Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 30/06/2011
Ci sono dei giorni, e non sono mica pochi, che Bruxelles sembra un’appendice d’Italia : una piccola Napoli, e persino una piccolo Montenero di Bisaccia, a seconda di quali sono i politici italiani che s’aggirano per i corridoi delle Istituzioni europee. Non che abbiamo qualcosa di europeo da fare, o da dire: vengono a portare qui i loro problemi italiani e a lanciare proclami che, pensano, acquistano valore da una tribuna dell’Ue. Mercoledi’, che a Roma era festa e, quindi, c’era meno da fare del solito, c’erano a Bruxelles Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, e Stefano Caldoro, governatore della Campania. Di Pietro era venuto a presentare la ‘summer school’ dei giovani dell’Idv –caspita !, l’occasione valeva la trasferta-, ma ha ovviamente parlato (quasi) solo della manovra («doppiamente criminale», perchè «truffa sui conti e frega il voto degli elettori», rinviando il peggio al dopo 2013, quando –magari- toccherà ad altri farlo) e delle primarie della sinistra, cui l’Idv iscrive fin d’ora i propri candidati. Caldoro, invece, era venuto a caldeggiare l’insediamento a Napoli, in concorrenza
con Valencia, di un ufficio dell’Ue, ma, naturalmente, ha parlato di rifiuti. E siccome il commissario europeo Janez Potocnik, che lui per altro non ha incontrato, minaccia fuoco e fiamme su Napoli, la Campania e l’Italia, Caldoro, che sarà un berlusconiano di ferro, ma si rivela pure un doroteo, s’allinea al commissario –le sue preoccupazioni sono le mie, dice : «Stiamo collaborando»- e scarica le colpe. Anzi, le distribuisce :
un po’ a sinistra («La Campania è un modello per la raccolta differenziata in tutto
il Mezzogiorno. Il problema è Napoli e di Napoli è responsabile il sindaco», che sarà pure stato appena eletto, ma è un avversario, Luigi de Magistris); ed un po’ a destra («La posizione della Lega è irresponsabile»). Vabbè, ma c’era bisogno di venire a Bruxelles per dire ‘ste cose? Il messaggio italiano è, magari, chiaro; quello europeo è molto labile, anzi sfugge del tutto.
giovedì 30 giugno 2011
mercoledì 29 giugno 2011
SPIGOLI: l'aria di Firenze non s'addice a Monna Lisa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/06/2011
Ci sono cose, parole, persone italiane magiche, che basta evocarle e subito fanno titolo sulla stampa estera. Nel bene e nel male. Nel bene, la Gioconda, la Ferrari, una volta la Juventus –adesso, manco più l’Inter-. Nel male, beh, lasciamo perdere, che qui non c’entra... Perchè qui parliamo di Monna Lisa e del suo ultimo viaggio (mancato): s’è appena attenuata sui giornali, specie americani e britannici, l’eco della ricerca dei resti della vera Gioconda ed ecco che il rifiuto del Louvre di prestare il dipinto di Leonardo a Firenze perchè vi sia esposto desta l’attenzione, ed un briciolo di indignazione, del Telegraph e di altri quotidiani e chiama alle armi a difesa del Louvre la stampa francese. Le Figaro dedica a spiegare perché Monna Lisa non può lasciare il museo la sua ‘home page’ e ben tre pagine di foto, interviste e servizi del supplemento ‘arte e cultura’: il dipinto è fragile, il supporto di legno del ritratto presenta una fessura che si allarga quando l’opera lascia il suo contenitore isotermico. E guai a chi osi pensare che il Louvre sia geloso delle proprie opere: ne presta tra le 120 e le 180 l’anno, ma la Gioconda se la tiene stretta, ‘en garde a vue’, scrive Le Figaro. E, invece, altri tesori italiani, magari per beneficienza, girano il mondo, come lo Stradivari, per El Pais “la Monna Lisa delle quattro corde”, venduto per beneficienza per 9,8milioni di sterline (Times), un prezzo record (Les Echos). E ancora Les Echos ricordano come l’Italia abbia accettato di prestare, per la prima volta, negli Usa la Venere Pudica dei Musei Capitolini.
Ci sono cose, parole, persone italiane magiche, che basta evocarle e subito fanno titolo sulla stampa estera. Nel bene e nel male. Nel bene, la Gioconda, la Ferrari, una volta la Juventus –adesso, manco più l’Inter-. Nel male, beh, lasciamo perdere, che qui non c’entra... Perchè qui parliamo di Monna Lisa e del suo ultimo viaggio (mancato): s’è appena attenuata sui giornali, specie americani e britannici, l’eco della ricerca dei resti della vera Gioconda ed ecco che il rifiuto del Louvre di prestare il dipinto di Leonardo a Firenze perchè vi sia esposto desta l’attenzione, ed un briciolo di indignazione, del Telegraph e di altri quotidiani e chiama alle armi a difesa del Louvre la stampa francese. Le Figaro dedica a spiegare perché Monna Lisa non può lasciare il museo la sua ‘home page’ e ben tre pagine di foto, interviste e servizi del supplemento ‘arte e cultura’: il dipinto è fragile, il supporto di legno del ritratto presenta una fessura che si allarga quando l’opera lascia il suo contenitore isotermico. E guai a chi osi pensare che il Louvre sia geloso delle proprie opere: ne presta tra le 120 e le 180 l’anno, ma la Gioconda se la tiene stretta, ‘en garde a vue’, scrive Le Figaro. E, invece, altri tesori italiani, magari per beneficienza, girano il mondo, come lo Stradivari, per El Pais “la Monna Lisa delle quattro corde”, venduto per beneficienza per 9,8milioni di sterline (Times), un prezzo record (Les Echos). E ancora Les Echos ricordano come l’Italia abbia accettato di prestare, per la prima volta, negli Usa la Venere Pudica dei Musei Capitolini.
martedì 28 giugno 2011
Libia: arrestate Gheddafi e la cricca, ordina la Corte dell'Aja
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/06/2011
Il dittatore libico Muammar Gheddafi è ormai ricercato dalla giustizia internazionale per crimini contro l’umanità: la Corte penale internazionale (Cpi) ha ieri emesso un mandato di cattura contro di lui. Solo una volta finora la Corte dell’Aja aveva dato ordine di arrestare un presidente in esercizio, il sudanese Omar el-Bechir.
L’annuncio della Cpi arriva nel giorno in cui la campagna militare della Nato in Libia per proteggere i civili compie cento giorni. Ma Gheddafi resta al suo posto: domenica ha ribadito di non intendere lasciare Tripoli e di delegare il potere, pur dando un segnale interessante: accetterebbe di non partecipare di persona a negoziati di pace.
La rivolta in Libia, e soprattutto la repressione, hanno fatto migliaia di morti (15mila, secondo le stime dell’Onu più recenti), avrebbero spinto a fuggire all’estero 650mila libici e ne avrebbero indotti altri 243mila a lasciare le proprie case: un sesto circa della popolazione, 6.400.000 abitanti.
Il giudice dell’Aja Sanji Mmasenono Monageng ritiene che ci siano “motivi ragionevoli per credere che … Gheddafi … abbia concepito e orchestrato un piano destinato a reprimere e a scoraggiare la popolazione che manifestava contro il regime e coloro considerati dissidenti”. La Corte ha pure lanciato mandati d’arresto per crimini contro l’umanità contro il secondogenito del colonnello, Seif al-Islam, e contro il capo del servizi segreti libici Abdallah al-Senoussi, accogliendo le richieste depositate il 16 maggio dal procuratore Luis Moreno-Ocampo, che afferma: “Quei tre devono essere arrestati, per evitare che … commettano nuovi crimini”.
Gheddafi e la sua cricca sarebbero responsabili, “come autori indiretti”, di assassini e di persecuzioni commessi dalle forze di sicurezza libiche a Tripoli, Bengasi, Misurata, dal 15 febbraio, quando l’insurrezione si manifestò per la prima volta, alla fine di febbraio, quando l’avanzata dei ribelli pareva prossima a rovesciare il dittatore. Gheddafi, 69 anni, al potere da 42, sarebbe responsabile in quanto esercita “un controllo assoluto e indiscusso sull’apparato di potere libico”, mentre suo figlio Seif, 39 anni, è “un primo ministro de facto”, se non di diritto, il delfino designato. Quanto ad al-Senoussi, 62 anni, gli è soprattutto attribuita l’aspra repressione a Bengasi nei primi giorni dell’insurrezione.
Le reazioni alle decisioni della Cpi sono state positive nelle capitali Nato. A Parigi, il presidente Nicolas Sarkozy chiede che Gheddafi se ne vada, dpo che, venerdì, il Vertice europeo aveva espresso pieno appoggio alla missione Nato. A Londra, il ministro degli esteri William Hague ha invita i collaboratori del colonnello “a mollarlo”. A Roma, il ministro degli esteri Franco Frattini esprime soddisfazione e auspica ora “una soluzione politica”. Per la Farnesina, la Corte “legittima la missione della Nato”, che l’Italia “intende continuare a fianco degli alleati”, anche se la Lega e Bossi ne chiedono la fine e avvertono che, comunque, “la guerra finisce quando finiscono i soldi”. Per la Nato, il mandato di cattura “sottolinea l’isolamento” del leader libico. A Bengasi, la capitale dei ribelli, e a Misurata, città martire, ci sono state esplosioni di gioia.
Sul terreno, i ribelli restano attestati a una cinquantina di chilometri da Tripoli. Molto attiva, invece, la diplomazia: Unione africana, Conferenza islamica, Russia, Cina cercano di annodare negoziati, mentre l’Ue dice che Gheddafi “non può partecipare a nessuna trattativa”. Emissari del regime sono in Tunisia e in Algeria.
Operativa dal 2002, la Cpi non ha forze di polizia proprie: l’esecuzione dei mandati dipende, quindi, dalla volontà degli Stati: difficile, quindi, che quelli di Gheddafi e dei suoi, come quello di el-Bechir, per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur, siano eseguiti, almeno per ora. La Corte è competente in Libia per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 26 febbraio. Tripoli, però, lo contesta, perché non ha mai ratificato il Trattato di Roma che istituisce la Cpi.
Il dittatore libico Muammar Gheddafi è ormai ricercato dalla giustizia internazionale per crimini contro l’umanità: la Corte penale internazionale (Cpi) ha ieri emesso un mandato di cattura contro di lui. Solo una volta finora la Corte dell’Aja aveva dato ordine di arrestare un presidente in esercizio, il sudanese Omar el-Bechir.
L’annuncio della Cpi arriva nel giorno in cui la campagna militare della Nato in Libia per proteggere i civili compie cento giorni. Ma Gheddafi resta al suo posto: domenica ha ribadito di non intendere lasciare Tripoli e di delegare il potere, pur dando un segnale interessante: accetterebbe di non partecipare di persona a negoziati di pace.
La rivolta in Libia, e soprattutto la repressione, hanno fatto migliaia di morti (15mila, secondo le stime dell’Onu più recenti), avrebbero spinto a fuggire all’estero 650mila libici e ne avrebbero indotti altri 243mila a lasciare le proprie case: un sesto circa della popolazione, 6.400.000 abitanti.
Il giudice dell’Aja Sanji Mmasenono Monageng ritiene che ci siano “motivi ragionevoli per credere che … Gheddafi … abbia concepito e orchestrato un piano destinato a reprimere e a scoraggiare la popolazione che manifestava contro il regime e coloro considerati dissidenti”. La Corte ha pure lanciato mandati d’arresto per crimini contro l’umanità contro il secondogenito del colonnello, Seif al-Islam, e contro il capo del servizi segreti libici Abdallah al-Senoussi, accogliendo le richieste depositate il 16 maggio dal procuratore Luis Moreno-Ocampo, che afferma: “Quei tre devono essere arrestati, per evitare che … commettano nuovi crimini”.
Gheddafi e la sua cricca sarebbero responsabili, “come autori indiretti”, di assassini e di persecuzioni commessi dalle forze di sicurezza libiche a Tripoli, Bengasi, Misurata, dal 15 febbraio, quando l’insurrezione si manifestò per la prima volta, alla fine di febbraio, quando l’avanzata dei ribelli pareva prossima a rovesciare il dittatore. Gheddafi, 69 anni, al potere da 42, sarebbe responsabile in quanto esercita “un controllo assoluto e indiscusso sull’apparato di potere libico”, mentre suo figlio Seif, 39 anni, è “un primo ministro de facto”, se non di diritto, il delfino designato. Quanto ad al-Senoussi, 62 anni, gli è soprattutto attribuita l’aspra repressione a Bengasi nei primi giorni dell’insurrezione.
Le reazioni alle decisioni della Cpi sono state positive nelle capitali Nato. A Parigi, il presidente Nicolas Sarkozy chiede che Gheddafi se ne vada, dpo che, venerdì, il Vertice europeo aveva espresso pieno appoggio alla missione Nato. A Londra, il ministro degli esteri William Hague ha invita i collaboratori del colonnello “a mollarlo”. A Roma, il ministro degli esteri Franco Frattini esprime soddisfazione e auspica ora “una soluzione politica”. Per la Farnesina, la Corte “legittima la missione della Nato”, che l’Italia “intende continuare a fianco degli alleati”, anche se la Lega e Bossi ne chiedono la fine e avvertono che, comunque, “la guerra finisce quando finiscono i soldi”. Per la Nato, il mandato di cattura “sottolinea l’isolamento” del leader libico. A Bengasi, la capitale dei ribelli, e a Misurata, città martire, ci sono state esplosioni di gioia.
Sul terreno, i ribelli restano attestati a una cinquantina di chilometri da Tripoli. Molto attiva, invece, la diplomazia: Unione africana, Conferenza islamica, Russia, Cina cercano di annodare negoziati, mentre l’Ue dice che Gheddafi “non può partecipare a nessuna trattativa”. Emissari del regime sono in Tunisia e in Algeria.
Operativa dal 2002, la Cpi non ha forze di polizia proprie: l’esecuzione dei mandati dipende, quindi, dalla volontà degli Stati: difficile, quindi, che quelli di Gheddafi e dei suoi, come quello di el-Bechir, per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur, siano eseguiti, almeno per ora. La Corte è competente in Libia per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 26 febbraio. Tripoli, però, lo contesta, perché non ha mai ratificato il Trattato di Roma che istituisce la Cpi.
Un refolo di vento nel Pd solleva le gonne delle polemiche
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 27/06/2011
Nell’Italia della spazzatura e degli scandali, dove i refoli di vento sollevano miasmi nauseabondi o polveroni mistificatori, un colpo d’aria sbarazzino, capace di sollevare le gonne come il soffio della metropolitana di New York faceva con la Marilyn Monroe di ‘Quando la moglie è in vacanza’, potrebbe anche essere accolto come un momento di divertimento: un ammiccamento che varrebbe un sorriso, senza impatto né sociale né politico, come –purtroppo?- rischia di non avercelo la cravatta che, nel manifesto parallelo, sventola a sinistra, orgogliosamente rossa. Richard Heuzé, il corrispondente da Roma di le Figaro, dedica alla campagna per la Festa dell’Unità del Pd romano un fogliettone in prima: lo spunto sono le immagini e lo slogan dei manifesti, “il vento cambia”, dopo le municipali di maggio e i referendum di giugno; il titolo è ammiccante, “Il vento del cambiamento solleva le gonne della sinistra italiana”.Heuzé, che, da buon francese, non è un bigotto, né un puritano, nota che l’immagine sui manifesti “è piuttosto castigata, rispetto alla pletora di nudi femminili cui fanno ricorso la pubblicità e la stampa”, specie in Italia, e ricorda che il Pd non cessa di denunciare la politica delle Veline, oltre che gli eccessi di Mr B e della sua ‘compagnia bella’, Emilio, Lele, Nicole e via dicendo. Ma la campagna del Pd fa storcere lo stesso il naso alle militanti del partito, che vi vedono una strizzatina d’occhi “al ‘machismo’ italiano che non ha pari in Europa”. Che sia davvero il vento del cambiamento, o piuttosto quello di un conservatorismo sessista, “la campagna cade male”: il refolo dei manifesti annuncia la tempesta delle polemiche.
Nell’Italia della spazzatura e degli scandali, dove i refoli di vento sollevano miasmi nauseabondi o polveroni mistificatori, un colpo d’aria sbarazzino, capace di sollevare le gonne come il soffio della metropolitana di New York faceva con la Marilyn Monroe di ‘Quando la moglie è in vacanza’, potrebbe anche essere accolto come un momento di divertimento: un ammiccamento che varrebbe un sorriso, senza impatto né sociale né politico, come –purtroppo?- rischia di non avercelo la cravatta che, nel manifesto parallelo, sventola a sinistra, orgogliosamente rossa. Richard Heuzé, il corrispondente da Roma di le Figaro, dedica alla campagna per la Festa dell’Unità del Pd romano un fogliettone in prima: lo spunto sono le immagini e lo slogan dei manifesti, “il vento cambia”, dopo le municipali di maggio e i referendum di giugno; il titolo è ammiccante, “Il vento del cambiamento solleva le gonne della sinistra italiana”.Heuzé, che, da buon francese, non è un bigotto, né un puritano, nota che l’immagine sui manifesti “è piuttosto castigata, rispetto alla pletora di nudi femminili cui fanno ricorso la pubblicità e la stampa”, specie in Italia, e ricorda che il Pd non cessa di denunciare la politica delle Veline, oltre che gli eccessi di Mr B e della sua ‘compagnia bella’, Emilio, Lele, Nicole e via dicendo. Ma la campagna del Pd fa storcere lo stesso il naso alle militanti del partito, che vi vedono una strizzatina d’occhi “al ‘machismo’ italiano che non ha pari in Europa”. Che sia davvero il vento del cambiamento, o piuttosto quello di un conservatorismo sessista, “la campagna cade male”: il refolo dei manifesti annuncia la tempesta delle polemiche.
sabato 25 giugno 2011
SPIGOLI. il presidente e il pensionato, Sarkò contro Gates
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/06/2011
Non gliele manda davvero a dire, il presidente francese Nicolas Sarkozy al segretario alla difesa americano Robert Gates: gliele canta chiare, perchè il capo del Pentagono ha denunciato “le lacune” del contributo degli europei alla Nato. Per Sarkozy, Gates ha parlato «in preda all’amarezza» di chi «va in pensione» prima di quando sperava, perchè il presidente Barak Obama sta per sostituirlo al vertice dell’apparato militare degli Stati Uniti (un avvicendamento, per la verità, annunciato e concordato). Sarkozy risponde alla domanda di un giornalista, al termine del Vertice europeo di Bruxelles, ed è ben preparato: «Mica si puo’ portare rancore a un pensionato», comincia. E poi va alla sostanza: «Non ho l’impressione che in Libia l’essenziale del lavoro sia fatto dagli americani», che, dopo la prima gragnuola di missili cuise e le prime ondate di raid, si sono dati. «I nostri amici americani hanno in Libia due droni e un po’ di aerei cisterna e noi lo apprezziamo, ma non verrebbe mai in mente a un uomo intelligente e responsabile come il presidente Obama di dire che l’America fa il grosso dello sforzo in Libia. E’ una dichiarazione ingiusta, che cade nel momento sbagliato e che non corrisponde assolutamente alla realtà». Sarkozy è davvero irritato: i leaders dell’Ue hanno appena deciso di mantenere la pressione su Gheddafi perchè il dittatore se ne vada; nessuno stallo e nessuno scacco, anzi le forze lealiste «arretrano ovunque». Ma la polemica non vieta a Sarkozy di marciare sulle orme di Obama in Afghanistan: gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro di 31mila uomini su oltre 100mila entro un anno e la Francia fa sapere che ne richiamerà «parecchie centinaia» (su 4.000 circa).
Non gliele manda davvero a dire, il presidente francese Nicolas Sarkozy al segretario alla difesa americano Robert Gates: gliele canta chiare, perchè il capo del Pentagono ha denunciato “le lacune” del contributo degli europei alla Nato. Per Sarkozy, Gates ha parlato «in preda all’amarezza» di chi «va in pensione» prima di quando sperava, perchè il presidente Barak Obama sta per sostituirlo al vertice dell’apparato militare degli Stati Uniti (un avvicendamento, per la verità, annunciato e concordato). Sarkozy risponde alla domanda di un giornalista, al termine del Vertice europeo di Bruxelles, ed è ben preparato: «Mica si puo’ portare rancore a un pensionato», comincia. E poi va alla sostanza: «Non ho l’impressione che in Libia l’essenziale del lavoro sia fatto dagli americani», che, dopo la prima gragnuola di missili cuise e le prime ondate di raid, si sono dati. «I nostri amici americani hanno in Libia due droni e un po’ di aerei cisterna e noi lo apprezziamo, ma non verrebbe mai in mente a un uomo intelligente e responsabile come il presidente Obama di dire che l’America fa il grosso dello sforzo in Libia. E’ una dichiarazione ingiusta, che cade nel momento sbagliato e che non corrisponde assolutamente alla realtà». Sarkozy è davvero irritato: i leaders dell’Ue hanno appena deciso di mantenere la pressione su Gheddafi perchè il dittatore se ne vada; nessuno stallo e nessuno scacco, anzi le forze lealiste «arretrano ovunque». Ma la polemica non vieta a Sarkozy di marciare sulle orme di Obama in Afghanistan: gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro di 31mila uomini su oltre 100mila entro un anno e la Francia fa sapere che ne richiamerà «parecchie centinaia» (su 4.000 circa).
venerdì 24 giugno 2011
Libia: Gheddafi fa muro di gomma, la Nato si sgretola
Il dittatore libico Muammar Gheddafi ammette di sentirsi «con le spalle al muro», ma promette di battersi «fino alla morte» : in un messaggio radiofonico, il colonnello denuncia i raid della Nato che hanno fatto vittime civili in Libia e che hanno innescato divisioni e tensioni nell’Alleanza atlantica.
