Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2010
A conti fatti, non sarà stato un 11 Settembre della diplomazia internazionale, come temeva il ministro degli esteri Franco Frattini : al massimo, una Beresina della diplomazia americana, anzi di qualche diplomatico abbastanza ingenuo da pensare che i suoi cablogrammi da XIX Secolo restassero segreti nella Società dell’Informazione del XXI Secolo. Dalla montagna di documenti che Wikileaks mette a disposizione della stampa mondiale, con cinque tramiti di lusso, il New York Times, the Guardian, Le Monde , El Pais, Der Spiegel, a fare da apripista. Man mano che i file vengono spulciati –sono oltre 280 mila, per quasi tre milioni di pagine-, si scopre che i diplomatici scrivono quello che tutti dicono, di Mr B come di Putin, di Sarko come della signora Merkel, dei ‘matti del mondo’ –magari un po’ criminali- come Gheddafi e Ahmadinejad, Mugabe e Kim Yong-il.
Di segreti, non ne saltano fuori (ma già si sapeva che nessuna di quelle carte era ‘top secret’, davvero succulenta) ; ma neppure una cosa che non si sapesse : l’insostenibile pesantezza dell’ovvio, come la storia che i vicini arabi e sunniti dell’Iran persiano e sciita sarebbero ben contenti di dare una lezione per interposta persona a quel regime ambizioso e invadente. A dire il vero, ci sono pure due storie che nessuno sapeva : peccato che siano due balle, peraltro analoghe, la Corea del Nord che ha un missile intercontinentale –ma dove ?, se, quando ci prova, a volte non riesce neppure a farli partire, i suoi missili da spaventare giusto giusto Seul e manco Tokyo) e l’Iran che ha un missile capace di raggiungere l’Europa.
Certo, dopo una grancassa di cento ore, il tema tiene sulla stampa internazionale. Ma c’è l’impressione di una sorta di sospiro di sollievo collettivo: «Uff !, tutto qui ? ». Tirato il quale, tornano i sudori freddi : perchè, se questi danno spesso l’impressione di essere ‘prove di stile’ di diplomatici con la vocazione del giornalista, ci resta l’ansia di che cosa ci sarà mai scritto nei documenti ‘top secret’ che non sono –ancora ?- saltati fuori. Wikileaks rivela una sua ‘strategia della tensione’ mediatico-diplomatica: nei prossimi mesi, pubblicherà, un po’ alla volta, sul suo sito dedicato al Cablegate, altri documenti. E un giornale belga, Le Soir, calcola che ci vorranno oltre 1000 giorni, cioè tre anni, per spulciare a fondo quelli già tirati fuori.
Senza dubbio, la pubblicazione dei documenti avrà conseguenze: non tutti i leader colpiti dalle rivelazioni sceglieranno di farci una risata sopra, come fa Berlusconi, nonostante le bizzarrie dei calendari internazionali lo portino ieri e oggi in Libia e poi giovedi’ a Soci in Russia, lui che nella slavina di Wikileals ci resta soprattutto per le amicizie particolari con Putin e Gheddafi. Washington ha scuse da chiedere; chiarimenti da dare, con il ‘leit motiv’ che quello che scrivono i diplomatici non è la linea dell’Amministrazione, ma un contributo alla sua definizione; spiegazioni da fornire, per esempio per lo spionaggio ai danni di Ban Ki-moon e degli ambasciatori degli altri Paesi con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Gli Stati Uniti ne escono oggettivamente indeboliti o, comunque, imbarazzati: per auqlche tempo , Hillary Clinton e i suoi collaboratori dovranno muoversi con cautela.
The Guardian parla di crisi diplomatica globale. Le Monde spiega la scelta di pubblicare i documenti di Wikileaks nonsotante gli appelli. Quelli rimasti fuori dal giro vero, un po’ rosicano : Le Figaro mette online un sondaggio : « Azione legittima? », chiede. Una maggioranza dice no, ma è risicata. Il WSJ si pone lo stesso dilemma a freddo. Per il WP, «i documenti mostrano quanto la diplomazia è intricata». Newsweek parla di «fine della trasparenza»: « La prima vittima è proprio cio’ per cui Assange dice di battersi », perchè d’ora in poi, è probabile, i cablo, se ancora si faranno, saranno meno schietti e più involuti.
Lui Assange, che Frattini accusa di volere «distruggere il mondo», sostiene che Obama è contro la libertà d’informazione, perchè la Casa Bianca insiste: «Un’operazione pericolosa». La Clinton fa una difesa d’ufficio della diplomazia statunitense, parla di « attacco alla comunità internazionale » e annuncia « contromisure ». E mentre in Italia –ma perchè mai?- la magistratura apre un fascicolo, emergono retroscena della fuga di notizie.
Si punta di nuovo su Bradley Manning, il militare di 22 anni arrestato in luglio dopo la diffusione di materiale sull’Iraq. A tradirlo, un altro hacker, Adrian Lamo, cui Manning avrebbe detto: "Alla Clinton ed ai diplomatici verrà un infarto quando troveranno tutte le informazioni riservate sulla politica estera disponibili al pubblico". Ma è davvero lui l’unica talpa di tutti i colpi di Wikileaks e di Assange?
martedì 30 novembre 2010
SPIGOLI: Wikileaks contagio mondiale, Mr B e Frattini superstar
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2010
Dopo un’incubazione durata quattro giorni, la febbre di Wikileaks contagia tutta la stampa internazionale. E c’era da aspettarselo: i cinque media privilegiati da Julian Assange e dal suo team, New York Times, The Guardian, Le Monde, El Pais, Der Spiegel, dettano la cadenza; e quasi tutti gli altri li seguono. I documenti del Dipartimento di Stato, sottratti ai loro archivi e spiattellati alla pubblica curiosità, aprono quasi tutti i siti del nostro Mondo. Ma c’è chi resiste all’onda di piena: FT e Les Echos, non a caso due giornali economici, scelgono di aprire sul salvataggio dell’Irlanda da parte dell’Ue. Se il tema è comune, la scelta degli spunti, fra le centinaia di migliaia di documenti disponibili, è abbastanza diversificata, anche se, sostanzialmente, tutti i media restano tributari della selezione fatta dai cinque che hanno avuto modo e tempo di spulciare l’enorme massa. In ottica italiana, un minimo comune denominatore sono i giudizi su Berlusconi « portavoce » di Putin in Europa, « vanitoso », « festaiolo » e « poco affidabile ». Il NYT, in un pezzo sull’Iran, scrive che l’Italia prese tempo per bloccare l’export a Teheran di 12 navi veloci (capaci di attaccare unità da guerra americane nel Golfo) e lo fece solo dopo averne spedite 11. E il Guardian cita un incontro di Frattini con il capo del Pentagono Gates, sui rischi di proliferazione nucleare in MO e l’ipotesi di guerra lanciata da un attacco israeliano. E Parismatch e molti altri siti sono colpiti dalla frase di Frattini sull’11 Settembre della diplomazia internazionale.
Dopo un’incubazione durata quattro giorni, la febbre di Wikileaks contagia tutta la stampa internazionale. E c’era da aspettarselo: i cinque media privilegiati da Julian Assange e dal suo team, New York Times, The Guardian, Le Monde, El Pais, Der Spiegel, dettano la cadenza; e quasi tutti gli altri li seguono. I documenti del Dipartimento di Stato, sottratti ai loro archivi e spiattellati alla pubblica curiosità, aprono quasi tutti i siti del nostro Mondo. Ma c’è chi resiste all’onda di piena: FT e Les Echos, non a caso due giornali economici, scelgono di aprire sul salvataggio dell’Irlanda da parte dell’Ue. Se il tema è comune, la scelta degli spunti, fra le centinaia di migliaia di documenti disponibili, è abbastanza diversificata, anche se, sostanzialmente, tutti i media restano tributari della selezione fatta dai cinque che hanno avuto modo e tempo di spulciare l’enorme massa. In ottica italiana, un minimo comune denominatore sono i giudizi su Berlusconi « portavoce » di Putin in Europa, « vanitoso », « festaiolo » e « poco affidabile ». Il NYT, in un pezzo sull’Iran, scrive che l’Italia prese tempo per bloccare l’export a Teheran di 12 navi veloci (capaci di attaccare unità da guerra americane nel Golfo) e lo fece solo dopo averne spedite 11. E il Guardian cita un incontro di Frattini con il capo del Pentagono Gates, sui rischi di proliferazione nucleare in MO e l’ipotesi di guerra lanciata da un attacco israeliano. E Parismatch e molti altri siti sono colpiti dalla frase di Frattini sull’11 Settembre della diplomazia internazionale.
domenica 28 novembre 2010
Wikileaks: vanno in onda gli X-Files, pochi segreti e poca Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/11/2010
Der Spiegel solleva un lembo del velo di mistero che, da mercoledì, copre l’attesa della diffusione di milioni di documenti diplomatici statunitensi sul sito Wikileaks. Il settimanale tedesco, che è uno dei grandi media che hanno avuto accesso preventivo ai cosiddetti ‘Embassy Files’, intende mettere online il suo ‘malloppo’ alle 22.30 di oggi, quando sarà pronto il numero in edicola il lunedì. Ma già ieri Der Spiegel ha fornito qualche informazione quantitativa, pubblicando ‘domande e risposte’ sui documenti fornitigli dal sito di Julian Aassange, e ha provocato qualche iniziale delusione: sono pochi i documenti ‘segreti’ (e nessuno è ‘top secret’) e sono percentualmente pochi quelli che riguardano l’Europa.
L’intero pacchetto comprende 251.287 cablogrammi e 8000 direttive emanate dal Dipartimento di Stato –numeri bassi rispetto a quelli annunciati, ma bisogna vedere quante pagine ha mediamente ogni file-: il più vecchio risale al 1966, ma la stragrande maggioranza sono posteriori al 2004 e 9005 si riferiscono ai primi due mesi del 2010,. Nessun dei documenti è classificato ‘Top Secret’: ve ne sono di Secret, relativamente pochi, appena 15.652, il 6% circa, mentre oltre la metà non sono per nulla classificati e oltre il 40% sono ‘confidenziali’. Wikileaks li ha ‘pescati’ dalla rete SiprNet (Secret Internet Protocol Router Network), cui hanno accesso 2,5 milioni di dipendenti pubblici dell’Amministrazione statunitense –trovare, dunque, la ‘talpa’ sarà un lavoraccio-.
Il settimanale tedesco fornisce anche una distribuzione geografica della provenienza dei documenti: solo il 5% riguarderebbero l’Europa,mentre la gran parte si riferirebbero a Medio Oriente e Asia –e, del resto, il Dipartimento di Stato sta facendo un’intensa azione di ‘controllo dei danni’ verso Israele e pure verso Cina e India, Aghanistan e Pakistan, Arabia Saudita ed Iraq e i Paesi del Golfo, oltre che verso praticamente tutti i Paesi Nato, la Russia e l’Australia, da dove viene Assange-.
Mentre i media di tutto il mondo sono in attesa della pubblicazione degli ‘Embassy Files’ e a caccia di indiscrezioni, le informazioni di Der Spiegel trovano qualche conferma Da Mike Allen, corrispondente dalla Casa Bianca del sito Politico. Allen cita su Twitter fonti dell’Amministrazione. Un sito ‘non ufficiale’ di Wikileaks, WL Central, sintetizza tutte le informazioni finora disponibili, senza però avallarle.
Le ore trascorse, ormai un centinaio, dall’annuncio della gragnuola di rivelazioni in arrivo, mercoledì, alla loro effettiva pubblicazione sono state freneticamente utilizzate dalla diplomazia (quella Usa, in primo luogo) per cercare di ridurre questa deflagrazione potenzialmente devastante ad una esplosione controllata. E con il passare del tempo si addensa il mistero sulla diffusione (ritardata?) dei segreti: perché non escono?, che cosa sta realmente accadendo in queste ore. C’è l’ipotesi che operazioni di intelligence in corso siano state ‘chiuse’ in tutta fretta, per mettere al sicuro gli agenti sotto copertura.
Di certo, si sa che i giornali cui Wikileaks ha dato in anticipo i suoi files, o almeno alcuni di essi, hanno informato i loro governi, se non altro per ricavarne reazioni e commenti. Lo ha fatto, è certo, per sua ammissione, il New York Times con la Casa Bianca; lo ha fatto il Guardian con il governo di Londra, che ha del resto espressamente chiesto agli editori di informarlo se intendono pubblicare documenti diplomatici dal contenuto delicato. Il ‘Defence Advisory’ non implica, tuttavia, l’avvio di procedure per bloccare la pubblicazione: vuole solo sensibilizzare i media a non compromettere la sicurezza delle operazioni militari britanniche. Ed è più che probabile che contatti con i governi abbiano avuto pure le Monde, El Pais e der Spiegel.
Ma perché passano i giorni ed i documenti non escono, a parte qualche indiscrezione sui contenuti, rarefattasi ieri, spesso così generica da non essere smentibile, ma, nel contempo, da essere poco gustosa? Si possono avanzare motivazioni banali, più o meno plausibili, come la necessità di tempo per esaminare la massa delle informazioni, oppure il fatto che gli Stati Uniti vivono il loro lungo week-end del Ringraziamento e anche la stampa è sonnolenta (ma la domenica è il giorno migliore, dal punto di vista della diffusione dei media, per piazzare uno scoop).
Di fatto, l’Amministrazione Obama ha avuto quattro giorni per preparare i governi amici e alleati all’impatto della corrispondenza (poco) diplomatica che li riguarda. Nelle prossime ore, la Cnn diffonderà un’intervista al capo di Stato maggiore statunitense, l’ammiraglio Michael Mullen, che batte sul tasto, caro ai militari, della “estrema pericolosità” dei comportamenti di Wikileaks, specie per la sicurezza dei soldati al fronte, e lancia un appello perché i documenti non siano diffusi. Ma è troppo tardi, perché l’invito sortisca effetto. Tanto più che l’argomento della sicurezza si applicava più alle rivelazioni sull’Iraq e l’Afghanistan che agli ‘Embassy Files’, che possono mettere al più a repentaglio la reputazione di qualche diplomatico e di qualche sua ‘gola profonda’.
Se decine di governi di tutto il mondo si stanno preparando, in questo week-end di dubbi e di ansie, alle rivelazioni che stanno per uscire, nessuno ha messo le mani avanti in modo così vistoso come il governo italiano, che ha trasformato lo ‘scoop’ di Wikileaks in un bailamme politico interno, sollevando un polverone di sospetti e interrogativi.
Der Spiegel solleva un lembo del velo di mistero che, da mercoledì, copre l’attesa della diffusione di milioni di documenti diplomatici statunitensi sul sito Wikileaks. Il settimanale tedesco, che è uno dei grandi media che hanno avuto accesso preventivo ai cosiddetti ‘Embassy Files’, intende mettere online il suo ‘malloppo’ alle 22.30 di oggi, quando sarà pronto il numero in edicola il lunedì. Ma già ieri Der Spiegel ha fornito qualche informazione quantitativa, pubblicando ‘domande e risposte’ sui documenti fornitigli dal sito di Julian Aassange, e ha provocato qualche iniziale delusione: sono pochi i documenti ‘segreti’ (e nessuno è ‘top secret’) e sono percentualmente pochi quelli che riguardano l’Europa.
L’intero pacchetto comprende 251.287 cablogrammi e 8000 direttive emanate dal Dipartimento di Stato –numeri bassi rispetto a quelli annunciati, ma bisogna vedere quante pagine ha mediamente ogni file-: il più vecchio risale al 1966, ma la stragrande maggioranza sono posteriori al 2004 e 9005 si riferiscono ai primi due mesi del 2010,. Nessun dei documenti è classificato ‘Top Secret’: ve ne sono di Secret, relativamente pochi, appena 15.652, il 6% circa, mentre oltre la metà non sono per nulla classificati e oltre il 40% sono ‘confidenziali’. Wikileaks li ha ‘pescati’ dalla rete SiprNet (Secret Internet Protocol Router Network), cui hanno accesso 2,5 milioni di dipendenti pubblici dell’Amministrazione statunitense –trovare, dunque, la ‘talpa’ sarà un lavoraccio-.
Il settimanale tedesco fornisce anche una distribuzione geografica della provenienza dei documenti: solo il 5% riguarderebbero l’Europa,mentre la gran parte si riferirebbero a Medio Oriente e Asia –e, del resto, il Dipartimento di Stato sta facendo un’intensa azione di ‘controllo dei danni’ verso Israele e pure verso Cina e India, Aghanistan e Pakistan, Arabia Saudita ed Iraq e i Paesi del Golfo, oltre che verso praticamente tutti i Paesi Nato, la Russia e l’Australia, da dove viene Assange-.
Mentre i media di tutto il mondo sono in attesa della pubblicazione degli ‘Embassy Files’ e a caccia di indiscrezioni, le informazioni di Der Spiegel trovano qualche conferma Da Mike Allen, corrispondente dalla Casa Bianca del sito Politico. Allen cita su Twitter fonti dell’Amministrazione. Un sito ‘non ufficiale’ di Wikileaks, WL Central, sintetizza tutte le informazioni finora disponibili, senza però avallarle.
Le ore trascorse, ormai un centinaio, dall’annuncio della gragnuola di rivelazioni in arrivo, mercoledì, alla loro effettiva pubblicazione sono state freneticamente utilizzate dalla diplomazia (quella Usa, in primo luogo) per cercare di ridurre questa deflagrazione potenzialmente devastante ad una esplosione controllata. E con il passare del tempo si addensa il mistero sulla diffusione (ritardata?) dei segreti: perché non escono?, che cosa sta realmente accadendo in queste ore. C’è l’ipotesi che operazioni di intelligence in corso siano state ‘chiuse’ in tutta fretta, per mettere al sicuro gli agenti sotto copertura.
Di certo, si sa che i giornali cui Wikileaks ha dato in anticipo i suoi files, o almeno alcuni di essi, hanno informato i loro governi, se non altro per ricavarne reazioni e commenti. Lo ha fatto, è certo, per sua ammissione, il New York Times con la Casa Bianca; lo ha fatto il Guardian con il governo di Londra, che ha del resto espressamente chiesto agli editori di informarlo se intendono pubblicare documenti diplomatici dal contenuto delicato. Il ‘Defence Advisory’ non implica, tuttavia, l’avvio di procedure per bloccare la pubblicazione: vuole solo sensibilizzare i media a non compromettere la sicurezza delle operazioni militari britanniche. Ed è più che probabile che contatti con i governi abbiano avuto pure le Monde, El Pais e der Spiegel.
Ma perché passano i giorni ed i documenti non escono, a parte qualche indiscrezione sui contenuti, rarefattasi ieri, spesso così generica da non essere smentibile, ma, nel contempo, da essere poco gustosa? Si possono avanzare motivazioni banali, più o meno plausibili, come la necessità di tempo per esaminare la massa delle informazioni, oppure il fatto che gli Stati Uniti vivono il loro lungo week-end del Ringraziamento e anche la stampa è sonnolenta (ma la domenica è il giorno migliore, dal punto di vista della diffusione dei media, per piazzare uno scoop).
Di fatto, l’Amministrazione Obama ha avuto quattro giorni per preparare i governi amici e alleati all’impatto della corrispondenza (poco) diplomatica che li riguarda. Nelle prossime ore, la Cnn diffonderà un’intervista al capo di Stato maggiore statunitense, l’ammiraglio Michael Mullen, che batte sul tasto, caro ai militari, della “estrema pericolosità” dei comportamenti di Wikileaks, specie per la sicurezza dei soldati al fronte, e lancia un appello perché i documenti non siano diffusi. Ma è troppo tardi, perché l’invito sortisca effetto. Tanto più che l’argomento della sicurezza si applicava più alle rivelazioni sull’Iraq e l’Afghanistan che agli ‘Embassy Files’, che possono mettere al più a repentaglio la reputazione di qualche diplomatico e di qualche sua ‘gola profonda’.
Se decine di governi di tutto il mondo si stanno preparando, in questo week-end di dubbi e di ansie, alle rivelazioni che stanno per uscire, nessuno ha messo le mani avanti in modo così vistoso come il governo italiano, che ha trasformato lo ‘scoop’ di Wikileaks in un bailamme politico interno, sollevando un polverone di sospetti e interrogativi.
sabato 27 novembre 2010
Wikileaks: Frattini va in tilt, non è un complotto ma quasi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/11/2010
L’Italia nel mirino di Wikileaks. L’Italia come un sacco di altri Paesi: mica il sito di Julian Assange ce l’ha con noi; al massimo, ce l’ha con l’universale ipocrisia della diplomazia internazionale. Eppure, le reazioni romane, che partono bene, con una dichiarazione del portavoce della Farnesina Maurizio Massari (“Le relazioni e l’amicizia tra Italia e Stati Uniti hanno un tale spessoa che nessuna rivelazione potrà scalfirle”), salgono di tono col passare delle ore, fino all’ipotesi delirante di complotti orchestrati contro il nostro Paese.
Ai giornalisti, il ministro degli esteri Franco Frattini dice: “Ho parlato con il Dipartimento di Stato, che mi ha anticipato che, nella fuga di Wikileaks, ci saranno documenti di scenario che riguardano anche l’Italia”. Una frase che sembra escludere riferimenti a situazioni di crisi specifica tra Roma e Washington, come furono la tragedia del Cermis o l’uccisione a Baghdad di Nicola Calipari o ancora il processo agli agenti della Cia per il sequestro di Abu Omar (la sentenza d’appello è attesa il 15 dicembre) o persino la vicenda dell’ ‘elicottero del presidente’, un contratto che l’Agusta-Bell strappò alla Sikorsky negli anni di Bush e che Obama ha poi cancellato all’insegna del rigore.
Fin qui, Frattini conferma quello che l’ambasciata degli uUa a Roma aveva già fatto filtrare: cioè, d’avere notificato, come stanno facendo tutte le ambasciate americane nel Mondo che ne hanno avuto istruzioni, la possibile pubblicazione di documenti riservati del Dipartimento di Stato che potrebbero riguardare l’Italia. C’è chi dice di sapere che essi riguardano “dossier preparati dai funzionari americani sulle relazioni internazionali e rapporti con privati cittadini”: indicazioni così generiche da non potere essere smentite.
Ma, forse, il ministro qualcosa di più sa, se, dopo un foro italo-spagnolo alla Camera, afferma: “Non è un complotto. Sono elementi molto preoccupanti: una combinazione d’informazioni inesatte, di enfatizzazione mediatica, di fatti negativi per l’Italia e di dati che presumibilmente arriveranno con la pubblicazione dei documenti di Wikileaks”. E, poco diplomaticamente, va avanti: “Non vi è un unico burattinaio, ma vi è una combinazione” di episodi “il cui risultato è dannoso per l’immagine dell’Italia”, che, invece, “nell’interesse nazionale”, va “difesa”.
Sulle parole di Frattini, va a nozze il premier Berlusconi –ma, questa, è un’altra storia-, salvo poi rigettare la responsabilità del “complotto” sul ministro degli esteri, le cui frasi mescolano di tutto un po’, dalle indagini su Finmeccanica, che "rappresenta l'Italia in settori delicatissimi come l'industria della difesa e l’alta tecnologia”, alla rivelazioni di Wikileaks, passando per la spazzatura di Napoli.
Proprio la sortita di Frattini, oltre che innescare l’eloquio del premier, desta interrogativi e timori nelle forze politiche: che cosa mai ci sarà nei files che stanno per uscire per innalzare una barriera di protezione così alta? ''Se ci sono minacce reali contro l'Italia, il Governo riferisca al Parlamento ed al capo dello Stato. E il ministro degli Esteri riferisca, in particolare, al Copasir, dove l’audizione del presidente Berlusconi appare ormai ineludibile dopo il comunicato del Consiglio dei Ministri che suscita preoccupazione, almeno nella parte che riguarda gli scenari internazionali e i rapporti con i Paesi alleati, anche in relazione alle notizie in arrivo dal Wikileaks”. A dichiararlo per primo è Carmelo Briguglio, capo della segreteria politica Fli e membro del Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti. Chissà se Assange se l’aspettava: Obama, magari, non trema, ma Berlusconi (e Frattini) sono in fibrillazione.
L’Italia nel mirino di Wikileaks. L’Italia come un sacco di altri Paesi: mica il sito di Julian Assange ce l’ha con noi; al massimo, ce l’ha con l’universale ipocrisia della diplomazia internazionale. Eppure, le reazioni romane, che partono bene, con una dichiarazione del portavoce della Farnesina Maurizio Massari (“Le relazioni e l’amicizia tra Italia e Stati Uniti hanno un tale spessoa che nessuna rivelazione potrà scalfirle”), salgono di tono col passare delle ore, fino all’ipotesi delirante di complotti orchestrati contro il nostro Paese.
Ai giornalisti, il ministro degli esteri Franco Frattini dice: “Ho parlato con il Dipartimento di Stato, che mi ha anticipato che, nella fuga di Wikileaks, ci saranno documenti di scenario che riguardano anche l’Italia”. Una frase che sembra escludere riferimenti a situazioni di crisi specifica tra Roma e Washington, come furono la tragedia del Cermis o l’uccisione a Baghdad di Nicola Calipari o ancora il processo agli agenti della Cia per il sequestro di Abu Omar (la sentenza d’appello è attesa il 15 dicembre) o persino la vicenda dell’ ‘elicottero del presidente’, un contratto che l’Agusta-Bell strappò alla Sikorsky negli anni di Bush e che Obama ha poi cancellato all’insegna del rigore.
Fin qui, Frattini conferma quello che l’ambasciata degli uUa a Roma aveva già fatto filtrare: cioè, d’avere notificato, come stanno facendo tutte le ambasciate americane nel Mondo che ne hanno avuto istruzioni, la possibile pubblicazione di documenti riservati del Dipartimento di Stato che potrebbero riguardare l’Italia. C’è chi dice di sapere che essi riguardano “dossier preparati dai funzionari americani sulle relazioni internazionali e rapporti con privati cittadini”: indicazioni così generiche da non potere essere smentite.
