pilota da sorveglianza e da combattimento, di stanza ad
Amendola in provincia di Foggia; o mezzi per il rifornimento in volo dei caccia
–i Boeing 767 levatisi da Pratica di Mare anche durante l’intervento in Libia-;
o aerei per il trasporto logistico –i C 130-J e i C-27J-; oppure addestratori.
Su un punto Di
Paola è stato chiaro: non saranno inviate forze sul terreno, non ci saranno,
cioè, militari italiani combattenti nel Mali. Ed è poco probabile la
concessione dell’uso delle basi aeree italiane ai mezzi francesi, se non altro
per via della distanza dal teatro d’azione.
La preferenza
di Hollande andrebbe ai Predator, alcuni dei quali sono attualmente in
Afghanistan. Ne esistono di due versioni,
la A+, più leggera, e la B, più grossa e con maggiore autonomia. L’Italia
potrebbe inoltre fornire 15 militari “al massimo” a una missione di
addestramento europea per le forze armate maliane, che finora, nota il ministro
degli Esteri Terzi, “non hanno saputo fare fronte” alla sfida degli islamisti.
Morire per Bamako?
Non ci siamo ancora. Ma rischiare per un voto in più?, o in meno? Lì, ci siamo:
nel pieno della campagna elettorale, il Mali, il contrasto al terrorismo,
l’appoggio alla Francia sono già diventati temi di polemica e terreni di
calcolo più che scelte politiche.
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