I leader dei 27 dell’Ue si riuniscono a Bruxelles per un Vertice europeo che deve discutere di Libia e di Siria –ieri, le sanzioni europee contro Damasco sono state inasprite-, ma deve soprattutto affrontare la crisi greca, nominare Mario Draghi presidente della Banca centrale europea e affrontare i problemi dell’ immigrazione alla luce della ‘primavera araba’. E l’Agenzia internazionale dell’energia decide d’utilizzare 60 milioni di barili delle riserve strategiche di petrolio di 28 Paesi industrializzati per compensare lo stop all’export libico. L’annuncio fa immediatamente calare i corsi dell’ ‘oro nero’ sui mercati mondiali.
Oggi, i capi di Stato e di governo dell’Ue esprimeranno l’auspicio che il conflitto si concluda il più in fretta possible. Il premier britannico David Cameron ritiene che
«il tempo gioca contro Gheddafi». Ma dopo oltre quattro mesi, ormai, di rivolta, quando la guerra della Nato s’appresta a toccare i cento giorni, il leader libico minaccia di proseguire «la battaglia fino all’al di là», mentre gli errori di tiro Nato costano vittime civili e creano frizioni fra gli alleati.
L’impressione, in realtà, è che il dittatore punti a tenere duro fin oltre l’estate, perchè a settembre i conti delle operazioni si faranno pesanti, per Paesi, fra cui l’Italia, tutti impegnati a contenere il debito per rimettere in sesto le finanze e rilanciare la crescita. Londra, ad esempio, calcola in 281 milioni di euro la fattura di sei mesi di conflitto.
L’Alleanza ha già prolungato la campagna ‘Unified Protector’ fino a tutta l’estate, nonostante i fermenti e i mugugni in Italia e pure in America. Le operazioni militari sembrano essere entrate in una nuova fase, con attacchi ai posti di controllo lealisti lungo le strade che conducono a Tripoli e contro i veicoli militari leggeri su cui sono montate armi anti-aeree o anti-carro.
La sortita di Gheddafi è una risposta al raid della Nato che, lunedi’, avrebbe colpito la residenza di un politico libico, Khouildi Hemidi, vecchio amico del colonnello. Secondo il regime, l’attacco ha fatto 15 vittime civili, fra cui dei bambini. La Nato sostiene, invece, di avere colpito «un centro di comando e di controllo di alto livello» e d’avere agito «con precisione». Gheddafi grida “assassini”, torna a denunciare la ‘crociata’ occidentale contro un Paese musulmano e proclama: “Resistiamo, resisteremo. Colpiteci con i vostri missili, due, tre, dieci, cent’anni”.
Pure i ribelli alzano il tono. Il Consiglio nazionale di transizione assicura che, con o senza l’appoggio alleato, «si batterà fino alla fine, fino alla vittoria». E, dal fronte, dove da settimane lo stallo è sostanziale, partono richieste di armi, munizioni, equipaggiamenti e sistemi di comuinicazione. Per Hillary Clinton, “l’insurrezione fa progressi evidenti”. E, fra i transfughi del regime, c’è chi prevede che Gheddafi lascerà il potere fra «due/tre settimane»: è la storia dei «giorni contatti» già sentita un sacco di volte.
Lunedi’, il Tribunale penale internazionale dell’Aja si pronuncerà sulla richiesta d'arresto di Gheddafi per crimini di guerra, fatta dal procuratore capo Luis Moreno Ocampo. I giudici decideranno pure sull’arresto di un figlio del colonnello, Seif al-Islam, e del capo dell'intelligence Abdullah al-Senussi.
I leader dei 27 dell’Ue si riuniscono a Bruxelles per un Vertice europeo che deve discutere di Libia e di Siria –ieri, le sanzioni europee contro Damasco sono state inasprite-, ma deve soprattutto affrontare la crisi greca, nominare Mario Draghi presidente della Banca centrale europea e affrontare i problemi dell’ immigrazione alla luce della ‘primavera araba’. E l’Agenzia internazionale dell’energia decide d’utilizzare 60 milioni di barili delle riserve strategiche di petrolio di 28 Paesi industrializzati per compensare lo stop all’export libico. L’annuncio fa immediatamente calare i corsi dell’ ‘oro nero’ sui mercati mondiali.
Oggi, i capi di Stato e di governo dell’Ue esprimeranno l’auspicio che il conflitto si concluda il più in fretta possible. Il premier britannico David Cameron ritiene che
«il tempo gioca contro Gheddafi». Ma dopo oltre quattro mesi, ormai, di rivolta, quando la guerra della Nato s’appresta a toccare i cento giorni, il leader libico minaccia di proseguire «la battaglia fino all’al di là», mentre gli errori di tiro Nato costano vittime civili e creano frizioni fra gli alleati.
L’impressione, in realtà, è che il dittatore punti a tenere duro fin oltre l’estate, perchè a settembre i conti delle operazioni si faranno pesanti, per Paesi, fra cui l’Italia, tutti impegnati a contenere il debito per rimettere in sesto le finanze e rilanciare la crescita. Londra, ad esempio, calcola in 281 milioni di euro la fattura di sei mesi di conflitto.
L’Alleanza ha già prolungato la campagna ‘Unified Protector’ fino a tutta l’estate, nonostante i fermenti e i mugugni in Italia e pure in America. Le operazioni militari sembrano essere entrate in una nuova fase, con attacchi ai posti di controllo lealisti lungo le strade che conducono a Tripoli e contro i veicoli militari leggeri su cui sono montate armi anti-aeree o anti-carro.
La sortita di Gheddafi è una risposta al raid della Nato che, lunedi’, avrebbe colpito la residenza di un politico libico, Khouildi Hemidi, vecchio amico del colonnello. Secondo il regime, l’attacco ha fatto 15 vittime civili, fra cui dei bambini. La Nato sostiene, invece, di avere colpito «un centro di comando e di controllo di alto livello» e d’avere agito «con precisione». Gheddafi grida “assassini”, torna a denunciare la ‘crociata’ occidentale contro un Paese musulmano e proclama: “Resistiamo, resisteremo. Colpiteci con i vostri missili, due, tre, dieci, cent’anni”.
Pure i ribelli alzano il tono. Il Consiglio nazionale di transizione assicura che, con o senza l’appoggio alleato, «si batterà fino alla fine, fino alla vittoria». E, dal fronte, dove da settimane lo stallo è sostanziale, partono richieste di armi, munizioni, equipaggiamenti e sistemi di comuinicazione. Per Hillary Clinton, “l’insurrezione fa progressi evidenti”. E, fra i transfughi del regime, c’è chi prevede che Gheddafi lascerà il potere fra «due/tre settimane»: è la storia dei «giorni contatti» già sentita un sacco di volte.
Lunedi’, il Tribunale penale internazionale dell’Aja si pronuncerà sulla richiesta d'arresto di Gheddafi per crimini di guerra, fatta dal procuratore capo Luis Moreno Ocampo. I giudici decideranno pure sull’arresto di un figlio del colonnello, Seif al-Islam, e del capo dell'intelligence Abdullah al-Senussi.
giovedì 23 giugno 2011
Libia: coro di no alla tregua di Frattini ad uso della Lega
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/06/2011
Che sia farina del suo sacco, o che gliel’abbia suggerito Mr B o chi per lui, il ministro degli esteri Franco Frattini prova a gettare un sasso nella sabbia della Libia per levare le castagne di Pontida dal fuoco sotto il governo: è «fondamentale un’immediata sospensione umanitaria delle ostilità per creare corridoi umanitari», dice di fronte alla commissione del Senato. 'Fermi tutti', insomma, ribelli, lealisti e forze della Nato, cosi' la Lega sta buona.
Ma le reazioni sono cosi’ negative che, di li’ a poco, il portavoce della Farnesina deve puntualizzare le dichiarazioni del suo ministro: il ‘fermi tutti’ è «un’ipotesi di lavoro» e «non una proposta italiana» e riguarderebbe «aree circoscritte, come ad esempio Misurata e le montagne dell’Ovest». In collegamento con la tv satellitare al-Jazira, subito ‘attizzata’ dalla sortita di Frattini, l’ambasciatore Maurizio Massari aggiunge che l’ipotesi “non mette in discussione la no-fly zone e la missione della Nato”. Più tardi la Farnesina torna sul tema: «L’obiettivo resta una soluzione politica, ma siamo determinati a portare avanti la missione della Nato».
Il ministro della difesa Ignazio La Russa sposta lo sguardo a dopo l’estate: dell’impegno dell’Italia in Libia, prevede, si discuterà forse fra tre mesi, saltando cosi’ a pie’ pari il dibattito in Parlamento sul rifinanziamento delle missioni all’estero e la riunione del Consiglio Superiore della Difesa il 6 luglio.
Di chi sia l’ipotesi di lavoro, se non dell’Italia, pero’, non si capisce, visto che nessuno se l’accolla, anzi tutti la respingono. Senza citare Frattini, il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen fa una video dichiarazione sul sito dell’Alleanza atlantica: «Continueremo la nostra missione, perchè, se ci fermiamo, un numero di civili imprecisato perderebbe la vita».
Proprio quei civili per cui Frattini, sempre in Senato, rivolge una raccomandazione alla Nato, dopo gli ‘errori’ ammessi dei giorni scorsi, con numerose vittime, perchè uccidere civili «non è la missione dell’Alleanza», sui cui « esiti e risultati é opportuno chiedere informazioni sempre più dettagliate ». Su questo punto, il quartier generale Nato ovviamente concorda: massimo impegno per evitare ‘danni collaterali’.
Sull’idea del ‘fermi tutti’, invece, piovono i no: a Londra, Downing Street sostiene che la coalizione internazionale non deve arrestarsi, neppure temporaneamente, e afferma anzi che la Nato continuerà a “intensificare le azioni sulla Libia »; a Parigi, il Quai d’Orsay ricorda le conclusioni unanimi del Gruppo di Contatto copresieduto ad Abu Dhabi proprio da Frattini, secondo cui «bisogna aumentare la pressione su Gheddafi».
La sortita italiana non é l’unica novità diplomatica nel conflitto libico, che, al fronte, vede nuovi raids Ntao su Khoms e Nalout. La Cina riconosce per la prima volta il Cnt come «interlocutore importante». E l’Organizzazione della Conferenza Islamica invia una missione di mediazione in Libia: parlerà prima con i ribelli e poi con il regime.
Di Libia, come di Siria, dove Frattini dice che «un intervento sarebbe destabilizzante per il Medio Oriente», i leader dei 27 parlano, oggi, e domani, al Vertice di Bruxelles, i cui temi principali sono la crisi greca, la governance economica e l’immigrazione. Cecilia Malmstroem, commissaria europea agli affari interni, in una lettera al Vertice chiede ai capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue di «dimostrare di essere seri», davanti ai flussi migratori dal Nord Africa, finora relativamente modesti, e di smettere «di essere ostaggi del populismo».
Che sia farina del suo sacco, o che gliel’abbia suggerito Mr B o chi per lui, il ministro degli esteri Franco Frattini prova a gettare un sasso nella sabbia della Libia per levare le castagne di Pontida dal fuoco sotto il governo: è «fondamentale un’immediata sospensione umanitaria delle ostilità per creare corridoi umanitari», dice di fronte alla commissione del Senato. 'Fermi tutti', insomma, ribelli, lealisti e forze della Nato, cosi' la Lega sta buona.
Ma le reazioni sono cosi’ negative che, di li’ a poco, il portavoce della Farnesina deve puntualizzare le dichiarazioni del suo ministro: il ‘fermi tutti’ è «un’ipotesi di lavoro» e «non una proposta italiana» e riguarderebbe «aree circoscritte, come ad esempio Misurata e le montagne dell’Ovest». In collegamento con la tv satellitare al-Jazira, subito ‘attizzata’ dalla sortita di Frattini, l’ambasciatore Maurizio Massari aggiunge che l’ipotesi “non mette in discussione la no-fly zone e la missione della Nato”. Più tardi la Farnesina torna sul tema: «L’obiettivo resta una soluzione politica, ma siamo determinati a portare avanti la missione della Nato».
Il ministro della difesa Ignazio La Russa sposta lo sguardo a dopo l’estate: dell’impegno dell’Italia in Libia, prevede, si discuterà forse fra tre mesi, saltando cosi’ a pie’ pari il dibattito in Parlamento sul rifinanziamento delle missioni all’estero e la riunione del Consiglio Superiore della Difesa il 6 luglio.
Di chi sia l’ipotesi di lavoro, se non dell’Italia, pero’, non si capisce, visto che nessuno se l’accolla, anzi tutti la respingono. Senza citare Frattini, il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen fa una video dichiarazione sul sito dell’Alleanza atlantica: «Continueremo la nostra missione, perchè, se ci fermiamo, un numero di civili imprecisato perderebbe la vita».
Proprio quei civili per cui Frattini, sempre in Senato, rivolge una raccomandazione alla Nato, dopo gli ‘errori’ ammessi dei giorni scorsi, con numerose vittime, perchè uccidere civili «non è la missione dell’Alleanza», sui cui « esiti e risultati é opportuno chiedere informazioni sempre più dettagliate ». Su questo punto, il quartier generale Nato ovviamente concorda: massimo impegno per evitare ‘danni collaterali’.
Sull’idea del ‘fermi tutti’, invece, piovono i no: a Londra, Downing Street sostiene che la coalizione internazionale non deve arrestarsi, neppure temporaneamente, e afferma anzi che la Nato continuerà a “intensificare le azioni sulla Libia »; a Parigi, il Quai d’Orsay ricorda le conclusioni unanimi del Gruppo di Contatto copresieduto ad Abu Dhabi proprio da Frattini, secondo cui «bisogna aumentare la pressione su Gheddafi».
La sortita italiana non é l’unica novità diplomatica nel conflitto libico, che, al fronte, vede nuovi raids Ntao su Khoms e Nalout. La Cina riconosce per la prima volta il Cnt come «interlocutore importante». E l’Organizzazione della Conferenza Islamica invia una missione di mediazione in Libia: parlerà prima con i ribelli e poi con il regime.
Di Libia, come di Siria, dove Frattini dice che «un intervento sarebbe destabilizzante per il Medio Oriente», i leader dei 27 parlano, oggi, e domani, al Vertice di Bruxelles, i cui temi principali sono la crisi greca, la governance economica e l’immigrazione. Cecilia Malmstroem, commissaria europea agli affari interni, in una lettera al Vertice chiede ai capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Ue di «dimostrare di essere seri», davanti ai flussi migratori dal Nord Africa, finora relativamente modesti, e di smettere «di essere ostaggi del populismo».
mercoledì 22 giugno 2011
Ue: a Strasburgo, i banchi italiani restano spesso vuoti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/06/2011
Prendi i voti, e i soldi, e poi scappa; o, almeno, non farti vedere in giro spesso, tra Strasburgo e Bruxelles. E’ la ‘politica dell’assenteismo’ di molti deputati europei italiani : la ‘politica del seggio vuoto’. A due anni dall’elezione a suffragio universale della settima legislatura del Parlamento europeo, Andrea D’Ambra, giornalista, si ripete: stila le ‘pagelle’ degli europarlamentari italiani, chi c’è (quasi) sempre e chi non c’è (proprio) mai, nelle aule delle plenarie e delle commissioni.
L’esercizio ha il pregio della chiarezza, della semplicità e dell’oggettività, anche se il criterio delle presenze non è l’unico per valutare l’operato di un parlamentare, nazionale od europeo che sia: bisognerebbe pure prendere in considerazione i rapporti stilati, gli emendamenti presentati, le interrogazioni fatte, gli interventi in aula e in commissione , le partecipazioni a missioni. D’Ambra, 28 anni, giornalista, presidente di Generazione Attiva, un’associazione in difesa dei consumatori da lui stesso creata, non è pero’ d’accordo: «Quegli elementi –dice a Il Fatto- non sono un indice corretto quanto la presenza, perchè interrogazioni ed emendamenti sono sovente fatti da altri, specie dagli assistenti parlamentari».
Quello che D’Ambra stigmatizza, nel commento alla classifica pubblicata sul suo sito, è che le assenze degli eurodeputati «non sono penalizzate in sede retributiva», a parte l’incidenza su indennità come quella di soggiorno o i rimborsi spese. Le assenze, per quanto ingiustificate esse siano, non decurtano il compenso di base, che è variabile, ma che si situa intorno ai 7mila euro al mese. L’assenteismo parlamentare non è uno scandalo solo italiano, ma non è certo il caso di dire ‘mal comune mezzo gaudio’. Anche perchè chi non c’è non puo’ poi lamenbtarsi dello strapotere tedesco nell’emiciclo di Strasburgo, dove gli eurodeputati d’oltre Reno sono teutonicamente presenti sempre in massa: vero che sono ‘vicini’, ma lo sono pure, e anzi di più, francesi e beneluxiani.
I criteri di giudizio di D’Ambra sono molto severi: dà ottimo solo agli ‘stakanovisti’ del Parlamento europeo, quelli che sono sempre presenti. Il percorso netto è riuscito, per il secondo anno consecutivo, a Giovanni La Via, Pdl, e ad Oreste Rossi, Lega, cui s’è aggiunto Francesco Speroni, leader della pattuglia leghista nell’Assemblea Ue: tre su 71.
Prendono ‘buono’ 11 eurodeputati, le cui presenze superano il 95%. In questa pattuglia di punta, troviamo qualche ‘tenore’ della rappresentaza italiana al Parlamento europeo, come il vice-presidente vicario dell’Assemblea Gianni Pittella (Pd), il capo della delegazione del Pdl Mario Mauro, l’ex leader della Cgil e sindaco di Bologna Sergio Cofferati. (Pd) e l’efficiente e apprezzato Roberto Gualtieri (Pd).
I ‘sufficienti’ sono, sempre per D’Ambra, quelli le cui presenze suprano il 90%: 16 eurodeputati, fra cui Roberta Angelilli, Pdl, vice-presidente dell’Assemblea, David-Maria Sassoli, capogruppo del Pd, Carlo Casini, Udc, presidente della Commissione Istituzionale, Gabriele Albertini, Pdl, presidente della Commissione Esteri, Vittorio Prodi, Pd, il professore fratello dell’ex premier pure professore Romano.
Al di sotto del 90% di presenze, che comunque vuol dire un assenteismo del 10%, nettamente superiore a quello medio nelle fabbriche e negli uffici, persino nelle scuole, nelle redazioni e nelle pubbliche amministrazioni, restano 41 eurodeputati italiani, quasi il 60% della rappresentanza italiana al Parlemento europeo. D’Ambra li boccia tutti, ma, con scelta personale e arbitraria, ne classifica una pattuglia di cinque come mediocri –fra essi, Iva Zanicchi, berlusconiana in scena e sul seggio-, mentre tutti gli altri li ‘bolla’ come insufficienti, scarsi e scarsissimi. Sono cosi’ ‘marchiati’ nomi eccellenti, come Pino Arlacchi (Pd), Elisabetta Gardini (Pdl), Silvia Costa (Pd), Paolo De Castro (Pd, ex ministro, presidente della Commissione Agricoltura), Mario Borghezio (Lega, uno che, dalla quantità di dichiarazioni che produce, si direbbe che c’è sempre), Sonia Alfano (Idv), Debora Serracchiani (Pd), Gianni Vattimo (Idv). Sotto l’80%, ci sono Patrizia Toia (Pd, un ex ministro), Clemente Mastella (ex un po’ di tutto: ma che mai avrà da fare di meglio che guadagnarsi almeno questo stipendio?), Rita Borsellino (Pd).
La lista degli ‘scarsi’ è aperta da Luigi Berlinguer (Pd) e Luigi De Magistris (Idv, neo-sindaco di Napoli e certo penalizzato nella classifica delle frequentazioni europee dalla campagna elettorale che l’ha visto protagonista e vincitore). Gli scarsissimi sono sei e stanno sotto il 70%: in pratica, una volta su tre non ci sono. Nomi poco noti, come Vincenzo Iovine (Api) e Crescenzio Rivellini (Pdl), ma anche, e proprio agli ultimi quattro posti, nomi che fanno sussultare, come il convertito Magdi Cristiano Allam, che sta nel Ppe, l’ex premier dc Cristiano De Mita, che sta pure nel Ppe ma come Udc, e i pdl Vito Bonsignore e Alfredo Antoniozzi, l’unico sotto il 60%. Vero è che Antoniozzi ha un doppio lavoro, perchè fa pure l’assessore alla casa al Comune di Roma, ma cosi’, dividendosi a metà, dovrebbe prendere due mezzi stipendi (e non due stipendi interi).
Prendi i voti, e i soldi, e poi scappa; o, almeno, non farti vedere in giro spesso, tra Strasburgo e Bruxelles. E’ la ‘politica dell’assenteismo’ di molti deputati europei italiani : la ‘politica del seggio vuoto’. A due anni dall’elezione a suffragio universale della settima legislatura del Parlamento europeo, Andrea D’Ambra, giornalista, si ripete: stila le ‘pagelle’ degli europarlamentari italiani, chi c’è (quasi) sempre e chi non c’è (proprio) mai, nelle aule delle plenarie e delle commissioni.
L’esercizio ha il pregio della chiarezza, della semplicità e dell’oggettività, anche se il criterio delle presenze non è l’unico per valutare l’operato di un parlamentare, nazionale od europeo che sia: bisognerebbe pure prendere in considerazione i rapporti stilati, gli emendamenti presentati, le interrogazioni fatte, gli interventi in aula e in commissione , le partecipazioni a missioni. D’Ambra, 28 anni, giornalista, presidente di Generazione Attiva, un’associazione in difesa dei consumatori da lui stesso creata, non è pero’ d’accordo: «Quegli elementi –dice a Il Fatto- non sono un indice corretto quanto la presenza, perchè interrogazioni ed emendamenti sono sovente fatti da altri, specie dagli assistenti parlamentari».