Ma, forse, il ministro qualcosa di più sa, se, dopo un foro italo-spagnolo alla Camera, afferma: “Non è un complotto. Sono elementi molto preoccupanti: una combinazione d’informazioni inesatte, di enfatizzazione mediatica, di fatti negativi per l’Italia e di dati che presumibilmente arriveranno con la pubblicazione dei documenti di Wikileaks”. E, poco diplomaticamente, va avanti: “Non vi è un unico burattinaio, ma vi è una combinazione” di episodi “il cui risultato è dannoso per l’immagine dell’Italia”, che, invece, “nell’interesse nazionale”, va “difesa”.
Sulle parole di Frattini, va a nozze il premier Berlusconi –ma, questa, è un’altra storia-, salvo poi rigettare la responsabilità del “complotto” sul ministro degli esteri, le cui frasi mescolano di tutto un po’, dalle indagini su Finmeccanica, che "rappresenta l'Italia in settori delicatissimi come l'industria della difesa e l’alta tecnologia”, alla rivelazioni di Wikileaks, passando per la spazzatura di Napoli.
Proprio la sortita di Frattini, oltre che innescare l’eloquio del premier, desta interrogativi e timori nelle forze politiche: che cosa mai ci sarà nei files che stanno per uscire per innalzare una barriera di protezione così alta? ''Se ci sono minacce reali contro l'Italia, il Governo riferisca al Parlamento ed al capo dello Stato. E il ministro degli Esteri riferisca, in particolare, al Copasir, dove l’audizione del presidente Berlusconi appare ormai ineludibile dopo il comunicato del Consiglio dei Ministri che suscita preoccupazione, almeno nella parte che riguarda gli scenari internazionali e i rapporti con i Paesi alleati, anche in relazione alle notizie in arrivo dal Wikileaks”. A dichiararlo per primo è Carmelo Briguglio, capo della segreteria politica Fli e membro del Copasir, il comitato di controllo sui servizi segreti. Chissà se Assange se l’aspettava: Obama, magari, non trema, ma Berlusconi (e Frattini) sono in fibrillazione.
Wikileaks: il telefono caldo del Dipartimento di Stato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/11/2010
In attesa che la grandinata di documenti annunciata da Wikileaks cominci a scrosciare loro addosso, le diplomazie di tutto il Mondo hanno aperto gli ombrelli e li tengono ben saldi e larghi sulla testa: il nuovo colpo di Julian Assange, il creatore di Wikileaks, uno che non è in odore di santità, ma che sa fare tremare i Santi nel Paradiso del Potere, tengono in fibrillazione leader e governi.
Il sito, che ha talpe nei gangli dell’Amministrazione statunitense, militare –i colpi su Afghanistan e Iraq- e diplomatica, s’appresta a pubblicare 2,7 milioni e forse più di documenti segreti che “cambieranno la storia mondiale”. Un’affermazione forse roboante: la diplomazia internazionale si mostra, finora, distaccata nel commentare e concorde nel minimizzare: tutti hanno nei cassetti, o dentro i files dei computer, documenti che, se tirati fuori e spiattellati in pubblico, provocherebbero imbarazzo e creerebbero frizioni con amici e alleati, non solo con rivali o nemici.
I documenti di Wìkileaks, che si ignora ancora quanti Paesi riguardino e che arco di tempo coprano, conterrebbero corrispondenza diplomatica tra il dipartimento di Stato e le ambasciate all’estero: valutazioni e informazioni rimaste segrete o, quando pure siano state rese pubbliche, ‘ammorbidite’ così da non risultare contundenti.
Come ha già fatto in passato, il sito ha anticipato ad alcuni media le informazioni disponibili: NYT, Guardian e Der Spiegel, El Pais e Le Monde stanno studiando l’enorme massa cercando di tirarne fuori il meglio. Quando comincerà, la grandinata durerà parecchi giorni.Sembra che i documenti possano risultare “imbarazzanti”, oltre che per gli Stati Uniti, anche per Russia e Israele e, inoltre, per Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Turchia, Canada ed altri Paesi Nato, oltre che l’Australia. E ci sarebbero accuse di corruzione a politici e governati afghani e pachistani delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Il segretario di Stato americano Hillary Clinton guida ’azione di limitazione del danno: lei stessa ha chiamato alcuni suoi colleghi e le ambasciate dei Paesi interessati hanno ricevuto precise istruzioni di “preparare il terreno”. Il Dipartimento di Stato s’è mosso dopo che il New York Times ha messo sull’avviso la casa Bianca, sollecitandone commenti e reazioni. “Prepariamoci al peggio”, è stato detto a deputati e senatori del Congresso americano.
In Russia, il Kommersant afferma che cablogrammi dell'ambasciata Usa a Mosca, che andrebbero dal 2000 al 2010, conterrebbero valutazioni sulla situazione politica russa e "apprezzamenti poco lusinghieri" su leader russi. Serghiei Lavrov, ministro degli Esteri russo, rispetta con ironia la linea della sdrammatizzazione. Lui non ha avuto comunicazioni ufficiali sulle imminenti rivelazioni, anche se l’ambasciata statunitense ha già fatto filtrare ufficiosamente i contenuto dei file ‘rubati’; e commenta sardonico: ''Se da loro (negli Usa) i documenti segreti vengono sottratti, da noi invece queste cose non succedono”, come dire che la scuola Kgb batte la scuola Cia. Preoccupato? Assolutamente no; anzi, “mi stupisce che il lavoro fatto di ladruncoli su internet susciti tanto interesse”.
In Israele, dove l’ironia è meno di casa, il premier Benjamin Netanyahu è stato avvertito che i files potrebbero risultare fastidiosi per i rapporti bilaterali. Secondo Haaretz, nei messaggi ci sono commenti di diplomatici non sempre allineati alla posizione ufficiale dell'Amministrazione Obama.
L'ambasciatore Usa a Baghdad James Jeffrey giudica la fuga di documenti “un ostacolo tremendo”. Anche ad Ankara c’è fibrillazione: le rivelazioni riguarderebbero aiuti turchi ai militanti di Al Qaida in Iraq, ma anche il sostegno degli Usa ai separatisti curdi.
In attesa che la grandinata di documenti annunciata da Wikileaks cominci a scrosciare loro addosso, le diplomazie di tutto il Mondo hanno aperto gli ombrelli e li tengono ben saldi e larghi sulla testa: il nuovo colpo di Julian Assange, il creatore di Wikileaks, uno che non è in odore di santità, ma che sa fare tremare i Santi nel Paradiso del Potere, tengono in fibrillazione leader e governi.
Il sito, che ha talpe nei gangli dell’Amministrazione statunitense, militare –i colpi su Afghanistan e Iraq- e diplomatica, s’appresta a pubblicare 2,7 milioni e forse più di documenti segreti che “cambieranno la storia mondiale”. Un’affermazione forse roboante: la diplomazia internazionale si mostra, finora, distaccata nel commentare e concorde nel minimizzare: tutti hanno nei cassetti, o dentro i files dei computer, documenti che, se tirati fuori e spiattellati in pubblico, provocherebbero imbarazzo e creerebbero frizioni con amici e alleati, non solo con rivali o nemici.
I documenti di Wìkileaks, che si ignora ancora quanti Paesi riguardino e che arco di tempo coprano, conterrebbero corrispondenza diplomatica tra il dipartimento di Stato e le ambasciate all’estero: valutazioni e informazioni rimaste segrete o, quando pure siano state rese pubbliche, ‘ammorbidite’ così da non risultare contundenti.
Come ha già fatto in passato, il sito ha anticipato ad alcuni media le informazioni disponibili: NYT, Guardian e Der Spiegel, El Pais e Le Monde stanno studiando l’enorme massa cercando di tirarne fuori il meglio. Quando comincerà, la grandinata durerà parecchi giorni.Sembra che i documenti possano risultare “imbarazzanti”, oltre che per gli Stati Uniti, anche per Russia e Israele e, inoltre, per Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Turchia, Canada ed altri Paesi Nato, oltre che l’Australia. E ci sarebbero accuse di corruzione a politici e governati afghani e pachistani delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Il segretario di Stato americano Hillary Clinton guida ’azione di limitazione del danno: lei stessa ha chiamato alcuni suoi colleghi e le ambasciate dei Paesi interessati hanno ricevuto precise istruzioni di “preparare il terreno”. Il Dipartimento di Stato s’è mosso dopo che il New York Times ha messo sull’avviso la casa Bianca, sollecitandone commenti e reazioni. “Prepariamoci al peggio”, è stato detto a deputati e senatori del Congresso americano.
In Russia, il Kommersant afferma che cablogrammi dell'ambasciata Usa a Mosca, che andrebbero dal 2000 al 2010, conterrebbero valutazioni sulla situazione politica russa e "apprezzamenti poco lusinghieri" su leader russi. Serghiei Lavrov, ministro degli Esteri russo, rispetta con ironia la linea della sdrammatizzazione. Lui non ha avuto comunicazioni ufficiali sulle imminenti rivelazioni, anche se l’ambasciata statunitense ha già fatto filtrare ufficiosamente i contenuto dei file ‘rubati’; e commenta sardonico: ''Se da loro (negli Usa) i documenti segreti vengono sottratti, da noi invece queste cose non succedono”, come dire che la scuola Kgb batte la scuola Cia. Preoccupato? Assolutamente no; anzi, “mi stupisce che il lavoro fatto di ladruncoli su internet susciti tanto interesse”.
In Israele, dove l’ironia è meno di casa, il premier Benjamin Netanyahu è stato avvertito che i files potrebbero risultare fastidiosi per i rapporti bilaterali. Secondo Haaretz, nei messaggi ci sono commenti di diplomatici non sempre allineati alla posizione ufficiale dell'Amministrazione Obama.
L'ambasciatore Usa a Baghdad James Jeffrey giudica la fuga di documenti “un ostacolo tremendo”. Anche ad Ankara c’è fibrillazione: le rivelazioni riguarderebbero aiuti turchi ai militanti di Al Qaida in Iraq, ma anche il sostegno degli Usa ai separatisti curdi.
venerdì 26 novembre 2010
Svizzera: referendum, stranieri ed espulsioni a cucù
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/11/2010
Com'e' la Svizzera?, chiesero i galli del villaggio degli irriducibili a Obelix, che tornava con Asterix da un'avventura in Helvetia. E lui, sbronzo dall'inizio alla fine dell'album, rispose 'Piatta': un'appendice nordica della Padania romana allora e leghista oggi.
Tonto o profetico, Obelix? A parte che la Confederazione, stretta fra i suoi monti, non e' mai stata facile per gli stranieri, giudicate voi come stanno ora le cose: domenica gli svizzeri decideranno con un referendum se inasprire le norme sulle espulsioni degli stranieri che delinquono: un'iniziativa della destra populista -quell'Udc che e' la maggiore formazione politica elvetica-. L'esito della consultazione, che cade a un anno esatto dal no ai minareti nella Confederazione e che e' abbinato a un referendum per una soglia d'imposta minima sugli alti redditi, e' incerto.
Il voto degli svizzeri si colloca nella scia dell'avanzata in Europa di razzismo e xenefobia, testimoniata dalle elezioni in Olanda e in Ungheria, in Svezia e in Grecia, cioe' in tutti gli angoli del Vecchio Continente, che la storia dovrebbe avere vaccinato da certi virus. E, invece, la crisi li risveglia.
Di per se', la pratica dell'espulsione dello straniero che delinque e' abbastanza diffusa, anche nell'Ue, ovviamente soprattutto nei confronti degli extra-comunitari (ma non solo: basta pensare ai rimpatri 'volontari' di rom romeni da parte francese). Misure in qualche modo analoghe esistono gia' in tutti i Paesi nordici, in Germania e anche in Grecia. L'Olanda, in attesa che gli xenofobi che condizionano il governo facciano sentire il loro peso, applica una sorta di piano inclinato: da più tempo lo straniero risiede nel Paese, più grave deve essere il delitto per condurre all'espulsione. La Francia di Sarkozy progetta, addirittura, di privare della cittadinanza quegli stranieri 'naturalizzati' che si macchiano di colpe gravissime, come l'uccisione di un poliziotto -una misura che suona incostituzionale.
L'applicazione delle nuove norme in Svizzera, se saranno approvate, potrebbe pero' rivelarsi molto spinosa, perche' li' tutti gli stranieri sono stranieri allo stesso modo, perche' la Confederazione non fa parte dell'Unione europea, anche se ha con essa accordi particolari, ad esempio sulla liberta' di circolazione.
Tra il referendum di domenica e quello contro i minareti, passato con oltre il 47 pc dei voti, i punti in comune sono molti: i promotori sono gli stessi, quelli dell'Udc, un partito che basa il suoi successo su temi come il freno all'immigrazione e il no all'ingresso della Svizzera nell'Ue. Oggi come un anno fa, l'iniziativa popolare, che e' un po' un motore della democrazia elvetica, e' osteggiata dal governo e dalla maggioranza del Parlamento, che la giudicano eccessiva.
Rispetto a un anno fa, pero', questa volta l'esecutivo e la maggioranza che lo sorregge hanno approvato un loro controprogetto: un testo che affronta lo stesso problema, dando pero' risposte diverse. Saranno sufficienti per i campioni della democrazia diretta? Lo si sapra' domenica pomeriggio.
L'Udc propone che "gli stranieri perdano il diritto di dimora in Svizzera e ogni diritto di soggiorno se sono stati condannati per tutta una serie di reati particolarmente violenti. L'espulsione e' pure prevista in caso di frode allo Stato. Il controprogetto punta come criterio per l'espulsione sulla gravita' della colpa e distingue tra lo straniero radicato nel Paese e quello appena giuntovi. In Svizzera, su 7,7 milioni di abitanti, gli stranieri, fra cui molti italiani, sono oltre un quinto della popolazione, il 22 pc.
Com'e' la Svizzera?, chiesero i galli del villaggio degli irriducibili a Obelix, che tornava con Asterix da un'avventura in Helvetia. E lui, sbronzo dall'inizio alla fine dell'album, rispose 'Piatta': un'appendice nordica della Padania romana allora e leghista oggi.
Tonto o profetico, Obelix? A parte che la Confederazione, stretta fra i suoi monti, non e' mai stata facile per gli stranieri, giudicate voi come stanno ora le cose: domenica gli svizzeri decideranno con un referendum se inasprire le norme sulle espulsioni degli stranieri che delinquono: un'iniziativa della destra populista -quell'Udc che e' la maggiore formazione politica elvetica-. L'esito della consultazione, che cade a un anno esatto dal no ai minareti nella Confederazione e che e' abbinato a un referendum per una soglia d'imposta minima sugli alti redditi, e' incerto.
Il voto degli svizzeri si colloca nella scia dell'avanzata in Europa di razzismo e xenefobia, testimoniata dalle elezioni in Olanda e in Ungheria, in Svezia e in Grecia, cioe' in tutti gli angoli del Vecchio Continente, che la storia dovrebbe avere vaccinato da certi virus. E, invece, la crisi li risveglia.
Di per se', la pratica dell'espulsione dello straniero che delinque e' abbastanza diffusa, anche nell'Ue, ovviamente soprattutto nei confronti degli extra-comunitari (ma non solo: basta pensare ai rimpatri 'volontari' di rom romeni da parte francese). Misure in qualche modo analoghe esistono gia' in tutti i Paesi nordici, in Germania e anche in Grecia. L'Olanda, in attesa che gli xenofobi che condizionano il governo facciano sentire il loro peso, applica una sorta di piano inclinato: da più tempo lo straniero risiede nel Paese, più grave deve essere il delitto per condurre all'espulsione. La Francia di Sarkozy progetta, addirittura, di privare della cittadinanza quegli stranieri 'naturalizzati' che si macchiano di colpe gravissime, come l'uccisione di un poliziotto -una misura che suona incostituzionale.
L'applicazione delle nuove norme in Svizzera, se saranno approvate, potrebbe pero' rivelarsi molto spinosa, perche' li' tutti gli stranieri sono stranieri allo stesso modo, perche' la Confederazione non fa parte dell'Unione europea, anche se ha con essa accordi particolari, ad esempio sulla liberta' di circolazione.
Tra il referendum di domenica e quello contro i minareti, passato con oltre il 47 pc dei voti, i punti in comune sono molti: i promotori sono gli stessi, quelli dell'Udc, un partito che basa il suoi successo su temi come il freno all'immigrazione e il no all'ingresso della Svizzera nell'Ue. Oggi come un anno fa, l'iniziativa popolare, che e' un po' un motore della democrazia elvetica, e' osteggiata dal governo e dalla maggioranza del Parlamento, che la giudicano eccessiva.
Rispetto a un anno fa, pero', questa volta l'esecutivo e la maggioranza che lo sorregge hanno approvato un loro controprogetto: un testo che affronta lo stesso problema, dando pero' risposte diverse. Saranno sufficienti per i campioni della democrazia diretta? Lo si sapra' domenica pomeriggio.
L'Udc propone che "gli stranieri perdano il diritto di dimora in Svizzera e ogni diritto di soggiorno se sono stati condannati per tutta una serie di reati particolarmente violenti. L'espulsione e' pure prevista in caso di frode allo Stato. Il controprogetto punta come criterio per l'espulsione sulla gravita' della colpa e distingue tra lo straniero radicato nel Paese e quello appena giuntovi. In Svizzera, su 7,7 milioni di abitanti, gli stranieri, fra cui molti italiani, sono oltre un quinto della popolazione, il 22 pc.
SPIGOLI: studenti invadono Senato e conquistano media
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/11/2010
Oltre che Palazzo Madama, la rabbia degli studenti italiani contro la Riforma Gelmini invade e conquista la stampa internazionale: un po’ c’è l’effetto ‘copycat’, perché d’autunno i Paesi d’Europa, Italia, Spagna, Francia, Germania, si passano l’un l’altro la fiaccola delle proteste sociali; e un po’ c’è l’intreccio specifico di eventi di una giornata caotica. La rabbia dei giovani, la replica del ministro dell’Istruzione pubblica, la sconfitta del Governo alla Camera proprio sulla riforma, l’arrampicata del leader del Pd Bersani sui tetti della facoltà di architettura: ne vengono fuori ‘photo-galleries’ niente male. Una Ap che finisce su vari siti di media Usa allarga il discorso: “Protesta e paura dilagano in Europa mentre economie chiave sono sull'orlo del collasso”, scrive, mettendo in risalto l’interazione tra l’esigenza del rigore per ridurre i deficit e l’impatto dei tagli sulla qualità della vita dei giovani ancora studenti, ma anche dei lavoratori e delle famiglie. Con un’ottica più centrata sull’Italia, il Times di Londra, invece, scriveva, qualche giorno fa, “Niente lavoro, niente speranza, gli italiani nell'inattività”, con un riferimento alla statistiche su quanti sono gli italiani che non hanno lavoro, ma neppure lo cercano più.
Oltre che Palazzo Madama, la rabbia degli studenti italiani contro la Riforma Gelmini invade e conquista la stampa internazionale: un po’ c’è l’effetto ‘copycat’, perché d’autunno i Paesi d’Europa, Italia, Spagna, Francia, Germania, si passano l’un l’altro la fiaccola delle proteste sociali; e un po’ c’è l’intreccio specifico di eventi di una giornata caotica. La rabbia dei giovani, la replica del ministro dell’Istruzione pubblica, la sconfitta del Governo alla Camera proprio sulla riforma, l’arrampicata del leader del Pd Bersani sui tetti della facoltà di architettura: ne vengono fuori ‘photo-galleries’ niente male. Una Ap che finisce su vari siti di media Usa allarga il discorso: “Protesta e paura dilagano in Europa mentre economie chiave sono sull'orlo del collasso”, scrive, mettendo in risalto l’interazione tra l’esigenza del rigore per ridurre i deficit e l’impatto dei tagli sulla qualità della vita dei giovani ancora studenti, ma anche dei lavoratori e delle famiglie. Con un’ottica più centrata sull’Italia, il Times di Londra, invece, scriveva, qualche giorno fa, “Niente lavoro, niente speranza, gli italiani nell'inattività”, con un riferimento alla statistiche su quanti sono gli italiani che non hanno lavoro, ma neppure lo cercano più.
giovedì 25 novembre 2010
Afghanistan/Iran: impostori e 'bachi', come ti beffo il nemico
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/11/2010
Ti tradisce l’uomo, maledetta l’intelligence!; e ti tradisce la macchina, maldetta la tecnologia! In Afghanistan, un impostore si fa passare per un mullah di rango, incontra il presidente Hamid Karzai, partecipa ai negoziati con la Nato, intasca un sacco di soldi e, smascherato, sparisce. In Iran, un ‘baco’ dei computer, Stuxnet, potrebbe essere la causa del blocco del programma di arricchimento dell’uranio, constatato dagli ispettori dell’Aiea, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica.
Due episodi che mostrano quanto fragili siano i meccanismi della sicurezza, anche là dove i sensori della minaccia sono tutti attivati. La vicenda iraniana è un giallo: gli agenti dell’Aiea sono stati all’impianto di Natanz, nel centro del Paese, solo per una o due ore e non hanno quindi potuto accertare quanto sia durato il blocco, se ore, giorni o più, nè hanno ottenuto informazioni in merito.
Il blocco non è senza precedenti –ce ne sarebbero stati altri due o tre, da quando l’impianto di Natanz è sotto controllo- e potrebbe essere dovuto a motivi tecnici. Ma potrebbe essere stato causato da Stuxnet, un virus dei computer creato proprio per dennaggiare il programma nucleare iraniano, mettendo fuori controllo le centrifughe indispensabili all’arricchimento dell’uranio. Nessuno ha mai rivendicato la ‘paternità’ di Stuxnet, ma alcuni analisti pensano che esca da Israele, magari dal Mossad.
Il vice-presidente iraniano Ali Akbar Salehi nega che Stuxnet abbia fatto danni, ma accusa l’Occidente di un fallito sabotaggio. Da mesi, del resto, le fonti di Teheran riconoscono che il virus s’è diffuso nel Paese e ha colpito computer del personale dell’impianto di Bushehr, la prima struttura nucleare iraniana.
Causato dal virus o da altro, il blocco conferma le difficoltà che i piani atomici iraniani stanno incontrando, dopo un rapido avvio. E la vicenda potrebbe essere evocata alla ripresa dei negoziati dell’Iran con i 5 + 1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania), a Ginevra il 5 dicembre.
Non c’è giallo, invece, ma solo inganno nella storia del Mullah Akhtar Muhammad Mansour, un comandante talebano, la cui partecipazione ai negoziati fra gli insorti ed il governo afghano, con l’incoraggiamento degli Usa e della Nato, aveva suscitato molte speranze. Peccato che il Mullah non fosse un mullah e neppure un talebano, ma solo un impostore : « E gli abbiamo pure dato un sacco di soldi », ammttono diplomatici occidentali. Con il falso Mullah, che arrivava dal Pakistan, dove molti leader talebani si sono rifugiati, ci sono stati tre incontri ‘super-riservati’ : una volta, la Nato lo porto’ persino a Kabul con un proprio aereo. A smascherarlo non é stata l’intelligence, ma uno che conosceva il vero Mullah Mansour e che, dopo l’ultimo meeting a Kandahar, confido’ « Quello non gli assomiglia ». L’impostore s’é dato e non s’è più fatto vedere.
Una prova in più di quanto sia difficile muoversi in Afghanistan, dove, ieri, sono stati diffuse i risultati delle elezioni politiche del 18 settembre, con la proclamazione di 238 dei 249 deputati della Wolesi Jirga, che potrebbe riunirsi la prossima settimana. La soddisfazione internazionale è temperata dalle polemiche interne, con l’esclusione di 24 candidati già dichiarati vincitori.
E mentre i militari stranieri caduti in Afghanistan nel 2010 salgono a 659, il ministro della difesa La Russa, che volantina dall’elicottero e si paragona a D’Annunzio, visita il contingente italiano, assicura che esso resterà all’Ovest (ma la Nato la pensa diversamente), conferma l’invio di più addestratori e rivela che ci sono stati 14 attacchi in un mese contro il soldati italiani. Ma stiamo tranquilli: adesso arriva l’inverno e i talebani vanno in letargo.
Ti tradisce l’uomo, maledetta l’intelligence!; e ti tradisce la macchina, maldetta la tecnologia! In Afghanistan, un impostore si fa passare per un mullah di rango, incontra il presidente Hamid Karzai, partecipa ai negoziati con la Nato, intasca un sacco di soldi e, smascherato, sparisce. In Iran, un ‘baco’ dei computer, Stuxnet, potrebbe essere la causa del blocco del programma di arricchimento dell’uranio, constatato dagli ispettori dell’Aiea, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica.
Due episodi che mostrano quanto fragili siano i meccanismi della sicurezza, anche là dove i sensori della minaccia sono tutti attivati. La vicenda iraniana è un giallo: gli agenti dell’Aiea sono stati all’impianto di Natanz, nel centro del Paese, solo per una o due ore e non hanno quindi potuto accertare quanto sia durato il blocco, se ore, giorni o più, nè hanno ottenuto informazioni in merito.
Il blocco non è senza precedenti –ce ne sarebbero stati altri due o tre, da quando l’impianto di Natanz è sotto controllo- e potrebbe essere dovuto a motivi tecnici. Ma potrebbe essere stato causato da Stuxnet, un virus dei computer creato proprio per dennaggiare il programma nucleare iraniano, mettendo fuori controllo le centrifughe indispensabili all’arricchimento dell’uranio. Nessuno ha mai rivendicato la ‘paternità’ di Stuxnet, ma alcuni analisti pensano che esca da Israele, magari dal Mossad.
Il vice-presidente iraniano Ali Akbar Salehi nega che Stuxnet abbia fatto danni, ma accusa l’Occidente di un fallito sabotaggio. Da mesi, del resto, le fonti di Teheran riconoscono che il virus s’è diffuso nel Paese e ha colpito computer del personale dell’impianto di Bushehr, la prima struttura nucleare iraniana.