Quello che D’Ambra stigmatizza, nel commento alla classifica pubblicata sul suo sito, è che le assenze degli eurodeputati «non sono penalizzate in sede retributiva», a parte l’incidenza su indennità come quella di soggiorno o i rimborsi spese. Le assenze, per quanto ingiustificate esse siano, non decurtano il compenso di base, che è variabile, ma che si situa intorno ai 7mila euro al mese. L’assenteismo parlamentare non è uno scandalo solo italiano, ma non è certo il caso di dire ‘mal comune mezzo gaudio’. Anche perchè chi non c’è non puo’ poi lamenbtarsi dello strapotere tedesco nell’emiciclo di Strasburgo, dove gli eurodeputati d’oltre Reno sono teutonicamente presenti sempre in massa: vero che sono ‘vicini’, ma lo sono pure, e anzi di più, francesi e beneluxiani.
I criteri di giudizio di D’Ambra sono molto severi: dà ottimo solo agli ‘stakanovisti’ del Parlamento europeo, quelli che sono sempre presenti. Il percorso netto è riuscito, per il secondo anno consecutivo, a Giovanni La Via, Pdl, e ad Oreste Rossi, Lega, cui s’è aggiunto Francesco Speroni, leader della pattuglia leghista nell’Assemblea Ue: tre su 71.
Prendono ‘buono’ 11 eurodeputati, le cui presenze superano il 95%. In questa pattuglia di punta, troviamo qualche ‘tenore’ della rappresentaza italiana al Parlamento europeo, come il vice-presidente vicario dell’Assemblea Gianni Pittella (Pd), il capo della delegazione del Pdl Mario Mauro, l’ex leader della Cgil e sindaco di Bologna Sergio Cofferati. (Pd) e l’efficiente e apprezzato Roberto Gualtieri (Pd).
I ‘sufficienti’ sono, sempre per D’Ambra, quelli le cui presenze suprano il 90%: 16 eurodeputati, fra cui Roberta Angelilli, Pdl, vice-presidente dell’Assemblea, David-Maria Sassoli, capogruppo del Pd, Carlo Casini, Udc, presidente della Commissione Istituzionale, Gabriele Albertini, Pdl, presidente della Commissione Esteri, Vittorio Prodi, Pd, il professore fratello dell’ex premier pure professore Romano.
Al di sotto del 90% di presenze, che comunque vuol dire un assenteismo del 10%, nettamente superiore a quello medio nelle fabbriche e negli uffici, persino nelle scuole, nelle redazioni e nelle pubbliche amministrazioni, restano 41 eurodeputati italiani, quasi il 60% della rappresentanza italiana al Parlemento europeo. D’Ambra li boccia tutti, ma, con scelta personale e arbitraria, ne classifica una pattuglia di cinque come mediocri –fra essi, Iva Zanicchi, berlusconiana in scena e sul seggio-, mentre tutti gli altri li ‘bolla’ come insufficienti, scarsi e scarsissimi. Sono cosi’ ‘marchiati’ nomi eccellenti, come Pino Arlacchi (Pd), Elisabetta Gardini (Pdl), Silvia Costa (Pd), Paolo De Castro (Pd, ex ministro, presidente della Commissione Agricoltura), Mario Borghezio (Lega, uno che, dalla quantità di dichiarazioni che produce, si direbbe che c’è sempre), Sonia Alfano (Idv), Debora Serracchiani (Pd), Gianni Vattimo (Idv). Sotto l’80%, ci sono Patrizia Toia (Pd, un ex ministro), Clemente Mastella (ex un po’ di tutto: ma che mai avrà da fare di meglio che guadagnarsi almeno questo stipendio?), Rita Borsellino (Pd).
La lista degli ‘scarsi’ è aperta da Luigi Berlinguer (Pd) e Luigi De Magistris (Idv, neo-sindaco di Napoli e certo penalizzato nella classifica delle frequentazioni europee dalla campagna elettorale che l’ha visto protagonista e vincitore). Gli scarsissimi sono sei e stanno sotto il 70%: in pratica, una volta su tre non ci sono. Nomi poco noti, come Vincenzo Iovine (Api) e Crescenzio Rivellini (Pdl), ma anche, e proprio agli ultimi quattro posti, nomi che fanno sussultare, come il convertito Magdi Cristiano Allam, che sta nel Ppe, l’ex premier dc Cristiano De Mita, che sta pure nel Ppe ma come Udc, e i pdl Vito Bonsignore e Alfredo Antoniozzi, l’unico sotto il 60%. Vero è che Antoniozzi ha un doppio lavoro, perchè fa pure l’assessore alla casa al Comune di Roma, ma cosi’, dividendosi a metà, dovrebbe prendere due mezzi stipendi (e non due stipendi interi).
martedì 21 giugno 2011
SPIGOLI: Afghanistan, Omar tratta, Obama e Mr B godono
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/06/2011
Stai a vedere che a togliere un po' di castagne dal fuoco a Mr Obama, come pure a Mr B, finiranno con l'essere il mullah Omar e la sua banda di guerriglieri integralisti, i talebani. Robert Gates, segretario alla difesa Usa in fase di 'sgancio', conferma i « contati esplorativi » con gli insorti, che, dal 2001, danno filo da torcere alle truppe americane e ai loro alleati. Tutto sta a capire, aggiunge Gates, chi davvero li rappresenti al tavolo della trattativa, perchè gli americani hanno già preso lucciole per lanterne facendosi menare per il naso (e gabbare un bel gruzzolo) da un finto talebano vero truffatore. Obama vuole mantenere l'impegno di cominciare a ridurre le truppe in Afghanistan da luglio e Mr B, a questo punto, ha più fretta di lui: farebbe contenti d'un colpo solo Calderoli e Tremonti. Fa nulla se ci si lascia dietro un Paese per nulla pacificato: le cronache di laggiù continuano a riferire di azioni di guerra e di atti di terrorismo e l'Onu calcola che il mese di maggio è stato il più cruento dal 2007 per la popolazione civile, 368 morti, molti bambini. Del resto, l'Iraq non sta meglio: ieri a Baghdad un attentato contro un convoglio di veicoli dell'ambasciata di Francia nel quartiere di Masbah, ha fatto vittime fra la scorta e i civili. A facilitare la trattativa con i talebani, potrebbe essere stata l'eliminazione in Pakistan il 1o maggio del capo di al Qaida Osama bin Laden e, ancor più, la sua sostituzione, al vertice della rete, con il medico egiziano Ayman al Zawahiri, 'ufficializzata' la settimana scorsa dall'organizzazione terroristica. Tra Omar e bin Laden, l'intesa era forte; tra Omar e al Zawahiri -è la voce che corre- non c'è proprio. E, dunque, il mullah sarebbe ora incline a 'scaricare', in cambio della pace, dell'immunità e magari di una fetta di potere, al Qaida, mentre il nuovo capo della rete s'impegna a « continuare la jihad di Bin Laden” e minaccia Usa e Pakistan.
Stai a vedere che a togliere un po' di castagne dal fuoco a Mr Obama, come pure a Mr B, finiranno con l'essere il mullah Omar e la sua banda di guerriglieri integralisti, i talebani. Robert Gates, segretario alla difesa Usa in fase di 'sgancio', conferma i « contati esplorativi » con gli insorti, che, dal 2001, danno filo da torcere alle truppe americane e ai loro alleati. Tutto sta a capire, aggiunge Gates, chi davvero li rappresenti al tavolo della trattativa, perchè gli americani hanno già preso lucciole per lanterne facendosi menare per il naso (e gabbare un bel gruzzolo) da un finto talebano vero truffatore. Obama vuole mantenere l'impegno di cominciare a ridurre le truppe in Afghanistan da luglio e Mr B, a questo punto, ha più fretta di lui: farebbe contenti d'un colpo solo Calderoli e Tremonti. Fa nulla se ci si lascia dietro un Paese per nulla pacificato: le cronache di laggiù continuano a riferire di azioni di guerra e di atti di terrorismo e l'Onu calcola che il mese di maggio è stato il più cruento dal 2007 per la popolazione civile, 368 morti, molti bambini. Del resto, l'Iraq non sta meglio: ieri a Baghdad un attentato contro un convoglio di veicoli dell'ambasciata di Francia nel quartiere di Masbah, ha fatto vittime fra la scorta e i civili. A facilitare la trattativa con i talebani, potrebbe essere stata l'eliminazione in Pakistan il 1o maggio del capo di al Qaida Osama bin Laden e, ancor più, la sua sostituzione, al vertice della rete, con il medico egiziano Ayman al Zawahiri, 'ufficializzata' la settimana scorsa dall'organizzazione terroristica. Tra Omar e bin Laden, l'intesa era forte; tra Omar e al Zawahiri -è la voce che corre- non c'è proprio. E, dunque, il mullah sarebbe ora incline a 'scaricare', in cambio della pace, dell'immunità e magari di una fetta di potere, al Qaida, mentre il nuovo capo della rete s'impegna a « continuare la jihad di Bin Laden” e minaccia Usa e Pakistan.
Libia: dopo Pontida, Napolitano stoppa la Lega, 'restiamo'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/06/2011
Bossi e la Lega, a Pontida, le loro richieste le hanno cantate chiare: basta con la guerra in Libia, che costa e fa scappare i profughi che vengono da noi; diteci quando finisce. Ma, mentre Frattini replica farfugliando tutto e il contrario di tutto, il presidente Napolitano la canta ancora più chiara (e la sua non è una campana stonata): l'impegno dell'Italia a schierarsi in Libia con i Paesi che hanno raccolto l'invito delle Nazioni Unite a usare la forza per proteggere i civili è stato sancito dal Parlamento e va rispettato, fino a voto contrario.
Piccato, Maroni rilancia: « Ci dicano quando l'intervento finirà », come se lui fosse terzo rispetto al governo e al Parlamento e non avesse voce in capitolo nelle decisioni. Il dibattito in Parlamento del 30 sul rinnovo delle missioni si annuncia 'caldo'.
Certo, a Maroni quando la missione finirà non glielo dirà la Nato, che ha già spiegato quel che tutti sanno, che le guerre non si fanno « a termine ». L'Alleanza, poi, ha altri crucci, in queste ore: prima nella notte tra sabato e domenica, poi di nuovo ieri, i raid sbagliano bersaglio e colpiscono civili -nove morti, fra cui dei bambini, in un quartiere di povera gente, nella prima azione; una quindicina nella seconda, che avrebbe distrutto la casa di un collaboratore di Gheddafi. E, sabato, sarebbe stata colpita per errore a Brega una colonna di ribelli, scambiati per 'lealisti'.
Dopo una rapida inchiesta, la Nato ammette l'errore, almeno per l'episodio all'alba di domenica, riconoscendo « un malfunzionamento tecnico »: un rito cui le forze internazionali sono tristemente abituate in Afghanistan, ma cui non s'erano ancora rassegnate in Libia
Napolitano parla celebrando a Roma la Giornata mondiale dei rifugiati- sono 43,7 milioni nel Mondo, i 4/5 sono accolti in Paesi in via di sviluppo-. Rispetto a quella del presidente, la risposta alla Lega di Frattini, a Lussemburgo per una riunione di ministri degli esteri dell'Ue, è ambigua: no a un ritiro unilaterale, ma no pure a uno « statu quo in Libia a tempo indeterminato ». Il ministro, che aveva replicato al primo affondo della Lega su 'basta Libia' assicurando che era « questione di giorni », adesso indica settembre come limite per i bombardamenti. E aggiunge che « la Nato non puo' correre il rischio di uccidere dei civili »: un esercizio d'ipocrisia, perchè, quando sganci bombe il rischio te l'assumi.
Gheddafi, poi, non pensa affatto di sgomberare 'a giorni': il regime respinge ogni ipotesi d'accordo che preveda l'uscita di scena del Colonnello -il turco Erdogan aveva provato a mediare, offrendo garanzie e immunità-. E gli insorti battono cassa in Occidente: « Siamo al verde, dateci i soldi del rais che avete congelato, o dateci soldi e basta ».
Alla Lega, e pure a Tremonti, si rizzano i capelli. Gli oltre 7mila militari italiani attualmente impegnati in missioni all’estero, una trentina, costano circa 900 milioni di euro al semestre: il 30, bisogna rinnovare gli stanziamenti. E la riflessione potrebbe proseguire nella successiva riunione del Consiglio Supremo di Difesa, il 6 luglio.
La missione più costosa è quella afghana: oltre 380 milioni, per un contingente di 4.200 militari. Per la Libia, sono stati stanziati circa 150 milioni per un trimestre (sette basi aeree coinvolte, 12 aerei e quattro unità navali). La presenza in Unifil in Libano costa 106 milioni (il contingente è di 1.780 persone); quella nei Balcani costa quasi 36 milioni (650 i militari italianiv
Bossi e la Lega, a Pontida, le loro richieste le hanno cantate chiare: basta con la guerra in Libia, che costa e fa scappare i profughi che vengono da noi; diteci quando finisce. Ma, mentre Frattini replica farfugliando tutto e il contrario di tutto, il presidente Napolitano la canta ancora più chiara (e la sua non è una campana stonata): l'impegno dell'Italia a schierarsi in Libia con i Paesi che hanno raccolto l'invito delle Nazioni Unite a usare la forza per proteggere i civili è stato sancito dal Parlamento e va rispettato, fino a voto contrario.
Piccato, Maroni rilancia: « Ci dicano quando l'intervento finirà », come se lui fosse terzo rispetto al governo e al Parlamento e non avesse voce in capitolo nelle decisioni. Il dibattito in Parlamento del 30 sul rinnovo delle missioni si annuncia 'caldo'.
Certo, a Maroni quando la missione finirà non glielo dirà la Nato, che ha già spiegato quel che tutti sanno, che le guerre non si fanno « a termine ». L'Alleanza, poi, ha altri crucci, in queste ore: prima nella notte tra sabato e domenica, poi di nuovo ieri, i raid sbagliano bersaglio e colpiscono civili -nove morti, fra cui dei bambini, in un quartiere di povera gente, nella prima azione; una quindicina nella seconda, che avrebbe distrutto la casa di un collaboratore di Gheddafi. E, sabato, sarebbe stata colpita per errore a Brega una colonna di ribelli, scambiati per 'lealisti'.
Dopo una rapida inchiesta, la Nato ammette l'errore, almeno per l'episodio all'alba di domenica, riconoscendo « un malfunzionamento tecnico »: un rito cui le forze internazionali sono tristemente abituate in Afghanistan, ma cui non s'erano ancora rassegnate in Libia
Napolitano parla celebrando a Roma la Giornata mondiale dei rifugiati- sono 43,7 milioni nel Mondo, i 4/5 sono accolti in Paesi in via di sviluppo-. Rispetto a quella del presidente, la risposta alla Lega di Frattini, a Lussemburgo per una riunione di ministri degli esteri dell'Ue, è ambigua: no a un ritiro unilaterale, ma no pure a uno « statu quo in Libia a tempo indeterminato ». Il ministro, che aveva replicato al primo affondo della Lega su 'basta Libia' assicurando che era « questione di giorni », adesso indica settembre come limite per i bombardamenti. E aggiunge che « la Nato non puo' correre il rischio di uccidere dei civili »: un esercizio d'ipocrisia, perchè, quando sganci bombe il rischio te l'assumi.
Gheddafi, poi, non pensa affatto di sgomberare 'a giorni': il regime respinge ogni ipotesi d'accordo che preveda l'uscita di scena del Colonnello -il turco Erdogan aveva provato a mediare, offrendo garanzie e immunità-. E gli insorti battono cassa in Occidente: « Siamo al verde, dateci i soldi del rais che avete congelato, o dateci soldi e basta ».
Alla Lega, e pure a Tremonti, si rizzano i capelli. Gli oltre 7mila militari italiani attualmente impegnati in missioni all’estero, una trentina, costano circa 900 milioni di euro al semestre: il 30, bisogna rinnovare gli stanziamenti. E la riflessione potrebbe proseguire nella successiva riunione del Consiglio Supremo di Difesa, il 6 luglio.
La missione più costosa è quella afghana: oltre 380 milioni, per un contingente di 4.200 militari. Per la Libia, sono stati stanziati circa 150 milioni per un trimestre (sette basi aeree coinvolte, 12 aerei e quattro unità navali). La presenza in Unifil in Libano costa 106 milioni (il contingente è di 1.780 persone); quella nei Balcani costa quasi 36 milioni (650 i militari italianiv
lunedì 20 giugno 2011
Estradizioni: chiediamo Cesare al Brasile, arriva Maria da Usa
Scritto per il blog de Il Fatto del 20/06/2011
Ci sono quelli, come Cesare Battisti, che noi vorremmo tanto che ci fossero estradati e che, invece, non ce li danno proprio indietro (anzi, li mettono in libertà nonostante quattro omicidi e le condanne all’ergastolo sul groppone). E ci sono quelli che manco sappiamo che esistono e che ci vogliono mandare indietro ad ogni costo, perché hanno rubato due mele o poco più. Il DailyMail racconta, riprendendola dalla stampa americana, la storia di Maria Renda, 55 anni, un’italiana che, da quando era bebè –aveva dieci mesi, quando i genitori la portarono in America-, ha sempre vissuto legalmente negli Stati Uniti. Aveva anche provato a ottenere la cittadinanza americana, che le era stata negata per qualche problema con la giustizia negli Anni Ottanta. Nel 2001, Maria fu condannata per possesso di sostanze stupefacenti, dopo che una squadra anti-narcotici aveva fatto irruzione in casa sua, e scontò la pena. Dieci anni dopo, non è chiaro perché, la giustizia americana s’è ricordata di lei: adesso, la donna rischia di essere ‘deportata’ come una ‘criminal alien’, che, detto così, suona molto male e un po’ fantascientifico, ma vuol dire solo ‘straniero che ha violato la legge’. Il suo avvocato ha raccontato alla FoxNews che, alcuni giorni or sono, agenti dell’immigrazione l’hanno prelevata all’alba dalla sua abitazione di La Rochelle, nel New Jersey, e l’hanno portata nel carcere per immigrati clandestini di Kearny, nonostante Maria sia in possesso dalla ‘carta verde’, un documento che è l’anticamera della cittadinanza. La famiglia ha ottenuto che fosse messa in libertà per ragioni umanitarie, perché le sue condizioni di salute sono precarie, ma resta la minaccia di ‘deportazione’. Pensate se Battisti, prima di sbarcare in Brasile, fosse transitato per New York: sarebbe già da anni nelle patrie galere.
Ci sono quelli, come Cesare Battisti, che noi vorremmo tanto che ci fossero estradati e che, invece, non ce li danno proprio indietro (anzi, li mettono in libertà nonostante quattro omicidi e le condanne all’ergastolo sul groppone). E ci sono quelli che manco sappiamo che esistono e che ci vogliono mandare indietro ad ogni costo, perché hanno rubato due mele o poco più. Il DailyMail racconta, riprendendola dalla stampa americana, la storia di Maria Renda, 55 anni, un’italiana che, da quando era bebè –aveva dieci mesi, quando i genitori la portarono in America-, ha sempre vissuto legalmente negli Stati Uniti. Aveva anche provato a ottenere la cittadinanza americana, che le era stata negata per qualche problema con la giustizia negli Anni Ottanta. Nel 2001, Maria fu condannata per possesso di sostanze stupefacenti, dopo che una squadra anti-narcotici aveva fatto irruzione in casa sua, e scontò la pena. Dieci anni dopo, non è chiaro perché, la giustizia americana s’è ricordata di lei: adesso, la donna rischia di essere ‘deportata’ come una ‘criminal alien’, che, detto così, suona molto male e un po’ fantascientifico, ma vuol dire solo ‘straniero che ha violato la legge’. Il suo avvocato ha raccontato alla FoxNews che, alcuni giorni or sono, agenti dell’immigrazione l’hanno prelevata all’alba dalla sua abitazione di La Rochelle, nel New Jersey, e l’hanno portata nel carcere per immigrati clandestini di Kearny, nonostante Maria sia in possesso dalla ‘carta verde’, un documento che è l’anticamera della cittadinanza. La famiglia ha ottenuto che fosse messa in libertà per ragioni umanitarie, perché le sue condizioni di salute sono precarie, ma resta la minaccia di ‘deportazione’. Pensate se Battisti, prima di sbarcare in Brasile, fosse transitato per New York: sarebbe già da anni nelle patrie galere.
domenica 19 giugno 2011
Usa: Obama, la Libia?, la crisi?, grazie, meglio il golf
Brutto segno, quando i presidenti americani giocano a golf: significa, spesso, che hanno dei problemi e che ne cercano una soluzione tra una buca e l’altra. Così, la partita a golf tra il presidente Barack Obama, che non è un campione, e lo speaker della Camera, il repubblicano John Boenher, leader dell’opposizione, è stata subito battezzata dai media “il summit del golf": un incontro organizzato per cominciare a discutere una soluzione bipartisan sui tagli da apportare al bilancio per contenere il debito pubblico.
Niente di nuovo sotto il cielo americano. Quando hanno dei grattacapi, i presidenti del ‘dopo Reagan’ (lui, per rilassarsi, andava a cavallo) fanno talora ricorso alla ‘diplomazia del golf’. I Bush padre e figlio, in realtà, preferivano andarsene a pesca, durante le vacanze nella casa di Kennebunkport, ma un match a golf in famiglia era fra i riti del week-end dei compleanni a inizio giugno –giocava pure Jeb, il fratello più giovane, per otto anni governatore della Florida-.
Che, poi, neppure bisogna esagerare i fastidi di Obama, che ci sono, ma sono meno oggi di due mesi or sono, a guardare almeno gli indici di popolarità. L’eliminazione del capo di al Qaida Osama bin Laden ha ridato smalto alla presidenza, nonostante la crisi continui ad appannare l’America, fiaccandone il morale e togliendole fiducia in se stessa. Nella campagna elettorale per le presidenziali 2012, che lui stesso ha già lanciato, il primo nero alla Casa Bianca deve, per il momento, temere i sussulti dell’economia più che la forza dei rivali. I repubblicani sono ancora alla ricerca d’un’alternativa credibile: i candidati alla nomination affrontatisi lunedì scorso nel primo dibattito pubblico sono ancora tutti dei ‘nani’ politici (e non solo perché erano sette).
Certo, può apparire stridente il contrasto fra le immagini di Obama che ‘va in buca’ con Boehner e le foto di Tripoli sotto i bombardamenti della Nato o di Misurata ancora teatro di combattimenti –pure ieri, vi sono state perdite fra i ribelli-. Ma il presidente degli Stati Uniti, per quanto abbia responsabilità globali più di qualsiasi altro leader politico, non può esserne schiacciato. E Obama, infatti, si prende un’altra licenza: dedica alla Festa del Papa, che negli Usa si celebra oggi, il suo video settimanale e afferma che “il lavoro del papà è il più duro e il più gratificante”.
Quello del presidente è una grana via l’altra: l’economia che pareva ripartita e che sembra invece frenare di nuovo; l’occupazione che sale con più lentezza del previsto; la riforma della sanità che non scalda i cuori degli americani. E, poi, c’è la novità di un Paese che s’è stancato, si direbbe, d’essere il gendarme del Mondo: contesta ad Obama l’impegno in Libia, non ha pazienza con gli alleati che parlano tanto e fanno poco e ha voglia di cominciare a venirsene via in fretta dall’Afghanistan.
Il Congresso, e non solo i repubblicani, rimprovera al presidente di non averlo consultato prima di decidere l’intervento in Libia. E il New York Times aggrava la posizione di Obama, denunciando che la Casa Bianca sentì il parere di du legali, che tutti e due suggerirono un passaggio parlamentare, e poi fece lo stesso di testa sua.
Ci vorrebbe qualche buona notizia, oltre che dal campo di golf, anche dai fronti di guerra. Invece, la Libia, che doveva essere un conflitto lampo, che quando il Congresso se ne fosse accorto sarebbe stato già finito, è andata in stallo. E i ribelli battono cassa: i soldi sono finiti, fa sapere da Bengasi il Consiglio nazionale transitorio, e l’Occidente, che pure ha appena promesso 200 milioni di dollari a vario titolo, non ci aiuta.
L’Afghanistan è pure peggio, con i talebani all’offensiva e al Qaida che si riorganizza dopo l’eliminazione di bin Laden (che nel frattempo ha acuito le tensioni diplomatiche tra Washington il Pakistan). Il presidente Karzai, con cui Obama non ha proprio feeling, denuncia che gli americani trattano con i nemici: una volta, il popolo a stelle e strisce sarebbe insorto contro una cosa de genere; oggi, spera che i negoziati ci siano davvero e che vadano in porto presto. Così, i ‘ragazzi’ tornano a casa e, magari, rimettono in moto l’Unione.
Niente di nuovo sotto il cielo americano. Quando hanno dei grattacapi, i presidenti del ‘dopo Reagan’ (lui, per rilassarsi, andava a cavallo) fanno talora ricorso alla ‘diplomazia del golf’. I Bush padre e figlio, in realtà, preferivano andarsene a pesca, durante le vacanze nella casa di Kennebunkport, ma un match a golf in famiglia era fra i riti del week-end dei compleanni a inizio giugno –giocava pure Jeb, il fratello più giovane, per otto anni governatore della Florida-.
Che, poi, neppure bisogna esagerare i fastidi di Obama, che ci sono, ma sono meno oggi di due mesi or sono, a guardare almeno gli indici di popolarità. L’eliminazione del capo di al Qaida Osama bin Laden ha ridato smalto alla presidenza, nonostante la crisi continui ad appannare l’America, fiaccandone il morale e togliendole fiducia in se stessa. Nella campagna elettorale per le presidenziali 2012, che lui stesso ha già lanciato, il primo nero alla Casa Bianca deve, per il momento, temere i sussulti dell’economia più che la forza dei rivali. I repubblicani sono ancora alla ricerca d’un’alternativa credibile: i candidati alla nomination affrontatisi lunedì scorso nel primo dibattito pubblico sono ancora tutti dei ‘nani’ politici (e non solo perché erano sette).
Certo, può apparire stridente il contrasto fra le immagini di Obama che ‘va in buca’ con Boehner e le foto di Tripoli sotto i bombardamenti della Nato o di Misurata ancora teatro di combattimenti –pure ieri, vi sono state perdite fra i ribelli-. Ma il presidente degli Stati Uniti, per quanto abbia responsabilità globali più di qualsiasi altro leader politico, non può esserne schiacciato. E Obama, infatti, si prende un’altra licenza: dedica alla Festa del Papa, che negli Usa si celebra oggi, il suo video settimanale e afferma che “il lavoro del papà è il più duro e il più gratificante”.
Quello del presidente è una grana via l’altra: l’economia che pareva ripartita e che sembra invece frenare di nuovo; l’occupazione che sale con più lentezza del previsto; la riforma della sanità che non scalda i cuori degli americani. E, poi, c’è la novità di un Paese che s’è stancato, si direbbe, d’essere il gendarme del Mondo: contesta ad Obama l’impegno in Libia, non ha pazienza con gli alleati che parlano tanto e fanno poco e ha voglia di cominciare a venirsene via in fretta dall’Afghanistan.
Il Congresso, e non solo i repubblicani, rimprovera al presidente di non averlo consultato prima di decidere l’intervento in Libia. E il New York Times aggrava la posizione di Obama, denunciando che la Casa Bianca sentì il parere di du legali, che tutti e due suggerirono un passaggio parlamentare, e poi fece lo stesso di testa sua.
Ci vorrebbe qualche buona notizia, oltre che dal campo di golf, anche dai fronti di guerra. Invece, la Libia, che doveva essere un conflitto lampo, che quando il Congresso se ne fosse accorto sarebbe stato già finito, è andata in stallo. E i ribelli battono cassa: i soldi sono finiti, fa sapere da Bengasi il Consiglio nazionale transitorio, e l’Occidente, che pure ha appena promesso 200 milioni di dollari a vario titolo, non ci aiuta.
L’Afghanistan è pure peggio, con i talebani all’offensiva e al Qaida che si riorganizza dopo l’eliminazione di bin Laden (che nel frattempo ha acuito le tensioni diplomatiche tra Washington il Pakistan). Il presidente Karzai, con cui Obama non ha proprio feeling, denuncia che gli americani trattano con i nemici: una volta, il popolo a stelle e strisce sarebbe insorto contro una cosa de genere; oggi, spera che i negoziati ci siano davvero e che vadano in porto presto. Così, i ‘ragazzi’ tornano a casa e, magari, rimettono in moto l’Unione.
sabato 18 giugno 2011
SPIGOLI: 'Lumbard' in America, tra stereotipi (e spintoni)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/06/2011
Italiani all’onore negli Stati Uniti, nel 150.o anniversario della nostra unità: se ne celebra il ruolo nella ‘rivoluzione’ americana. Ma italiani pure nella polvere degli stereotipi. Accade tutto in California (e raccontano tutto il San Francisco Chronicle e pure il Los Angeles Times). Da una parte, nasce un museo dell’indipendenza americana che dà spazio all’influenza del pensiero illuministico italiano, a cominciare da quello del Beccaria, sui padri fondatori degli Stati Uniti –che pero’ sulla pena di morte se ne sono infischiati-. Dall’altra parte, deputati dello Stato della California si insultano in aula e si prendono a spintoni quando uno di essi, repubblicano, irrita i colleghi, specie quelli di origine italiana, paragonando con disprezzo un progetto di legge “a una polizza d’assicurazione venduta da Tony Soprano”, il protagonista dell’omonima serie televisiva, italo-americano e mafioso, di casa tra New York e il New Jersey. Invitato a scusarsi, il repubblicano, che deve avere frequentato la ‘scuola Brunetta’, peggiora le cose: lo farà, afferma, con quegli italo-americani, se mai ve n’è uno, che non abbiano le mani in pasta con la mafia e che non siano capaci di truffe. Che brutta nomea ci portiamo dietro, fino a nove fusi orari di distanza. Certo, le cronache che arrivano dall’Italia fino in California non migliorano la situazione: la stampa estera parla del “giro di vite xenofobo” dato da Berlusconi ai suoi programmi “per contentare la Lega”. Ma ‘il Beccaria’, che gli americani l’abbiano in gloria, non era un ‘lumbard’ di Milano? Magari ‘il Bossi’ ne facesse un’icona della Lega.
Italiani all’onore negli Stati Uniti, nel 150.o anniversario della nostra unità: se ne celebra il ruolo nella ‘rivoluzione’ americana. Ma italiani pure nella polvere degli stereotipi. Accade tutto in California (e raccontano tutto il San Francisco Chronicle e pure il Los Angeles Times). Da una parte, nasce un museo dell’indipendenza americana che dà spazio all’influenza del pensiero illuministico italiano, a cominciare da quello del Beccaria, sui padri fondatori degli Stati Uniti –che pero’ sulla pena di morte se ne sono infischiati-. Dall’altra parte, deputati dello Stato della California si insultano in aula e si prendono a spintoni quando uno di essi, repubblicano, irrita i colleghi, specie quelli di origine italiana, paragonando con disprezzo un progetto di legge “a una polizza d’assicurazione venduta da Tony Soprano”, il protagonista dell’omonima serie televisiva, italo-americano e mafioso, di casa tra New York e il New Jersey. Invitato a scusarsi, il repubblicano, che deve avere frequentato la ‘scuola Brunetta’, peggiora le cose: lo farà, afferma, con quegli italo-americani, se mai ve n’è uno, che non abbiano le mani in pasta con la mafia e che non siano capaci di truffe. Che brutta nomea ci portiamo dietro, fino a nove fusi orari di distanza. Certo, le cronache che arrivano dall’Italia fino in California non migliorano la situazione: la stampa estera parla del “giro di vite xenofobo” dato da Berlusconi ai suoi programmi “per contentare la Lega”. Ma ‘il Beccaria’, che gli americani l’abbiano in gloria, non era un ‘lumbard’ di Milano? Magari ‘il Bossi’ ne facesse un’icona della Lega.
Libia: pane al pane, il gioco delle parti tra Nato, Usa, Ue e arabi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/06/2011
In principio, doveva solo essere una spallata: il regime pareva sul punto di collassare da un momento all’altro e una gragnuola di cruise e un grappolo di bombe bastavano -ci s'illudeva - a rompere l’equilibrio della reciproca impotenza tra Tripoli e Bengasi. Poi, quando s’è capito che la spallata non bastava, è stata una caccia all’uomo: a far fuori Gheddafi, colonnello dittatore, la Nato ci ha provato, colpendo più volte i suoi bunker, uccidendogli -forse, il dubbio resta- un figlio e tre nipoti. E adesso che il conflitto compie tre mesi, e l’insurrezione quattro, siamo alla guerra di mantenimento: i raid continuano -gli obiettivi colpiti sono stati oltre 2000-, le esplosioni scuotono ogni giorno Tripoli e i suoi dintorni -ieri almeno sei-, ma il pendolo dei combattimenti di terra continua a oscillare tra i lealisti e i ribelli -ora, tocca loro avanzare-.
Dopo essere andata ben al di la' del mandato dell'Onu di proteggere i civili, la Nato pare adesso ridotta a un piccolo cabotaggio bellico, tanto per mostrare fermezza e risolutezza: "L'isolamento del Colonnello aumenta, porteremo a compimento il nostro lavoro", dicono i portavoce. Nell'attesa che le parti, che, tra smentite e mezze ammissioni, si parlano da qualche parte, s’accordino fra di loro.
Tanto, a guardar bene, che ce ne importa? All’America, poco o nulla -loro, il petrolio libico manco lo compravano, mentre ora i ribelli glielo vendono-. All’Europa, poco del pari, una volta fatto il bel gesto di prendersela con il tiranno che maltratta il suo popolo. Agli arabi, amcora meno: Gheddafi e' sotto scacco e loro, questa ingerenza umanitaria la trangugiano malvolentieri, chè c’è sempre il rischio che qualcuno voglia esportarla a casa loro. Quanto all’Italia di Mr B, che e' ormai l'Italia della Lega, quel che conta e' tenere lontani profughi ed emigranti: Gheddafi o insorti, l’importante è che non facciano partire nessuno dalle loro coste. E cosi’ ecco Frattini tutto contento d'avere firmato un trattato coi ribelli -soddisfatto, bontà sua, del compiacimento della Lega- che, su questo punto, ricorda il trattato d’Amicizia con il dittatore. Il che avalla il sospetto che la nuova Libia, se mai verrà, non sia poi cosi' diversa, almeno per il rispetto dei diritti dell’uomo, dalla Libia di ieri, se mai se ne andrà.
Con il passare dei giorni, Gheddafi, che li avrebbe contati, pare acquisire sicurezza: adesso propone elezioni politiche, per vedere alle urne chi è il più forte. La Nato boccia l'idea come “cinico gioco di pubbliche relazioni”; e la Clinton denuncia il ricorso allo stupro come arma di guerra. Ma, intanto, regime e insorti si parlano. E, in un messaggio audio, il Colonnello torna a fari sentire: "La Nato sara' sconfitta, non potra' costringerci a cambiare il nostro Paese". Chi ha paura di una Somalia nel Mediterraneo? Maroni, perche' gli arrivano i profughi. Altri forse pensano che una Libia debole non e' poi un cattivo affare.
In principio, doveva solo essere una spallata: il regime pareva sul punto di collassare da un momento all’altro e una gragnuola di cruise e un grappolo di bombe bastavano -ci s'illudeva - a rompere l’equilibrio della reciproca impotenza tra Tripoli e Bengasi. Poi, quando s’è capito che la spallata non bastava, è stata una caccia all’uomo: a far fuori Gheddafi, colonnello dittatore, la Nato ci ha provato, colpendo più volte i suoi bunker, uccidendogli -forse, il dubbio resta- un figlio e tre nipoti. E adesso che il conflitto compie tre mesi, e l’insurrezione quattro, siamo alla guerra di mantenimento: i raid continuano -gli obiettivi colpiti sono stati oltre 2000-, le esplosioni scuotono ogni giorno Tripoli e i suoi dintorni -ieri almeno sei-, ma il pendolo dei combattimenti di terra continua a oscillare tra i lealisti e i ribelli -ora, tocca loro avanzare-.
Dopo essere andata ben al di la' del mandato dell'Onu di proteggere i civili, la Nato pare adesso ridotta a un piccolo cabotaggio bellico, tanto per mostrare fermezza e risolutezza: "L'isolamento del Colonnello aumenta, porteremo a compimento il nostro lavoro", dicono i portavoce. Nell'attesa che le parti, che, tra smentite e mezze ammissioni, si parlano da qualche parte, s’accordino fra di loro.
Tanto, a guardar bene, che ce ne importa? All’America, poco o nulla -loro, il petrolio libico manco lo compravano, mentre ora i ribelli glielo vendono-. All’Europa, poco del pari, una volta fatto il bel gesto di prendersela con il tiranno che maltratta il suo popolo. Agli arabi, amcora meno: Gheddafi e' sotto scacco e loro, questa ingerenza umanitaria la trangugiano malvolentieri, chè c’è sempre il rischio che qualcuno voglia esportarla a casa loro. Quanto all’Italia di Mr B, che e' ormai l'Italia della Lega, quel che conta e' tenere lontani profughi ed emigranti: Gheddafi o insorti, l’importante è che non facciano partire nessuno dalle loro coste. E cosi’ ecco Frattini tutto contento d'avere firmato un trattato coi ribelli -soddisfatto, bontà sua, del compiacimento della Lega- che, su questo punto, ricorda il trattato d’Amicizia con il dittatore. Il che avalla il sospetto che la nuova Libia, se mai verrà, non sia poi cosi' diversa, almeno per il rispetto dei diritti dell’uomo, dalla Libia di ieri, se mai se ne andrà.
Con il passare dei giorni, Gheddafi, che li avrebbe contati, pare acquisire sicurezza: adesso propone elezioni politiche, per vedere alle urne chi è il più forte. La Nato boccia l'idea come “cinico gioco di pubbliche relazioni”; e la Clinton denuncia il ricorso allo stupro come arma di guerra. Ma, intanto, regime e insorti si parlano. E, in un messaggio audio, il Colonnello torna a fari sentire: "La Nato sara' sconfitta, non potra' costringerci a cambiare il nostro Paese". Chi ha paura di una Somalia nel Mediterraneo? Maroni, perche' gli arrivano i profughi. Altri forse pensano che una Libia debole non e' poi un cattivo affare.
venerdì 17 giugno 2011
SPIGOLI: Libia, Mr B come Obama, i problemi in casa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/06/2011
Sulla Libia, Mr B è contento, nonostante elezioni e referendum: sta alla pari con il presidente americano. E questo gli piace proprio. Come Obama, Berlusconi, più che con Gheddafi o i ribelli, ha problemi in casa sua: a Obama, il Congresso nega i dollari per la missione; mentre a Mr B la Lega chiede di nuovo uno stop ai bombardamenti, perchè se no –è la tesi del trio padano Maroni/Calderoli/Castelli-
i profughi non cessano di arrivare: «Basta soldi per i raid! Fermiamo la guerra e fermiamo gli immigrati». Berlusconi e il fido Frattini con la fronda interna se la cavano meglio del presidente ‘abbronzato’: oggi, firmano con il Cnt un accordo su flussi e rimpatrii, in cambio di un po’ di soldi e di un’assemblea dei capi tribù ribelli nella Città Eterna. Quanto basta a Calderoli per dire che, sulla Libia, la Lega ha avuto «risposte». Le altre domande le farà domenica a Pontida, ma questa è un’altra storia. Intanto, in Libia, la Nato continua a sganciare bombe sul bunker del Colonnello, senza prenderci e senza smuovere lo stallo. E l’Unione Africana vede il rischio che la Libia diventi una nuova Somalia. Mr B fa l’ultrà: chiede azioni più forti, dice «no alla palude», proprio quando la Russia annoda contatti fra il regime e i ribelli. Mosca e Pechino, insieme, accusano la Nato di andare oltre la risoluzione dell’Onu; e vanno oltre, si pronunciano contro ingerenze straniere nella crisi siriana e in altri Paesi arabi.
Sulla Libia, Mr B è contento, nonostante elezioni e referendum: sta alla pari con il presidente americano. E questo gli piace proprio. Come Obama, Berlusconi, più che con Gheddafi o i ribelli, ha problemi in casa sua: a Obama, il Congresso nega i dollari per la missione; mentre a Mr B la Lega chiede di nuovo uno stop ai bombardamenti, perchè se no –è la tesi del trio padano Maroni/Calderoli/Castelli-
i profughi non cessano di arrivare: «Basta soldi per i raid! Fermiamo la guerra e fermiamo gli immigrati». Berlusconi e il fido Frattini con la fronda interna se la cavano meglio del presidente ‘abbronzato’: oggi, firmano con il Cnt un accordo su flussi e rimpatrii, in cambio di un po’ di soldi e di un’assemblea dei capi tribù ribelli nella Città Eterna. Quanto basta a Calderoli per dire che, sulla Libia, la Lega ha avuto «risposte». Le altre domande le farà domenica a Pontida, ma questa è un’altra storia. Intanto, in Libia, la Nato continua a sganciare bombe sul bunker del Colonnello, senza prenderci e senza smuovere lo stallo. E l’Unione Africana vede il rischio che la Libia diventi una nuova Somalia. Mr B fa l’ultrà: chiede azioni più forti, dice «no alla palude», proprio quando la Russia annoda contatti fra il regime e i ribelli. Mosca e Pechino, insieme, accusano la Nato di andare oltre la risoluzione dell’Onu; e vanno oltre, si pronunciano contro ingerenze straniere nella crisi siriana e in altri Paesi arabi.
giovedì 16 giugno 2011
SPIGOLI: Ercolano rivela, dieta mediterranea era romana
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/06/2011
La dieta mediterranea l’hanno inventata i romani. Ma mica quelli di oggi: quelli di una volta, gli antichi, quello che il mare era “nostrum”, cioè loro, e l’aquila volava su mezzo mondo, non solo uno stadio (per quanto olimpico). A dirlo, con scientifica certezza, sono degli archeologi britannici andati a frugare metiicolosamente nei rifiuti di Ercolano, alla cui conservazione il Vesuvio provvide nel 79 d.C. con una gigantesca (e letale) colata di lava. Li’ sotto, sono rimasti gli avanzi del pasto –per molti, l’ultimo- degli abitanti della città: avanzi di ghiri, che non è che c’entrino molto con la dieta mediterranea, ma soprattutto ricci di mare e altri crostacei e pesci e fichi freschi e molta frutta estiva; e pure frutta secca, olive, uova. Dentro una cisterna che conservava i rifiuti anche organici di una ‘insula’, cioè di un palazzo di appartamenti alto tre piani e abitato –si stima- da 20/30 famiglie e da circa 150 persone, gente della classe media-, gli studiosi hanno recuperato otto sacchi di reperti: monete, ovviamente, soprattutto di bronzo, pietre preziose, pettinini e oggettini e un delizioso anello d’oro decorato con una figurina di Mercurio. Ma la scoperta più interessante riguarda le abitudini alimentari, molto più variate di quanto si fosse finora pensato. Per scoprire il loro tesoro, gli archeologi della British School of Rome, all’opera li’ da un decennio, si sono infilati dentro quello che noi oggi chiameremmo lo ‘scarico condominiale’, alto circa un metro e mezzo e lungo un centinaio di metri. I reperti saranno mostrati e spiegati a Londra nel 2013 al British Museum, dove si farà una grande mostra su Pompei ed Ercolano.