Causato dal virus o da altro, il blocco conferma le difficoltà che i piani atomici iraniani stanno incontrando, dopo un rapido avvio. E la vicenda potrebbe essere evocata alla ripresa dei negoziati dell’Iran con i 5 + 1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania), a Ginevra il 5 dicembre.
Non c’è giallo, invece, ma solo inganno nella storia del Mullah Akhtar Muhammad Mansour, un comandante talebano, la cui partecipazione ai negoziati fra gli insorti ed il governo afghano, con l’incoraggiamento degli Usa e della Nato, aveva suscitato molte speranze. Peccato che il Mullah non fosse un mullah e neppure un talebano, ma solo un impostore : « E gli abbiamo pure dato un sacco di soldi », ammttono diplomatici occidentali. Con il falso Mullah, che arrivava dal Pakistan, dove molti leader talebani si sono rifugiati, ci sono stati tre incontri ‘super-riservati’ : una volta, la Nato lo porto’ persino a Kabul con un proprio aereo. A smascherarlo non é stata l’intelligence, ma uno che conosceva il vero Mullah Mansour e che, dopo l’ultimo meeting a Kandahar, confido’ « Quello non gli assomiglia ». L’impostore s’é dato e non s’è più fatto vedere.
Una prova in più di quanto sia difficile muoversi in Afghanistan, dove, ieri, sono stati diffuse i risultati delle elezioni politiche del 18 settembre, con la proclamazione di 238 dei 249 deputati della Wolesi Jirga, che potrebbe riunirsi la prossima settimana. La soddisfazione internazionale è temperata dalle polemiche interne, con l’esclusione di 24 candidati già dichiarati vincitori.
E mentre i militari stranieri caduti in Afghanistan nel 2010 salgono a 659, il ministro della difesa La Russa, che volantina dall’elicottero e si paragona a D’Annunzio, visita il contingente italiano, assicura che esso resterà all’Ovest (ma la Nato la pensa diversamente), conferma l’invio di più addestratori e rivela che ci sono stati 14 attacchi in un mese contro il soldati italiani. Ma stiamo tranquilli: adesso arriva l’inverno e i talebani vanno in letargo.
SPIGOLI: con l'appello, torna il tormentone Amanda Knox
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/11/2010
Noi, che avevamo Amanda e Meredith, adesso abbiamo Sabrina e Sarah. Ma la stampa estera continua ad avere Amanda e Meredith e ritrova il suo tormentone con l’avvio del processo d’appello, subito aggiornato all’11 dicembre. Per la Knox e Raffaele Solletico, immagini sulla Cnn e sulla Bbc, che cita la famiglia della ragazza di Seattle («Non ci sono prove della sua colpevolezza»), e articoli ovunque sulla stampa britannica e americana, ma anche francese e spagnola : sangue e sesso sono pur sempre due delle tre esse che fanno grandi le notizie (la terza sono i soldi). L’Independent si chiede «chi era la vera Foxy Knoxy?», mentre il Telegraph anticipa la sentenza d’appello («La pena potrebbe essere aumentata a 30 anni») e il Guardian non esclude che la condanna si trasformi in assoluzione. L’Ap influenza i media americani: «Un’altra chance per Amanda». In realtà, la vicenda di Perugia non è mai uscita dai radar dei media: tra la condanna in primo grando nel dicembre scorso e il processo d’appello, non è passata settimana senza che un giornale britannico o americano si occupasse di Amanda, con punti di vista spesso partigiani: innocentisti gli americani; colpevolisti i britannici (la scorsa settimana, il Daily Mail ne faceva un ritratto sinistro, "Dicono che non controlla se stessa"). A ‘foraggiare’ la stampa estera, è stato anche ‘Io vengo con te’, il libro di Rocco Girlanda ricavato dalle visite in carcere ad Amanda del deputato pdl umbro; distribuito online in America prima di essere stampato in Italia.
Noi, che avevamo Amanda e Meredith, adesso abbiamo Sabrina e Sarah. Ma la stampa estera continua ad avere Amanda e Meredith e ritrova il suo tormentone con l’avvio del processo d’appello, subito aggiornato all’11 dicembre. Per la Knox e Raffaele Solletico, immagini sulla Cnn e sulla Bbc, che cita la famiglia della ragazza di Seattle («Non ci sono prove della sua colpevolezza»), e articoli ovunque sulla stampa britannica e americana, ma anche francese e spagnola : sangue e sesso sono pur sempre due delle tre esse che fanno grandi le notizie (la terza sono i soldi). L’Independent si chiede «chi era la vera Foxy Knoxy?», mentre il Telegraph anticipa la sentenza d’appello («La pena potrebbe essere aumentata a 30 anni») e il Guardian non esclude che la condanna si trasformi in assoluzione. L’Ap influenza i media americani: «Un’altra chance per Amanda». In realtà, la vicenda di Perugia non è mai uscita dai radar dei media: tra la condanna in primo grando nel dicembre scorso e il processo d’appello, non è passata settimana senza che un giornale britannico o americano si occupasse di Amanda, con punti di vista spesso partigiani: innocentisti gli americani; colpevolisti i britannici (la scorsa settimana, il Daily Mail ne faceva un ritratto sinistro, "Dicono che non controlla se stessa"). A ‘foraggiare’ la stampa estera, è stato anche ‘Io vengo con te’, il libro di Rocco Girlanda ricavato dalle visite in carcere ad Amanda del deputato pdl umbro; distribuito online in America prima di essere stampato in Italia.
mercoledì 24 novembre 2010
COREA: bagliori di guerra per un attacco senza movente
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/11/2010
Bagliori di guerra nella penisola coreana: ancora una volta, l’ennesima, difficilmente l’ultima, Pyongyang accende lampi di tensione apparentemente senza una ragione nè interna nè internazionale. Alle 14.34 –era l’alba, in Europa-, i militari nord-coreani, d’improvviso, senza preavviso, tirano decine di obici su un’isola della Corea del Sud, uccidono due soldati, feriscono una ventina di persona, innescano i tiri di risposta delle forze di Seul e provocano una ridda di reazioni internazionali tutte negative.
Il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov è il più drammatico: i rischi di conflitto –dice- sono «colossali». Il premier giapponese Naoto Kan invita la gente a prepararsi «a ogni eventualità». L’Onu, la Nato, l’Ue, gli Usa tutti «condannano con fermezza» l’aggressione nord-coreana e non prestano nessun credito alla versione di Pyongyang, «abbiamo solo risposto a fuoco ostile». Il presidente sud-coreano Lee Myung-Bak fa mostra di prudenza: le forze armate sono poste in massima allerta, il governo tiene una riunione d’emergenza, ma l’ordine è di gestire la crisi «evitando una escalation».
L’incidente è fra i più gravi mai verificatisi fra i due Paesi dopo la Guerra di Corea (1950/’53), che segno’ la divisione in due della penisola, il Nord comunista (lo è tuttora, con una pervicacia unica al mondo, superiore a quella di Cuba, e un solo vero partner, la Cina) e il Sud capitalista e ‘globalizzato’, tuttora protetto, lungo la linea di demarcazione del 39o parallelo, dalla presenza di 28.500 soldati americani.
Negli ultimi giorni, l’attenzione della comunità internazionale verso la Nord Corea era stata acuita dalla rivelazione di un programma d’arricchimento dell’uranio condotto da Pyongyang, che, contro tutti e contro tutto, s’è già dotata di rudimentali ordigni atomici e di approssimativi sistemi missilistici. Poche ore prima dell’aggressione, c’era nella capitale nordcoreana, per discuterne, un emissario statunitense.
Secondo i dati finora disponibili, una cinquantina di proiettili di mortaio sono caduti sull’isola di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, in un’area contesa tra le due Coree e teatro d’incidenti anche in passato (scaramucce navali ci sono state nel 1999, nel 2002 e, da ultimo, l’anno scorso). Recentemente, il Nord aveva a più riprese protestato per le manovre militari del Sud nella zona. Yeonpyeong è a sud della linea di demarcazione tracciata dall’Onu, ma è a nord della linea di divisione rivendicata da Pyongyang. L’isola, sede di un distaccamento militare sud-coreano, ha circa 1.500 abitanti, che sono stati precauzionalmente invitati a lasciare le loro case. Il bilancio delle vittime cita, fra i 18 feriti, cinque militari gravi e cinque civili. Una decina gli edifici distrutti.
Si ignora se la risposta sudcoreana –80 i colpi d’artiglieria sparati- abbia avuto conseguenze. Il comando supremo nordcoreano ha pero’ minacciato «attacchi senza pietà, senza esitazione, se il nemico osasse invadere le acque territoriali noirdcoreane non fosse che per 0,01 millimetri».
L’incertezza sulle cause della provocazione è massima. L’inquietudine dell’Occidente per le capacità nucleari nordcoreane, accresciuta dalle recenti rivelazioni, coinvolge la Cina, che esprime «preoccupazione» e giudica «imperativo» il rilancio dei negoziati con Pyongyang, condotti a lungo con una formula a sei (le due Coree, Usa, Giappone, Russia e Cina, con Pechino nel ruolo di ospite e regista).
Ma l’episodio di ieri coincide con una fase di transizione interna al regime: il dittatore Kim Jong-Il sta lasciando il potere, ereditato dal padre Kim Il-Sung, al proprio figlio minore Kim Jong-Un. Il passaggio di consegne ‘familiare’ puo’ forse innescare tensioni e incontrare resistenze in un sistema blindato e difficilissimo da penetrare. Solo ipotesi, dunaue, sulle ragioni della provocazione : internazionali –farsi ricordare da Pechino, Mosca, Washington-, bilaterali –mandare un monito a Seul, che ha recentemente abbandonato il processo di riavvicinamento tra le due Corre-, oppure interne (coprire, sotto il telone d’una minaccia internazionale, guerre di successione, beghe di palazzo o persino malumori popolari, magari legati alle persistenti difficoltà alimentari nel Paese, con conseguenti repressioni).
Bagliori di guerra nella penisola coreana: ancora una volta, l’ennesima, difficilmente l’ultima, Pyongyang accende lampi di tensione apparentemente senza una ragione nè interna nè internazionale. Alle 14.34 –era l’alba, in Europa-, i militari nord-coreani, d’improvviso, senza preavviso, tirano decine di obici su un’isola della Corea del Sud, uccidono due soldati, feriscono una ventina di persona, innescano i tiri di risposta delle forze di Seul e provocano una ridda di reazioni internazionali tutte negative.
Il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov è il più drammatico: i rischi di conflitto –dice- sono «colossali». Il premier giapponese Naoto Kan invita la gente a prepararsi «a ogni eventualità». L’Onu, la Nato, l’Ue, gli Usa tutti «condannano con fermezza» l’aggressione nord-coreana e non prestano nessun credito alla versione di Pyongyang, «abbiamo solo risposto a fuoco ostile». Il presidente sud-coreano Lee Myung-Bak fa mostra di prudenza: le forze armate sono poste in massima allerta, il governo tiene una riunione d’emergenza, ma l’ordine è di gestire la crisi «evitando una escalation».
L’incidente è fra i più gravi mai verificatisi fra i due Paesi dopo la Guerra di Corea (1950/’53), che segno’ la divisione in due della penisola, il Nord comunista (lo è tuttora, con una pervicacia unica al mondo, superiore a quella di Cuba, e un solo vero partner, la Cina) e il Sud capitalista e ‘globalizzato’, tuttora protetto, lungo la linea di demarcazione del 39o parallelo, dalla presenza di 28.500 soldati americani.
Negli ultimi giorni, l’attenzione della comunità internazionale verso la Nord Corea era stata acuita dalla rivelazione di un programma d’arricchimento dell’uranio condotto da Pyongyang, che, contro tutti e contro tutto, s’è già dotata di rudimentali ordigni atomici e di approssimativi sistemi missilistici. Poche ore prima dell’aggressione, c’era nella capitale nordcoreana, per discuterne, un emissario statunitense.
Secondo i dati finora disponibili, una cinquantina di proiettili di mortaio sono caduti sull’isola di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, in un’area contesa tra le due Coree e teatro d’incidenti anche in passato (scaramucce navali ci sono state nel 1999, nel 2002 e, da ultimo, l’anno scorso). Recentemente, il Nord aveva a più riprese protestato per le manovre militari del Sud nella zona. Yeonpyeong è a sud della linea di demarcazione tracciata dall’Onu, ma è a nord della linea di divisione rivendicata da Pyongyang. L’isola, sede di un distaccamento militare sud-coreano, ha circa 1.500 abitanti, che sono stati precauzionalmente invitati a lasciare le loro case. Il bilancio delle vittime cita, fra i 18 feriti, cinque militari gravi e cinque civili. Una decina gli edifici distrutti.
Si ignora se la risposta sudcoreana –80 i colpi d’artiglieria sparati- abbia avuto conseguenze. Il comando supremo nordcoreano ha pero’ minacciato «attacchi senza pietà, senza esitazione, se il nemico osasse invadere le acque territoriali noirdcoreane non fosse che per 0,01 millimetri».
L’incertezza sulle cause della provocazione è massima. L’inquietudine dell’Occidente per le capacità nucleari nordcoreane, accresciuta dalle recenti rivelazioni, coinvolge la Cina, che esprime «preoccupazione» e giudica «imperativo» il rilancio dei negoziati con Pyongyang, condotti a lungo con una formula a sei (le due Coree, Usa, Giappone, Russia e Cina, con Pechino nel ruolo di ospite e regista).
Ma l’episodio di ieri coincide con una fase di transizione interna al regime: il dittatore Kim Jong-Il sta lasciando il potere, ereditato dal padre Kim Il-Sung, al proprio figlio minore Kim Jong-Un. Il passaggio di consegne ‘familiare’ puo’ forse innescare tensioni e incontrare resistenze in un sistema blindato e difficilissimo da penetrare. Solo ipotesi, dunaue, sulle ragioni della provocazione : internazionali –farsi ricordare da Pechino, Mosca, Washington-, bilaterali –mandare un monito a Seul, che ha recentemente abbandonato il processo di riavvicinamento tra le due Corre-, oppure interne (coprire, sotto il telone d’una minaccia internazionale, guerre di successione, beghe di palazzo o persino malumori popolari, magari legati alle persistenti difficoltà alimentari nel Paese, con conseguenti repressioni).
Rifiuti: Ue, per Napoli l'Italia, dopo il giallo, rischia il rosso
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/11/2010
Allo Charlemagne, il palazzo a stella di cristallo sede della Commissione europea, aspettano il suo rapporto. Ma lei, Pia Buccella, direttrice agli Affari Giuridici della direzione generale per l’ambiente dell’Esecutivo comunitario, mica l’ultima arrivata nell’eurocrazia bruxellese, non ha nascosto le sue impressioni, ispezionando, lunedi’ e martedi’, gli eco-disastri della Campania: rispetto al 2008, «poco o nulla è cambiato»; e la chiave di volta del problema “resta Napoli», che «deve fare un grandissimo sforzo per la raccolta differenziata ».
Se la Buccella, che guida il team degli esperti dell’Ue, metterà nero su bianco valutazioni cosi’ negative, la Commissione potrebbe mettere di nuovo l’Italia sotto accusa, come già fece tre anni or sono. Al Berlaymont, il rapporto dei due ispettori è atteso « in settimana », dice Jo Hennon, portavoce del commissario all’ambiente Janez Potocnik. Ma le prime indicazioni dal terreno paiono avallare i timori espressi dal commissario sloveno nei giorni scorsi. Hennon fa il punto: « Il problema è molto grave. Le autorità italiane non hanno fatto abbastanza per porvi rimedio. Vogliamo vedere fatti », non bastano più le dichiarazioni, le promesse, gli impegni, i piani che restano sulla carta.
Fin quando non avrà il rapporto degli ispettori, Potocnik non faà dichiarazioni. In base a quanto gli esperti riferiranno, la Commissione deve decidere se provare prima a dare una mano alle autorità locali, «spiegando bene loro quali sono le loro responsabilità», o se aprire subito una seconda procedura d’infrazione davanti alla Corte di Giustizia europea di Lussemburgo, come fece nel 2007.
L’Italia infatti è già stata condannata dalla Corte per infrazione alla direttiva del 2006 relativa alla gestione dei rifiuti: i giudici hanno ritenuto che, in mancanza di una rete adeguata e integrata di impianti per valorizzare ed eliminare i rifiuti vicino ai luoghi di produzione degli stessi, non erano state prese tutte le misure necessarie per evitare rischi per la salute umana e danni all’ambiente.
La sentenza è del 5 marzo, ma le sue conseguenze erano state sospese dall’annuncio del varo di un piano di gestione dei rifiuti. Che, sotto gli occhi della Buccella, s’è pero’ rivelato poco efficace o per nulla attuato. L’Italia rischia, ora, di pagare l’impatto, anche finanziario, della prima condanna e avviarsi a subirne un’altra.
Ufficialmente, il mandato degli ispettori era quello di valutare come la Commissione possa aiutare l’Italia: l’aveva chiesto il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo al commissario Potocnik, in un incontro al vertice mondiale sulla biodiversità, a Nagoya, in Giappone, a fine ottobre. La missione della Buccella e di un suo collega è, dunque, la risposta alla richiesta della Prestigiacomo. Ma le autorità italiane e campane sanno bene che, dal 23 ottobre, la recrudescenza della crisi dei rifiuti e l’inefficace attuazione del loro piano sono oggetto d’una stretta sorveglianza da parte dell’Esecutivo comunitario.
Con il rapporto degli ispettori, i miasmi dei rifiuti campani saliranno al 13.o piano, quello ‘nobile’, del palazzo della Commissione. E la pazienza, prima di passare all’azione, non sarà molta.
Allo Charlemagne, il palazzo a stella di cristallo sede della Commissione europea, aspettano il suo rapporto. Ma lei, Pia Buccella, direttrice agli Affari Giuridici della direzione generale per l’ambiente dell’Esecutivo comunitario, mica l’ultima arrivata nell’eurocrazia bruxellese, non ha nascosto le sue impressioni, ispezionando, lunedi’ e martedi’, gli eco-disastri della Campania: rispetto al 2008, «poco o nulla è cambiato»; e la chiave di volta del problema “resta Napoli», che «deve fare un grandissimo sforzo per la raccolta differenziata ».
Se la Buccella, che guida il team degli esperti dell’Ue, metterà nero su bianco valutazioni cosi’ negative, la Commissione potrebbe mettere di nuovo l’Italia sotto accusa, come già fece tre anni or sono. Al Berlaymont, il rapporto dei due ispettori è atteso « in settimana », dice Jo Hennon, portavoce del commissario all’ambiente Janez Potocnik. Ma le prime indicazioni dal terreno paiono avallare i timori espressi dal commissario sloveno nei giorni scorsi. Hennon fa il punto: « Il problema è molto grave. Le autorità italiane non hanno fatto abbastanza per porvi rimedio. Vogliamo vedere fatti », non bastano più le dichiarazioni, le promesse, gli impegni, i piani che restano sulla carta.
Fin quando non avrà il rapporto degli ispettori, Potocnik non faà dichiarazioni. In base a quanto gli esperti riferiranno, la Commissione deve decidere se provare prima a dare una mano alle autorità locali, «spiegando bene loro quali sono le loro responsabilità», o se aprire subito una seconda procedura d’infrazione davanti alla Corte di Giustizia europea di Lussemburgo, come fece nel 2007.
L’Italia infatti è già stata condannata dalla Corte per infrazione alla direttiva del 2006 relativa alla gestione dei rifiuti: i giudici hanno ritenuto che, in mancanza di una rete adeguata e integrata di impianti per valorizzare ed eliminare i rifiuti vicino ai luoghi di produzione degli stessi, non erano state prese tutte le misure necessarie per evitare rischi per la salute umana e danni all’ambiente.
La sentenza è del 5 marzo, ma le sue conseguenze erano state sospese dall’annuncio del varo di un piano di gestione dei rifiuti. Che, sotto gli occhi della Buccella, s’è pero’ rivelato poco efficace o per nulla attuato. L’Italia rischia, ora, di pagare l’impatto, anche finanziario, della prima condanna e avviarsi a subirne un’altra.
Ufficialmente, il mandato degli ispettori era quello di valutare come la Commissione possa aiutare l’Italia: l’aveva chiesto il ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo al commissario Potocnik, in un incontro al vertice mondiale sulla biodiversità, a Nagoya, in Giappone, a fine ottobre. La missione della Buccella e di un suo collega è, dunque, la risposta alla richiesta della Prestigiacomo. Ma le autorità italiane e campane sanno bene che, dal 23 ottobre, la recrudescenza della crisi dei rifiuti e l’inefficace attuazione del loro piano sono oggetto d’una stretta sorveglianza da parte dell’Esecutivo comunitario.
Con il rapporto degli ispettori, i miasmi dei rifiuti campani saliranno al 13.o piano, quello ‘nobile’, del palazzo della Commissione. E la pazienza, prima di passare all’azione, non sarà molta.
SPIGOLI: Buon Compleanno, Italia! Ma l'unità è persa...
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/11/2010
“Buon Compleanno!”, Italia: l’augurio è dell’Economist, che pero’ ricorda subito che il Bel Paese “celebra i suoi 150 anni con la cinghia tirata” e i nervi tesi. Una vignetta mostra l’Italia come una torta di compleanno tagliata in due da una spada.: «Sarebbe paradossale (ma del tutto italiano) se l'anno del 150.mo anniversario, invece d’essere quello dell’esaltazione dell'unità nazionale, vedesse l'aspra lotta tra settentrionali e meridionali», che di disputano, persino, «la vera anima» dell’italica destra. Ma che compleanno è?, sommersi a Napoli dalla spazzatura materiale e a Roma da quella politica. I rifiuti campani continuano a fare sentire la loro puzza sulla stampa internazionale, dall’Independent (montagne di rifiuti continuano ad appestare Napoli) ad El Pais, che si preoccupa di tenere l’immondizia di Napoli lotana dall’Andalusia. Quanto alla politica, c’è chi corre dietro a Saviano e alle tante beghe televisive (Le Monde) e chi corre dietro alla Carfagna (Libération). La vicenda dell’ex miss divenuta ministra che molla Berlusconi è, da giorni, un grande successo editoriale europeo: tutti ci sono passati, chi cedendo all’ammiccamento e chi limitandosi a registrare l’annuncio delle dimissioni come «un colpo per il governo» (Reuters). Curiosamente, lunedi’ due giornali dall’approccio molto diverso a Mr B avevano titoli simili: «Berlusconi al crepuscolo» (Le Figaro) e «L'oscurità su Berlusconi» (El Pais).
“Buon Compleanno!”, Italia: l’augurio è dell’Economist, che pero’ ricorda subito che il Bel Paese “celebra i suoi 150 anni con la cinghia tirata” e i nervi tesi. Una vignetta mostra l’Italia come una torta di compleanno tagliata in due da una spada.: «Sarebbe paradossale (ma del tutto italiano) se l'anno del 150.mo anniversario, invece d’essere quello dell’esaltazione dell'unità nazionale, vedesse l'aspra lotta tra settentrionali e meridionali», che di disputano, persino, «la vera anima» dell’italica destra. Ma che compleanno è?, sommersi a Napoli dalla spazzatura materiale e a Roma da quella politica. I rifiuti campani continuano a fare sentire la loro puzza sulla stampa internazionale, dall’Independent (montagne di rifiuti continuano ad appestare Napoli) ad El Pais, che si preoccupa di tenere l’immondizia di Napoli lotana dall’Andalusia. Quanto alla politica, c’è chi corre dietro a Saviano e alle tante beghe televisive (Le Monde) e chi corre dietro alla Carfagna (Libération). La vicenda dell’ex miss divenuta ministra che molla Berlusconi è, da giorni, un grande successo editoriale europeo: tutti ci sono passati, chi cedendo all’ammiccamento e chi limitandosi a registrare l’annuncio delle dimissioni come «un colpo per il governo» (Reuters). Curiosamente, lunedi’ due giornali dall’approccio molto diverso a Mr B avevano titoli simili: «Berlusconi al crepuscolo» (Le Figaro) e «L'oscurità su Berlusconi» (El Pais).
martedì 23 novembre 2010
Pena di morte: Asia, Sakiné, Tareq, la borsa della vita
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2010
Asia Bibi, la pakistana cristiana condannata a morte per blasfemia, è innocente, è stata graziata, e libera; o, forse, non è (ancora) vero che sia libera. Ma le pressioni del Papa, dell’Ue, della comunità internazionale, hanno effetto. Un esito scontato dall’inizio? Forse: il Pakistan, con la condanna di Bibi, fa il gioco della sua componente integralista islamica. Ma, poi, con la marcia indietro, mostra il suo lato tollerante occidentale.
Le pena di morte e i diritti dell’uomo come strumento di politica estera, talora nobile e ‘alta’, come l’ ‘ingerenza umanitaria’ che ispiro’ nel 1993 l’intervento in Somalia, ma spesso cinica e interessata: prove di forza per mostrare i muscoli con l’impiccagione del Jordi di turno o di un dittatore deposto. Storia vecchia, che le cronache riportano in prima pagina in questi giorni con martellante ripetitività : le condanne a morte, finora non eseguite e che forse non saranno mai eseguite, di Sakiné Mohammadi Ashtiani in Iran, di Tareq Aziz in Iraq, proprio di Asia in Pakistan ne offrono versioni diverse ma simili, tutte condite di elementi di politica interna. Un minimo comune denominatore è che la giustizia, umana o divina che sia, e il rispetto dei codici non sono all’origine di quelle sentenze; e che il modo in cui sono gestite, dopo essere state emesse, è tutto politico, quasi indipendente dalla lettera del diritto.