La dieta mediterranea l’hanno inventata i romani. Ma mica quelli di oggi: quelli di una volta, gli antichi, quello che il mare era “nostrum”, cioè loro, e l’aquila volava su mezzo mondo, non solo uno stadio (per quanto olimpico). A dirlo, con scientifica certezza, sono degli archeologi britannici andati a frugare metiicolosamente nei rifiuti di Ercolano, alla cui conservazione il Vesuvio provvide nel 79 d.C. con una gigantesca (e letale) colata di lava. Li’ sotto, sono rimasti gli avanzi del pasto –per molti, l’ultimo- degli abitanti della città: avanzi di ghiri, che non è che c’entrino molto con la dieta mediterranea, ma soprattutto ricci di mare e altri crostacei e pesci e fichi freschi e molta frutta estiva; e pure frutta secca, olive, uova. Dentro una cisterna che conservava i rifiuti anche organici di una ‘insula’, cioè di un palazzo di appartamenti alto tre piani e abitato –si stima- da 20/30 famiglie e da circa 150 persone, gente della classe media-, gli studiosi hanno recuperato otto sacchi di reperti: monete, ovviamente, soprattutto di bronzo, pietre preziose, pettinini e oggettini e un delizioso anello d’oro decorato con una figurina di Mercurio. Ma la scoperta più interessante riguarda le abitudini alimentari, molto più variate di quanto si fosse finora pensato. Per scoprire il loro tesoro, gli archeologi della British School of Rome, all’opera li’ da un decennio, si sono infilati dentro quello che noi oggi chiameremmo lo ‘scarico condominiale’, alto circa un metro e mezzo e lungo un centinaio di metri. I reperti saranno mostrati e spiegati a Londra nel 2013 al British Museum, dove si farà una grande mostra su Pompei ed Ercolano.
mercoledì 15 giugno 2011
Referendum: 'schiaffo e sconfitta' ambo da stampa estera
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/06/2011
Per il Washington Post, che mutua idea e titolo da un dispaccio dell'Ap da Roma, "la pungente sconfitta di Berlusconi nei referendum è come la 'primavera italiana' ". E l'eco della 'primavera araba' ha presa, perche' i risultati dei referendum fanno titolo -"schiaffo" e' la parola più ricorrente, usata in ogni lingua- non solo sui media di tutto l'Occidente -giornali, siti, i tg d'Europa e le tv 'all news' americane ed arabe-, ma anche su quelli dei Paesi islamici. A dedicare più spazio alle novita' italiane è al-Jazira, secondo cui il premier "ha perso la battaglia dei referendum". Di sconfitta del governo parlano pure quotidiani come al-Khaleej (EAU), al-Anba' (Kuwait) e l'autorevole egiziano al-Ahram, secondo cui "ora governo e parlamento italiani devono rispettare le richieste del popolo che dice no al nucleare".
In Europa, titoli e articoli sono ovunque, persino scontati e ripetitivi nei concetti. La rassegna rischia d'essere monotona. Vediamo alcune delle testate più prestigiose.
La Bbc: Gli italiani puniscono Berlusconi ... La nuova sinistra usa Facebook, Twitter email e blog ... Non è stata solo una vittoria della protesta, è stata la vittoria dei nuovi media sui vecchi, dominati qui da Berlusconi e dalla sua famiglia ... Nuovi media e referendum danno respiro alla democrazia
Il Financial Times: Gli elettori respingono le leggi di Berlusconi ... Il calo di popolarità del governo inaspriras' le liti nella maggioranza e accelerera' la ricerca di chi possa succedere al premier. Economist: Un altro colpo per Berlusconi. Il voto e' una protesta non tanto sui temi quanto contro il premier e il suo governo. Guardian: Seconda amara sconfitta in due settimane. Independent: Elettori bastonano di nuovo Mr B. Il referendum dimostrat che il governo è senza timone e impotente. L'umiliazione potrebbe affrettare il desiderio della Lega di togliere la spina. Times: Berlusconi schiantato alle urne, gli elettori ignorano l'appello al boicottaggio.
E ancora. Figaro: L'avvenire di Mr B si oscura. Il premier saprà presto cosa esige la Lega Nord come prezzo della sua fedeltà. Le Monde: Berlusconi riconosce la sconfitta su tutti i temi. El Pais, in un editoriale: Berlusconi declina. Gli italiani respingono energia nucleare e immunità del premier e gli mostrano l'uscita. WSJ: Gli italiani votano pe rlasciare il nucleare. NYT: Gli italiani danno una lezione a Berlusconi. Il premier l'avra' imparata? Chiara era chiara.
Per il Washington Post, che mutua idea e titolo da un dispaccio dell'Ap da Roma, "la pungente sconfitta di Berlusconi nei referendum è come la 'primavera italiana' ". E l'eco della 'primavera araba' ha presa, perche' i risultati dei referendum fanno titolo -"schiaffo" e' la parola più ricorrente, usata in ogni lingua- non solo sui media di tutto l'Occidente -giornali, siti, i tg d'Europa e le tv 'all news' americane ed arabe-, ma anche su quelli dei Paesi islamici. A dedicare più spazio alle novita' italiane è al-Jazira, secondo cui il premier "ha perso la battaglia dei referendum". Di sconfitta del governo parlano pure quotidiani come al-Khaleej (EAU), al-Anba' (Kuwait) e l'autorevole egiziano al-Ahram, secondo cui "ora governo e parlamento italiani devono rispettare le richieste del popolo che dice no al nucleare".
In Europa, titoli e articoli sono ovunque, persino scontati e ripetitivi nei concetti. La rassegna rischia d'essere monotona. Vediamo alcune delle testate più prestigiose.
La Bbc: Gli italiani puniscono Berlusconi ... La nuova sinistra usa Facebook, Twitter email e blog ... Non è stata solo una vittoria della protesta, è stata la vittoria dei nuovi media sui vecchi, dominati qui da Berlusconi e dalla sua famiglia ... Nuovi media e referendum danno respiro alla democrazia
Il Financial Times: Gli elettori respingono le leggi di Berlusconi ... Il calo di popolarità del governo inaspriras' le liti nella maggioranza e accelerera' la ricerca di chi possa succedere al premier. Economist: Un altro colpo per Berlusconi. Il voto e' una protesta non tanto sui temi quanto contro il premier e il suo governo. Guardian: Seconda amara sconfitta in due settimane. Independent: Elettori bastonano di nuovo Mr B. Il referendum dimostrat che il governo è senza timone e impotente. L'umiliazione potrebbe affrettare il desiderio della Lega di togliere la spina. Times: Berlusconi schiantato alle urne, gli elettori ignorano l'appello al boicottaggio.
E ancora. Figaro: L'avvenire di Mr B si oscura. Il premier saprà presto cosa esige la Lega Nord come prezzo della sua fedeltà. Le Monde: Berlusconi riconosce la sconfitta su tutti i temi. El Pais, in un editoriale: Berlusconi declina. Gli italiani respingono energia nucleare e immunità del premier e gli mostrano l'uscita. WSJ: Gli italiani votano pe rlasciare il nucleare. NYT: Gli italiani danno una lezione a Berlusconi. Il premier l'avra' imparata? Chiara era chiara.
Libia: Gheddafi in tv migliora a ogni spot, come Totti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/06/2011
Gheddafi come Del Piero e Totti, campioni che, come testimonial, migliorano spot dopo spot, l’uno con l’acqua che mantiene in forma, l’altro col cellulare che ‘ci porti un amico’. Il dittatore libico, partito un po’ rigido e spettrale nelle esibizioni televisive di questa guerra, ha migliorato man mano le sue comparsate, fino alla partita a scacchi disinvolta e un po’ farsesca con Kirsan Ilyumzhinov, russo, presidente della Federazione internazionale di scacchi (Fide). “Ho pareggiato per cortesia”, fa sapere poco signorilmente il russo. Ma Gheddafi mostra di non sapere come si muovano i pezzi sulla scacchiera.
Se la qualità delle apparizioni televisive è un sintomo dello ‘stato di salute’ del regime, allora non si direbbe che il colonnello ha “i giorni contati”, come da tempo –ormai troppo, per crederci- ripetono tutti i suoi nemici. Anzi, Gheddafi dava l’impressione di stare peggio all’inizio del conflitto che ora. La prima scenografia libica di questa strana guerra era dantescamente infernale, con il rais a parlare da una sorta di tribuna nel palazzo bombardato dall’aviazione americana nell’aprile 1986, dove rimase uccisa una delle sue figlie: lui fisso, ieratico, le parole scandite con insopportabile lentezza. Pareva non capisse che cosa stava succedendo e perché: capacità di motivare zero; effetto indotto, “uno come quello è giusto buttarlo giù”.
Una sortita successiva fu un po’ migliore, come oratoria e ambientazione: il dittatore parlava all’assemblea dei suoi sostenitori. Poi, con l’intensificarsi dei bombardamenti, le comparsate andarono diradandosi: qualche immagine del colonnello fra piccole folle di suoi sostenitori, oppure –meno convenzionale- in visita a una scuola. Dopo i bombardamenti più duri, quello in cui sarebbero morti il figlio minore e tre nipotini e quello del martedì nero 7 giugno, quando la Nato colpì decine di volte, anche di giorno, come non era mai successo, la capitale libica, Gheddafi, prudentemente, si limitò a messaggi solo radiofonici, forse per evitaredi offrire qualsiasi riferimento ai raid alleati.
Per un po’, tutte le sortite del dittatore suggerivano una situazione d’emergenza. Poi, la strategia della comunicazione è cambiata: il rais incontra i capi tribù a lui fedeli, riprese ancora ‘ingessate’, ma un contesto da ‘affari correnti’, il salone di un grande albergo, con la gente un po’ sussiegosa forse perché di solito quegli incontri si facevano sotto una tenda beduina; il rais riceve un emissario di Medvede; infine, il rais gioca a scacchi, un piccolo capolavoro d’ironia (involontaria?), che dà l’impressione, probabilmente del tutto falso, di un Gheddafi spiritoso e per nulla preoccupato, intento alle sue occupazioni di leader e dittatore come se una metà del Paese non fosse nelle mani dei ribelli e l’altra –la sua- sotto il tiro della Nato.
E al campione che concede il pareggio, Gheddafi affida due messaggi: il primo, che non sa giocare a scacchi, ma che comunque non perde neppure lì; il secondo che non ha intenzione di andarsene dalla Libia perché "non sono premier, né presidente, né re, non occupo alcun posto di potere e non devo rinunciare ad alcuna carica" e perché “questa è la mia terra, dove mi sono morti figli e nipoti”. Occhiali scuri, sorridente, concentrato sulle mosse, Gheddafi appare più disinvolto che mai; riceve Ilyumzhinov per circa due ore, non in un bunker, "ma in un edificio amministrativo della capitale". Il presidente della Fide, eccentrico e ricchissimo oligarca, ex leader per 17 anni della buddista repubblica calmucca, ne esce convinto che la calma sarà tornata in Libia entro il primo ottobre, quando tripoli dovrebbe ospitare un grosso torneo.
E poi c’è chi pensa che i dittatori non si curino dei programmi a lungo termine. Eppure, il ministro Frattini nega che la situazione sia in stallo e dice: “Ora, occorre una soluzione politica per l’uscita di scena di questo regime”. E l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, presidente del comitato militare dell’Alleanza atlantica, ripete che il regime di Gheddafi è indebolito e “prima o poi” cadrà. Certo, prima o poi qualcuno gli darà scacco matto. Ma non tutti hanno pazienza s’aspettare. La Lega non ce l’ha e il ministro Maroni torna a chiedere che “la fase delle bombe finisca rapidamente”.
Gheddafi come Del Piero e Totti, campioni che, come testimonial, migliorano spot dopo spot, l’uno con l’acqua che mantiene in forma, l’altro col cellulare che ‘ci porti un amico’. Il dittatore libico, partito un po’ rigido e spettrale nelle esibizioni televisive di questa guerra, ha migliorato man mano le sue comparsate, fino alla partita a scacchi disinvolta e un po’ farsesca con Kirsan Ilyumzhinov, russo, presidente della Federazione internazionale di scacchi (Fide). “Ho pareggiato per cortesia”, fa sapere poco signorilmente il russo. Ma Gheddafi mostra di non sapere come si muovano i pezzi sulla scacchiera.
Se la qualità delle apparizioni televisive è un sintomo dello ‘stato di salute’ del regime, allora non si direbbe che il colonnello ha “i giorni contati”, come da tempo –ormai troppo, per crederci- ripetono tutti i suoi nemici. Anzi, Gheddafi dava l’impressione di stare peggio all’inizio del conflitto che ora. La prima scenografia libica di questa strana guerra era dantescamente infernale, con il rais a parlare da una sorta di tribuna nel palazzo bombardato dall’aviazione americana nell’aprile 1986, dove rimase uccisa una delle sue figlie: lui fisso, ieratico, le parole scandite con insopportabile lentezza. Pareva non capisse che cosa stava succedendo e perché: capacità di motivare zero; effetto indotto, “uno come quello è giusto buttarlo giù”.
Una sortita successiva fu un po’ migliore, come oratoria e ambientazione: il dittatore parlava all’assemblea dei suoi sostenitori. Poi, con l’intensificarsi dei bombardamenti, le comparsate andarono diradandosi: qualche immagine del colonnello fra piccole folle di suoi sostenitori, oppure –meno convenzionale- in visita a una scuola. Dopo i bombardamenti più duri, quello in cui sarebbero morti il figlio minore e tre nipotini e quello del martedì nero 7 giugno, quando la Nato colpì decine di volte, anche di giorno, come non era mai successo, la capitale libica, Gheddafi, prudentemente, si limitò a messaggi solo radiofonici, forse per evitaredi offrire qualsiasi riferimento ai raid alleati.
Per un po’, tutte le sortite del dittatore suggerivano una situazione d’emergenza. Poi, la strategia della comunicazione è cambiata: il rais incontra i capi tribù a lui fedeli, riprese ancora ‘ingessate’, ma un contesto da ‘affari correnti’, il salone di un grande albergo, con la gente un po’ sussiegosa forse perché di solito quegli incontri si facevano sotto una tenda beduina; il rais riceve un emissario di Medvede; infine, il rais gioca a scacchi, un piccolo capolavoro d’ironia (involontaria?), che dà l’impressione, probabilmente del tutto falso, di un Gheddafi spiritoso e per nulla preoccupato, intento alle sue occupazioni di leader e dittatore come se una metà del Paese non fosse nelle mani dei ribelli e l’altra –la sua- sotto il tiro della Nato.
E al campione che concede il pareggio, Gheddafi affida due messaggi: il primo, che non sa giocare a scacchi, ma che comunque non perde neppure lì; il secondo che non ha intenzione di andarsene dalla Libia perché "non sono premier, né presidente, né re, non occupo alcun posto di potere e non devo rinunciare ad alcuna carica" e perché “questa è la mia terra, dove mi sono morti figli e nipoti”. Occhiali scuri, sorridente, concentrato sulle mosse, Gheddafi appare più disinvolto che mai; riceve Ilyumzhinov per circa due ore, non in un bunker, "ma in un edificio amministrativo della capitale". Il presidente della Fide, eccentrico e ricchissimo oligarca, ex leader per 17 anni della buddista repubblica calmucca, ne esce convinto che la calma sarà tornata in Libia entro il primo ottobre, quando tripoli dovrebbe ospitare un grosso torneo.
E poi c’è chi pensa che i dittatori non si curino dei programmi a lungo termine. Eppure, il ministro Frattini nega che la situazione sia in stallo e dice: “Ora, occorre una soluzione politica per l’uscita di scena di questo regime”. E l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, presidente del comitato militare dell’Alleanza atlantica, ripete che il regime di Gheddafi è indebolito e “prima o poi” cadrà. Certo, prima o poi qualcuno gli darà scacco matto. Ma non tutti hanno pazienza s’aspettare. La Lega non ce l’ha e il ministro Maroni torna a chiedere che “la fase delle bombe finisca rapidamente”.
martedì 14 giugno 2011
SPIGOLI: Mr B mummia che cammina e Bossi ha l'atomica
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/06/2011
Alla stampa estera, l’acqua non interessa: lo si era già capito alla vigilia, quando titoli e attenzione internazionali erano tutti per il nucleare e, soprattutto, per lui, Mr B, il premier, per il quale il referendum rappresentava “un voto di fiducia” (Telegraph) o “un plebiscito” pro o contro (Les Echos) o più oggettivamente “un test” (Le Monde). A quorum raggiunto e voti spogliati, le letture, sui siti, sono state subito più politiche che ‘tecniche’: la stampa estera sottolinea ampiamente la valenza della consultazione, specie del sì ad abolire la legge sul legittimo impedimento, "passaggio chiave –scrive il WSJ- per la coalizione conservatrice", poiché "molti considerano la legge fatta su misura per aiutare Berlusconi" coinvolto in vari processi. I più duri sono gli spagnoli: El Pais, “Alta partecipazione, per il premier un altro castigo”; Abc, “Altro schiaffo”; El Mundo, giornale di fiducia, più neutro, “Berlusconi nelle mani del popolo”. Perché l’attenzione della stampa internazionale si sia concentrata sull’energia atomica (WSJ, l’Italia cancella il nucleare; Bbc, l’Italia contro il nucleare, nel referendum più importante) è ben spiegato dal Guardian: quello italiano “e’ stato il primo referendum al mondo sull’energia atomica dopo la tragedia di Fukushima”. Il giornale britannico sottolinea che Berlusconi, favorevole al nucleare, ha cercato di limitare l’affluenza: “Controlla sei dei sette principali canali tv e i suoi tg hanno poco citato il voto”. James Walston, professore americano, un opinionista che conosce bene l’Italia, scrive, in un post, che l’opzione nucleare, sul governo, ora l’hanno in mano Bossi e la Lega, attesi dai riti di Pontida: Mr B va avanti “come una mummia” e ne ha anche sempre più le fattezze.
Alla stampa estera, l’acqua non interessa: lo si era già capito alla vigilia, quando titoli e attenzione internazionali erano tutti per il nucleare e, soprattutto, per lui, Mr B, il premier, per il quale il referendum rappresentava “un voto di fiducia” (Telegraph) o “un plebiscito” pro o contro (Les Echos) o più oggettivamente “un test” (Le Monde). A quorum raggiunto e voti spogliati, le letture, sui siti, sono state subito più politiche che ‘tecniche’: la stampa estera sottolinea ampiamente la valenza della consultazione, specie del sì ad abolire la legge sul legittimo impedimento, "passaggio chiave –scrive il WSJ- per la coalizione conservatrice", poiché "molti considerano la legge fatta su misura per aiutare Berlusconi" coinvolto in vari processi. I più duri sono gli spagnoli: El Pais, “Alta partecipazione, per il premier un altro castigo”; Abc, “Altro schiaffo”; El Mundo, giornale di fiducia, più neutro, “Berlusconi nelle mani del popolo”. Perché l’attenzione della stampa internazionale si sia concentrata sull’energia atomica (WSJ, l’Italia cancella il nucleare; Bbc, l’Italia contro il nucleare, nel referendum più importante) è ben spiegato dal Guardian: quello italiano “e’ stato il primo referendum al mondo sull’energia atomica dopo la tragedia di Fukushima”. Il giornale britannico sottolinea che Berlusconi, favorevole al nucleare, ha cercato di limitare l’affluenza: “Controlla sei dei sette principali canali tv e i suoi tg hanno poco citato il voto”. James Walston, professore americano, un opinionista che conosce bene l’Italia, scrive, in un post, che l’opzione nucleare, sul governo, ora l’hanno in mano Bossi e la Lega, attesi dai riti di Pontida: Mr B va avanti “come una mummia” e ne ha anche sempre più le fattezze.
Siria/Libia: i due pesi dell'interferenza umanitaria
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/06/2011
Della Siria, si parla un sacco: sui giornali, alla tv, sui siti, nei vertici internazionali e nei corridoi della diplomazia multilaterale, all’Onu e all’Ue. Ieri, il premier italiano Berlusconi ha denunciato “una situazione difficile e preoccupante” (e non si riferiva a quella del suo governo, dopo la sberla dei referendum). Al suo fianco, il premier israeliano Netanyahu, in visita a Roma, annuiva e chiedeva “la fine del massacro”.
Qualsiasi cosa avvenga, della Siria si parla e basta: cade la roccaforte dei ribelli Jisd al-Shughur, elicotteri e carri del regime vanno all’attacco, i combattimenti sono furiosi e cruenti: Londra e Parigi chiedono all’Onu una presa di posizione “chiara”, ma neanche la risoluzione franco-inglese appoggiata dagli Usa minaccia il ricorso alla forza –e comunque rischia di non passare, perché Mosca e Pechino non la vogliono-.
La Siria non è la Libia, che, per un po’, ma mica a lungo, un mese giusto giusto, se n’è parlato e poi la comunità internazionale, con l’avallo dell’Onu, ha cominciato la sua gragnuola di razzi e bombe. E i morti, che fino a quel punto erano, si diceva, 10mila, sono saliti –la stima è dell’Onu- a 15mila.
Intandiamoci, di tutto il parlare che della Siria si fa, mica tutto è oro colato: le bufale si sprecano, cominciando da quella di Amina Araf, presunta blogger lesbica siriana, nome d’arte già di per sé improbabile di ‘Gay Girl in Damascus’, la notizia del cui rapimento aveva creato ansia e allarme. Tutto falso, il rapimento, i racconti, anche Amina: Tom MacMaster, 40 anni, blogger americano, s’era inventato tutto e adesso lo ammette.
Nelle cronache della Siria, come in quelle della Libia –ve le ricordate?, le fosse comuni che non erano fosse comuni; le vittime a bizzeffe della repressione che, se c’erano, erano di meno; i morti sotto i raid della Nato, che il regime esagera sempre-, la propaganda si fa da entrambe le parti: Damasco, come Tripoli, racconta le atrocità degli insorti, a fini più interni che internazionali –tanto, fuori non ci crede nessuno-; ma i manifestanti anti al-Assad, come gli insorti anti-Gheddafi, gonfiano le dimensioni della reazione per risvegliare le coscienze d’un’opinione pubblica internazionale narcotizzata e insensibile alle violazioni dei diritti dell’uomo.
Però, poi, nella crisi libica qualcosa s’è mosso; in quella siriana, no e non si muoverà: due pesi e due misure? Sì, certo. Ma mica volete comparare, al mercato della ‘real politik’, il Paese del colonnello dittatore con quello del presidente erede? La Libia era, ed è, un Paese politicamente e diplomaticamente isolato dal resto del Nord Africa e dalle vicende medio-orientali. La caduta, o meno, di Gheddafi non altererà gli equilibri nella regione; e non preoccupa più di tanto Israele.
Inoltre, e forse soprattutto, la Libia è un Paese che produce ed esporta energia in grande quantità, gas e petrolio: mica la si può lasciare nelle mani di un dittatore un po’ eccentrico, che si mostra in tv poco abile con gli scacchi –immagini di ieri, quasi farsesche-, ma che è pure capace di negare gas e petrolio ad amici e clienti di un recente passato che ora lo hanno tradito (e che, come se non bastasse, lo bombardano ogni giorno).
Invece, la Siria non ha tesori di energia, ma è un Paese chiave nei fragili equilibri mediorientali: ha con Israele un confine conteso, sulle alture del Golan, teatro nei giorni scorsi di scontri sanguinosi, utili –se il termine è concesso per una carneficina- a entrambi i governi; ha un ruolo in Libano che la formazione di un esecutivo a trazione hezbollah accresce in modo inquietante; ha rapporti stretti con l’Iran; e ha una frontiera porosa con la Turchia, che ne accoglie i profughi. Se cade al-Assad, il castello di carte delle speranze di pace in Medio Oriente può venire giù. E allora nessuno ci pensa a dargli una spallata. Meglio darla a Gheddafi, che pochi lo rimpiangeranno: “Mollatelo”, intima così Hillary Clinton all’Unione africana.
Della Siria, si parla un sacco: sui giornali, alla tv, sui siti, nei vertici internazionali e nei corridoi della diplomazia multilaterale, all’Onu e all’Ue. Ieri, il premier italiano Berlusconi ha denunciato “una situazione difficile e preoccupante” (e non si riferiva a quella del suo governo, dopo la sberla dei referendum). Al suo fianco, il premier israeliano Netanyahu, in visita a Roma, annuiva e chiedeva “la fine del massacro”.
Qualsiasi cosa avvenga, della Siria si parla e basta: cade la roccaforte dei ribelli Jisd al-Shughur, elicotteri e carri del regime vanno all’attacco, i combattimenti sono furiosi e cruenti: Londra e Parigi chiedono all’Onu una presa di posizione “chiara”, ma neanche la risoluzione franco-inglese appoggiata dagli Usa minaccia il ricorso alla forza –e comunque rischia di non passare, perché Mosca e Pechino non la vogliono-.
La Siria non è la Libia, che, per un po’, ma mica a lungo, un mese giusto giusto, se n’è parlato e poi la comunità internazionale, con l’avallo dell’Onu, ha cominciato la sua gragnuola di razzi e bombe. E i morti, che fino a quel punto erano, si diceva, 10mila, sono saliti –la stima è dell’Onu- a 15mila.
Intandiamoci, di tutto il parlare che della Siria si fa, mica tutto è oro colato: le bufale si sprecano, cominciando da quella di Amina Araf, presunta blogger lesbica siriana, nome d’arte già di per sé improbabile di ‘Gay Girl in Damascus’, la notizia del cui rapimento aveva creato ansia e allarme. Tutto falso, il rapimento, i racconti, anche Amina: Tom MacMaster, 40 anni, blogger americano, s’era inventato tutto e adesso lo ammette.
Nelle cronache della Siria, come in quelle della Libia –ve le ricordate?, le fosse comuni che non erano fosse comuni; le vittime a bizzeffe della repressione che, se c’erano, erano di meno; i morti sotto i raid della Nato, che il regime esagera sempre-, la propaganda si fa da entrambe le parti: Damasco, come Tripoli, racconta le atrocità degli insorti, a fini più interni che internazionali –tanto, fuori non ci crede nessuno-; ma i manifestanti anti al-Assad, come gli insorti anti-Gheddafi, gonfiano le dimensioni della reazione per risvegliare le coscienze d’un’opinione pubblica internazionale narcotizzata e insensibile alle violazioni dei diritti dell’uomo.
Però, poi, nella crisi libica qualcosa s’è mosso; in quella siriana, no e non si muoverà: due pesi e due misure? Sì, certo. Ma mica volete comparare, al mercato della ‘real politik’, il Paese del colonnello dittatore con quello del presidente erede? La Libia era, ed è, un Paese politicamente e diplomaticamente isolato dal resto del Nord Africa e dalle vicende medio-orientali. La caduta, o meno, di Gheddafi non altererà gli equilibri nella regione; e non preoccupa più di tanto Israele.
Inoltre, e forse soprattutto, la Libia è un Paese che produce ed esporta energia in grande quantità, gas e petrolio: mica la si può lasciare nelle mani di un dittatore un po’ eccentrico, che si mostra in tv poco abile con gli scacchi –immagini di ieri, quasi farsesche-, ma che è pure capace di negare gas e petrolio ad amici e clienti di un recente passato che ora lo hanno tradito (e che, come se non bastasse, lo bombardano ogni giorno).
Invece, la Siria non ha tesori di energia, ma è un Paese chiave nei fragili equilibri mediorientali: ha con Israele un confine conteso, sulle alture del Golan, teatro nei giorni scorsi di scontri sanguinosi, utili –se il termine è concesso per una carneficina- a entrambi i governi; ha un ruolo in Libano che la formazione di un esecutivo a trazione hezbollah accresce in modo inquietante; ha rapporti stretti con l’Iran; e ha una frontiera porosa con la Turchia, che ne accoglie i profughi. Se cade al-Assad, il castello di carte delle speranze di pace in Medio Oriente può venire giù. E allora nessuno ci pensa a dargli una spallata. Meglio darla a Gheddafi, che pochi lo rimpiangeranno: “Mollatelo”, intima così Hillary Clinton all’Unione africana.
sabato 11 giugno 2011
SPIGOLI: Libia, soldi italiani, petrolio Usa, spine Nato
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/06/2011
La generosità dell’Italia verso la Libia impressiona la stampa internazionale, specialmente quella americana: nel Gruppo di Contatto di giovedì ad Abu Dhabi, il ministro Frattini, co-presidente dell’incontro, ha messo da solo sul tavolo quasi la metà degli aiuti complessivamente promessi ai ribelli anti-Gheddafi : 300/400 milioni di euro cash e 150 milioni in carburante. Lo notano NYT e WP , come pure FT e la Bbc: l’Italia cerca di recuperare un rapporto privilegiato con la Libia prossima ventura. L’attenzione diplomatica e militare per la Libia è da giorni molto intensa : raid e consulti, alla Nato e poi ad Abu Dhabii. Ormai tutti dicono, Obama per primo, che il Colonnello ha i giorni contati: quelli, però, ce li abbiamo tutti; bisogna piuttosto vedere quanti gliene restano, se Robert Gates, il capo del Pentagono, giudica «a rischio» l’esito del conflitto per «le lacune Nato», Intanto, le cifre lievitano: quelle degli aiuti ai ribelli e quelli delle vittime, che secondo l’Onu sono ormai 15mila. La diplomazia Usa s’allinea a quella europea, dichiarando gli insorti l’unico interlocutore libico legittimo; e i ribelli effettuano la loro prima consegna petrolifera, 1,2 milioni di barili agli Usa, e calcolano di produrre a breve di 100mila barili al giorno. Gheddafi, intanto è sotto una gragnuola di razzi a Tripoli, ma riprende l’offensiva contro Misurata e vanta l’abbattimento d’un elicottero Nato –non è vero, ma il confine tra verità e propaganda è labile, a Tripoli e Bengasi-.
La generosità dell’Italia verso la Libia impressiona la stampa internazionale, specialmente quella americana: nel Gruppo di Contatto di giovedì ad Abu Dhabi, il ministro Frattini, co-presidente dell’incontro, ha messo da solo sul tavolo quasi la metà degli aiuti complessivamente promessi ai ribelli anti-Gheddafi : 300/400 milioni di euro cash e 150 milioni in carburante. Lo notano NYT e WP , come pure FT e la Bbc: l’Italia cerca di recuperare un rapporto privilegiato con la Libia prossima ventura. L’attenzione diplomatica e militare per la Libia è da giorni molto intensa : raid e consulti, alla Nato e poi ad Abu Dhabii. Ormai tutti dicono, Obama per primo, che il Colonnello ha i giorni contati: quelli, però, ce li abbiamo tutti; bisogna piuttosto vedere quanti gliene restano, se Robert Gates, il capo del Pentagono, giudica «a rischio» l’esito del conflitto per «le lacune Nato», Intanto, le cifre lievitano: quelle degli aiuti ai ribelli e quelli delle vittime, che secondo l’Onu sono ormai 15mila. La diplomazia Usa s’allinea a quella europea, dichiarando gli insorti l’unico interlocutore libico legittimo; e i ribelli effettuano la loro prima consegna petrolifera, 1,2 milioni di barili agli Usa, e calcolano di produrre a breve di 100mila barili al giorno. Gheddafi, intanto è sotto una gragnuola di razzi a Tripoli, ma riprende l’offensiva contro Misurata e vanta l’abbattimento d’un elicottero Nato –non è vero, ma il confine tra verità e propaganda è labile, a Tripoli e Bengasi-.
Fmi/Bm: idea, i cordoni della borsa in mano a due donne
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/06/2011
La finanza è femmina e la banca pure: Christine Lagarde direttore generale dell’Fmi, il Fondo monetario internazionale, e Hillary Clinton presidente della Banca Mondiale è il ‘dream team’ ipotizzato da fonti di stampa, quando le decisioni devono ancora maturare. Un sogno femminile, perché nessuno dei due incarichi è mai andato finora a una donna; e, magari, un incubo per Mario Draghi, governatore di BankItalia e prossimo presidente della Banca centrale europea, che si troverebbe a interloquire con le grintose colleghe.
Delle due ipotesi, una, quella della Largarde, è concreta; l’altra, quella della Clinton, subisce una raffica di smentite. Nega, da Lusaka, Hillary in prima persona. E nega Dan Pfeiffer, direttore per la comunicazione del presidente Obama: rispondendo a domande di giornalisti, scrive su twitter che la prospettiva che il segretario di Stato lasci la diplomazia della ‘super-potenza’ per la ‘diplomazia dello sviluppo’ “è una delle cose più deliranti che abbia sentito da quando sono alla Casa Bianca”.
Ma la Reuters, che lancia il ‘ballon d’essai’, non lo rinnega, nonostante le numerose smentite ufficiali: in un dispaccio costruito con molta cura, che cita tre fonti vicine a Hillary, l’agenzia di stampa sbandiera l’informazione come esclusiva e sostiene che l’ex first lady punta a sostituire alla Banca Mondiale Bob Zoellick, il cui mandato scade alla metà del 2012. Zoellick fu l’uomo di Bush per il commercio mondiale e fu poi vice della Rice al Dipartimento di Stato.
Il posto di presidente della Banca Mondiale è sempre stato appannaggio americano, con l’eccezione dell’australiano (d’origine) James Wolfensohn, sempre designato, però, dalla Casa Bianca. Un’uscita della Clinton dalla squadra di Obama, anche se concordata, susciterebbe chiacchiere e interrogativi: per questo, le smentite sarebbero comunque d’obbligo, anche se la storia fosse vera. A corroborarla, il fatto che Hillary stia portando avanti, in queste ore, in una missione africana, l’agenda dello sviluppo degli Stati Uniti.
Nel giorno delle ipotesi sulla Clinton, si fanno più concrete le chances del ministro dell’economia francese di ottenere la successione di Dominique Strauss-Khan, uscito di scena con ignominia, alla guida dell’Fmi. Quando i termini per la presentazione delle candidature stanno per chiudersi, la Lagarde si ritrova con un solo avversario dichiarato credibile, il governatore della Banca centrale messicana Agustin Carstens, mentre l’ex ministro delle finanze sudafricano Trevor Manuel s’è ritirato dalla corsa.
La Lagarde ha l’appoggio dell’Europa e di larga parte dell’Africa, oltre che di molti altri Paesi, e Parigi ha fiducia che Washington e Pechino finiscano per il sostenerla. Carstens, invece, nonostante le dichiarazioni di principio dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina), che vogliono porre fine all’egemonia europea su quel posto, non riceve un sostegno corale dai paesi emergenti, forse perché le sue opinioni cono considerate troppo conservatrici dai suoi stessi colleghi.
Così, le insidie maggiori, per il ministro dell’economia francese, vengono proprio dalla Francia, cioè dalla valutazione che la Corte di giustizia della Repubblica sta facendo sul suo ruolo in un ‘affaire’ che ruota intorno a Bernard Tapie, ex ministro e, soprattutto, ex patron del Marsiglia campione d’Europa. La Corte avrebbe dovuto pronunciarsi ieri, ma ha rinviato all’8 luglio la decisione se avviare, o meno, un’inchiesta sulla Lagarde per abuso di potere, accusa per la quale il ministro rischierebbe cinque anni di carcere e una multa di 75mila euro.l’8 luglio, l’Fmi avrà già preso le sue decisioni: la scelta del nuovo direttore generale si farà il 30 giugno.
La finanza è femmina e la banca pure: Christine Lagarde direttore generale dell’Fmi, il Fondo monetario internazionale, e Hillary Clinton presidente della Banca Mondiale è il ‘dream team’ ipotizzato da fonti di stampa, quando le decisioni devono ancora maturare. Un sogno femminile, perché nessuno dei due incarichi è mai andato finora a una donna; e, magari, un incubo per Mario Draghi, governatore di BankItalia e prossimo presidente della Banca centrale europea, che si troverebbe a interloquire con le grintose colleghe.
Delle due ipotesi, una, quella della Largarde, è concreta; l’altra, quella della Clinton, subisce una raffica di smentite. Nega, da Lusaka, Hillary in prima persona. E nega Dan Pfeiffer, direttore per la comunicazione del presidente Obama: rispondendo a domande di giornalisti, scrive su twitter che la prospettiva che il segretario di Stato lasci la diplomazia della ‘super-potenza’ per la ‘diplomazia dello sviluppo’ “è una delle cose più deliranti che abbia sentito da quando sono alla Casa Bianca”.
Ma la Reuters, che lancia il ‘ballon d’essai’, non lo rinnega, nonostante le numerose smentite ufficiali: in un dispaccio costruito con molta cura, che cita tre fonti vicine a Hillary, l’agenzia di stampa sbandiera l’informazione come esclusiva e sostiene che l’ex first lady punta a sostituire alla Banca Mondiale Bob Zoellick, il cui mandato scade alla metà del 2012. Zoellick fu l’uomo di Bush per il commercio mondiale e fu poi vice della Rice al Dipartimento di Stato.
Il posto di presidente della Banca Mondiale è sempre stato appannaggio americano, con l’eccezione dell’australiano (d’origine) James Wolfensohn, sempre designato, però, dalla Casa Bianca. Un’uscita della Clinton dalla squadra di Obama, anche se concordata, susciterebbe chiacchiere e interrogativi: per questo, le smentite sarebbero comunque d’obbligo, anche se la storia fosse vera. A corroborarla, il fatto che Hillary stia portando avanti, in queste ore, in una missione africana, l’agenda dello sviluppo degli Stati Uniti.
Nel giorno delle ipotesi sulla Clinton, si fanno più concrete le chances del ministro dell’economia francese di ottenere la successione di Dominique Strauss-Khan, uscito di scena con ignominia, alla guida dell’Fmi. Quando i termini per la presentazione delle candidature stanno per chiudersi, la Lagarde si ritrova con un solo avversario dichiarato credibile, il governatore della Banca centrale messicana Agustin Carstens, mentre l’ex ministro delle finanze sudafricano Trevor Manuel s’è ritirato dalla corsa.
La Lagarde ha l’appoggio dell’Europa e di larga parte dell’Africa, oltre che di molti altri Paesi, e Parigi ha fiducia che Washington e Pechino finiscano per il sostenerla. Carstens, invece, nonostante le dichiarazioni di principio dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina), che vogliono porre fine all’egemonia europea su quel posto, non riceve un sostegno corale dai paesi emergenti, forse perché le sue opinioni cono considerate troppo conservatrici dai suoi stessi colleghi.
Così, le insidie maggiori, per il ministro dell’economia francese, vengono proprio dalla Francia, cioè dalla valutazione che la Corte di giustizia della Repubblica sta facendo sul suo ruolo in un ‘affaire’ che ruota intorno a Bernard Tapie, ex ministro e, soprattutto, ex patron del Marsiglia campione d’Europa. La Corte avrebbe dovuto pronunciarsi ieri, ma ha rinviato all’8 luglio la decisione se avviare, o meno, un’inchiesta sulla Lagarde per abuso di potere, accusa per la quale il ministro rischierebbe cinque anni di carcere e una multa di 75mila euro.l’8 luglio, l’Fmi avrà già preso le sue decisioni: la scelta del nuovo direttore generale si farà il 30 giugno.
L'Europa, l'Italia e la politica della sedia (mezza) vuota
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano dell'11/06/2011
Alla metà degli Anni Sessanta, la Francia del generale De Gaulle praticò, nella prima grave crisi dell'integrazione europea, ancora ai primi passi e ben più fragile di adesso, la politica della sedia vuota, disertando le riunioni della Cee tra giugno ‘65 e gennaio ’66 e impedendo, di fatto, l'adozione di decisioni da parte degli allora Sei, i Paesi fondatori. La crisi si risolse con il compromesso di Lussemburgo, che riportò la Francia al tavolo delle riunioni, ma in sostanza vincolò la Cee all'unanimità su qualsiasi materia, in caso d’asserito interesse nazionale da parte di uno Stato membro. Una situazione che si trascinò per 25 anni, fino al Trattato di Maastricht e alla nascita dell'Unione.
Oggi, l'Italia, con scelta meno lucida e forse meno conscia, applica la strategia della sedia mezza vuota. Alle riunioni del Consiglio dell'Ue ci va, ma i ministri stanno a casa e mandano i sottosegretari (e, talora, semplici diplomatici). Uno pensa: “Magari, sono riunioni dove non si discute nulla che ci interessi”. E, allora, andiamo a vedere quello che e' successo nelle ultime 48 ore: a Lussemburgo s'è discusso d’immigrazione e di riforma delle regole di Schengen -richieste nostre, priorità italiane- e di giustizia -una priorità berlusconiana- e ancora di sicurezza nucleare e degli ‘stress tests’, proprio prima del referendum (e dopo che il governo aveva congelato ogni decisione in attesa di lumi dall'Europa). Bene, Maroni, Alfano e Sacconi non si sono visti: chi in extremis, chi per tempo, tutti e tre hanno fatto sapere di avere altro da fare. Al loro posto, Sonia Viale, Giacomo Caliendo, Stefano Saglia.
Intendiamoci: lo fanno un po' tutti, mica sempre i ministri sono presenti. E' vero, ma l'assenteismo (quasi) sistematico dei nostri ministri non ha eguali fra i Grandi dell'Ue. Hanno voglia i Saggi del Gruppo dei Dieci dell’Istituto Luigi Sturzo -mica una congrega di teste calde, diplomatici, esperti, eurocrati, coordinati da Flavio Mondello-, a raccomandare all'Italia di essere attiva e presente nei processi decisionali dell'Unione. Se no, poi, le regole le fanno gli altri e a noi tocca, o toccherebbe, rispettarle.
Alla metà degli Anni Sessanta, la Francia del generale De Gaulle praticò, nella prima grave crisi dell'integrazione europea, ancora ai primi passi e ben più fragile di adesso, la politica della sedia vuota, disertando le riunioni della Cee tra giugno ‘65 e gennaio ’66 e impedendo, di fatto, l'adozione di decisioni da parte degli allora Sei, i Paesi fondatori. La crisi si risolse con il compromesso di Lussemburgo, che riportò la Francia al tavolo delle riunioni, ma in sostanza vincolò la Cee all'unanimità su qualsiasi materia, in caso d’asserito interesse nazionale da parte di uno Stato membro. Una situazione che si trascinò per 25 anni, fino al Trattato di Maastricht e alla nascita dell'Unione.
Oggi, l'Italia, con scelta meno lucida e forse meno conscia, applica la strategia della sedia mezza vuota. Alle riunioni del Consiglio dell'Ue ci va, ma i ministri stanno a casa e mandano i sottosegretari (e, talora, semplici diplomatici). Uno pensa: “Magari, sono riunioni dove non si discute nulla che ci interessi”. E, allora, andiamo a vedere quello che e' successo nelle ultime 48 ore: a Lussemburgo s'è discusso d’immigrazione e di riforma delle regole di Schengen -richieste nostre, priorità italiane- e di giustizia -una priorità berlusconiana- e ancora di sicurezza nucleare e degli ‘stress tests’, proprio prima del referendum (e dopo che il governo aveva congelato ogni decisione in attesa di lumi dall'Europa). Bene, Maroni, Alfano e Sacconi non si sono visti: chi in extremis, chi per tempo, tutti e tre hanno fatto sapere di avere altro da fare. Al loro posto, Sonia Viale, Giacomo Caliendo, Stefano Saglia.