Fra i grandi dispensatori di condanne capitali, alcuni come gli Usa, la Cina, anche l’Arabia saudita, non ne fanno mai uno strumento di politica estera. Gli Stati Uniti possono talora subire, con qualche fastidio, le pressioni internazionali perchè questo o quel condannato abbia salva la vita, ma non vi prestano mai ascolto. E Pechino e Riad gestiscono la loro giustizia senza ingerenze esterne (anche perchè poco ne trapela).
Ma casi come quelli della donna iraniana condannata a morte per concorso nell’omicidio del marito, dopo essere già stata fustigata come adultera; o dell’ex ministro degli esteri e vice-premier iracheno condannato per i crimini del regime
di Saddam Hussein; o della pakistana cristiana appaiono intrecci calcolati di considerazioni politiche. E le pressioni internazionali, utili certo ad evitare le esecuzioni, possono anche servire alla causa dei governi boia.
L’Iraq fa subire a Tareq Aziz una legge del taglione etnico-religiosa –una vendetta di sciiti sui sunniti-, ma un presidente curdo ristabilisce la rispettabilità del suo Paese. La partita dell’Iran su Sakiné è la più complessa : il caso scoppia, probabilmente, fra le mani del regime di Teheran in modo inatteso, ma viene poi gestito tenendo in bilico sia la sorte della donna che l’ansia del mondo. E quando gli Usa offrono all’Iran il destro di un caso analogo con tanto d’avvenuta esecuzione, quello di Teresa Lewis, il presidente Ahmadinejad lo sfrutta a proprio favore.
Discorsi analoghi valgono per i Nobel della Pace, e talora della letteratura, che spesso vanno a dissidenti che in patria sono criminali. Accadde ai tempi della Guerra Fredda, ad esempio con Aleksandr Solzenicyn e con Lech Walesa; ed è poi accaduto di nuovo con il Dalai Lama e quest’anno con il dissidente cinese Liu Xiaobo.
Ma il Comitato per il Nobel non fa solo scelte politiche imbarazzanti per l’Urss, quando c’era, e la Cina. O, in antitesi, scelte di deferenza verso i Grandi del Mondo, come ad esempio il Nobel per la Letteratura a Winston Churchill, chè dargli quello per la pace proprio non si poteva, o quello andato sulla fiducia al presidente Obama. E non c’era mai stato un leader Usa cosi’ bersagliato da Nobel contro come George W. Bush: mentre stava alla Casa Bianca a menare guerre ovunque gli veniva il ghiribizzo, i signori di Oslo premiavano prima Jimmy Carter, un suo predecessore ‘buonista’, e poi Al Gore, l’avversario non battuto nelle presidenziali 2000, l’alfiere delle lotte per salvare la Terra dall’uomo.
Come la pena di morte, il Nobel è un’arma di politica internazionale a doppia lama. Un solo esempio : sei Paesi hanno declinato, senza fornire motivazione, l’invito a presenziare alla consegna del premio a Liu e altri 16 non hanno risposto. I sei sono la Cina, ovviamente, la Russia, il Kazakhstan, Cuba, l’Iraq e il Marocco: tutti Paesi che non sono avamposti della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e che fanno cosi’ capire che loro il premio al dissidente non lo condividono mica tanto, anzi per nulla.
Asia Bibi, la pakistana cristiana condannata a morte per blasfemia, è innocente, è stata graziata, e libera; o, forse, non è (ancora) vero che sia libera. Ma le pressioni del Papa, dell’Ue, della comunità internazionale, hanno effetto. Un esito scontato dall’inizio? Forse: il Pakistan, con la condanna di Bibi, fa il gioco della sua componente integralista islamica. Ma, poi, con la marcia indietro, mostra il suo lato tollerante occidentale.
Le pena di morte e i diritti dell’uomo come strumento di politica estera, talora nobile e ‘alta’, come l’ ‘ingerenza umanitaria’ che ispiro’ nel 1993 l’intervento in Somalia, ma spesso cinica e interessata: prove di forza per mostrare i muscoli con l’impiccagione del Jordi di turno o di un dittatore deposto. Storia vecchia, che le cronache riportano in prima pagina in questi giorni con martellante ripetitività : le condanne a morte, finora non eseguite e che forse non saranno mai eseguite, di Sakiné Mohammadi Ashtiani in Iran, di Tareq Aziz in Iraq, proprio di Asia in Pakistan ne offrono versioni diverse ma simili, tutte condite di elementi di politica interna. Un minimo comune denominatore è che la giustizia, umana o divina che sia, e il rispetto dei codici non sono all’origine di quelle sentenze; e che il modo in cui sono gestite, dopo essere state emesse, è tutto politico, quasi indipendente dalla lettera del diritto.
Fra i grandi dispensatori di condanne capitali, alcuni come gli Usa, la Cina, anche l’Arabia saudita, non ne fanno mai uno strumento di politica estera. Gli Stati Uniti possono talora subire, con qualche fastidio, le pressioni internazionali perchè questo o quel condannato abbia salva la vita, ma non vi prestano mai ascolto. E Pechino e Riad gestiscono la loro giustizia senza ingerenze esterne (anche perchè poco ne trapela).
Ma casi come quelli della donna iraniana condannata a morte per concorso nell’omicidio del marito, dopo essere già stata fustigata come adultera; o dell’ex ministro degli esteri e vice-premier iracheno condannato per i crimini del regime
di Saddam Hussein; o della pakistana cristiana appaiono intrecci calcolati di considerazioni politiche. E le pressioni internazionali, utili certo ad evitare le esecuzioni, possono anche servire alla causa dei governi boia.
L’Iraq fa subire a Tareq Aziz una legge del taglione etnico-religiosa –una vendetta di sciiti sui sunniti-, ma un presidente curdo ristabilisce la rispettabilità del suo Paese. La partita dell’Iran su Sakiné è la più complessa : il caso scoppia, probabilmente, fra le mani del regime di Teheran in modo inatteso, ma viene poi gestito tenendo in bilico sia la sorte della donna che l’ansia del mondo. E quando gli Usa offrono all’Iran il destro di un caso analogo con tanto d’avvenuta esecuzione, quello di Teresa Lewis, il presidente Ahmadinejad lo sfrutta a proprio favore.
Discorsi analoghi valgono per i Nobel della Pace, e talora della letteratura, che spesso vanno a dissidenti che in patria sono criminali. Accadde ai tempi della Guerra Fredda, ad esempio con Aleksandr Solzenicyn e con Lech Walesa; ed è poi accaduto di nuovo con il Dalai Lama e quest’anno con il dissidente cinese Liu Xiaobo.
Ma il Comitato per il Nobel non fa solo scelte politiche imbarazzanti per l’Urss, quando c’era, e la Cina. O, in antitesi, scelte di deferenza verso i Grandi del Mondo, come ad esempio il Nobel per la Letteratura a Winston Churchill, chè dargli quello per la pace proprio non si poteva, o quello andato sulla fiducia al presidente Obama. E non c’era mai stato un leader Usa cosi’ bersagliato da Nobel contro come George W. Bush: mentre stava alla Casa Bianca a menare guerre ovunque gli veniva il ghiribizzo, i signori di Oslo premiavano prima Jimmy Carter, un suo predecessore ‘buonista’, e poi Al Gore, l’avversario non battuto nelle presidenziali 2000, l’alfiere delle lotte per salvare la Terra dall’uomo.
Come la pena di morte, il Nobel è un’arma di politica internazionale a doppia lama. Un solo esempio : sei Paesi hanno declinato, senza fornire motivazione, l’invito a presenziare alla consegna del premio a Liu e altri 16 non hanno risposto. I sei sono la Cina, ovviamente, la Russia, il Kazakhstan, Cuba, l’Iraq e il Marocco: tutti Paesi che non sono avamposti della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e che fanno cosi’ capire che loro il premio al dissidente non lo condividono mica tanto, anzi per nulla.
SPIGOLI: un preservativo rende superstar il papa scipito
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2010
Benedetto XVI SuperStar: a Papa Ratzinger, non capita spesso come al suo predecessore di suscitare l’interesse della stampa mondiale, se non è per una gaffe sugli ebrei o per le vicende di pedofilia – attenzioni di cui farebbe volentieri a meno -. E, invece, le anticipazioni del suo libro fanno il giro del mondo, con la libertà (condizionata) di preservativo. Nonostante il Vaticano minimizzi la portata delle dichiarazioni (Bbc), la novità papale è generalmente ben accolta, nota il FT; e il Times scrive che il pontefice «ottiene elogi in tutto il mondo per avere ammorbidito la sua posizione sui condom”. Le parole di Benedetto XVI ravvivano il dibattito interno alla Chiesa: « Il Papa si allontana dal divieto totale dei condom », dice il Guardian, che in un blog parlare di «inversione di marcia» e secondo cui, nei commenti dei fedeli, «il timore dell’Aids viene dopo timore di Dio». L’Independent, che ha un editoriale dal titolo forte (Poche parole che possono rivelarsi un momento rivoluzionario), ritiene che Benedetto XVI "dà speranza a chi combatte l’Aids». Nel mondo cattolico europeo, in Spagna come in Francia, e anche in America, c’è più prudenza che nella stampa inglese: Le Monde segnala un «sì ma» di Papa Ratzinger al preservativo; e i mediq americani s’interrogano su che cosa veramente il pontefice volesse dire tra anticipazioni, smentite e precisazioni. Il Vaticano è pure al centro dell’attenzione per il concistoro con la creazione di 24 nuovi cardinali che cambiano il collegio elettorale. Per Le Monde, Benedetto XVI «prepara cosi’ la sua successione».
Benedetto XVI SuperStar: a Papa Ratzinger, non capita spesso come al suo predecessore di suscitare l’interesse della stampa mondiale, se non è per una gaffe sugli ebrei o per le vicende di pedofilia – attenzioni di cui farebbe volentieri a meno -. E, invece, le anticipazioni del suo libro fanno il giro del mondo, con la libertà (condizionata) di preservativo. Nonostante il Vaticano minimizzi la portata delle dichiarazioni (Bbc), la novità papale è generalmente ben accolta, nota il FT; e il Times scrive che il pontefice «ottiene elogi in tutto il mondo per avere ammorbidito la sua posizione sui condom”. Le parole di Benedetto XVI ravvivano il dibattito interno alla Chiesa: « Il Papa si allontana dal divieto totale dei condom », dice il Guardian, che in un blog parlare di «inversione di marcia» e secondo cui, nei commenti dei fedeli, «il timore dell’Aids viene dopo timore di Dio». L’Independent, che ha un editoriale dal titolo forte (Poche parole che possono rivelarsi un momento rivoluzionario), ritiene che Benedetto XVI "dà speranza a chi combatte l’Aids». Nel mondo cattolico europeo, in Spagna come in Francia, e anche in America, c’è più prudenza che nella stampa inglese: Le Monde segnala un «sì ma» di Papa Ratzinger al preservativo; e i mediq americani s’interrogano su che cosa veramente il pontefice volesse dire tra anticipazioni, smentite e precisazioni. Il Vaticano è pure al centro dell’attenzione per il concistoro con la creazione di 24 nuovi cardinali che cambiano il collegio elettorale. Per Le Monde, Benedetto XVI «prepara cosi’ la sua successione».
domenica 21 novembre 2010
Nato: Afghanistan, ok a transizione da 2011, durata incerta
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/11/2010
Tutti contenti. Il presidente statunitense Barack Obama dice che l’Alleanza non è mai stata così forte e torna a casa soddisfatto, dopo avere passato quasi due settimane a zonzo per il Mondo, sperando di godersi qualche giorno tranquillo con la Festa del Ringraziamento in arrivo (mercoledì, potrà ‘graziare’ un tacchino delle decine di milioni immolati il giorno dopo sulle tavole americane). E tutti gli altri leader formulano giudizi positivi: Silvio Berlusconi, che ha il gusto dell’enfasi, esprime una gioia “enorme”. Anche il presidente afghano Hamid Karzai appare sollevato: il periodo di transizione comincerà l’anno prossimo, ma non è proprio certo quando finirà.
Il vertice atlantico di Lisbona, il 22.o nella storia della Nato, si conclude senza sorprese e senza sussulti: i leader approvano il nuovo concetto strategico dell’Alleanza e la riforma delle strutture collegata, varano i piani per lo scudo anti-missile con il coinvolgimento della Russia, tratteggiano una strategia di disimpegno dall’Afghanistan che passa attraverso negoziati con i talebani e l’addestramento delle forze locali.
Proprio sull’Afghanistan, dove la guerra non è mai stata così cruenta come quest’anno, le idee non sono però chiarissime. Il periodo di transizione dovrebbe andare dal 2011 al 2014, ma Obama, secondo cui l’Isaf sul terreno sta frenando l’offensiva dei talebani, dice di non avere ancora deciso se truppe Usa resteranno a combattere nel Paese dopo quella data e afferma che, comunque, vi sarà mantenuta una forza anti-terrorismo, almeno fin quando al Qaida sarà una minaccia. Il premier britannico David Cameron esclude che truppe da combattimento britanniche restino in Afghanistan dal 2015. Berlusconi, invece, afferma che il 2014 non segnerà la fine della presenza dell’Italia -ma forse si riferisce agli istruttori-, mentre il ministro della difesa Ignazio La Russa fa marcia indietro sulle bombe a bordo degli Amx Ghibli: “Abbiamo deciso che non c’è bisogno di armarli”, rivela, dopo avere lanciato lui stesso l’ipotesi in ottobre, dopo la perdita di quattro uomini del contingente. Vedremo: i leader i oggi potrebbero non essere più al potere nel 2014 e, quindi, i loro impegni hanno un valore relativo.
L’Italia, che, di questi tempi, non ha molte soddisfazioni sulla scena internazionale, intasca, riferiscono le fonti ufficiali, ringraziamenti da tutte le parti: americani, russi, afghani. Berlusconi, che spende più tempo a rispondere a domande sulla crisi che sulla Nato, sostiene, ovviamente, d’avere tessuto lui la tela della riconciliazione tra Obama e il presidente russo Dmitri Medvedev, che non risulta abbiano mai litigato. Concretamente, l’Italia ottiene la proroga fino al 2012 dei mandati dell’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla presidenza del comitato militare Nato e dell’ambasciatore Claudio Bisogniero a vice-segretario generale dell’Alleanza.
L’attuazione del nuovo concetto strategico non sarà indolore, al quartier generale atlantico a Evere, periferia di Bruxelles: gli effettivi militari e civili saranno ridotti del 35%, oltre un terzo, da 13mila a 9mila, le agenzie scenderanno da 14 a tre, i comandi da 11 a 6 o 7, i 400 comitati a 85. La scelta del rigore, frutto della crisi, colpisce pure la Nato.
A Obama toccherà, nel 2012, già nel pieno del clima delle elezioni presidenziali, ospitare negli Usa il prossimo vertice atlantico. Di qui ad allora, lo scudo anti-missile avrà forse mosso qualche passo concreto e il senato americano, che un po’ recalcitra, avrà forse ratificato il nuovo trattato Start Usa-Russia sul disarmo nucleare: a Lisbona, l’appoggio alla ratifica è stato “straordinario”.
Tutti contenti. Il presidente statunitense Barack Obama dice che l’Alleanza non è mai stata così forte e torna a casa soddisfatto, dopo avere passato quasi due settimane a zonzo per il Mondo, sperando di godersi qualche giorno tranquillo con la Festa del Ringraziamento in arrivo (mercoledì, potrà ‘graziare’ un tacchino delle decine di milioni immolati il giorno dopo sulle tavole americane). E tutti gli altri leader formulano giudizi positivi: Silvio Berlusconi, che ha il gusto dell’enfasi, esprime una gioia “enorme”. Anche il presidente afghano Hamid Karzai appare sollevato: il periodo di transizione comincerà l’anno prossimo, ma non è proprio certo quando finirà.
Il vertice atlantico di Lisbona, il 22.o nella storia della Nato, si conclude senza sorprese e senza sussulti: i leader approvano il nuovo concetto strategico dell’Alleanza e la riforma delle strutture collegata, varano i piani per lo scudo anti-missile con il coinvolgimento della Russia, tratteggiano una strategia di disimpegno dall’Afghanistan che passa attraverso negoziati con i talebani e l’addestramento delle forze locali.
Proprio sull’Afghanistan, dove la guerra non è mai stata così cruenta come quest’anno, le idee non sono però chiarissime. Il periodo di transizione dovrebbe andare dal 2011 al 2014, ma Obama, secondo cui l’Isaf sul terreno sta frenando l’offensiva dei talebani, dice di non avere ancora deciso se truppe Usa resteranno a combattere nel Paese dopo quella data e afferma che, comunque, vi sarà mantenuta una forza anti-terrorismo, almeno fin quando al Qaida sarà una minaccia. Il premier britannico David Cameron esclude che truppe da combattimento britanniche restino in Afghanistan dal 2015. Berlusconi, invece, afferma che il 2014 non segnerà la fine della presenza dell’Italia -ma forse si riferisce agli istruttori-, mentre il ministro della difesa Ignazio La Russa fa marcia indietro sulle bombe a bordo degli Amx Ghibli: “Abbiamo deciso che non c’è bisogno di armarli”, rivela, dopo avere lanciato lui stesso l’ipotesi in ottobre, dopo la perdita di quattro uomini del contingente. Vedremo: i leader i oggi potrebbero non essere più al potere nel 2014 e, quindi, i loro impegni hanno un valore relativo.
L’Italia, che, di questi tempi, non ha molte soddisfazioni sulla scena internazionale, intasca, riferiscono le fonti ufficiali, ringraziamenti da tutte le parti: americani, russi, afghani. Berlusconi, che spende più tempo a rispondere a domande sulla crisi che sulla Nato, sostiene, ovviamente, d’avere tessuto lui la tela della riconciliazione tra Obama e il presidente russo Dmitri Medvedev, che non risulta abbiano mai litigato. Concretamente, l’Italia ottiene la proroga fino al 2012 dei mandati dell’ammiraglio Giampaolo Di Paola alla presidenza del comitato militare Nato e dell’ambasciatore Claudio Bisogniero a vice-segretario generale dell’Alleanza.
L’attuazione del nuovo concetto strategico non sarà indolore, al quartier generale atlantico a Evere, periferia di Bruxelles: gli effettivi militari e civili saranno ridotti del 35%, oltre un terzo, da 13mila a 9mila, le agenzie scenderanno da 14 a tre, i comandi da 11 a 6 o 7, i 400 comitati a 85. La scelta del rigore, frutto della crisi, colpisce pure la Nato.
A Obama toccherà, nel 2012, già nel pieno del clima delle elezioni presidenziali, ospitare negli Usa il prossimo vertice atlantico. Di qui ad allora, lo scudo anti-missile avrà forse mosso qualche passo concreto e il senato americano, che un po’ recalcitra, avrà forse ratificato il nuovo trattato Start Usa-Russia sul disarmo nucleare: a Lisbona, l’appoggio alla ratifica è stato “straordinario”.
SPIGOLI: un timbro e Luca il cameriere canta Puccini
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/11/2010
Luca il cameriere potrà d’ora in poi deliziare senza patemi i clienti del ‘Colosseo’ di San Francisco, cantando ‘legalmente’ le sue arie liriche preferite, specie quelle di Puccini. C’è voluto il timbro d’una commissione perché il mix tutto italo-americano di pizza e bel canto fosse autorizzato, nel ristorante su Columbus Avenue, a North Beach. Il problema non era d’arte, ma di decibel: accettare che il locale doti Luca di un microfono per farsi sentire da tutti i clienti. La storia suona ‘cosa di compari’: il proprietario del ristorante si chiama Salvatore Nevigato e uno dei cronisti che se ne occupano sul San Francisco Chronicle ha nome Paolo Lucchesi. La commissione, presieduta da Ron Miguel, che suona ispanico in una delle città più multietniche d’America, ha votato netto, 5 a 1. L’unico no è venuto da Kathrin Moore, che non suona per niente latina, preoccupata dell’effetto karaoke di Nessun Dorma, con conseguente baraonda fastidiosa ai residenti. I proprietari della zona, celebri per la loro intransigenza, s’opponeva a che Luca s’esibisse, piatto di spaghetti nella destra e microfono nella sinistra. La Moore ha pure provato a fare della pulizia etnica musicale: opera sì, ma solo opera (e solo italiana). Una risata l’ha sommersa. Luca canterà, ma non prenotate subito un tavolo: ora, mette a punto il repertorio e fa le prove. L’esordio è per la stagione delle feste, che negli Usa inizia dopo il Ringraziamento, quest’anno giovedì prossimo, il 25 novembre.
Luca il cameriere potrà d’ora in poi deliziare senza patemi i clienti del ‘Colosseo’ di San Francisco, cantando ‘legalmente’ le sue arie liriche preferite, specie quelle di Puccini. C’è voluto il timbro d’una commissione perché il mix tutto italo-americano di pizza e bel canto fosse autorizzato, nel ristorante su Columbus Avenue, a North Beach. Il problema non era d’arte, ma di decibel: accettare che il locale doti Luca di un microfono per farsi sentire da tutti i clienti. La storia suona ‘cosa di compari’: il proprietario del ristorante si chiama Salvatore Nevigato e uno dei cronisti che se ne occupano sul San Francisco Chronicle ha nome Paolo Lucchesi. La commissione, presieduta da Ron Miguel, che suona ispanico in una delle città più multietniche d’America, ha votato netto, 5 a 1. L’unico no è venuto da Kathrin Moore, che non suona per niente latina, preoccupata dell’effetto karaoke di Nessun Dorma, con conseguente baraonda fastidiosa ai residenti. I proprietari della zona, celebri per la loro intransigenza, s’opponeva a che Luca s’esibisse, piatto di spaghetti nella destra e microfono nella sinistra. La Moore ha pure provato a fare della pulizia etnica musicale: opera sì, ma solo opera (e solo italiana). Una risata l’ha sommersa. Luca canterà, ma non prenotate subito un tavolo: ora, mette a punto il repertorio e fa le prove. L’esordio è per la stagione delle feste, che negli Usa inizia dopo il Ringraziamento, quest’anno giovedì prossimo, il 25 novembre.
sabato 20 novembre 2010
Nato: Obama, l'Europa al centro e la Russia nello scudo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/11/2010
Il segretario generale dell’Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen, un ex premier danese, lo definisce "il vertice più importante nella storia della Nato”, cheè gà lunga oltre 60 anni. Ma - evidentemente - al presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi non l’hanno spiegato bene, perché i lavori cominciano senza di lui, che, dopo essere arrivato a Lisbona, se ne resta dentro l’aereo al telefono.L’imbarazzante ritardo di Mr B viene ufficialmente spiegato con improbabili “ingorghi protocollari” e poi con il maltempo che batte la città, ma il presidente Usa Barack Obama, il cancelliere tedesco Angela Merkel e molti altri leader arrivano al Vertice senza batter ciglio sotto una pioggia dirotta, mentre Silvio Nostro scende la scaletta sorridente quando non piove più. E resta il dubbio che il maltempo della versione ufficiale non fosse atmosferico, ma politico, e pesasse più su Roma che su Lisbona: al telefono, c’era Mara Carfagna, ministra irritata (e in odore d’abbandono).
Politicamente, al Vertice il tempo è sereno. E’ l’occasione per l’Alleanza di adeguare il proprio ‘concetto strategico’ al nuovo credo obamiano –più dialogo e meno muscoli, rispetto alla dottrina post 11/9 bushiana- ed è l’occasione per il presidente americano di tranquillizzare i ‘vecchi’ alleati, che spesso lo sentono un po’ distratto dall’ ‘amico cinese’, confermando l’importanza dei rapporti con l’Europa. E non solo: oggi, prima della fine dei lavori del Vertice dalle conclusioni già scritte, ci saranno incontri con la Russia –le relazioni di Mosca con la Nato sono più serene, adesso che equivoci e diffidenze sullo scudo anti-missile sono superati, e col presidente afghano Hamid Karzai, che si sentirà confermare l’impegno degli Usa e della Nato nel suo Paese. Evitati, infine, gli screzi con la Turchia, che non vuole che l’Alleanza metta l’Iran fra i suoi nemici: il riferimento contestato salta e il premier turco Tayyip Erdogan può sbarcare a Lisbona sorridente e in orario, con la moglie al fianco (viso e capelli islamicamente avvolti in un velo).
A margine dei lavori, Francia e Germania ricordano ai partner europei il loro rapporto privilegiato, trovando un’intesa bilaterale sul ruolo dissuasivo degli arsenali nucleari: la Nato deve impegnarsi, come chiede Obama, per giungere all'obiettivo di un disarmo nucleare globale, ma finché esistono al mondo atomiche che possono essere usate da gruppi terroristi e potenziali nemici, la Nato deve mantenere la sua capacità di dissuasione nucleare. E lo scudo anti-missile è "complementare", ma non sostitutivo, della deterrenza nucleare.
Il Vertice vuole ridefinire le priorità dell'Alleanza nel XXI secolo: documenti da tempo discussi e preparati. Il presidente Obama e gli altri 27 leader dedicano la prima sessione plenaria ed il pranzo di lavoro proprio al 'nuovo concetto strategico' Nato e all'ambizioso progetto di scudo anti-missile per il quale si prevede, ora, un coinvolgimento della Russia “forte”. Oggi, i lavori si allargheranno ai 48 paesi delle partnership atlantiche e al presidente Karzai, per fare il punto sull'Afghanistan e varare ufficialmente la 'strategia della transizione' che prevede il graduale passaggio dal 2011 al ’14 della sicurezza del Paese dai militari della Nato alle forze locali. Sempre oggi ci sarà il Consiglio Nato-Russia, presente, per la prima volta dal 2008, cioè dal conflitto russo-georgiano, del presidente Dmitri Medvedev: un altro segno dell’avvenuto ‘reset’ delle relazioni Usa-Russia, nonostante brividi da Guerra Fredda provocati da storie di spie o di trafficanti d’armi. L’intenso programma diplomatico portoghese sarà chiuso da un tribolato vertice tra Usa e Ue: annullato in primavera, è stato ora confinato a uno scampolo del tempo di Obama tra la conclusione degli impegni ‘strategici’ e la ripartenza per Washington, dove, nelle ultime due settimana, dopo la sconfitta nelle elezioni di midterm del 2 novembre, il presidente è stato ben poco presente, tra la missione in Asia, il Vertice del G20 a Seul e quello dell’Apec a Yokohama e gli appuntamenti euro-atlantici.
In vista di Lisbona, Obama rilascia una raffica di interviste e pubblica suoi articoli (in Italia, rispettivamente, a ‘la Repubblica’ e su ‘La Stampa’). Afferma che "non c'é un legame più stretto di quello che noi americani abbiamo con voi europei. Sviluppare i rapporti con altri attori globali, come ho fatto nel mio recente viaggio in Asia, non è in contraddizione: lo fate anche voi, nell'interesse della stabilità mondiale". Negli Usa né l’Ue "possono affrontare il futuro gli uni senza gli altri. Solo il commercio transatlantico crea milioni di posti di lavoro".
Il segretario generale dell’Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen, un ex premier danese, lo definisce "il vertice più importante nella storia della Nato”, cheè gà lunga oltre 60 anni. Ma - evidentemente - al presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi non l’hanno spiegato bene, perché i lavori cominciano senza di lui, che, dopo essere arrivato a Lisbona, se ne resta dentro l’aereo al telefono.L’imbarazzante ritardo di Mr B viene ufficialmente spiegato con improbabili “ingorghi protocollari” e poi con il maltempo che batte la città, ma il presidente Usa Barack Obama, il cancelliere tedesco Angela Merkel e molti altri leader arrivano al Vertice senza batter ciglio sotto una pioggia dirotta, mentre Silvio Nostro scende la scaletta sorridente quando non piove più. E resta il dubbio che il maltempo della versione ufficiale non fosse atmosferico, ma politico, e pesasse più su Roma che su Lisbona: al telefono, c’era Mara Carfagna, ministra irritata (e in odore d’abbandono).
Politicamente, al Vertice il tempo è sereno. E’ l’occasione per l’Alleanza di adeguare il proprio ‘concetto strategico’ al nuovo credo obamiano –più dialogo e meno muscoli, rispetto alla dottrina post 11/9 bushiana- ed è l’occasione per il presidente americano di tranquillizzare i ‘vecchi’ alleati, che spesso lo sentono un po’ distratto dall’ ‘amico cinese’, confermando l’importanza dei rapporti con l’Europa. E non solo: oggi, prima della fine dei lavori del Vertice dalle conclusioni già scritte, ci saranno incontri con la Russia –le relazioni di Mosca con la Nato sono più serene, adesso che equivoci e diffidenze sullo scudo anti-missile sono superati, e col presidente afghano Hamid Karzai, che si sentirà confermare l’impegno degli Usa e della Nato nel suo Paese. Evitati, infine, gli screzi con la Turchia, che non vuole che l’Alleanza metta l’Iran fra i suoi nemici: il riferimento contestato salta e il premier turco Tayyip Erdogan può sbarcare a Lisbona sorridente e in orario, con la moglie al fianco (viso e capelli islamicamente avvolti in un velo).
A margine dei lavori, Francia e Germania ricordano ai partner europei il loro rapporto privilegiato, trovando un’intesa bilaterale sul ruolo dissuasivo degli arsenali nucleari: la Nato deve impegnarsi, come chiede Obama, per giungere all'obiettivo di un disarmo nucleare globale, ma finché esistono al mondo atomiche che possono essere usate da gruppi terroristi e potenziali nemici, la Nato deve mantenere la sua capacità di dissuasione nucleare. E lo scudo anti-missile è "complementare", ma non sostitutivo, della deterrenza nucleare.
Il Vertice vuole ridefinire le priorità dell'Alleanza nel XXI secolo: documenti da tempo discussi e preparati. Il presidente Obama e gli altri 27 leader dedicano la prima sessione plenaria ed il pranzo di lavoro proprio al 'nuovo concetto strategico' Nato e all'ambizioso progetto di scudo anti-missile per il quale si prevede, ora, un coinvolgimento della Russia “forte”. Oggi, i lavori si allargheranno ai 48 paesi delle partnership atlantiche e al presidente Karzai, per fare il punto sull'Afghanistan e varare ufficialmente la 'strategia della transizione' che prevede il graduale passaggio dal 2011 al ’14 della sicurezza del Paese dai militari della Nato alle forze locali. Sempre oggi ci sarà il Consiglio Nato-Russia, presente, per la prima volta dal 2008, cioè dal conflitto russo-georgiano, del presidente Dmitri Medvedev: un altro segno dell’avvenuto ‘reset’ delle relazioni Usa-Russia, nonostante brividi da Guerra Fredda provocati da storie di spie o di trafficanti d’armi. L’intenso programma diplomatico portoghese sarà chiuso da un tribolato vertice tra Usa e Ue: annullato in primavera, è stato ora confinato a uno scampolo del tempo di Obama tra la conclusione degli impegni ‘strategici’ e la ripartenza per Washington, dove, nelle ultime due settimana, dopo la sconfitta nelle elezioni di midterm del 2 novembre, il presidente è stato ben poco presente, tra la missione in Asia, il Vertice del G20 a Seul e quello dell’Apec a Yokohama e gli appuntamenti euro-atlantici.
In vista di Lisbona, Obama rilascia una raffica di interviste e pubblica suoi articoli (in Italia, rispettivamente, a ‘la Repubblica’ e su ‘La Stampa’). Afferma che "non c'é un legame più stretto di quello che noi americani abbiamo con voi europei. Sviluppare i rapporti con altri attori globali, come ho fatto nel mio recente viaggio in Asia, non è in contraddizione: lo fate anche voi, nell'interesse della stabilità mondiale". Negli Usa né l’Ue "possono affrontare il futuro gli uni senza gli altri. Solo il commercio transatlantico crea milioni di posti di lavoro".
SPIGOLI: Mr B, Venere, Marte, i 'rifatti' di Palazzo Chigi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/11/2010, non pubblicato, ma 'blogghizzato'
Gli interventi, definiti dal Guardian “di chirurgia estetica”, su due statue dell’Antica Roma a Palazzo Chigi appassionano la stampa estera. E il fatto che, a volerli, sia stato il premier Berlusconi suscita commenti salaci. Tanto piu’ che i ‘restauri’ erano particolari: passi per la mano di Venere, ma il pene di Marte, di cui il dio s’era trovato privato a un certo momento della sua vita, lunga ormai quasi 2200 anni, attizza doppi sensi stile Cafonal. “Nuovo pene per una statua nell’ufficio di Berlusconi’ titola esplicito il Guardian, ricordando che “l’entusiasmo” di Mr B per la chirirugia estetica “e’ ben documentato”. Se la Bbc resta compita e distaccata (il premier italiano "migliora" due statue), il Daily Mail d’indigna: “Berlusconi spende denaro del contribuente per dare mani e genitali finti a statue romane” (70 mila euro, secondo le fonti di stampa italiane citate dai media britannici). Portata in giro per il mondo da Afp ed Efe, la storiella sta pure sull’Independent, Les Echos, Nouvel Obs, Le Figaro, Liberation, Abc, El Mundo; e valica l’Atlantico per approdare al blog d’arte sul NYT: ”Statue di Marte e Venere rifatte intere” da Mr B. L’impudica vicenda del dio Marte –nel Cinquecento, il Nobil Signore di Palazzo Chigi avrebbe ordinato di coprire quelle nudita’; oggi, le vuole integre in mostra- alleggerisce per un giorno la copertura della politica di casa nostra. Ma il FT, che si sottrae ai richiami mitologici, dedica a Mr B una sezione della rubrica Lex: “Se il premier cade, il prezzo dei titoli del suo impero mediatico potrebbe crollare”. Roba da mani li’, proprio dove Marte e’ rifatto.
Gli interventi, definiti dal Guardian “di chirurgia estetica”, su due statue dell’Antica Roma a Palazzo Chigi appassionano la stampa estera. E il fatto che, a volerli, sia stato il premier Berlusconi suscita commenti salaci. Tanto piu’ che i ‘restauri’ erano particolari: passi per la mano di Venere, ma il pene di Marte, di cui il dio s’era trovato privato a un certo momento della sua vita, lunga ormai quasi 2200 anni, attizza doppi sensi stile Cafonal. “Nuovo pene per una statua nell’ufficio di Berlusconi’ titola esplicito il Guardian, ricordando che “l’entusiasmo” di Mr B per la chirirugia estetica “e’ ben documentato”. Se la Bbc resta compita e distaccata (il premier italiano "migliora" due statue), il Daily Mail d’indigna: “Berlusconi spende denaro del contribuente per dare mani e genitali finti a statue romane” (70 mila euro, secondo le fonti di stampa italiane citate dai media britannici). Portata in giro per il mondo da Afp ed Efe, la storiella sta pure sull’Independent, Les Echos, Nouvel Obs, Le Figaro, Liberation, Abc, El Mundo; e valica l’Atlantico per approdare al blog d’arte sul NYT: ”Statue di Marte e Venere rifatte intere” da Mr B. L’impudica vicenda del dio Marte –nel Cinquecento, il Nobil Signore di Palazzo Chigi avrebbe ordinato di coprire quelle nudita’; oggi, le vuole integre in mostra- alleggerisce per un giorno la copertura della politica di casa nostra. Ma il FT, che si sottrae ai richiami mitologici, dedica a Mr B una sezione della rubrica Lex: “Se il premier cade, il prezzo dei titoli del suo impero mediatico potrebbe crollare”. Roba da mani li’, proprio dove Marte e’ rifatto.
venerdì 19 novembre 2010
SPIGOLI: l'Houdini d'Italia stavolta non ne verrà fuori
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/11/2010
Vi ricordate Harry Houdini?, il mago delle fughe impossibili che riusciva a liberarsi da ogni catena e che, nella realtà cinematografica, morì imprigionato in una sorta di gabbia sul fondo dell'Hudson dopo avere fallito l'ultima sfida (in realtà, morì a 52 anni di peritonite a casa sua, qualcuno sostiene avvelenato) Bene, per il NYT, Mr B è l'Houdini della politica italiana, che questa volta « potrebbe non farcela » a scappare dalla trappola dove s'è ficcato, o lo hanno cacciato. La tesi è condivisa da El Pais, che parla, a proposito di Berlusconi di « agonia con data », il 14 dicembre, mentre la Bbc e il NouvelObs sono già proiettati sul dopo, verso « le elezioni anticipate ». Vedremo... Nell'attesa, c'è chi guarda all'opposizione, come fa Tana de Zulueta sul Guardian (« la sinistra italiana non riesce a sfruttare al meglio il declino di Berlusconi »); e c'è chi guarda al sodo, cioè ai soldi, come fa il Ft: in un pezzo non specificatamente dedicato all'Italia: « i governi bloccati sono buone notizie per i titoli ».(e quelli ballerini, di conseguenza, sono cattive notizie). Nello stesso filone, Les Echos definisce « degradati » i conti pubblici italiani -e fin lì nulla di nuovo-, mentre Abc, un po' catastroficamente, dà già per spacciate Spagna e Italia «i salvataggi impossibili» (ma come, e la Grecia?, l'Irlanda?, il Portogallo? Mi sono perso qualche passaggio).
Vi ricordate Harry Houdini?, il mago delle fughe impossibili che riusciva a liberarsi da ogni catena e che, nella realtà cinematografica, morì imprigionato in una sorta di gabbia sul fondo dell'Hudson dopo avere fallito l'ultima sfida (in realtà, morì a 52 anni di peritonite a casa sua, qualcuno sostiene avvelenato) Bene, per il NYT, Mr B è l'Houdini della politica italiana, che questa volta « potrebbe non farcela » a scappare dalla trappola dove s'è ficcato, o lo hanno cacciato. La tesi è condivisa da El Pais, che parla, a proposito di Berlusconi di « agonia con data », il 14 dicembre, mentre la Bbc e il NouvelObs sono già proiettati sul dopo, verso « le elezioni anticipate ». Vedremo... Nell'attesa, c'è chi guarda all'opposizione, come fa Tana de Zulueta sul Guardian (« la sinistra italiana non riesce a sfruttare al meglio il declino di Berlusconi »); e c'è chi guarda al sodo, cioè ai soldi, come fa il Ft: in un pezzo non specificatamente dedicato all'Italia: « i governi bloccati sono buone notizie per i titoli ».(e quelli ballerini, di conseguenza, sono cattive notizie). Nello stesso filone, Les Echos definisce « degradati » i conti pubblici italiani -e fin lì nulla di nuovo-, mentre Abc, un po' catastroficamente, dà già per spacciate Spagna e Italia «i salvataggi impossibili» (ma come, e la Grecia?, l'Irlanda?, il Portogallo? Mi sono perso qualche passaggio).
giovedì 18 novembre 2010
SPIGOLI: 14/12, una data cerchiata in rosso sull'agenda
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/11/2010
C’è una data cerchiata in rosso su tutte le agende dei corrispondenti dall’Italia: è il 14 dicembre, il ‘giorno della verità’ (politica) sulla crisi che c’è –ma non c’è. E le testate economiche, da FT alla Bloomberg passando per Les Echos, osservano che le incertezze sul futuro di Berlusconi (del governo, e non solo) si ripercuotono sui titoli di Mediaset che perdono colpi e rischiano di avere un impatto pure sul debito sovrano (Massimo Prandi sul giornale francese). Se molti media concordano con El Pais, secondo cui «il futuro politico» di Mr B si deciderà il 14 dicembre –Independent, FT, Le Monde, l’Afp, la Reuters, l’Ap e vari altri -, qualcuno, come il Times, diffida che le cose siano così semplici e attende le mosse di quello che definisce «il Cavaliere Nero». La sensazione più diffusa è, comunque, che il capo dello Stato abbia «preso in mano le redini» della situazione politica e che il 14 sia senz’appello il momento del ‘redde rationem’. Libération sceglie questo snodo per dare risalto a una serie di articoli sull’Italia accompagnati da un’analisi che suona «Berlusconi in odore di sporcizia» (un riferimento a Napoli, ma non solo, con tanto di vignetta a corredo). La stampa americana è un po’ distratta, ma martedi’ c’era andata giù pesante, dopo le dimissioni dei ministri finiani : seguendo l’Ap, il WP titolava «L'inizio della fine per Berlusconi?», mentre Newsweek scriveva «Silvio viene tirato giù».
C’è una data cerchiata in rosso su tutte le agende dei corrispondenti dall’Italia: è il 14 dicembre, il ‘giorno della verità’ (politica) sulla crisi che c’è –ma non c’è. E le testate economiche, da FT alla Bloomberg passando per Les Echos, osservano che le incertezze sul futuro di Berlusconi (del governo, e non solo) si ripercuotono sui titoli di Mediaset che perdono colpi e rischiano di avere un impatto pure sul debito sovrano (Massimo Prandi sul giornale francese). Se molti media concordano con El Pais, secondo cui «il futuro politico» di Mr B si deciderà il 14 dicembre –Independent, FT, Le Monde, l’Afp, la Reuters, l’Ap e vari altri -, qualcuno, come il Times, diffida che le cose siano così semplici e attende le mosse di quello che definisce «il Cavaliere Nero». La sensazione più diffusa è, comunque, che il capo dello Stato abbia «preso in mano le redini» della situazione politica e che il 14 sia senz’appello il momento del ‘redde rationem’. Libération sceglie questo snodo per dare risalto a una serie di articoli sull’Italia accompagnati da un’analisi che suona «Berlusconi in odore di sporcizia» (un riferimento a Napoli, ma non solo, con tanto di vignetta a corredo). La stampa americana è un po’ distratta, ma martedi’ c’era andata giù pesante, dopo le dimissioni dei ministri finiani : seguendo l’Ap, il WP titolava «L'inizio della fine per Berlusconi?», mentre Newsweek scriveva «Silvio viene tirato giù».
mercoledì 17 novembre 2010
Usa-Russia: mercante di morte estradato da Thailandia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/11/2010
Un fastidioso granello di sabbia nelle relazioni Usa-Russia, che ogni tanto s’inceppano su storie da Guerra Fredda. Un po’ a sorpresa, e in gran fretta, dopo 30 mesi di tergiversazioni, la Thailandia ha estradato negli Stati Uniti il presunto trafficante d’armi russo Viktor Bout. Una saga diplomatica e giudiziaria trascinatasi per due anni e mezzo ha visto il proprio epilogo, almeno per il momento, a bordo di un jet noleggiato dalle autorità americane, con sei agenti a fare buona scorta alla loro preda.
Bout, un ex pilota militare sovietico, soprannominato ‘il mercante della morte’, era stato arrestato a Bangkok nel marzo 2008, dopo essere caduto nella trappola di agenti americani che s’erano finti emissari delle Farc, la guerriglia colombiana. Capace di parlare sei lingue, Bout ha usato almeno sei pseudonimi nella sua ‘carriera’ e ha ispirato il personaggio interpretato da Nicolas Cage nel film ‘Lord of War’ (Il Signore della Guerra).
Il presunto trafficante rischia una condanna all’ergastolo negli Stati Uniti, dove la giustizia lo accusa di avere utilizzato una flotta di aerei cargo per vendere e trasportare armi in Medio Oriente, in Africa e in America latina, senza troppo guardare per il sottile alle “buone cause” dei suoi clienti. Lui, pero’, sostiene che la sua attività di trasporto aereo era perfettamente legale.
E le autorità di Mosca lo appoggiano. Il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov è sceso in campo in prima persona: “L’estradizione di Bout è una grave ingiustizia” e “la Russia continuerà a sostenerlo con ogni mezzo”. Proprio un altro scenario da guerra fredda, come lo scandalo delle spie esploso in primavera. Per il presidente americano Barack Obama, è allo stesso tempo un successo e un fastidio. Obama, dopo la sconfitta subita il 2 novembre nelle elezioni di midterm, cerca un riscatto sulla scena internazionale, ma la stagione dei vertici d’Autunno è stata finora deludente : il G20 di Seul e l’Apec di Yokohama, la scorsa settimana, sono stati poco più che festival di parole; e il Vertice atlantico di venerdi’ e sabato a Lisbona, che deve varare il nuovo concetto strategico atlantico, cosi’ come il Vertice USA-Ue di sabato, sempre nella capitale portoghese, non promettono scintille. Anzi, l’incidente di percorso con la Russia potrebbe gettare un’ombra sugli appuntamenti euro-atlantici.
Con l’estradizione, Bangkok ha fatto una scelta tra Washington, suo alleato storico e tuttora essenziale, e Mosca, partner commerciale di primo piano/ a sottolinearne l’importanza e la delicatezza, l’annuncio dell’avvenuta consegna agli Stati Uniti è stato fatto dal governo.
Tagiko di nascita, 43 anni, Viktor Bout è stato ufficiale dell'aeronautica e fors’anche –ma lui nega- agente del Kgb, prima di darsi agli affari (e al traffico delle armi, se l’accusa è fondata). Bout era stato arrestato nel marzo 2008 in un hotel di Bangkok, quando credeva di stare per concludere la vendita di missili e lanciagranate. Alto e massiccio, prima di perdere 30 chili nelle prigioni thailandesi, baffuto e camaleontico, è il prototipo del trafficante d’armi (se tutto quello che si racconta di lui è vero). Messosi in proprio nel caos dei primi anni della Russia post-comunista, quando era relativamente facile e poco costoso recuperare aerei e armi dagli arsenali sovietici, Bout avrebbe effettuato, negli ultimi 15 anni, consegne micidiali nelle guerre di mezzo mondo: pure in Afghanistan, senza fare distinguo fra talebani e Qaida, tutti buoni clienti.
Sfuggito alla caccia della Cia per anni, Bout sostiene di essere un uomo d’affari della logistica aerea e respinge tutte le accuse. Al momento dell’arresto, si sarebbe trovato in Thailandia “in vacanza”. Ma fin dagli Anni 90 Amnesty International lo indicava come capo di una flotta di oltre 50 aerei che consegnavano armi in Africa. E nel 2004, a causa del traffico di armi con la Liberia, venne inserito dagli Stati Uniti in una lista di uomini d'affari ‘banditi’. I quattro capi d'imputazione emessi contro di lui per attività terroristiche toccano solo una parte dei crimini attribuitigli, ma potrebbero bastare a valergli l'ergastolo.
Un fastidioso granello di sabbia nelle relazioni Usa-Russia, che ogni tanto s’inceppano su storie da Guerra Fredda. Un po’ a sorpresa, e in gran fretta, dopo 30 mesi di tergiversazioni, la Thailandia ha estradato negli Stati Uniti il presunto trafficante d’armi russo Viktor Bout. Una saga diplomatica e giudiziaria trascinatasi per due anni e mezzo ha visto il proprio epilogo, almeno per il momento, a bordo di un jet noleggiato dalle autorità americane, con sei agenti a fare buona scorta alla loro preda.
Bout, un ex pilota militare sovietico, soprannominato ‘il mercante della morte’, era stato arrestato a Bangkok nel marzo 2008, dopo essere caduto nella trappola di agenti americani che s’erano finti emissari delle Farc, la guerriglia colombiana. Capace di parlare sei lingue, Bout ha usato almeno sei pseudonimi nella sua ‘carriera’ e ha ispirato il personaggio interpretato da Nicolas Cage nel film ‘Lord of War’ (Il Signore della Guerra).
Il presunto trafficante rischia una condanna all’ergastolo negli Stati Uniti, dove la giustizia lo accusa di avere utilizzato una flotta di aerei cargo per vendere e trasportare armi in Medio Oriente, in Africa e in America latina, senza troppo guardare per il sottile alle “buone cause” dei suoi clienti. Lui, pero’, sostiene che la sua attività di trasporto aereo era perfettamente legale.
E le autorità di Mosca lo appoggiano. Il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov è sceso in campo in prima persona: “L’estradizione di Bout è una grave ingiustizia” e “la Russia continuerà a sostenerlo con ogni mezzo”. Proprio un altro scenario da guerra fredda, come lo scandalo delle spie esploso in primavera. Per il presidente americano Barack Obama, è allo stesso tempo un successo e un fastidio. Obama, dopo la sconfitta subita il 2 novembre nelle elezioni di midterm, cerca un riscatto sulla scena internazionale, ma la stagione dei vertici d’Autunno è stata finora deludente : il G20 di Seul e l’Apec di Yokohama, la scorsa settimana, sono stati poco più che festival di parole; e il Vertice atlantico di venerdi’ e sabato a Lisbona, che deve varare il nuovo concetto strategico atlantico, cosi’ come il Vertice USA-Ue di sabato, sempre nella capitale portoghese, non promettono scintille. Anzi, l’incidente di percorso con la Russia potrebbe gettare un’ombra sugli appuntamenti euro-atlantici.
Con l’estradizione, Bangkok ha fatto una scelta tra Washington, suo alleato storico e tuttora essenziale, e Mosca, partner commerciale di primo piano/ a sottolinearne l’importanza e la delicatezza, l’annuncio dell’avvenuta consegna agli Stati Uniti è stato fatto dal governo.
Tagiko di nascita, 43 anni, Viktor Bout è stato ufficiale dell'aeronautica e fors’anche –ma lui nega- agente del Kgb, prima di darsi agli affari (e al traffico delle armi, se l’accusa è fondata). Bout era stato arrestato nel marzo 2008 in un hotel di Bangkok, quando credeva di stare per concludere la vendita di missili e lanciagranate. Alto e massiccio, prima di perdere 30 chili nelle prigioni thailandesi, baffuto e camaleontico, è il prototipo del trafficante d’armi (se tutto quello che si racconta di lui è vero). Messosi in proprio nel caos dei primi anni della Russia post-comunista, quando era relativamente facile e poco costoso recuperare aerei e armi dagli arsenali sovietici, Bout avrebbe effettuato, negli ultimi 15 anni, consegne micidiali nelle guerre di mezzo mondo: pure in Afghanistan, senza fare distinguo fra talebani e Qaida, tutti buoni clienti.
Sfuggito alla caccia della Cia per anni, Bout sostiene di essere un uomo d’affari della logistica aerea e respinge tutte le accuse. Al momento dell’arresto, si sarebbe trovato in Thailandia “in vacanza”. Ma fin dagli Anni 90 Amnesty International lo indicava come capo di una flotta di oltre 50 aerei che consegnavano armi in Africa. E nel 2004, a causa del traffico di armi con la Liberia, venne inserito dagli Stati Uniti in una lista di uomini d'affari ‘banditi’. I quattro capi d'imputazione emessi contro di lui per attività terroristiche toccano solo una parte dei crimini attribuitigli, ma potrebbero bastare a valergli l'ergastolo.
SPIGOLI: nell'Italia di Mr B, la donna resta cenerentola
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/11/2010
Donna è bello. Ma in Italia è anche duro. Newsweek, in apertura del sito, denuncia « il problema donna dell'Italia », rivelando che siamo solo « 74.mi al Mondo per la questione femminile » : un piazzamento non proprio invidiabile, E mentre il WSJ racconta che alcune donne italiane hanno formato il Club Valore D « per contrastare un mondo degli affari dominato dai maschi », Newsweek sostiene che « Berlusconi non è l’unico da incolpare » per l’italica arretratezza rispetto a veline e cenerentole, anche se Mr B ha una quota di responsabilità : ai commenti, il settimanale preferisce una ‘photo gallery’ di italiane che sfidano gli stereotipi della donna oggetto o mamma, accanto a una grande immagine del premier che guarda Federica Pellegrini (ovviamente, dal basso in alto). Che l’Italia non brilli per l’attenzione alle donne, lo conferma l’associazione francese ‘Choisir – La cause des femmes’, che vuole introdutture nell’Ue la « clausola dell’europea più favorita » : ognuno dei 27 dovrebbe impegnarsi ad adottare la legge più avanzata esistente nell’Unione per la vita professionale e familiare, la maternità, la lotta contro la violenza, la parità politica. ‘Choisir’ ha confrontato le norme esistenti e ne ha selezionate 14: nessuna è italiana, nonostante la gamma dei Paesi modello sia ampia, da quelli scandinavi –era scontato- alla Lituania, campione nell’affrontare i problemi della prostituzione, via Francia, Benelux, Germania e Spagna.