Intendiamoci: lo fanno un po' tutti, mica sempre i ministri sono presenti. E' vero, ma l'assenteismo (quasi) sistematico dei nostri ministri non ha eguali fra i Grandi dell'Ue. Hanno voglia i Saggi del Gruppo dei Dieci dell’Istituto Luigi Sturzo -mica una congrega di teste calde, diplomatici, esperti, eurocrati, coordinati da Flavio Mondello-, a raccomandare all'Italia di essere attiva e presente nei processi decisionali dell'Unione. Se no, poi, le regole le fanno gli altri e a noi tocca, o toccherebbe, rispettarle.
giovedì 9 giugno 2011
Referendum: Italia inneschi domino del nucleare in Europa
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano del 09/06/2010
Dicendo no al nucleare nel referendum, gli italiani possono innescare un ‘domino’ dell’energia atomica in tutta l’Europa. Ne è convinto Daniel Cohn-Bendit, icona verde franco-tedesca e co-presidente del Gruppo dei Verdi al Parlamento europeo. Per lui, il no dell’Italia, dopo lo stop alle centrali nucleari già deciso dalla Germania entro il 2022, costringerà «tutti i governi europei a pronunciarsi». E se i francesi non avranno dubbi a confermare i loro programmi sull’energia atomica, molti altri potrebbero farsene venire nella scia delle decisioni tedesche e italiane.
La questione della sicurezza del nucleare è molto alta sull’agenda dei governi dei 27, dopo l’incidente alla centrale di Fukushima, in Giappone, danneggiata dal terremoto e dallo tsunami del marzo scorso. A Lussemburgo, il Consiglio dei Ministri dell’energia dei 27 discute venerdi’ dei test di resistenza (stress tests) che devono essere condotti in tutte le centrali atomiche europee entro la fine dell’anno. L’impatto a termine dell’uscita dal nucleare della Germania non è all’ordine del giorno, ma la Francia vuole che parlarne: il dente batte dove la lingua duole.
Ai ministri, la Commissione di Bruxelles deve riferire su come intende procedere nella valutazione dei rischi dei reattori in funzione nell’Ue. Un accordo in merito
è stato raggiunto il 24 maggio tra le autorità comunitarie e l’organizzazione europea dei responsabili nazionali in materia di sicurezza nucleare: in particolare, sono state concordate le modalità dei test, chiesti in modo esplicito dal Vertice Ue del 25 marzo, due settimane dopo l’incidente giapponese.
Ma il ‘domino’ del nucleare avrà un senso solo se l’Unione si doterà di una politica energetica alternativa sostenibile. In febbraio, un Vertice ‘ad hoc’ sull’energia è stato un fiasco: pieno consenso, ma su un testo banale e per nulla incisivo, dove si diceva tutto senza puntare su nulla. Non è certo su un documento del genere, scritto perchè ciascuno vi trovi soddisfazione, che puo’ basarsi un’alternativa europea all’opzione atomica.
Dicendo no al nucleare nel referendum, gli italiani possono innescare un ‘domino’ dell’energia atomica in tutta l’Europa. Ne è convinto Daniel Cohn-Bendit, icona verde franco-tedesca e co-presidente del Gruppo dei Verdi al Parlamento europeo. Per lui, il no dell’Italia, dopo lo stop alle centrali nucleari già deciso dalla Germania entro il 2022, costringerà «tutti i governi europei a pronunciarsi». E se i francesi non avranno dubbi a confermare i loro programmi sull’energia atomica, molti altri potrebbero farsene venire nella scia delle decisioni tedesche e italiane.
La questione della sicurezza del nucleare è molto alta sull’agenda dei governi dei 27, dopo l’incidente alla centrale di Fukushima, in Giappone, danneggiata dal terremoto e dallo tsunami del marzo scorso. A Lussemburgo, il Consiglio dei Ministri dell’energia dei 27 discute venerdi’ dei test di resistenza (stress tests) che devono essere condotti in tutte le centrali atomiche europee entro la fine dell’anno. L’impatto a termine dell’uscita dal nucleare della Germania non è all’ordine del giorno, ma la Francia vuole che parlarne: il dente batte dove la lingua duole.
Ai ministri, la Commissione di Bruxelles deve riferire su come intende procedere nella valutazione dei rischi dei reattori in funzione nell’Ue. Un accordo in merito
è stato raggiunto il 24 maggio tra le autorità comunitarie e l’organizzazione europea dei responsabili nazionali in materia di sicurezza nucleare: in particolare, sono state concordate le modalità dei test, chiesti in modo esplicito dal Vertice Ue del 25 marzo, due settimane dopo l’incidente giapponese.
Ma il ‘domino’ del nucleare avrà un senso solo se l’Unione si doterà di una politica energetica alternativa sostenibile. In febbraio, un Vertice ‘ad hoc’ sull’energia è stato un fiasco: pieno consenso, ma su un testo banale e per nulla incisivo, dove si diceva tutto senza puntare su nulla. Non è certo su un documento del genere, scritto perchè ciascuno vi trovi soddisfazione, che puo’ basarsi un’alternativa europea all’opzione atomica.
mercoledì 8 giugno 2011
Libia: Gheddafi si rifà vivo, nel giorno dei raid più violenti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 08/06/2011
Quasi tre mesi di guerra nei cieli libici. Ma Muammar Gheddafi, dopo furiose ondate di attacchi Nato su Tripoli in pieno giorno, fa sentire la sua voce dalla tv di Stato e dice che intende restare in Libia “vivo o morto”. Il colonnello incita i suoi sostenitori: “Combatteremo fino alla fine”. I ‘crociati’ contro di lui “non potranno mai vincere: noi non abbiamo paura, siamo più forti dei vostri missili”, proclama il dittatore, che poreferisce “un milione di volte il martirio alla resa”. “Non ci sottometteremo mai –afferma ancora il rais-: le bombe mi cadono accanto, ma io sto ancora resistendo”: lui si’, ma i suoi fedeli a uno a uno lo ‘mollano’ (ultimo in ordine di tempo, il ministro del lavoro Amin Manfur).
La sortita di ieri è il primo intervento del dittatore dal 19 maggio, quando la tv libica lo mostro’ a colloquio con un emissario di ritorno da Mosca. Il ritorno di Gheddafi coincide con un’escalation della pressione militare dell’Alleanza atlantica: a ondate, 29 esplosioni scuotono la capitale libica in pieno giorno, come non era mai accaduto. Trema il centro della capitale e la zona di Bab al-Aziziya, dove c’è il bunker del rais e da dove si levano colonne di fumo. Mons. Giovanni Martinelli, vicario apostolico, riferisce la preoccupazione che “qualcosa possa accadere nei prossimi giorni”, perchè “la situazione a Tripoli non è calma”.
Sulla città, i raid della Nato sono ormai continui –lunedi’ era stato colpito il comando dell’intelligence militare e pure sedi della radio e della tv di Stato, che pero’ trasmettono ancora-. Nè gli sviluppi militari, dopo che i ribelli sono entrati a Yafran, nè quelli diplomatici appaiono, pero’, determinanti in questa crisi quasi insabbiata, con una linea del fronte sostanzialmente in stallo e dove nessuno ha la forza di vincere sul terreno. A Washington, il presidente americano Barack Obama, che ha accanto il cancelliere tedesco Angela Merkel, dice che la pressione su Gheddafi “aumenterà” fino a che il dittatore non si farà da parte. Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen sostiene che “il tempo di Gheddafi è alla fine” e che “bisogna pensare al dopo rais”.
Anche l’Ue ‘alza il tiro’ contro il regime: da ieri, le sanzioni sono state inasprite, contro, in particolare, sei porti sotto il controllo del regime. E ancora: la Svizzera precisa di avere bloccato averi libici per un importo quasi doppio di quanto finora stimato, mentre l’Algeria congela i beni del Colonnello. La Farnesina segnala “manifestazioni anti-regime anche a Tripoli, dove cresce il malcontento di chi vuole voltare pagina”: per Maurizio Massari, portavoce del ministero degli esteri, “il viaggio di Gheddafi si avvia al capolinea”.
Gheddafi manda un emissario a Pechino, dopo che inviati cinesi sono stati a Bengasi e mentre un diplomatico russo arriva nella capitale dei ribelli per vedere i leader del Consiglio nazionale transitorio. Mikhail Margelov deve “facilitare il dialogo tra le due parti”, anche se il ministro degli esteri di Mosca Serguiei Lavrov ripetuto che non c’è una “mediazione russa”: “Pensiamo che l’esito del conflitto dipenda dai libici”, dice.
Oggi e domani, a Bruxelles, i ministri della difesa dei Paesi della Nato si sentiranno chiedere dall’Alleanza “uno sforzo supplementare”, perchè le operazioni militari hanno certamente ridotto in modo drastico il potenziale militare del regime libico, ma non l’hanno portato al collasso –nè questo è il mandato della risoluzione dell’Onu che legittima il ricorso alla forza-. E domani, si riunirà ad Abu Dhabi il Gruppo di Contatto per la Libia, co-presieduto dal ministro degli esteri italiano Franco Frattini, che, verso il Golfo, fa tappa oggi in Iraq.
Una ridda di contatti senza che emerga con chiarezza una prosettiva di fine conflitto. E, nella tragedia libica, c’è pure spazio per la comica finale tutta italiana: Frattini, irritato dalle voci di nomina di Romano Prodi a inviato Ue, fa sapere di non saperne nulla e che “gli sforzi di interlocuzione con Tripoli devono essere il più possibile coordinati attraverso l’Onu”. E facciamoci del male, una volta di più.
Quasi tre mesi di guerra nei cieli libici. Ma Muammar Gheddafi, dopo furiose ondate di attacchi Nato su Tripoli in pieno giorno, fa sentire la sua voce dalla tv di Stato e dice che intende restare in Libia “vivo o morto”. Il colonnello incita i suoi sostenitori: “Combatteremo fino alla fine”. I ‘crociati’ contro di lui “non potranno mai vincere: noi non abbiamo paura, siamo più forti dei vostri missili”, proclama il dittatore, che poreferisce “un milione di volte il martirio alla resa”. “Non ci sottometteremo mai –afferma ancora il rais-: le bombe mi cadono accanto, ma io sto ancora resistendo”: lui si’, ma i suoi fedeli a uno a uno lo ‘mollano’ (ultimo in ordine di tempo, il ministro del lavoro Amin Manfur).
La sortita di ieri è il primo intervento del dittatore dal 19 maggio, quando la tv libica lo mostro’ a colloquio con un emissario di ritorno da Mosca. Il ritorno di Gheddafi coincide con un’escalation della pressione militare dell’Alleanza atlantica: a ondate, 29 esplosioni scuotono la capitale libica in pieno giorno, come non era mai accaduto. Trema il centro della capitale e la zona di Bab al-Aziziya, dove c’è il bunker del rais e da dove si levano colonne di fumo. Mons. Giovanni Martinelli, vicario apostolico, riferisce la preoccupazione che “qualcosa possa accadere nei prossimi giorni”, perchè “la situazione a Tripoli non è calma”.
Sulla città, i raid della Nato sono ormai continui –lunedi’ era stato colpito il comando dell’intelligence militare e pure sedi della radio e della tv di Stato, che pero’ trasmettono ancora-. Nè gli sviluppi militari, dopo che i ribelli sono entrati a Yafran, nè quelli diplomatici appaiono, pero’, determinanti in questa crisi quasi insabbiata, con una linea del fronte sostanzialmente in stallo e dove nessuno ha la forza di vincere sul terreno. A Washington, il presidente americano Barack Obama, che ha accanto il cancelliere tedesco Angela Merkel, dice che la pressione su Gheddafi “aumenterà” fino a che il dittatore non si farà da parte. Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen sostiene che “il tempo di Gheddafi è alla fine” e che “bisogna pensare al dopo rais”.
Anche l’Ue ‘alza il tiro’ contro il regime: da ieri, le sanzioni sono state inasprite, contro, in particolare, sei porti sotto il controllo del regime. E ancora: la Svizzera precisa di avere bloccato averi libici per un importo quasi doppio di quanto finora stimato, mentre l’Algeria congela i beni del Colonnello. La Farnesina segnala “manifestazioni anti-regime anche a Tripoli, dove cresce il malcontento di chi vuole voltare pagina”: per Maurizio Massari, portavoce del ministero degli esteri, “il viaggio di Gheddafi si avvia al capolinea”.
Gheddafi manda un emissario a Pechino, dopo che inviati cinesi sono stati a Bengasi e mentre un diplomatico russo arriva nella capitale dei ribelli per vedere i leader del Consiglio nazionale transitorio. Mikhail Margelov deve “facilitare il dialogo tra le due parti”, anche se il ministro degli esteri di Mosca Serguiei Lavrov ripetuto che non c’è una “mediazione russa”: “Pensiamo che l’esito del conflitto dipenda dai libici”, dice.
Oggi e domani, a Bruxelles, i ministri della difesa dei Paesi della Nato si sentiranno chiedere dall’Alleanza “uno sforzo supplementare”, perchè le operazioni militari hanno certamente ridotto in modo drastico il potenziale militare del regime libico, ma non l’hanno portato al collasso –nè questo è il mandato della risoluzione dell’Onu che legittima il ricorso alla forza-. E domani, si riunirà ad Abu Dhabi il Gruppo di Contatto per la Libia, co-presieduto dal ministro degli esteri italiano Franco Frattini, che, verso il Golfo, fa tappa oggi in Iraq.
Una ridda di contatti senza che emerga con chiarezza una prosettiva di fine conflitto. E, nella tragedia libica, c’è pure spazio per la comica finale tutta italiana: Frattini, irritato dalle voci di nomina di Romano Prodi a inviato Ue, fa sapere di non saperne nulla e che “gli sforzi di interlocuzione con Tripoli devono essere il più possibile coordinati attraverso l’Onu”. E facciamoci del male, una volta di più.
martedì 7 giugno 2011
Portogallo: la crisi e la paura portano l'Europa a destra
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/06/2011
Fuori un altro. Dopo l'Irlanda e la Finlandia, il Portogallo: le elezioni politiche 2012 nei Paesi dell'Ue segnano un'ecatombe di governi; e sono tutti governi di centro sinistra. Tanto che, ormai, nell'Unione le formazioni al potere non di centro-destra, talora con pesanti accenti xenofobi e anti-slam, sono una sorta di specie in via d'estinzione. Sopravvivono in Spagna e in Grecia, ma, se pure lì si votasse oggi, rischierebbero di scomparire. Fortuna che in Spagna si vota fra un anno (e, magari, le cose non andranno come alle municipali di maggio) e che in Grecia c'e' ancora tempo, salvo collassi del Paese e recessioni verso la dracma, che speriamo appartengano solo all’inverosimile giornalistico.
I risultati portoghesi sono senza sfumature, come lo erano già stati quelli irlandesi e finlandesi: il Partito socialista, che guidava il governo, si ferma al 28,1% e il centrodestra supera, per la prima volta dalla fine del ‘salazarismo, il 50% dei voti e dei seggi, con il Psd al 38,6% e il Cds all'11,7%.
Pagano dazio, al voto, i governi dei Paesi dell'euro forte, come la Finlandia, e quelli dei Paesi dell'euro debole, come Irlanda e, appunto, Portogallo. Pagano dazio, cioè, i governi che subiscono le ricette del sacrificio e del ‘giro di vite’ loro imposte dai partner europei e dalle istanze tecniche sovra-nazionali, la Bce e l'Fmi. E pagano pure dazio i governi che stanno dalla parte di chi detta legge, ma accettano di partecipare allo sforzo di salvataggio dei Paesi più malmessi .
Nell'Europa che esce a fatica dalla crisi del 2008 e che non riesce a blindare la sua moneta pur forte sui mercati dei cambi dalle insidie della speculazione, i governi, che sono tutti, o quasi, ammalati di 'cortotermismo', patiscono le scelte ancora più 'cortotermiste' dei loro cittadini: no ai sacrifici e no alla solidarietà; si' invece alla paura, che induce a chiudere la porta e a barricarsi in casa. Discorsi che valgono per l’immigrazione e nel sociale, oltre che nell’economia e nella finanza.
Ma se il domino dei governi dovesse continuare, il pendolo potrebbe ora rovesciarsi. Anzi, magari, il segnale d'inversione di tendenza è già partito proprio dall'Italia, con le amministrative di maggio e, adesso, i referendum. I prossimi grossi birilli sono l'anno prossimo le presidenziali francesi e poi le politiche tedesche: Sarkozy e la Merkel, due ‘pezzi grossi’ dello schieramento europeo centrista e conservatore, rischiano, anche a giudicare dalle recenti municipali francesi e regionali tedesche. Ma, attenzione!, se a guidare il pendolo è la paura le oscillazioni possono andare fuori controllo: possono persino spingersi più in là di dove sono già giunte e arrivare in Francia al Fronte Nazionale di Martine Le Pen; oppure, possono uscire dall’asse destra – sinistra e deviare in Germania verso i Verdi, che sono stati nelle ultime consultazioni, più dei socialdemocratici, i beneficiari dell’arretramento cristiano-democratico.
Fuori un altro. Dopo l'Irlanda e la Finlandia, il Portogallo: le elezioni politiche 2012 nei Paesi dell'Ue segnano un'ecatombe di governi; e sono tutti governi di centro sinistra. Tanto che, ormai, nell'Unione le formazioni al potere non di centro-destra, talora con pesanti accenti xenofobi e anti-slam, sono una sorta di specie in via d'estinzione. Sopravvivono in Spagna e in Grecia, ma, se pure lì si votasse oggi, rischierebbero di scomparire. Fortuna che in Spagna si vota fra un anno (e, magari, le cose non andranno come alle municipali di maggio) e che in Grecia c'e' ancora tempo, salvo collassi del Paese e recessioni verso la dracma, che speriamo appartengano solo all’inverosimile giornalistico.
I risultati portoghesi sono senza sfumature, come lo erano già stati quelli irlandesi e finlandesi: il Partito socialista, che guidava il governo, si ferma al 28,1% e il centrodestra supera, per la prima volta dalla fine del ‘salazarismo, il 50% dei voti e dei seggi, con il Psd al 38,6% e il Cds all'11,7%.
Pagano dazio, al voto, i governi dei Paesi dell'euro forte, come la Finlandia, e quelli dei Paesi dell'euro debole, come Irlanda e, appunto, Portogallo. Pagano dazio, cioè, i governi che subiscono le ricette del sacrificio e del ‘giro di vite’ loro imposte dai partner europei e dalle istanze tecniche sovra-nazionali, la Bce e l'Fmi. E pagano pure dazio i governi che stanno dalla parte di chi detta legge, ma accettano di partecipare allo sforzo di salvataggio dei Paesi più malmessi .
Nell'Europa che esce a fatica dalla crisi del 2008 e che non riesce a blindare la sua moneta pur forte sui mercati dei cambi dalle insidie della speculazione, i governi, che sono tutti, o quasi, ammalati di 'cortotermismo', patiscono le scelte ancora più 'cortotermiste' dei loro cittadini: no ai sacrifici e no alla solidarietà; si' invece alla paura, che induce a chiudere la porta e a barricarsi in casa. Discorsi che valgono per l’immigrazione e nel sociale, oltre che nell’economia e nella finanza.
Ma se il domino dei governi dovesse continuare, il pendolo potrebbe ora rovesciarsi. Anzi, magari, il segnale d'inversione di tendenza è già partito proprio dall'Italia, con le amministrative di maggio e, adesso, i referendum. I prossimi grossi birilli sono l'anno prossimo le presidenziali francesi e poi le politiche tedesche: Sarkozy e la Merkel, due ‘pezzi grossi’ dello schieramento europeo centrista e conservatore, rischiano, anche a giudicare dalle recenti municipali francesi e regionali tedesche. Ma, attenzione!, se a guidare il pendolo è la paura le oscillazioni possono andare fuori controllo: possono persino spingersi più in là di dove sono già giunte e arrivare in Francia al Fronte Nazionale di Martine Le Pen; oppure, possono uscire dall’asse destra – sinistra e deviare in Germania verso i Verdi, che sono stati nelle ultime consultazioni, più dei socialdemocratici, i beneficiari dell’arretramento cristiano-democratico.
domenica 5 giugno 2011
SPIGOLI: Europa/America, le scelte di Obama e le nostalgie
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/06/2011, pubblicato sul blog 08/06
Venezia, Isola di San Clemente. All'annuale workshop del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti, c'e' nostalgia dei bei tempi andati, quando i rapporti transatlantici tenevano banco e facevano titolo sui giornali. Generazioni d'ambasciatori presso la Nato o degli Usa a Roma e d'Italia a Washington constatano che, oggi, la visita in Europa d'un presidente degli Stati Uniti e' poco più d'una 'photo opportunity': Barak Obama la scorsa settimana ha compiuto una missione anodina con tappe 'elettorali' a Dublino e Varsavia per corteggiare il voto etnico irlandese e polacco in vista delle presidenziali 2012. Vuoi mettere quando c'erano da installare gli euromissili, o da invadere l'Iraq o da combattere guerre a colpi di dazi... Ma c'e' pure chi, meno nostalgico, nota che forse e' meglio cosi': oggi, America ed Europa non hanno veri e propri contenziosi commerciali, militari, politici; e non hanno più neppure un nemico comune -il comunismo e' stato sconfitto e il terrorismo, dopo l'uccisione di Osama bin Laden, e' impalpabile e impersonale-. Restano, invece, valori comuni forti: la liberta', la democrazia, i diritti dell'uomo, la volonta' di realizzare societa' aperte. E resta l'interesse reciproco a cercare insieme risposte a situazioni che sollecitano Washington e le capitali d'Europa: la primavera araba, la pace che non si fa tra israeliani e palestinesi, l'ascesa della Cina e dei Bric, l'uscita dalla crisi e la globalizzazione. Mi torna tutto. Solo un punto mi resta oscuro: ma se Obama e' venuto qui a cercare il voto etnico, perche' non e' passato in Italia a blandire decine di milioni d'italo-americani? Forse Mr B ne sa qualcosa...