Donna è bello. Ma in Italia è anche duro. Newsweek, in apertura del sito, denuncia « il problema donna dell'Italia », rivelando che siamo solo « 74.mi al Mondo per la questione femminile » : un piazzamento non proprio invidiabile, E mentre il WSJ racconta che alcune donne italiane hanno formato il Club Valore D « per contrastare un mondo degli affari dominato dai maschi », Newsweek sostiene che « Berlusconi non è l’unico da incolpare » per l’italica arretratezza rispetto a veline e cenerentole, anche se Mr B ha una quota di responsabilità : ai commenti, il settimanale preferisce una ‘photo gallery’ di italiane che sfidano gli stereotipi della donna oggetto o mamma, accanto a una grande immagine del premier che guarda Federica Pellegrini (ovviamente, dal basso in alto). Che l’Italia non brilli per l’attenzione alle donne, lo conferma l’associazione francese ‘Choisir – La cause des femmes’, che vuole introdutture nell’Ue la « clausola dell’europea più favorita » : ognuno dei 27 dovrebbe impegnarsi ad adottare la legge più avanzata esistente nell’Unione per la vita professionale e familiare, la maternità, la lotta contro la violenza, la parità politica. ‘Choisir’ ha confrontato le norme esistenti e ne ha selezionate 14: nessuna è italiana, nonostante la gamma dei Paesi modello sia ampia, da quelli scandinavi –era scontato- alla Lituania, campione nell’affrontare i problemi della prostituzione, via Francia, Benelux, Germania e Spagna.
martedì 16 novembre 2010
SPIGOLI: dalla tragedia alla farsa, il breve passo italiano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/11/2010
Trasformare le tragedie in farse: l’Italia, che di drammi ne vive un sacco, spesso reali, talora un po’ ‘teatralizzati’, ci riesce di continuo, per il sorriso un po’ irridente della stampa estera. Ieri i casi si sprecavano, a cominciare dallo sport : il harakiri della Ferrari si presta da solo alle peggiori ironie, ma il ministro Calderoli ci mette del suo con la richiesta di dimissioni di Luca di Montezemolo, ispirata più dall’antipatia politica per il presidente della Ferrari che dalla passione per le ‘rosse’ -fossero verdi i bolidi di Maranello, lo si capirebbe-. I giornali spagnoli, che non hanno più lacrime per piangere il ‘povero’ Alonso buggerato dalla sua squadra, trovano nella sortita leghista il conforto d’una sonora risata collettiva (El Pais , El Mundo, Abc e tutti quanti). Poi c’erano i seguiti senza fine del crollo della Casa dei Gladiatori a Pompei, con le unghiate del Times (l’Italia canta, mentre Roma crolla), di Le Monde (Pompei sprofonda, simbolo di un'Italia in stato di catastrofe culturale) e di El Pais. Un salvagente all’Italia lo lancia, sul Telegraph, la storica inglese Mary Beard: alla domanda "Chi pagherà per Pompei?", la Beard replica che la manutenzione di siti del genere è troppo costosa per un solo Paese. Dunque, l’Italia da sola non puo’ farcela. Il degrado investe pure glorie culturali recenti: l’Independent dà l’addio al Gran Hotel Rimini, perchè –spiega- «la crisi fa chiudere l’hotel dove Fellini visse la dolce vita». In realtà, lui visse li’ da ‘vitellone’. Ma vai a spiegare la differenza agli inglesi.
Trasformare le tragedie in farse: l’Italia, che di drammi ne vive un sacco, spesso reali, talora un po’ ‘teatralizzati’, ci riesce di continuo, per il sorriso un po’ irridente della stampa estera. Ieri i casi si sprecavano, a cominciare dallo sport : il harakiri della Ferrari si presta da solo alle peggiori ironie, ma il ministro Calderoli ci mette del suo con la richiesta di dimissioni di Luca di Montezemolo, ispirata più dall’antipatia politica per il presidente della Ferrari che dalla passione per le ‘rosse’ -fossero verdi i bolidi di Maranello, lo si capirebbe-. I giornali spagnoli, che non hanno più lacrime per piangere il ‘povero’ Alonso buggerato dalla sua squadra, trovano nella sortita leghista il conforto d’una sonora risata collettiva (El Pais , El Mundo, Abc e tutti quanti). Poi c’erano i seguiti senza fine del crollo della Casa dei Gladiatori a Pompei, con le unghiate del Times (l’Italia canta, mentre Roma crolla), di Le Monde (Pompei sprofonda, simbolo di un'Italia in stato di catastrofe culturale) e di El Pais. Un salvagente all’Italia lo lancia, sul Telegraph, la storica inglese Mary Beard: alla domanda "Chi pagherà per Pompei?", la Beard replica che la manutenzione di siti del genere è troppo costosa per un solo Paese. Dunque, l’Italia da sola non puo’ farcela. Il degrado investe pure glorie culturali recenti: l’Independent dà l’addio al Gran Hotel Rimini, perchè –spiega- «la crisi fa chiudere l’hotel dove Fellini visse la dolce vita». In realtà, lui visse li’ da ‘vitellone’. Ma vai a spiegare la differenza agli inglesi.
domenica 14 novembre 2010
SPIGOLI: Pompei, tragedia culturale e barzelletta europea
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/11/2010
Come ti trasformo una tragedia culturale mondiale in una trista barzelletta europea. Lo raccontano per primi il Guardian e il Times, che la Campania ha destinato soldi Ue per lo sviluppo regionale a un concerto di Elton John, mentre lasciava andare in rovina i tesori di Pompei. E, nella quotidiana conferenza stampa di mezzogiorno al Berlaymont, il palazzo a stella di cristallo della Commissione, le domande fioccano: «Ma lo sapevate che spendevano soldi per Elton John mentre Pompei crollava?». No, a Bruxelles non lo sapevano, perchè la cultura non è loro competenza e pure perchè chissà come glielo avevano presentato, quel concerto. «Verificheremo», se non siamo stati gabbati. E soldi per rimettere in piedi la Casa dei Gladiatori dall’Europa ne arriveranno ? « Vedremo, se ci fanno una richiesta che rientra nei criteri di sviluppo regionale ». Non dovrebbe essere difficile, se ci rientrava Elton John. La rovina delle rovine d’Italia resta alta sulla stampa internazionale. Imbeccati dall’Ap, il Chicago Tribune e altri media Usa scrivono: "Tra le meraviglie antiche dell'Italia, la vera meraviglia è che stiano ancora in piedi nonostante le negligenze» pubbliche e private. E Nouvel Obs, l’Independent ed El Economista avvertono che altri «antichi monumenti italiani sono a rischio crollo». Il Time mette in guardia i turisti: « Sbrigatevi a prenotare il viaggio in Italia, perchè i monumenti sono il pericolo e il crollo di Pompei potrebbe essere solo l’inizio». Rimedi? Mancano i fondi, scrive Les Echos, ma –implora il Guardian- “per favore non privatizzate Pompei”. Forza Ue: la prossima volta, un concerto di Elton John alla Casa dei Gladiatori restaurata.
Come ti trasformo una tragedia culturale mondiale in una trista barzelletta europea. Lo raccontano per primi il Guardian e il Times, che la Campania ha destinato soldi Ue per lo sviluppo regionale a un concerto di Elton John, mentre lasciava andare in rovina i tesori di Pompei. E, nella quotidiana conferenza stampa di mezzogiorno al Berlaymont, il palazzo a stella di cristallo della Commissione, le domande fioccano: «Ma lo sapevate che spendevano soldi per Elton John mentre Pompei crollava?». No, a Bruxelles non lo sapevano, perchè la cultura non è loro competenza e pure perchè chissà come glielo avevano presentato, quel concerto. «Verificheremo», se non siamo stati gabbati. E soldi per rimettere in piedi la Casa dei Gladiatori dall’Europa ne arriveranno ? « Vedremo, se ci fanno una richiesta che rientra nei criteri di sviluppo regionale ». Non dovrebbe essere difficile, se ci rientrava Elton John. La rovina delle rovine d’Italia resta alta sulla stampa internazionale. Imbeccati dall’Ap, il Chicago Tribune e altri media Usa scrivono: "Tra le meraviglie antiche dell'Italia, la vera meraviglia è che stiano ancora in piedi nonostante le negligenze» pubbliche e private. E Nouvel Obs, l’Independent ed El Economista avvertono che altri «antichi monumenti italiani sono a rischio crollo». Il Time mette in guardia i turisti: « Sbrigatevi a prenotare il viaggio in Italia, perchè i monumenti sono il pericolo e il crollo di Pompei potrebbe essere solo l’inizio». Rimedi? Mancano i fondi, scrive Les Echos, ma –implora il Guardian- “per favore non privatizzate Pompei”. Forza Ue: la prossima volta, un concerto di Elton John alla Casa dei Gladiatori restaurata.
sabato 13 novembre 2010
SPIGOLI: la crisi di Mr B tra cuore e portafoglio
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 13/11/2010
C’è chi la crisi la sente al cuore e chi l’avverte nel portafoglio. Mr B l’uno e l’altro: subisce i contraccolpi della dichiarata passione per le belle donne (pure le un po’ minorenni e un po’ puttane) e, scrive il FT, avverte le difficoltà dell’impero dei media che ha creato. Mediaset va giù perchè, osserva il quotidiano economico europeo, « gli investitori sono sempre più preoccupati della stabilità della coalizione ». A leggere la stampa estera, gli investitori saranno pure confusi: per l’Independent, « il rivale di Berlusconi (cioè, Fini) non riesce a spezzare l'impasse »; mentre, per Les Echos, « i giorni del premier sono contati » ; ed El Pais afferma che « Berlusconi ignora l’ultimatum di Fini, in un clima da crisi ». Molti se la prendono con il ministro dei benio culturali Bondi, il che, a dire il vero, è un po’ fare il Maramaldo a Gavinana. Per il Telegraph, che vede allentarsi « la presa sul potere del premier », la messa sotto accusa di Bondi dopo il crollo della Casa dei Gladiatori a Pompei è « un’ulteriore umiliazione » per Mr B, « un altro colpo per il premier ferito ». Il Guardian ed Abc danno spazio al video che mostra l'ingresso delle escort nella villa di Arcore sull’auto di Lele Mora. Per una volta, un colpetto al ‘capo’, del tuttolo involontario, lo dà pure Gianni Letta, la cui battura (scherzosa, ma presa sul serio) sul governo agli sgoccioli finisce, grazie a un’Ap, su WP, Chicago Tribune e altri media Usa.
C’è chi la crisi la sente al cuore e chi l’avverte nel portafoglio. Mr B l’uno e l’altro: subisce i contraccolpi della dichiarata passione per le belle donne (pure le un po’ minorenni e un po’ puttane) e, scrive il FT, avverte le difficoltà dell’impero dei media che ha creato. Mediaset va giù perchè, osserva il quotidiano economico europeo, « gli investitori sono sempre più preoccupati della stabilità della coalizione ». A leggere la stampa estera, gli investitori saranno pure confusi: per l’Independent, « il rivale di Berlusconi (cioè, Fini) non riesce a spezzare l'impasse »; mentre, per Les Echos, « i giorni del premier sono contati » ; ed El Pais afferma che « Berlusconi ignora l’ultimatum di Fini, in un clima da crisi ». Molti se la prendono con il ministro dei benio culturali Bondi, il che, a dire il vero, è un po’ fare il Maramaldo a Gavinana. Per il Telegraph, che vede allentarsi « la presa sul potere del premier », la messa sotto accusa di Bondi dopo il crollo della Casa dei Gladiatori a Pompei è « un’ulteriore umiliazione » per Mr B, « un altro colpo per il premier ferito ». Il Guardian ed Abc danno spazio al video che mostra l'ingresso delle escort nella villa di Arcore sull’auto di Lele Mora. Per una volta, un colpetto al ‘capo’, del tuttolo involontario, lo dà pure Gianni Letta, la cui battura (scherzosa, ma presa sul serio) sul governo agli sgoccioli finisce, grazie a un’Ap, su WP, Chicago Tribune e altri media Usa.
venerdì 12 novembre 2010
SPIGOLI:il brevetto europeo non vuole parlare italiano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/11/2010
C’è una battaglia che l’Italia sta conducendo in Europa e che non ha ancora perso, nonostante la combatta tra l’ostilità di tutta stampa internazionale (con l’eccezione della spagnola: Roma e Madrid sono alleate, su questo fronte). E’ l’annosa battaglia sul regime linguistico del brevetto europeo : un progetto sul tavolo da un decennio e che le imprese considerano importante per la loro competitività. Il problema è che il brevetto europeo dovrebbe essere redatto in tre lingue, francese, inglese e tedesco, mentre Italia e Spagna non accettano l’esclusione di italiano e spagnolo. Semplificare per semplificare, allora facciamo solo inglese, suggerisce Roma, ma Madrid non dice si’ neppure a questo compromesso. Mercoledi’, c’è stata a Bruxelles l’ennesima riunione finita a notte ben fonda con l’ennesima fumata bianca. Il ministro finiano Andrea Ronchi s’era presentato facendo la voce grossa, perchè la Gran Bretagna cercava di aggirare con un artificio l’opposizione italo-spagnola (« Non negoziamo con la pistola sul tavolo, non cediamo ai ricatti ») ; e, durante la discussione, non ha neppure escluso il veto dell’Italia sulla misura. Alla fine, nulla si muove : tutto fermo, partita aperta. Se l’italiano fatica in Europa, recupera, invece, posizioni in America: NYT, WP e WSJ annunciano all’unisono che, grazie ai Cuomo, la nostra lingua ritrova il suo posto fra quelle che danno punti agli studenti che vanno all’Università.
C’è una battaglia che l’Italia sta conducendo in Europa e che non ha ancora perso, nonostante la combatta tra l’ostilità di tutta stampa internazionale (con l’eccezione della spagnola: Roma e Madrid sono alleate, su questo fronte). E’ l’annosa battaglia sul regime linguistico del brevetto europeo : un progetto sul tavolo da un decennio e che le imprese considerano importante per la loro competitività. Il problema è che il brevetto europeo dovrebbe essere redatto in tre lingue, francese, inglese e tedesco, mentre Italia e Spagna non accettano l’esclusione di italiano e spagnolo. Semplificare per semplificare, allora facciamo solo inglese, suggerisce Roma, ma Madrid non dice si’ neppure a questo compromesso. Mercoledi’, c’è stata a Bruxelles l’ennesima riunione finita a notte ben fonda con l’ennesima fumata bianca. Il ministro finiano Andrea Ronchi s’era presentato facendo la voce grossa, perchè la Gran Bretagna cercava di aggirare con un artificio l’opposizione italo-spagnola (« Non negoziamo con la pistola sul tavolo, non cediamo ai ricatti ») ; e, durante la discussione, non ha neppure escluso il veto dell’Italia sulla misura. Alla fine, nulla si muove : tutto fermo, partita aperta. Se l’italiano fatica in Europa, recupera, invece, posizioni in America: NYT, WP e WSJ annunciano all’unisono che, grazie ai Cuomo, la nostra lingua ritrova il suo posto fra quelle che danno punti agli studenti che vanno all’Università.
giovedì 11 novembre 2010
SPIGOLI: questo matrimonio non s'ha da annullare
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/11/2010
La stampa britannica è sotto choc: quella storia del matrimonio annullato perchè la donna, sposatasi in chiesa, teorizzava l’infedeltà, anche se non aveva mai tradotto in pratica le sue idee ‘libertine’, stupisce, diverte, ma anche un po’ scandalizza la stampa più seria (il Guardian e l’Independent) e i tabloid più popolari (Daily Mail). Ma come?, alla povera signora le negano pure gli alimenti solo perché aveva parlato di matrimonio aperto? Se cosi’ avesse deciso ‘solo’ la Sacra Rota, passi. Ma il fatto che la Cassazione, in forza del Concordato, abbia convalidato la sentenza del tribunale ecclesiastico sulla nullità dell’unione di una coppia bolognese e abbia cosi’ condannato la ‘teorica della scappatella’ alla perdita perpetua dell’assegno coniugale, sfugge alla comprensione dei colleghi inglesi (e mica solo alla loro). Nel Regno Unito protestante, del resto, l’attenzione per Santa Romana Chiesa è sempre molto alta (e tendenzialmente poco benevola): il Times presta attenzione alla bravata di un graffitaro che scrive ‘Lavami’ su San Pietro, come si fa sulle vetture sporche, ma annuncia pure –su tutt’altro piano- uno scontro tra cattolici e anglicani, con i vescovi d’Albione decisi a reclamare uno statuto equivalente alla Chiesa d’Inghilterra. Papa Ratzinger sul trono di San Giorgio?, o Elisabetta II sul soglio di Pietro?
La stampa britannica è sotto choc: quella storia del matrimonio annullato perchè la donna, sposatasi in chiesa, teorizzava l’infedeltà, anche se non aveva mai tradotto in pratica le sue idee ‘libertine’, stupisce, diverte, ma anche un po’ scandalizza la stampa più seria (il Guardian e l’Independent) e i tabloid più popolari (Daily Mail). Ma come?, alla povera signora le negano pure gli alimenti solo perché aveva parlato di matrimonio aperto? Se cosi’ avesse deciso ‘solo’ la Sacra Rota, passi. Ma il fatto che la Cassazione, in forza del Concordato, abbia convalidato la sentenza del tribunale ecclesiastico sulla nullità dell’unione di una coppia bolognese e abbia cosi’ condannato la ‘teorica della scappatella’ alla perdita perpetua dell’assegno coniugale, sfugge alla comprensione dei colleghi inglesi (e mica solo alla loro). Nel Regno Unito protestante, del resto, l’attenzione per Santa Romana Chiesa è sempre molto alta (e tendenzialmente poco benevola): il Times presta attenzione alla bravata di un graffitaro che scrive ‘Lavami’ su San Pietro, come si fa sulle vetture sporche, ma annuncia pure –su tutt’altro piano- uno scontro tra cattolici e anglicani, con i vescovi d’Albione decisi a reclamare uno statuto equivalente alla Chiesa d’Inghilterra. Papa Ratzinger sul trono di San Giorgio?, o Elisabetta II sul soglio di Pietro?
mercoledì 10 novembre 2010
ONU: i giganti e una poltrona per 27 cui l'Italia s'aggrappa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/11/2010
L’Italia si aggrappa alla richiesta, giusta, di un ’seggio europeo’ unico nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu per non rischiare di perdere anche la battaglia, che dura ormai da oltre 15 anni, per la riforma dell’organismo decisionale delle Nazioni Unite, dopo che i giochi sono stati sparigliati, da un giorno all’altro, dal presidente americano Barack Obama. In missione in Asia, in visita a New Delhi, lunedi’, a sorpresa, ha detto che gli Usa sono favorevoli alla richiesta dell’India di un seggio permanente.
L’Italia, che non vive un periodo diplomaticamente florido, entra in fibrillazione. A stare fuori da gruppi che contanosta facendo l’abitudine: è nel G8, che sopravvive vivacchiando, ed è nel G20, che fatica a consolidarsi; non sta, ovviamente, nel G2 mondiale Usa/Cina, che non esiste, e neppure nei G2 europei che qua e là si formano (Gran Bretagna e Francia sulla difesa e il nucleare, Francia e Germania sull’integrazione economica) e neppure nel 5 + 1 che gestisce i negoziati con l’Iran. E quando propone un G6 Ue, non trova echi positivi, anzi ne trova di negativi, persino in Polonia: Varsavia, invece di compiacersi del coinvolgimento, boccia il progetto.
La mossa di Obama mette in subbuglio la diplomazia al Palazzo di Vetro dell’Onu, dove, dalla prima metà degli Anni Novanta, si discute come migliorare efficienza e rappresentatività del Consiglio di Sicurezza, perchè possa funzionare da strumento della governance mondiale. Il Consiglio è attualmente composto da 15 membri: cinque permanenti con diritto di veto, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, tutte ‘legittimamente’ nucleari (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia) e dieci eletti con un mandato di due anni ciascuno con una qualche proporzionalità rispetto alle diverse aereee geo-politico-culturali della Terra.
Di proposte sul tappeto, ne sono state messe diverse: ambiscono ad un seggio stabile la Germania e il Giappone, l’India e il Brasile, e meno il SudAfrica e l’Egitto-. I Paesi del gruppo United for Consensus, fra cui l’Italia, puntano su formule più complesse, ma meno rigide. Uno dei problemi è la ‘sovra-rappresentazione’ dell’Europa, che s’aggraverebbe se la Germania avesse un seggio perrmanente. Una soluzione è, o meglio sarebbe, il ‘seggio europeo’ unico, ma andateglielo a dire a Londra e a Parigi di rinunciare al loro posto e al loro veto.
Dietro la mossa di Obama l’Italia ha subito sentito puzza di bruciato: il rischio è che si rimetta in moto il meccanismo di un ampliamento puro e semplice dei ‘permanenti’. Tanto più che il Giappone, che ha già l’avallo di Washington, rialza subito la testa; e che la Cina non tira ad alzo zero sull’India, ma dice di capirne le ambizioni.
Anche se l’opinione prevalente al Palazzo di Vetro è che la riforma sia più lontana, dopo il passo di Obama, il ministro degli esteri Frattini alza gli schermi protettivi: «Siamo a favore di un seggio per l’Ue nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e riteniamo che la riforma debba garantire maggiore rappresentatività», a cominciare dall’Africa. Per l’Europa, «vi sono seggi storici. Ma, se la storia non si puo’ cambiare, il presente puo’ farlo … Noi non diciamo no a nessuno, diciamo si’ a un seggio europeo».
A caldo, era sceso in campo il rappresentante permanente dell’Italia presso l’Onu. L’ambasciatore Ragaglini invita l’Ue a rendersi conto che nessun singolo Paese europeo conta davvero sulla scena internazionale. Il rischio é che l’Europa diventi sempre più «payer», pagatore, e sempre meno «player», attore, alle Nazioni Unite.
L’Italia si aggrappa alla richiesta, giusta, di un ’seggio europeo’ unico nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu per non rischiare di perdere anche la battaglia, che dura ormai da oltre 15 anni, per la riforma dell’organismo decisionale delle Nazioni Unite, dopo che i giochi sono stati sparigliati, da un giorno all’altro, dal presidente americano Barack Obama. In missione in Asia, in visita a New Delhi, lunedi’, a sorpresa, ha detto che gli Usa sono favorevoli alla richiesta dell’India di un seggio permanente.
L’Italia, che non vive un periodo diplomaticamente florido, entra in fibrillazione. A stare fuori da gruppi che contanosta facendo l’abitudine: è nel G8, che sopravvive vivacchiando, ed è nel G20, che fatica a consolidarsi; non sta, ovviamente, nel G2 mondiale Usa/Cina, che non esiste, e neppure nei G2 europei che qua e là si formano (Gran Bretagna e Francia sulla difesa e il nucleare, Francia e Germania sull’integrazione economica) e neppure nel 5 + 1 che gestisce i negoziati con l’Iran. E quando propone un G6 Ue, non trova echi positivi, anzi ne trova di negativi, persino in Polonia: Varsavia, invece di compiacersi del coinvolgimento, boccia il progetto.
La mossa di Obama mette in subbuglio la diplomazia al Palazzo di Vetro dell’Onu, dove, dalla prima metà degli Anni Novanta, si discute come migliorare efficienza e rappresentatività del Consiglio di Sicurezza, perchè possa funzionare da strumento della governance mondiale. Il Consiglio è attualmente composto da 15 membri: cinque permanenti con diritto di veto, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, tutte ‘legittimamente’ nucleari (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia) e dieci eletti con un mandato di due anni ciascuno con una qualche proporzionalità rispetto alle diverse aereee geo-politico-culturali della Terra.
Di proposte sul tappeto, ne sono state messe diverse: ambiscono ad un seggio stabile la Germania e il Giappone, l’India e il Brasile, e meno il SudAfrica e l’Egitto-. I Paesi del gruppo United for Consensus, fra cui l’Italia, puntano su formule più complesse, ma meno rigide. Uno dei problemi è la ‘sovra-rappresentazione’ dell’Europa, che s’aggraverebbe se la Germania avesse un seggio perrmanente. Una soluzione è, o meglio sarebbe, il ‘seggio europeo’ unico, ma andateglielo a dire a Londra e a Parigi di rinunciare al loro posto e al loro veto.
Dietro la mossa di Obama l’Italia ha subito sentito puzza di bruciato: il rischio è che si rimetta in moto il meccanismo di un ampliamento puro e semplice dei ‘permanenti’. Tanto più che il Giappone, che ha già l’avallo di Washington, rialza subito la testa; e che la Cina non tira ad alzo zero sull’India, ma dice di capirne le ambizioni.
Anche se l’opinione prevalente al Palazzo di Vetro è che la riforma sia più lontana, dopo il passo di Obama, il ministro degli esteri Frattini alza gli schermi protettivi: «Siamo a favore di un seggio per l’Ue nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e riteniamo che la riforma debba garantire maggiore rappresentatività», a cominciare dall’Africa. Per l’Europa, «vi sono seggi storici. Ma, se la storia non si puo’ cambiare, il presente puo’ farlo … Noi non diciamo no a nessuno, diciamo si’ a un seggio europeo».
A caldo, era sceso in campo il rappresentante permanente dell’Italia presso l’Onu. L’ambasciatore Ragaglini invita l’Ue a rendersi conto che nessun singolo Paese europeo conta davvero sulla scena internazionale. Il rischio é che l’Europa diventi sempre più «payer», pagatore, e sempre meno «player», attore, alle Nazioni Unite.
SPIGOLI: Mr B e Fini, vero divorzio o ultima chiamata
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/11/2010
Berlusconi e Fini, Fini e Berlusconi: la stampa estera ci perde il suo latino. Il discorso di Perugia domenica del leader di Futuro e Libertà continua a ricevere interpretazioni totalmente divergenti: a caldo, FT parlava di un «salvagente» di Fini a Mr B, mentre il Guardian lo definitiva un «ultimatum». L’incertezza si traduce in titoli zeppi di punti d’interrogazione, come da scuola di giornalismo non si dovrebbe proprio fare. Newsweek, in apertura del sito, si chiede se Mr B "ha finalmente fatto il botto?", “tramortito dal bunga bunga". E il Guardian, in un video, cerca la risposta intervistando la gente per strada: "Berlusconi 'non può andare avanti così' ", dicono molti. Pure l’Independent ha più domande che risposte per i suoi lettori: “E' questo uno scandalo di troppo per Berlusconi? A lungo è sembrato invulnerabile, ma ora i suoi rivali fiutano sangue ». Il festival dei punti di domanda è tutto britannico. Altrove, i media mascherano le loro incertezze dietro titoli di cronaca politicamente anodini. Le Monde fa un ritratto di Fini e intervista Sabina Guzzanti, una voce fuori dal coro. Per Libération, « Fini vuole finirla con Berlusconi ». WSJ e Les Echos vedono «la crisi politica indurirsi » intorno al premier e « le difficoltà aggravarsi ». E Nouvel Obs giudica il governo italiano « a rischio di implosione ». Le Figaro, invece, descrive un Berlusconi alla riscossa, che «cerca la parata »: «L’alternativa più semplice è un ritorno alle urne nel marzo 2011, se non prima».
Berlusconi e Fini, Fini e Berlusconi: la stampa estera ci perde il suo latino. Il discorso di Perugia domenica del leader di Futuro e Libertà continua a ricevere interpretazioni totalmente divergenti: a caldo, FT parlava di un «salvagente» di Fini a Mr B, mentre il Guardian lo definitiva un «ultimatum». L’incertezza si traduce in titoli zeppi di punti d’interrogazione, come da scuola di giornalismo non si dovrebbe proprio fare. Newsweek, in apertura del sito, si chiede se Mr B "ha finalmente fatto il botto?", “tramortito dal bunga bunga". E il Guardian, in un video, cerca la risposta intervistando la gente per strada: "Berlusconi 'non può andare avanti così' ", dicono molti. Pure l’Independent ha più domande che risposte per i suoi lettori: “E' questo uno scandalo di troppo per Berlusconi? A lungo è sembrato invulnerabile, ma ora i suoi rivali fiutano sangue ». Il festival dei punti di domanda è tutto britannico. Altrove, i media mascherano le loro incertezze dietro titoli di cronaca politicamente anodini. Le Monde fa un ritratto di Fini e intervista Sabina Guzzanti, una voce fuori dal coro. Per Libération, « Fini vuole finirla con Berlusconi ». WSJ e Les Echos vedono «la crisi politica indurirsi » intorno al premier e « le difficoltà aggravarsi ». E Nouvel Obs giudica il governo italiano « a rischio di implosione ». Le Figaro, invece, descrive un Berlusconi alla riscossa, che «cerca la parata »: «L’alternativa più semplice è un ritorno alle urne nel marzo 2011, se non prima».
martedì 9 novembre 2010
Grecia: Papandreu e il Pasok tagliano e non perdono
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/11/2010
Roba da rendere geloso Barack Obama, lui che dalle elezioni di midterm è uscito malconcio una settimana fa. Giorgio Papandreu, premier greco, perde un po’ di voti, ma incassa, nelle amministrative, una sorta di conferma del proprio mandato, perchè gli avversari fanno peggio. Quasi una sorpresa, dopo le proteste, anche violente, che avevano accompagnato il lancio del piano di austerità imposto ad Atene dall’Ue e dalle condizioni disastrose delle finanze pubbliche. Conosciuti i risultati, Papandreu ha rinunciato al progetto di sciogliere il Parlamento e di convocare elezioni politiche anticipate. L’esito delle amministrative è interpretato da politici e analisti come un incoraggiamento all’esecutivo socialista perchè vada avanti sulla via delle riforme.
E’ stato un esempio di maturità dell’elettorato ellenico. Il premier lussemburghese Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo –i ministri delle finanze dei Paesi dell’euro-, lo riconosce, esprimendo la fiducia che Atene sappia rimettere i conti in ordine, anche se la situazione «è difficile» e se «la crescita greca quest’anno sarà inferiore» agli anni passati: «Penso che le autorità greche possano rispettare gli obiettivi di risanamento del bilancio che sono stati fissati all’orizzonte 2014». La guardia, pero’, deve restare alta: bisogna mettere mano alle riforme strutturali necessarie, senza neppure escludere –parola di Juncker- «ulteriori misure, in modo da riuscire a raggiungere anche gli obiettivi di bilancio intermedi». Insomma: ‘Brava, Grecia. Avanti cosi’, ma non ne sei ancora fuori».
Intendiamoci!, i risultati delle elezioni amministrative di domenica scorsa vanno letti con prudenza: sono parziali, perchè era solo il primo turno e ci sarà un ballottaggio che potrebbe modificare certe valutazioni. Ma è un fatto che il partito socialista Pasok al potere, pur avendo subito un arretramento rispetto alle legislative dello scorso anno, vede i suoi candidati in testa sui rivali conservatori in sette regioni su 13. Per quanto riguarda le grandi città, Nuova Democrazia, il maggiore partito d’opposizione, puo’ mantenere Atene e Salonicco, dove è in testa, ma dove la partita è aperta, mentre il Pasok conserva Patrasso e il Pireo e conquista Heraclion, il capoluogo di Creta.
Quel che è importante, nell’analisi dei risultati, è che l’arretramento socialista non va a vantaggio dell’opposizione di destra, che aveva chiesto un voto contro l’austerità: proprio il mondo alla rovescia, i socialisti tagliano e la destra dopo avere scialacquato protesta. Nuova Democrazia finisce con il perdere 500 mila voti. Forse perchè i greci hanno capito che la necessità del rigore non è colpa dei socialisti, ma dei conservatori che, quando erano al potere, hanno gestito le finanze pubbliche senz’alcuna prudenza.
L’esito del voto facilita il compito di Papandreu, che giorno dopo giorno deve convincere i mercati internazionali della serietà della politica di riforme condotta sotto la sorveglianza dell’Fmi e dell’Ue. Anche per questo, il premier aveva alzato la posta delle amministrative, ipotizzando lo scoglimento del Parlamento. Ma i greci non hanno indicato un’alternativa politica all’austerità socialista. La protesta è emersa, magari, nel tasso di astensione altissimo : alle urne, sono andati solo il 55% degli aventi diritto (e quasi il 10% ha votato bianca o nulla).
Dall’Europa, la Grecia ha anche mutuato l’inquietante fenomeno dell’avanzata dell’estrema destra : ad Atene, un candidato neonazista ha per la prima volta ottenuto oltre il 5% e un seggio nel Consiglio comunale. Viene da un quartiere ghetto dove l’ostilità verso gli immigrati illegali è forte.
Roba da rendere geloso Barack Obama, lui che dalle elezioni di midterm è uscito malconcio una settimana fa. Giorgio Papandreu, premier greco, perde un po’ di voti, ma incassa, nelle amministrative, una sorta di conferma del proprio mandato, perchè gli avversari fanno peggio. Quasi una sorpresa, dopo le proteste, anche violente, che avevano accompagnato il lancio del piano di austerità imposto ad Atene dall’Ue e dalle condizioni disastrose delle finanze pubbliche. Conosciuti i risultati, Papandreu ha rinunciato al progetto di sciogliere il Parlamento e di convocare elezioni politiche anticipate. L’esito delle amministrative è interpretato da politici e analisti come un incoraggiamento all’esecutivo socialista perchè vada avanti sulla via delle riforme.
E’ stato un esempio di maturità dell’elettorato ellenico. Il premier lussemburghese Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo –i ministri delle finanze dei Paesi dell’euro-, lo riconosce, esprimendo la fiducia che Atene sappia rimettere i conti in ordine, anche se la situazione «è difficile» e se «la crescita greca quest’anno sarà inferiore» agli anni passati: «Penso che le autorità greche possano rispettare gli obiettivi di risanamento del bilancio che sono stati fissati all’orizzonte 2014». La guardia, pero’, deve restare alta: bisogna mettere mano alle riforme strutturali necessarie, senza neppure escludere –parola di Juncker- «ulteriori misure, in modo da riuscire a raggiungere anche gli obiettivi di bilancio intermedi». Insomma: ‘Brava, Grecia. Avanti cosi’, ma non ne sei ancora fuori».
Intendiamoci!, i risultati delle elezioni amministrative di domenica scorsa vanno letti con prudenza: sono parziali, perchè era solo il primo turno e ci sarà un ballottaggio che potrebbe modificare certe valutazioni. Ma è un fatto che il partito socialista Pasok al potere, pur avendo subito un arretramento rispetto alle legislative dello scorso anno, vede i suoi candidati in testa sui rivali conservatori in sette regioni su 13. Per quanto riguarda le grandi città, Nuova Democrazia, il maggiore partito d’opposizione, puo’ mantenere Atene e Salonicco, dove è in testa, ma dove la partita è aperta, mentre il Pasok conserva Patrasso e il Pireo e conquista Heraclion, il capoluogo di Creta.
Quel che è importante, nell’analisi dei risultati, è che l’arretramento socialista non va a vantaggio dell’opposizione di destra, che aveva chiesto un voto contro l’austerità: proprio il mondo alla rovescia, i socialisti tagliano e la destra dopo avere scialacquato protesta. Nuova Democrazia finisce con il perdere 500 mila voti. Forse perchè i greci hanno capito che la necessità del rigore non è colpa dei socialisti, ma dei conservatori che, quando erano al potere, hanno gestito le finanze pubbliche senz’alcuna prudenza.
L’esito del voto facilita il compito di Papandreu, che giorno dopo giorno deve convincere i mercati internazionali della serietà della politica di riforme condotta sotto la sorveglianza dell’Fmi e dell’Ue. Anche per questo, il premier aveva alzato la posta delle amministrative, ipotizzando lo scoglimento del Parlamento. Ma i greci non hanno indicato un’alternativa politica all’austerità socialista. La protesta è emersa, magari, nel tasso di astensione altissimo : alle urne, sono andati solo il 55% degli aventi diritto (e quasi il 10% ha votato bianca o nulla).
Dall’Europa, la Grecia ha anche mutuato l’inquietante fenomeno dell’avanzata dell’estrema destra : ad Atene, un candidato neonazista ha per la prima volta ottenuto oltre il 5% e un seggio nel Consiglio comunale. Viene da un quartiere ghetto dove l’ostilità verso gli immigrati illegali è forte.
SPIGOLI: il prestigio dell'Italia sotto Casa dei Gladiatori
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/11/2010
Pompei è uno di quei posti d’Italia magici ed evocatori che tutti, nel Mondo, conoscono, come Venezia o, a Roma, il Colosseo: sicuramente, una delle Sette Meraviglie dell’archeologia planetaria. Allora, un modo certo per fare una figura barbina ai quattro angoli della nostra Terra è quello di lasciare andare in rovina un tesoro del genere. Obiettivo centrato, con il crollo della Casa dei Gladiatori: le immagini fanno il giro del Mondo. E La Bbc commenta: «Il crollo desta preoccupazione per il sostegno –leggasi ‘il mancato sostegno’, ndr- dell’Italia al suo patrimonio archeologico ». Si ripete, ma ingigantita, la scena che avevamo già vissuto, mica tanti mesi or sono, quando aveva ceduto una parte della Domus Aurea al Colle Oppio. Il Daily Mail sbotta: «Questa si’ è una vera rovina: la Casa dei Gladiatori di Pompei crolla in macerie dopo 2000 anni », durante i quali aveva resistito all’eruzione del Vesuvio ai terremoti e al tempo. Ma non ce l’ha fatta con il ministro Bondi. La stampa spagnola e francese la buttano in politica: El Pais titola « Rovina tra le rovine. Il crollo si trasforma in nuova tempesta politica»; e Nouvel Obs: « Vivaci polemiche dopo il crollo di un edificio a Pompei ». La notizia, ovviamente, varca l’Oceano: negli Stati Uniti, Time, WP, Chicago Tribune e vari altri avvertono che «il ministro della cultura italiano segnala che sono possibili altri crolli a Pompei». Come dire, andate altrove, a Petra o in Asia Minore, dove hanno più cura dei loro patrimoni archeologici.
Pompei è uno di quei posti d’Italia magici ed evocatori che tutti, nel Mondo, conoscono, come Venezia o, a Roma, il Colosseo: sicuramente, una delle Sette Meraviglie dell’archeologia planetaria. Allora, un modo certo per fare una figura barbina ai quattro angoli della nostra Terra è quello di lasciare andare in rovina un tesoro del genere. Obiettivo centrato, con il crollo della Casa dei Gladiatori: le immagini fanno il giro del Mondo. E La Bbc commenta: «Il crollo desta preoccupazione per il sostegno –leggasi ‘il mancato sostegno’, ndr- dell’Italia al suo patrimonio archeologico ». Si ripete, ma ingigantita, la scena che avevamo già vissuto, mica tanti mesi or sono, quando aveva ceduto una parte della Domus Aurea al Colle Oppio. Il Daily Mail sbotta: «Questa si’ è una vera rovina: la Casa dei Gladiatori di Pompei crolla in macerie dopo 2000 anni », durante i quali aveva resistito all’eruzione del Vesuvio ai terremoti e al tempo. Ma non ce l’ha fatta con il ministro Bondi. La stampa spagnola e francese la buttano in politica: El Pais titola « Rovina tra le rovine. Il crollo si trasforma in nuova tempesta politica»; e Nouvel Obs: « Vivaci polemiche dopo il crollo di un edificio a Pompei ». La notizia, ovviamente, varca l’Oceano: negli Stati Uniti, Time, WP, Chicago Tribune e vari altri avvertono che «il ministro della cultura italiano segnala che sono possibili altri crolli a Pompei». Come dire, andate altrove, a Petra o in Asia Minore, dove hanno più cura dei loro patrimoni archeologici.
domenica 7 novembre 2010
UE:USA: il fattore transatlantico resta essenziale
Scritto per Formiche, rivista mensile, numero 53
“Il fattore transatlantico”, cioè il rapporto con l’America, “resta essenziale per l’Unione europea”, che deve riuscire a “mettere in campo posizioni comuni” per confrontarsi con i propri partner strategici, a cominciare dagli Usa e dalla Cina, e con la crisi economica globale, che comporta “scelte come la riforma della vigilanza finanziaria e nuove regole per i mercati mondiali”. A dirlo, ai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Ue riuniti a Bruxelles, è stato il presidente stabile
del Consiglio europeo Herman van Rompuy. E la convinzione dell’ex premier belga ha trovato conferma, nelle ultime settimane, nel confronto con Pechino sulla fluttuazione dello yuan: un’Europa davvero unita su questo punto e l’America la chiedono all’unisono, come hanno fatto, ad esempio, alle riunioni annuali di Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale.
Dopo le incomprensioni organizzative e diplomatiche, che avevano portato alla cancellazione di un Vertice Ue-Usa previsto nella prima metà dell’anno, sotto la presidenza di turno spagnola del Consiglio dei ministri dell’Unione, il prossimo incontro al vertice con il presidente statunitense Barack Obama, in Portogallo, a margine del Vertice della Nato, “è una buona opportunità –parole ancora di Van Rompuy- per dare un nuovo impulso alle relazioni con gli Stati Uniti”. Per acquisire credibilità agli occhi dell’interlocutore americano, l’Europa unita non solo deve avere un ‘numero di telefono’, come chiedeva negli Anni Settanta il segretario di Stato Usa Henry Kissinger, ma deve anche avere una posizione comune sui grandi temi dell’attualità internazionale. “Essere uniti fa la differenza”, sostiene Van Rompuy, citando ad esempio il caso della posizione comune europea sulle sanzioni all’Iran e quello della risoluzione sul Kosovo (ma cinque dei 27 non riconoscono l’indipendenza dello Stato balcanico).
Il presidente Obama che i leader europei si apprestano a incontrare è a metà del proprio mandato: reduce dalle elezioni di midterm, Obama ha perso l’aura di sogno che ne aveva accompagnato gli esordi alla Casa Bianca. Ma se i suoi oppositori del Tea Party parlano di delusione e disillusione, come fa Cesare De Carlo nel suo libro ‘Un tè freddo per Obama’, agli europei il ‘presidente nero’ continua a piacere (e molto), più di quanto non convincano le sue decisioni di politica estera tema per tema, specie in Afghanistan e sull’Iran.Il contrario di quanto fanno gli americani, che gli danno più credito sui singoli problemi che sull’insieme della politica estera, dove, anzi, la maggioranza dei consensi è risicata (52%).
Sono alcune delle indicazioni contenute nel rapporto Transatlantic Trends 2010, progetto congiunto del German Marshall Fund of the United States e della Compagnia di San Paolo, presentato in Italia a cura dello IAI, l’Istituto Affari Internazionali. Arrivato alla sua nona edizione, il rapporto sonda l’opinione pubblica degli Stati Uniti e di 11 Paesi dell’Unione europea, fra cui l’Italia, oltre che della Turchia.
Obama continua godere in Europa d’un sostegno formidabile: quattro europei su cinque, il 78%, ne approvano la politica internazionale, appena un po’ di meno dell’anno scorso, quando erano l’83%. Eppure il presidente non ha davvero fatto molto per compiacere la sua constituency europea: qui, s’è visto relativamente poco; ha dedicato scarso spazio nei suoi discorsi e scarsissima intensità alle relazioni transatlantiche; ha praticamente archiviato la ‘relazione speciale’ con la Gran Bretagna; ha costantemente guardato più a Pechino che a Bruxelles –ma è pur vero che i guai gli vengono di là, non di qua-.
Eppure, se gli europei avessero avuto voce in capitolo nella consultazione di midterm, Obama, che continua a pensare di avere “il miglior posto di lavoro al mondo”, anche se non lo diverte più usare il blackberry per i troppo vincoli di sicurezza impostigli, sarebbe statp in una botte di ferro, insieme ai suoi democratici. Intendiamoci!, anche in Europa ci sono sacche di diffidenza, verso l’inquilino della Casa Bianca: la Polonia, che all’inizio del XXI Secolo era il più americano degli Stati europei, è oggi fredda; e la Turchia, dove il 50% dei consensi nel 2009 s’è ridotto quasi della metà al 28%, è addirittura ostile. Il forte dato turco, però, può essere in parte spiegato con il timing del sondaggio: la raccolta delle opinioni è avvenuta nei giorni del cruento raid israeliano contro la flottiglia turca degli attivisti ‘pro Gaza’ –e le reazioni di Washington non furono adeguate alle attese di Istanbul-.
E, nonostante un sostegno d’insieme plebiscitario, una maggioranza di europei non condivide, capitolo per capitolo, scelte cruciali di politica estera del presidente statunitense, come quelle sull’Afghanistan (49% di sì) e sull’Iran (49% di sì). Gli americani fanno esattamente il contrario: danno al loro presidente, sui singoli temi, voti non inferiori a quello complessivo (il 52% approva la linea sull’Iran, il 54% quella sull’Afghanistan) o addirittura nettamente superiori: il 56% dice sì alla lotta contro i cambiamenti climatici, nonostante il fiasco ambientale della marea nera del Golfo del Messico, e il 61% è soddisfatto delle relazioni Usa-Russia dopo il reset dei rapporti deterioratisi nell’ultima parte della presidenza Bush.
Che cosa può spiegare un divario così netto tra americani ed europei nella valutazione dell’operato di Obama? Gli uni e gli altri condividevano, due anni or sono, speranze e aspettative. Gli americani, che di pazienza ne hanno meno degli europei, più abituati a essere delusi dai propri leader, si sono ‘disinamorati’ più rapidamente. Inoltre, il giudizio degli europei è essenzialmente condizionato dalla politica estera, mentre quello degli americani risente delle difficoltà incontrate dal presidente sul fronte interno: le incertezze e le contraddizioni, almeno iniziali, di Obama alle prese con la crisi economica e finanziaria e, questa primavera, con la marea nera; mentre i successi di politica interna registrati dall’Amministrazione, anche importanti come le riforme della sanità e della finanza, non hanno ancora inciso, né lo faranno nel breve termine, sulle condizioni di vita dei cittadini.
In politica internazionale, vi sono promesse che Obama deve ancora mantenere (e che gli Usa non possono realizzare da soli): una su tutte, l’avvicinamento tra arabi e israeliani, che va verificato nell’anno di negoziati diretti apertosi all’inizio di settembre. Però, anche quando il presidente ha rispettato l’impegno assunto con i suoi elettori, ad esempio completando entro agosto il ritiro delle unità da combattimento dall’Iraq, non ne ha sempre ricavato un credito politico: agli americani, l’uscita dall’Iraq, così com’è avvenuta, non è suonata ‘’missione compiuta’’, ma ‘’ritirata’’. E, inoltre, gli americani cercano la vittoria in Afghanistan, dove gli europei sono molto più scettici sull’opzione militare, e puntano sulle sanzioni verso l’Iran, mentre gli europei hanno la tendenza a considerare economia, finanza e commercio una carota nelle relazioni fra Stati più che un bastone.
Emergono, poi, dal Transatlantic Trends, atteggiamenti in netto contrasto verso il terzo protagonista del potenziale G3 della governance mondiale (Usa, Ue e Cina). Oltre nove americani su 10 sono convinti che la Cina è destinata ad avere e a esercitare una grande influenza a livello mondiale, mentre appena il 68% degli europei lo è. Inoltre, oltre la metà degli americani ritiene che i valori che uniscono Usa e Cina permettano una cooperazione sulle questioni internazionali, mentre quasi i due terzi degli europei la pensano all’opposto. Pragmatismo contro rimasugli d’ideologismo?, opportunismo contro rigore analitico?, abbaglio statistico o differenze radicate? Difficile giudicare, tanto più che europei ed americani sono allineati nel non giudicare positivo il ruolo fin qui giocato dalla Cina nei conflitti globali, nella lotta alla povertà e contro il riscaldamento globale.
Infine, di qua e di là dell’Atlantico, c’è una domanda incrociata di reciproca leadership. Il 55% degli europei auspica una forte leadership americana nel Mondo, capace di influenzare e orientare l’andamento planetario; e il 72% degli americani si dice favorevole a una forte leadership Ue (vogliono, cioè, che gli europei siano una presenza solida e affidabile a fianco degli Stati Uniti, condividendone gli sforzi e contribuendovi in modo adeguato).
“Il fattore transatlantico”, cioè il rapporto con l’America, “resta essenziale per l’Unione europea”, che deve riuscire a “mettere in campo posizioni comuni” per confrontarsi con i propri partner strategici, a cominciare dagli Usa e dalla Cina, e con la crisi economica globale, che comporta “scelte come la riforma della vigilanza finanziaria e nuove regole per i mercati mondiali”. A dirlo, ai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Ue riuniti a Bruxelles, è stato il presidente stabile
del Consiglio europeo Herman van Rompuy. E la convinzione dell’ex premier belga ha trovato conferma, nelle ultime settimane, nel confronto con Pechino sulla fluttuazione dello yuan: un’Europa davvero unita su questo punto e l’America la chiedono all’unisono, come hanno fatto, ad esempio, alle riunioni annuali di Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale.
Dopo le incomprensioni organizzative e diplomatiche, che avevano portato alla cancellazione di un Vertice Ue-Usa previsto nella prima metà dell’anno, sotto la presidenza di turno spagnola del Consiglio dei ministri dell’Unione, il prossimo incontro al vertice con il presidente statunitense Barack Obama, in Portogallo, a margine del Vertice della Nato, “è una buona opportunità –parole ancora di Van Rompuy- per dare un nuovo impulso alle relazioni con gli Stati Uniti”. Per acquisire credibilità agli occhi dell’interlocutore americano, l’Europa unita non solo deve avere un ‘numero di telefono’, come chiedeva negli Anni Settanta il segretario di Stato Usa Henry Kissinger, ma deve anche avere una posizione comune sui grandi temi dell’attualità internazionale. “Essere uniti fa la differenza”, sostiene Van Rompuy, citando ad esempio il caso della posizione comune europea sulle sanzioni all’Iran e quello della risoluzione sul Kosovo (ma cinque dei 27 non riconoscono l’indipendenza dello Stato balcanico).
Il presidente Obama che i leader europei si apprestano a incontrare è a metà del proprio mandato: reduce dalle elezioni di midterm, Obama ha perso l’aura di sogno che ne aveva accompagnato gli esordi alla Casa Bianca. Ma se i suoi oppositori del Tea Party parlano di delusione e disillusione, come fa Cesare De Carlo nel suo libro ‘Un tè freddo per Obama’, agli europei il ‘presidente nero’ continua a piacere (e molto), più di quanto non convincano le sue decisioni di politica estera tema per tema, specie in Afghanistan e sull’Iran.Il contrario di quanto fanno gli americani, che gli danno più credito sui singoli problemi che sull’insieme della politica estera, dove, anzi, la maggioranza dei consensi è risicata (52%).
Sono alcune delle indicazioni contenute nel rapporto Transatlantic Trends 2010, progetto congiunto del German Marshall Fund of the United States e della Compagnia di San Paolo, presentato in Italia a cura dello IAI, l’Istituto Affari Internazionali. Arrivato alla sua nona edizione, il rapporto sonda l’opinione pubblica degli Stati Uniti e di 11 Paesi dell’Unione europea, fra cui l’Italia, oltre che della Turchia.
Obama continua godere in Europa d’un sostegno formidabile: quattro europei su cinque, il 78%, ne approvano la politica internazionale, appena un po’ di meno dell’anno scorso, quando erano l’83%. Eppure il presidente non ha davvero fatto molto per compiacere la sua constituency europea: qui, s’è visto relativamente poco; ha dedicato scarso spazio nei suoi discorsi e scarsissima intensità alle relazioni transatlantiche; ha praticamente archiviato la ‘relazione speciale’ con la Gran Bretagna; ha costantemente guardato più a Pechino che a Bruxelles –ma è pur vero che i guai gli vengono di là, non di qua-.
Eppure, se gli europei avessero avuto voce in capitolo nella consultazione di midterm, Obama, che continua a pensare di avere “il miglior posto di lavoro al mondo”, anche se non lo diverte più usare il blackberry per i troppo vincoli di sicurezza impostigli, sarebbe statp in una botte di ferro, insieme ai suoi democratici. Intendiamoci!, anche in Europa ci sono sacche di diffidenza, verso l’inquilino della Casa Bianca: la Polonia, che all’inizio del XXI Secolo era il più americano degli Stati europei, è oggi fredda; e la Turchia, dove il 50% dei consensi nel 2009 s’è ridotto quasi della metà al 28%, è addirittura ostile. Il forte dato turco, però, può essere in parte spiegato con il timing del sondaggio: la raccolta delle opinioni è avvenuta nei giorni del cruento raid israeliano contro la flottiglia turca degli attivisti ‘pro Gaza’ –e le reazioni di Washington non furono adeguate alle attese di Istanbul-.
E, nonostante un sostegno d’insieme plebiscitario, una maggioranza di europei non condivide, capitolo per capitolo, scelte cruciali di politica estera del presidente statunitense, come quelle sull’Afghanistan (49% di sì) e sull’Iran (49% di sì). Gli americani fanno esattamente il contrario: danno al loro presidente, sui singoli temi, voti non inferiori a quello complessivo (il 52% approva la linea sull’Iran, il 54% quella sull’Afghanistan) o addirittura nettamente superiori: il 56% dice sì alla lotta contro i cambiamenti climatici, nonostante il fiasco ambientale della marea nera del Golfo del Messico, e il 61% è soddisfatto delle relazioni Usa-Russia dopo il reset dei rapporti deterioratisi nell’ultima parte della presidenza Bush.
Che cosa può spiegare un divario così netto tra americani ed europei nella valutazione dell’operato di Obama? Gli uni e gli altri condividevano, due anni or sono, speranze e aspettative. Gli americani, che di pazienza ne hanno meno degli europei, più abituati a essere delusi dai propri leader, si sono ‘disinamorati’ più rapidamente. Inoltre, il giudizio degli europei è essenzialmente condizionato dalla politica estera, mentre quello degli americani risente delle difficoltà incontrate dal presidente sul fronte interno: le incertezze e le contraddizioni, almeno iniziali, di Obama alle prese con la crisi economica e finanziaria e, questa primavera, con la marea nera; mentre i successi di politica interna registrati dall’Amministrazione, anche importanti come le riforme della sanità e della finanza, non hanno ancora inciso, né lo faranno nel breve termine, sulle condizioni di vita dei cittadini.
In politica internazionale, vi sono promesse che Obama deve ancora mantenere (e che gli Usa non possono realizzare da soli): una su tutte, l’avvicinamento tra arabi e israeliani, che va verificato nell’anno di negoziati diretti apertosi all’inizio di settembre. Però, anche quando il presidente ha rispettato l’impegno assunto con i suoi elettori, ad esempio completando entro agosto il ritiro delle unità da combattimento dall’Iraq, non ne ha sempre ricavato un credito politico: agli americani, l’uscita dall’Iraq, così com’è avvenuta, non è suonata ‘’missione compiuta’’, ma ‘’ritirata’’. E, inoltre, gli americani cercano la vittoria in Afghanistan, dove gli europei sono molto più scettici sull’opzione militare, e puntano sulle sanzioni verso l’Iran, mentre gli europei hanno la tendenza a considerare economia, finanza e commercio una carota nelle relazioni fra Stati più che un bastone.
Emergono, poi, dal Transatlantic Trends, atteggiamenti in netto contrasto verso il terzo protagonista del potenziale G3 della governance mondiale (Usa, Ue e Cina). Oltre nove americani su 10 sono convinti che la Cina è destinata ad avere e a esercitare una grande influenza a livello mondiale, mentre appena il 68% degli europei lo è. Inoltre, oltre la metà degli americani ritiene che i valori che uniscono Usa e Cina permettano una cooperazione sulle questioni internazionali, mentre quasi i due terzi degli europei la pensano all’opposto. Pragmatismo contro rimasugli d’ideologismo?, opportunismo contro rigore analitico?, abbaglio statistico o differenze radicate? Difficile giudicare, tanto più che europei ed americani sono allineati nel non giudicare positivo il ruolo fin qui giocato dalla Cina nei conflitti globali, nella lotta alla povertà e contro il riscaldamento globale.
Infine, di qua e di là dell’Atlantico, c’è una domanda incrociata di reciproca leadership. Il 55% degli europei auspica una forte leadership americana nel Mondo, capace di influenzare e orientare l’andamento planetario; e il 72% degli americani si dice favorevole a una forte leadership Ue (vogliono, cioè, che gli europei siano una presenza solida e affidabile a fianco degli Stati Uniti, condividendone gli sforzi e contribuendovi in modo adeguato).
sabato 6 novembre 2010
Un'Italia cenerentola dell'Europa e del Mondo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/11/2010
Stufo di un’Italia che conta poco, o meno, in Europa, il ministro degli esteri Franco Frattini batte un gran colpo: dà un’intervista al Financial Times, che gliela mette in prima pagina (foto e richiamo), e lancia un attacco “a Parigi e Berlino che fanno accordi precotti"; lamenta le esclusioni dell’Italia (per esempio dal vertice di Deauville, da dov'è venuta la spinta a un nuovo Patto di Stabilità e a una mini-revisione del Trattato); e propone di piantare un nuovo gruppo e una nuova sigla (il G6 dell'Ue, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna) nella selva dei gruppi e delle sigle della governance internazionale.
Ora, uno pensa che se Frattini esce in quel modo sulle colonne di uno dei più prestigiosi giornali europei qualche effetto, almeno mediatico, lo ottenga. Invece, fino alle 18.00 di ieri, nessuna agenzia internazionale, neppure quelle dei Paesi sotto attacco, aveva ripreso le sue parole. A parte il fatto che l'idea di sostituire un direttorio allargato -i 6- a un direttorio ristretto -i 2- puo’ solo irritare gli esclusi: i Piccoli dell’Ue e le Istituzioni comunitarie lasciate fuori, la Commissione e il Parlamento.
Per assurdo, pero’, la scarsa eco ottenuta a caldo prova che lo sfogo del ministro è giustificato : l’Italia di Mr B conta poco in Europa e meno nel Mondo, specie da quando il premier non puo’ più contare sul rapporto personale privilegiato che aveva con il presidente Usa George W. Bush. Certo, di legami personali forti, Berlusconi ne conserva: ad esempio, con il dittatore libico Muammar Gheddafi, o il premier russo Vladimir Putin, per non parlare del presidente bielorusso Aleksander Lukashenko. Ma è tutta gente poco presentabile: se Putin se lo filano comunque tutti, perchè la Russia mica puoi permetterti d'ignorarla, Gheddafi e Lukashenko badano all’Italia anche perchè nessun altro leader dà loro cosi’ tanto spazio e credito.
Ora, l’Italia, e tutti gli altri Paesi della Cee prima e dell’Ue poi hanno sempre gridato al direttorio quando Francia e Germania, che fossero Giscard d’Estaing e Schmidt, o Mitterrand e Kohl, o, adesso, il più improbabile duo Sarkozy / Merkel, hanno voluto imporre la loro linea ai partner (con risultati, sia detto non per inciso, spesso positivi: senza una forte intesa franco-tedesca, l’integrazione europea non ha mai fatto passi avanti). Ma l’Italia, in passato, è spesso riuscita a farsi ascoltare a Parigi e a Berlino. Ora , il suo peso specifico europeo e internazionale e' diminuito: che le manchi un po’ di credibilità? Hai voglia a mandare in giro per il Mondo soldati che si fanno ammazzare in Iraq e in Afghanistan, che garantiscono la pace nel Libano e nei Balcani: se per settimane, o per mesi, finisci sui giornali solo con Ruby e il Bunga Bunga quell’immagine da fine Impero ti s’incolla addosso.
Guardiamo a quanto è successo nell’ultimo anno o giù di li’. L’Italia non ha ottenuto nessun posto di rilievo nella nuova ‘nomenklatura’ europea: puntava alla presidenza del Parlamento, che non ha mai avuto da quando l’assemblea è eletta a suffragio universale, cioè dal 1979, ed ha perso; ha fatto un involontario tentativo di avere il ‘ministro degli esteri’ e non c'e' riuscita; non ha neppure corso per la presidenza del Vertice e della Commissione; dei posti già assegnati nel nuovo corpo diplomatico europeo, le sono toccati l’Albania e l’Uganda, perdendo al passaggio l’Afghanistan; e l’ipotesi di portare alla presidenza della Banca centrale europea Mario Draghi pare remota perchè c’è una prelazione tedesca (a parte il fatto che Draghi, che ha un altissimo prestigio internazionale, come prova la presidenza del Financial Stability Board, non sta nella squadra del bunga bunga).
Almeno l'Italia giocasse francamente la carta europea: seggio unico all'Onu e nelle sedi della governance mondiale. Invece, sul bilancio dell'Ue, Mr B non trova di meglio che fare comunella con la Gran Bretagna. E, allora, di che ci lamentiamo?
Stufo di un’Italia che conta poco, o meno, in Europa, il ministro degli esteri Franco Frattini batte un gran colpo: dà un’intervista al Financial Times, che gliela mette in prima pagina (foto e richiamo), e lancia un attacco “a Parigi e Berlino che fanno accordi precotti"; lamenta le esclusioni dell’Italia (per esempio dal vertice di Deauville, da dov'è venuta la spinta a un nuovo Patto di Stabilità e a una mini-revisione del Trattato); e propone di piantare un nuovo gruppo e una nuova sigla (il G6 dell'Ue, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna) nella selva dei gruppi e delle sigle della governance internazionale.
Ora, uno pensa che se Frattini esce in quel modo sulle colonne di uno dei più prestigiosi giornali europei qualche effetto, almeno mediatico, lo ottenga. Invece, fino alle 18.00 di ieri, nessuna agenzia internazionale, neppure quelle dei Paesi sotto attacco, aveva ripreso le sue parole. A parte il fatto che l'idea di sostituire un direttorio allargato -i 6- a un direttorio ristretto -i 2- puo’ solo irritare gli esclusi: i Piccoli dell’Ue e le Istituzioni comunitarie lasciate fuori, la Commissione e il Parlamento.
Per assurdo, pero’, la scarsa eco ottenuta a caldo prova che lo sfogo del ministro è giustificato : l’Italia di Mr B conta poco in Europa e meno nel Mondo, specie da quando il premier non puo’ più contare sul rapporto personale privilegiato che aveva con il presidente Usa George W. Bush. Certo, di legami personali forti, Berlusconi ne conserva: ad esempio, con il dittatore libico Muammar Gheddafi, o il premier russo Vladimir Putin, per non parlare del presidente bielorusso Aleksander Lukashenko. Ma è tutta gente poco presentabile: se Putin se lo filano comunque tutti, perchè la Russia mica puoi permetterti d'ignorarla, Gheddafi e Lukashenko badano all’Italia anche perchè nessun altro leader dà loro cosi’ tanto spazio e credito.
Ora, l’Italia, e tutti gli altri Paesi della Cee prima e dell’Ue poi hanno sempre gridato al direttorio quando Francia e Germania, che fossero Giscard d’Estaing e Schmidt, o Mitterrand e Kohl, o, adesso, il più improbabile duo Sarkozy / Merkel, hanno voluto imporre la loro linea ai partner (con risultati, sia detto non per inciso, spesso positivi: senza una forte intesa franco-tedesca, l’integrazione europea non ha mai fatto passi avanti). Ma l’Italia, in passato, è spesso riuscita a farsi ascoltare a Parigi e a Berlino. Ora , il suo peso specifico europeo e internazionale e' diminuito: che le manchi un po’ di credibilità? Hai voglia a mandare in giro per il Mondo soldati che si fanno ammazzare in Iraq e in Afghanistan, che garantiscono la pace nel Libano e nei Balcani: se per settimane, o per mesi, finisci sui giornali solo con Ruby e il Bunga Bunga quell’immagine da fine Impero ti s’incolla addosso.
Guardiamo a quanto è successo nell’ultimo anno o giù di li’. L’Italia non ha ottenuto nessun posto di rilievo nella nuova ‘nomenklatura’ europea: puntava alla presidenza del Parlamento, che non ha mai avuto da quando l’assemblea è eletta a suffragio universale, cioè dal 1979, ed ha perso; ha fatto un involontario tentativo di avere il ‘ministro degli esteri’ e non c'e' riuscita; non ha neppure corso per la presidenza del Vertice e della Commissione; dei posti già assegnati nel nuovo corpo diplomatico europeo, le sono toccati l’Albania e l’Uganda, perdendo al passaggio l’Afghanistan; e l’ipotesi di portare alla presidenza della Banca centrale europea Mario Draghi pare remota perchè c’è una prelazione tedesca (a parte il fatto che Draghi, che ha un altissimo prestigio internazionale, come prova la presidenza del Financial Stability Board, non sta nella squadra del bunga bunga).
Almeno l'Italia giocasse francamente la carta europea: seggio unico all'Onu e nelle sedi della governance mondiale. Invece, sul bilancio dell'Ue, Mr B non trova di meglio che fare comunella con la Gran Bretagna. E, allora, di che ci lamentiamo?
SPIGOLI: “Basta con Burlesqueoni”, sopravvive assediato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 06/11/2010, non pubblicato
La politica (italiana) torna a galla sulla stampa internazionale, dopo essere stata soppiantata, per giorni e giorni, da chiacchiere di prostitute e storie di voli di Stato con erba a bordo. Ma la linea di confine tra la politica e lo scandalo resta impalpabile, a seguire l’Economist, che s’inventa un « Basta con Burlesqueoni », gioco di parole tra ‘burlesque’ et Berlusconi’. Il settimanale descrive un premier assediato, per essere andato "un passo troppo oltre"; e si chiede se sia l'inizio della fine «di una commedia durata troppo a lungo". Mr B "è un sopravvissuto»: «Se gli interessa il suo Paese, dovrebbe dirigersi rapidamente verso l'uscita". Tutta la stampa inglese partecipa all’assedio a Berlusconi. FT dice che il premier "sfida i rivali sugli ultimi scandali" e aggiunge: «Assediato, se la prende con i media, con l'opposizione di sinistra e perfino con la mafia». E, ancora, il Times, "Storie su di me sono una vendetta della mafia"; e l’Independent, Mr B «resta, nonostante nuove accuse». Il Guardian dà rilievo al titolo « Berlusconi assediato” e fa l’elenco delle sue "relazioni pericolose". Il Daily Mail dice che «il povero premier pensa d’avere trovato l’elisir di lunga vita e pare una statua di cera, con tutto quel cerone addosso». E il Telegraph narra «un’opera comica italiana", in cui «c'è poco da ridere», perchè la vicenda «danneggia ulteriormente la reputazione internazionale dell'Italia». Chi pensa che la copertura britannica sia anomala, faccia un giro su NouvelObs e Les Echos, El Pais ed El Mundo, fino al WSJ che scomoda un cardinale per criticare lo stile di vita di Mr B.
La politica (italiana) torna a galla sulla stampa internazionale, dopo essere stata soppiantata, per giorni e giorni, da chiacchiere di prostitute e storie di voli di Stato con erba a bordo. Ma la linea di confine tra la politica e lo scandalo resta impalpabile, a seguire l’Economist, che s’inventa un « Basta con Burlesqueoni », gioco di parole tra ‘burlesque’ et Berlusconi’. Il settimanale descrive un premier assediato, per essere andato "un passo troppo oltre"; e si chiede se sia l'inizio della fine «di una commedia durata troppo a lungo". Mr B "è un sopravvissuto»: «Se gli interessa il suo Paese, dovrebbe dirigersi rapidamente verso l'uscita". Tutta la stampa inglese partecipa all’assedio a Berlusconi. FT dice che il premier "sfida i rivali sugli ultimi scandali" e aggiunge: «Assediato, se la prende con i media, con l'opposizione di sinistra e perfino con la mafia». E, ancora, il Times, "Storie su di me sono una vendetta della mafia"; e l’Independent, Mr B «resta, nonostante nuove accuse». Il Guardian dà rilievo al titolo « Berlusconi assediato” e fa l’elenco delle sue "relazioni pericolose". Il Daily Mail dice che «il povero premier pensa d’avere trovato l’elisir di lunga vita e pare una statua di cera, con tutto quel cerone addosso». E il Telegraph narra «un’opera comica italiana", in cui «c'è poco da ridere», perchè la vicenda «danneggia ulteriormente la reputazione internazionale dell'Italia». Chi pensa che la copertura britannica sia anomala, faccia un giro su NouvelObs e Les Echos, El Pais ed El Mundo, fino al WSJ che scomoda un cardinale per criticare lo stile di vita di Mr B.
venerdì 5 novembre 2010
USA: l'invito al veleno di Obama al Tea Party
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/11/2010
La FoxNews, la tv ‘all news’ americana che è una sirena dei conservatori e che corteggia il Tea Party, annuncia, nei titoli d’apertura, lo ‘showdown’, cioè noi diremmo lo scontro decisivo tra la Casa Bianca e i repubblicani. Non è un po’ presto, il giorno dopo le elezioni di metà mandato? In realtà, l’invito fatto da Barack Obama ai leaders della maggioranza e dell’opposizione del Congresso attualmente in carica, non quello appena eletto, per parlare di economia, di tagli alle tasse e di tutto il resto, è solo la prima d’una serie probabilmente infinita di scaramucce e di punture di spillo.
Il presidente fa sapere che l’incontro «non sarà solo l’occasione per farci una foto insieme», ma sarà di sostanza. Il senso è: « Repubblicani, mica volete che perdiamo due mesi?”, quelli che mancano all’insediamento del Congresso eletto il 2 novembre. Ma Mitch McConnell, leader dell’opposizione al Senato, parte subito all’attacco: “Obama e i democratici –dice- devono ascoltare gli elettori, fare loro un passo verso di noi”. Il disegno è chiaro: i repubblicani vogliono stare per ora fermi e passare all’azione quando avranno più carte in mano.
L’idea di Obama, almeno quella che emerge dalle prime dichiarazioni del presidente, è di lavorare di qui alle elezioni del 2012 per realizzare “l’agenda della gente”, cioè per rispondere alle attese di chi ha votato per lui due anni or sono e non lo ha più votato ora, sentendosi deluso, se non proprio tradito. Parrebbe, dunque, che Obama non avverta la tentazione di rifugiarsi nella politica estera, dove il Congresso conta meno e dove il Senato, che resta democratico, gli puo’ bastare per tirare dritto per la sua strada.
Ma lavorare con un Congresso diviso, non rischia di indebolirlo ulteriormente, scolorire il suo messaggio, costringerlo a compromessi che logorerebbero ulteriormente il suo potere e la sua popolarità ? Il rischio c’è e molti commentatori, specie nel campo democratico, lo evidenziano.
Ma giocando a carte scoperte il presidente puo’ anche vedere il bluff dei repubblicani e, soprattutto, della loro componente più imprevedibile e meno controllabile, gli eletti del Tea Party: Obama li chiama a collaborare per il rilancio dell’economia; se quelli, che già sono il partito dei responsabili della crisi, fanno muro e si limitano a mettergli i bastoni fra le ruote, gli americani, fra due anni, potrebbero a loro volta castigarli alle urne ; e se, invece, stanno al gioco e accettano di negoziare compromessi, o se, indipendentemente da tutto, l’economia, che qualche volta è « stupida », va meglio, sarà comunque l’Amministrazione in carica a incassare il dividendo della ripresa.
Muro contro muro?, o il gioco sottile del negoziato e del compromesso? Il dibattito fra le due line è vivace. Non è detto che Obama, il candidato che fece sperare l’America, ma anche un presidente prammatico, tranci per l’una o per l’altra: sui temi di fondo, quelli che qualificano la sua agenda, potrebbe restare fermo; sugli altri, potrebbe cercare la trattativa.
Su un punto, (quasi) tutti i commentatori concordano. L’asso nella manica di Obama, verso le presidenziali, è l’assenza d’un jolly fra le carte dei repubblicani. Sarah Palin e Newt Gingrich, due leader che si sono fatti paladini del Tea Party, non sono in grado di conquistare la maggioranza degli americani ; e fra gli eletti del nuovo movimento non sembra esserci una personalità cosi’ forte da acquisire, nei 18 mesi che mancano alle primarie decisive per la ‘nomination’ 2012, la visibilità nazionale necessaria.
Inoltre, l’emergere di una candidatura repubblicana ‘estremista’, come lo fu, quasi mezzo secolo fa, quella di Barry Goldwater nel 1964, potrebbe anche favorire l’emergere di una terza candidatura (il sindaco di New York, Michael Bloomberg, eletto come repubblicano, ma con vedute democratiche, sta già scaldando i motori). Ora, un candidato della terza via non ha mai vinto negli Stati Uniti, e probabilmente non lo farà neppure nel 2012, ma è riuscito a fare perdere il partito cui erode voti: lo fecero Ross Perot nel 1992 –vinse Bill Clinton, perse Bush padre- e Ralph Nader nel 2000 –vinse Bush junior, perse per una manciata di voti in Florida Gore-.
La FoxNews, la tv ‘all news’ americana che è una sirena dei conservatori e che corteggia il Tea Party, annuncia, nei titoli d’apertura, lo ‘showdown’, cioè noi diremmo lo scontro decisivo tra la Casa Bianca e i repubblicani. Non è un po’ presto, il giorno dopo le elezioni di metà mandato? In realtà, l’invito fatto da Barack Obama ai leaders della maggioranza e dell’opposizione del Congresso attualmente in carica, non quello appena eletto, per parlare di economia, di tagli alle tasse e di tutto il resto, è solo la prima d’una serie probabilmente infinita di scaramucce e di punture di spillo.
Il presidente fa sapere che l’incontro «non sarà solo l’occasione per farci una foto insieme», ma sarà di sostanza. Il senso è: « Repubblicani, mica volete che perdiamo due mesi?”, quelli che mancano all’insediamento del Congresso eletto il 2 novembre. Ma Mitch McConnell, leader dell’opposizione al Senato, parte subito all’attacco: “Obama e i democratici –dice- devono ascoltare gli elettori, fare loro un passo verso di noi”. Il disegno è chiaro: i repubblicani vogliono stare per ora fermi e passare all’azione quando avranno più carte in mano.
L’idea di Obama, almeno quella che emerge dalle prime dichiarazioni del presidente, è di lavorare di qui alle elezioni del 2012 per realizzare “l’agenda della gente”, cioè per rispondere alle attese di chi ha votato per lui due anni or sono e non lo ha più votato ora, sentendosi deluso, se non proprio tradito. Parrebbe, dunque, che Obama non avverta la tentazione di rifugiarsi nella politica estera, dove il Congresso conta meno e dove il Senato, che resta democratico, gli puo’ bastare per tirare dritto per la sua strada.
Ma lavorare con un Congresso diviso, non rischia di indebolirlo ulteriormente, scolorire il suo messaggio, costringerlo a compromessi che logorerebbero ulteriormente il suo potere e la sua popolarità ? Il rischio c’è e molti commentatori, specie nel campo democratico, lo evidenziano.
Ma giocando a carte scoperte il presidente puo’ anche vedere il bluff dei repubblicani e, soprattutto, della loro componente più imprevedibile e meno controllabile, gli eletti del Tea Party: Obama li chiama a collaborare per il rilancio dell’economia; se quelli, che già sono il partito dei responsabili della crisi, fanno muro e si limitano a mettergli i bastoni fra le ruote, gli americani, fra due anni, potrebbero a loro volta castigarli alle urne ; e se, invece, stanno al gioco e accettano di negoziare compromessi, o se, indipendentemente da tutto, l’economia, che qualche volta è « stupida », va meglio, sarà comunque l’Amministrazione in carica a incassare il dividendo della ripresa.
Muro contro muro?, o il gioco sottile del negoziato e del compromesso? Il dibattito fra le due line è vivace. Non è detto che Obama, il candidato che fece sperare l’America, ma anche un presidente prammatico, tranci per l’una o per l’altra: sui temi di fondo, quelli che qualificano la sua agenda, potrebbe restare fermo; sugli altri, potrebbe cercare la trattativa.
Su un punto, (quasi) tutti i commentatori concordano. L’asso nella manica di Obama, verso le presidenziali, è l’assenza d’un jolly fra le carte dei repubblicani. Sarah Palin e Newt Gingrich, due leader che si sono fatti paladini del Tea Party, non sono in grado di conquistare la maggioranza degli americani ; e fra gli eletti del nuovo movimento non sembra esserci una personalità cosi’ forte da acquisire, nei 18 mesi che mancano alle primarie decisive per la ‘nomination’ 2012, la visibilità nazionale necessaria.
Inoltre, l’emergere di una candidatura repubblicana ‘estremista’, come lo fu, quasi mezzo secolo fa, quella di Barry Goldwater nel 1964, potrebbe anche favorire l’emergere di una terza candidatura (il sindaco di New York, Michael Bloomberg, eletto come repubblicano, ma con vedute democratiche, sta già scaldando i motori). Ora, un candidato della terza via non ha mai vinto negli Stati Uniti, e probabilmente non lo farà neppure nel 2012, ma è riuscito a fare perdere il partito cui erode voti: lo fecero Ross Perot nel 1992 –vinse Bill Clinton, perse Bush padre- e Ralph Nader nel 2000 –vinse Bush junior, perse per una manciata di voti in Florida Gore-.
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