Venezia, Isola di San Clemente. All'annuale workshop del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti, c'e' nostalgia dei bei tempi andati, quando i rapporti transatlantici tenevano banco e facevano titolo sui giornali. Generazioni d'ambasciatori presso la Nato o degli Usa a Roma e d'Italia a Washington constatano che, oggi, la visita in Europa d'un presidente degli Stati Uniti e' poco più d'una 'photo opportunity': Barak Obama la scorsa settimana ha compiuto una missione anodina con tappe 'elettorali' a Dublino e Varsavia per corteggiare il voto etnico irlandese e polacco in vista delle presidenziali 2012. Vuoi mettere quando c'erano da installare gli euromissili, o da invadere l'Iraq o da combattere guerre a colpi di dazi... Ma c'e' pure chi, meno nostalgico, nota che forse e' meglio cosi': oggi, America ed Europa non hanno veri e propri contenziosi commerciali, militari, politici; e non hanno più neppure un nemico comune -il comunismo e' stato sconfitto e il terrorismo, dopo l'uccisione di Osama bin Laden, e' impalpabile e impersonale-. Restano, invece, valori comuni forti: la liberta', la democrazia, i diritti dell'uomo, la volonta' di realizzare societa' aperte. E resta l'interesse reciproco a cercare insieme risposte a situazioni che sollecitano Washington e le capitali d'Europa: la primavera araba, la pace che non si fa tra israeliani e palestinesi, l'ascesa della Cina e dei Bric, l'uscita dalla crisi e la globalizzazione. Mi torna tutto. Solo un punto mi resta oscuro: ma se Obama e' venuto qui a cercare il voto etnico, perche' non e' passato in Italia a blandire decine di milioni d'italo-americani? Forse Mr B ne sa qualcosa...
sabato 4 giugno 2011
Batterio killer: storie di pandemie mancate (o sventate?)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/06/2011
La paura del batterio killer attanaglia l'Europa e costringe sulla difensiva il Mondo intero. L'Oms, l'Organizzazione mondiale della Sanita', calcola finora almeno 18 vittime e 2000 casi in 12 Paesi. Tutti i focolai emersi negli ultimi 10 giorni, da quando il batterio s'e' manifestato, paiono in qualche modo connessi al Nord della Germania, dove si contano quasi tutte le vittime. Ma casi si registrano anche in Svezia, Danimarca, Olanda, Francia e altrove. Statistiche e mappe restano imprecise, perche' il fenomeno e nuovo e le diagnosi non sono sempre attendibili.
Gli ultimi bollettini sanitari sono incoraggianti, o forse ottimistici: l'epidemia si starebbe "stabilizzando", affermano le autorita' sanitarie tedesche. E il ministro della salute Fazio esclude che vi siano rischi in Italia, ordina ai Nas di rafforzare i controlli e da' consigli a chi deve recarsi nel Nord della Germania: "Non mangiare cibi non cotti".
Ma la paura pesa pure sugli scambi e fa scattare allarmi economici. E se l'Unione europea fa scattare i meccanismi d'emergenza a tutela della sicurezza alimentare, Mosca blocca l'import di legumi dall'Ue, Bruxelles protesta, Madrid chiede i danni a Berlino perche' la colpa era stata inizialmente data ai cetrioli spagnoli (che pare non c'entrino nulla). In Italia, almeno un'organizzazione di consumatori, il Codacons, chiede lo stop dell'import di ortofrutta, mentre la Coldiretti calcola in 20 milioni di euro le perdite per i produttori di cetrioli e in 5 miliardi di euro le perdite causate dalle psicosi alimentari-sanitarie degli ultimi anni.
E, in effetti, gli allarmi si sono susseguiti nel corso degli anni, dalla mucca pazza all'epidemia d'afta ai casi di contraffazione (quelle del vino in primo luogo, per quanto ci riguarda). E poi i timori di pandemia, la Sars prima, l'aviaria poi, la suina infine, pestilenze universali mai finora esplose con la virulenza temuta, forse anche perche' l'allarme fu forte e il più tempestivo possibile. e le barriere di protezione poste si rivelarono, dopo una fase di panico iniziale, effiaci (e, magari, con il senno di poi, esagerate).
La Sars, acronimo per sindrome respiratoria acuta grave, ua polmonite atipica comparve in Cina nel 2002 e arrivo' in Occidente nel 2003: oltre 8000 i casi accertati, circa 800 i morti. Nel 2005 fu la volta del virus aviario H5N1, una pandemia 'mancata', una "bomba -avvertono gli esperti - inesplosa", ma mai davvero "disinnescata" perche' il microorganismo potrebbe sempre 'imparare' come passare dai polli all'uomo. Invece, la 'suina' quasi subito preferì l’uomo ai maiali e due anni fa, nel 2009, sotto il nome di influenza da virus A/H1N1, fu la prima pandemia ufficialmente dichiarata dall'Oms nel XXI Secolo. In Italia, la
'suina' ha fatto circa 300 morti, su circa 20mila decessi nel mondo. Dopo la dichiarazione ufficiale di fine pandemia, il 10 agosto 2010, l’H1N1 è stato declassato a virus stagionale, lasciando dietro di se' decine di milioni di dosi di vaccino inutilizzate.
Stavolta, almeno per ora, essendo ancora ignote le origini e i percorsi del contagio, la prevenzione si limita a consigli d'igiene di base: lavare bene le verdure con acqua calda e mangiarle solo cotte. Eppure, la battaglia contro questo batterio killer, non ancora vinta, diventa gia' una guerra economica e commerciale. E consumatori e produttori si schierano gli uni contro gli altri, come se il contagio non fosse una minaccia per tutti.
Dall'Europa alla Cina, biologi e medici sono al lavoro, con qualche iniziale successo. L'Oms sa ormai che il batterio killer e' una variante mai vista prima dell'Escherichia coli, lo O104:H4, diverso e distinto dai suoi 174 parenti noti, generato da una mutazione che resta misteriosa. I batteri della famiglia producono tutti la stessa tossina, che da sola non basta a spiegare, pero', la letalita' dell'epidemia di gastroenterite con danni renali. Scienziati ed esperti giudicano lo O104:H4 "altamente tossico". E i ricercatori cinesi che hanno decodificato il genoma indicano che il ceppo contiene "diversi geni resistenti agli antibiotici". Tracce delle tossine sono state trovate pure su un salame di cervo prodotto in Italia: come ci siano arrivate, ancora non si sa.
La paura del batterio killer attanaglia l'Europa e costringe sulla difensiva il Mondo intero. L'Oms, l'Organizzazione mondiale della Sanita', calcola finora almeno 18 vittime e 2000 casi in 12 Paesi. Tutti i focolai emersi negli ultimi 10 giorni, da quando il batterio s'e' manifestato, paiono in qualche modo connessi al Nord della Germania, dove si contano quasi tutte le vittime. Ma casi si registrano anche in Svezia, Danimarca, Olanda, Francia e altrove. Statistiche e mappe restano imprecise, perche' il fenomeno e nuovo e le diagnosi non sono sempre attendibili.
Gli ultimi bollettini sanitari sono incoraggianti, o forse ottimistici: l'epidemia si starebbe "stabilizzando", affermano le autorita' sanitarie tedesche. E il ministro della salute Fazio esclude che vi siano rischi in Italia, ordina ai Nas di rafforzare i controlli e da' consigli a chi deve recarsi nel Nord della Germania: "Non mangiare cibi non cotti".
Ma la paura pesa pure sugli scambi e fa scattare allarmi economici. E se l'Unione europea fa scattare i meccanismi d'emergenza a tutela della sicurezza alimentare, Mosca blocca l'import di legumi dall'Ue, Bruxelles protesta, Madrid chiede i danni a Berlino perche' la colpa era stata inizialmente data ai cetrioli spagnoli (che pare non c'entrino nulla). In Italia, almeno un'organizzazione di consumatori, il Codacons, chiede lo stop dell'import di ortofrutta, mentre la Coldiretti calcola in 20 milioni di euro le perdite per i produttori di cetrioli e in 5 miliardi di euro le perdite causate dalle psicosi alimentari-sanitarie degli ultimi anni.
E, in effetti, gli allarmi si sono susseguiti nel corso degli anni, dalla mucca pazza all'epidemia d'afta ai casi di contraffazione (quelle del vino in primo luogo, per quanto ci riguarda). E poi i timori di pandemia, la Sars prima, l'aviaria poi, la suina infine, pestilenze universali mai finora esplose con la virulenza temuta, forse anche perche' l'allarme fu forte e il più tempestivo possibile. e le barriere di protezione poste si rivelarono, dopo una fase di panico iniziale, effiaci (e, magari, con il senno di poi, esagerate).
La Sars, acronimo per sindrome respiratoria acuta grave, ua polmonite atipica comparve in Cina nel 2002 e arrivo' in Occidente nel 2003: oltre 8000 i casi accertati, circa 800 i morti. Nel 2005 fu la volta del virus aviario H5N1, una pandemia 'mancata', una "bomba -avvertono gli esperti - inesplosa", ma mai davvero "disinnescata" perche' il microorganismo potrebbe sempre 'imparare' come passare dai polli all'uomo. Invece, la 'suina' quasi subito preferì l’uomo ai maiali e due anni fa, nel 2009, sotto il nome di influenza da virus A/H1N1, fu la prima pandemia ufficialmente dichiarata dall'Oms nel XXI Secolo. In Italia, la
'suina' ha fatto circa 300 morti, su circa 20mila decessi nel mondo. Dopo la dichiarazione ufficiale di fine pandemia, il 10 agosto 2010, l’H1N1 è stato declassato a virus stagionale, lasciando dietro di se' decine di milioni di dosi di vaccino inutilizzate.
Stavolta, almeno per ora, essendo ancora ignote le origini e i percorsi del contagio, la prevenzione si limita a consigli d'igiene di base: lavare bene le verdure con acqua calda e mangiarle solo cotte. Eppure, la battaglia contro questo batterio killer, non ancora vinta, diventa gia' una guerra economica e commerciale. E consumatori e produttori si schierano gli uni contro gli altri, come se il contagio non fosse una minaccia per tutti.
Dall'Europa alla Cina, biologi e medici sono al lavoro, con qualche iniziale successo. L'Oms sa ormai che il batterio killer e' una variante mai vista prima dell'Escherichia coli, lo O104:H4, diverso e distinto dai suoi 174 parenti noti, generato da una mutazione che resta misteriosa. I batteri della famiglia producono tutti la stessa tossina, che da sola non basta a spiegare, pero', la letalita' dell'epidemia di gastroenterite con danni renali. Scienziati ed esperti giudicano lo O104:H4 "altamente tossico". E i ricercatori cinesi che hanno decodificato il genoma indicano che il ceppo contiene "diversi geni resistenti agli antibiotici". Tracce delle tossine sono state trovate pure su un salame di cervo prodotto in Italia: come ci siano arrivate, ancora non si sa.
venerdì 3 giugno 2011
Italia 150: a Roma i problemi del Mondo (oltre a tutti i nostri)
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/06/2011
Per un giorno, ed è quello giusto, il 2 giugno, la Festa della Repubblica nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Roma diventa crocevia della diplomazia internazionale e si ricorda d’essere stata ‘caput mundi’. La presenza di notabili di mezzo mondo –una quarantina i capi di Stato o i loro vice, un’ottantina i Paesi rappresentati- ravviva l’interesse della stampa internazionale, al di là della foto della parata che trovate su un sacco di siti e di giornali, le frecce tricolori che sfiorano il Vittoriano, che di suoi di anni ne fa cento. Il presidente Napolitano lascia la festa “orgoglioso e soddisfatto”, dice, dell’immagine “viva e dinamica” offerta. Gli ospiti se ne vanno, ciascuno avendo contaminato la Città Eterna dei propri problemi. Il segretario generale dell’Onu Ban Ky-moon è preoccupato dello stallo in Libia e spera che l’Italia non riduca le forze in Libano. Il vice-presidente americano Biden e il presidente afghano Karzai, hanno il cruccio dell’offensiva dei talebani dopo l’uccisione di bin Laden, anche al di là del confine con il Pakistan, dove gli scontri in queste ore fanno almeno 75 morti. Imbucato, più che invitato, c’è pure il ministro del petrolio libico, Ghanem, che annuncia la sua defezione: “Mi unisco alla rivolta”, dice, mentre la Nato proroga la missione militare di altri 90 giorni –hai voglia le settimane di cui parlavano Frattini e La Russa un mese fa-. In un giorno così, nessuno nega una parola d’amicizia all’Italia, che spalanca agli ospiti i Giardini del Quirinale e i Palazzi del Potere. A parata finita, il premier Berlusconi riceve i leader che non scappano subito via a Villa Pamphili. Lì, il presidente del Consiglio europeo, il belga Van Rompuy, fa l’elogio della politica di bilancio italiana. Certo, il premier gli promette di azzerare il deficit entro il 2014. Tanto, toccherà poi ad altri renderne conto alla scadenza.
Per un giorno, ed è quello giusto, il 2 giugno, la Festa della Repubblica nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, Roma diventa crocevia della diplomazia internazionale e si ricorda d’essere stata ‘caput mundi’. La presenza di notabili di mezzo mondo –una quarantina i capi di Stato o i loro vice, un’ottantina i Paesi rappresentati- ravviva l’interesse della stampa internazionale, al di là della foto della parata che trovate su un sacco di siti e di giornali, le frecce tricolori che sfiorano il Vittoriano, che di suoi di anni ne fa cento. Il presidente Napolitano lascia la festa “orgoglioso e soddisfatto”, dice, dell’immagine “viva e dinamica” offerta. Gli ospiti se ne vanno, ciascuno avendo contaminato la Città Eterna dei propri problemi. Il segretario generale dell’Onu Ban Ky-moon è preoccupato dello stallo in Libia e spera che l’Italia non riduca le forze in Libano. Il vice-presidente americano Biden e il presidente afghano Karzai, hanno il cruccio dell’offensiva dei talebani dopo l’uccisione di bin Laden, anche al di là del confine con il Pakistan, dove gli scontri in queste ore fanno almeno 75 morti. Imbucato, più che invitato, c’è pure il ministro del petrolio libico, Ghanem, che annuncia la sua defezione: “Mi unisco alla rivolta”, dice, mentre la Nato proroga la missione militare di altri 90 giorni –hai voglia le settimane di cui parlavano Frattini e La Russa un mese fa-. In un giorno così, nessuno nega una parola d’amicizia all’Italia, che spalanca agli ospiti i Giardini del Quirinale e i Palazzi del Potere. A parata finita, il premier Berlusconi riceve i leader che non scappano subito via a Villa Pamphili. Lì, il presidente del Consiglio europeo, il belga Van Rompuy, fa l’elogio della politica di bilancio italiana. Certo, il premier gli promette di azzerare il deficit entro il 2014. Tanto, toccherà poi ad altri renderne conto alla scadenza.
giovedì 2 giugno 2011
SPIGOLI: NYT = Mr B, la giustizia in Italia una pena
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/06/2011, non pubblicato
Per una volta, il NYT è in sintonia con Berlusconi: la giustizia in Italia è una pena. Ma non perchè persegue i potenti, chè ‘quando ci vuole ci vuole’, ma piuttosto perchè impiega un sacco di tempo per condannarli –e raramente ci arriva-. Il quotidiano constata che «la lentezza della giustizia crea problemi in Italia» dopo la condanna dell’ex governatore di BankItalia Antio Fazio e dei ‘furbetti del quartierino’ amici suoi: «Ci sono voluti sei anni» (e non è finita). Da un governatore ormai fuori gioco ad un altro che sta per lasciare Palazzo Kock per andare a fare il presidente della Bce, la Banca centrale europea. Nell’analisi del FT, anche Draghi ha votato contro Mr B e il suo governo nelle considerazioni annuali fatte, come tradizione vuole, il 31 maggio. Secondo il quotidiano economico europeo, che è stato un ‘grande elettore’ di Draghi alla Bce, il discorso è stato una critica ai risultati conseguiti dal governo Berlusconi. L’intervento del governatore è stato seguito dalla stampa europea con più attenzione del solito, magari alla ricerca di anticipazioni sulle scelte a venire della Bce, visto che l’Europa –la citazione è di Le Figaro- «vive la crisi più grave della sua storia». Giustizia ed economia non distolgono pero’ l’attenzione dalla politica: El Pais vede Berlusconi «alle corde» -l’immagine del ring ritorna, nel dopo elezioni-; il Guardian lo scova «trincerato dietro un muro» (ma è «il muro di carte» con cui i suoi legali cercano di trarlo dagli impicci giudiziari). Le Monde e l’Economist condividono l’approccio del Pais, con altre parole; e il Time s’interroga pubblicano un editoriale della Stampa, ‘Berlusconi ha perso il tocco magico con gli italiani?’.
Per una volta, il NYT è in sintonia con Berlusconi: la giustizia in Italia è una pena. Ma non perchè persegue i potenti, chè ‘quando ci vuole ci vuole’, ma piuttosto perchè impiega un sacco di tempo per condannarli –e raramente ci arriva-. Il quotidiano constata che «la lentezza della giustizia crea problemi in Italia» dopo la condanna dell’ex governatore di BankItalia Antio Fazio e dei ‘furbetti del quartierino’ amici suoi: «Ci sono voluti sei anni» (e non è finita). Da un governatore ormai fuori gioco ad un altro che sta per lasciare Palazzo Kock per andare a fare il presidente della Bce, la Banca centrale europea. Nell’analisi del FT, anche Draghi ha votato contro Mr B e il suo governo nelle considerazioni annuali fatte, come tradizione vuole, il 31 maggio. Secondo il quotidiano economico europeo, che è stato un ‘grande elettore’ di Draghi alla Bce, il discorso è stato una critica ai risultati conseguiti dal governo Berlusconi. L’intervento del governatore è stato seguito dalla stampa europea con più attenzione del solito, magari alla ricerca di anticipazioni sulle scelte a venire della Bce, visto che l’Europa –la citazione è di Le Figaro- «vive la crisi più grave della sua storia». Giustizia ed economia non distolgono pero’ l’attenzione dalla politica: El Pais vede Berlusconi «alle corde» -l’immagine del ring ritorna, nel dopo elezioni-; il Guardian lo scova «trincerato dietro un muro» (ma è «il muro di carte» con cui i suoi legali cercano di trarlo dagli impicci giudiziari). Le Monde e l’Economist condividono l’approccio del Pais, con altre parole; e il Time s’interroga pubblicano un editoriale della Stampa, ‘Berlusconi ha perso il tocco magico con gli italiani?’.
Italia 150: in tanti alla festa, ma pesano le assenze
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/06/2011
Si contano sempre quelli che ci sono, perchè –si sa- «gli assenti hanno sempre torto». Ma questa volta bisogna pure pesare quelli che non ci sono. L’Italia celebra la Festa della Repubblica nel 150o anniversario della propria Unità accogliendo a Roma diversi protagonisti della politica internazionale: c’è ‘prezzemolo’ Ban Ky-moon, ci sono il presidente israeliano Peres e quello palestinese Abu Mazen, il presidente russo Medvedev e il vice cinese Xi, futuro ‘numero uno’ designato; ci sono il re di Spagna Juan Carlos e dei principi ereditari; e il presidente tedesco Wulff, l’afghano Karzai, l’argentina Kirchner, oltre a quelli –e non se ne sentiva il bisogno- di Albania, Azerbaigian, Cipro, Islanda e Moldova. Bastano a impegnare il presidente Napolitano, scortato dal ministro degli esteri Frattini, in una maratona diplomatica. Pero’, la lista di quelli che mancano è lunga e fa pensare: c’é chi, come il presidente turco Gul, declina in extremis perché malato; e non c’è il presidente Usa Obama, che è appena stato in Europa evitando l’Italia –arriva il suo vice, Biden, e non è la stessa cosa-; e non ci sono Sarkozy e altri ‘tenori’ europei, Merkel, Cameron, Zapatero, neppure Van Rompuy o Barroso: solo due Paesi del G8 sono al top. Non è un caso che quanti sono stati testimoni delle ultime performances internazionali di Mr B preferiscano starsene alla larga: Napolitano è un signore, e l’Italia un Bel Paese, ma il Cavaliere li fa sentire in imbarazzo.
Si contano sempre quelli che ci sono, perchè –si sa- «gli assenti hanno sempre torto». Ma questa volta bisogna pure pesare quelli che non ci sono. L’Italia celebra la Festa della Repubblica nel 150o anniversario della propria Unità accogliendo a Roma diversi protagonisti della politica internazionale: c’è ‘prezzemolo’ Ban Ky-moon, ci sono il presidente israeliano Peres e quello palestinese Abu Mazen, il presidente russo Medvedev e il vice cinese Xi, futuro ‘numero uno’ designato; ci sono il re di Spagna Juan Carlos e dei principi ereditari; e il presidente tedesco Wulff, l’afghano Karzai, l’argentina Kirchner, oltre a quelli –e non se ne sentiva il bisogno- di Albania, Azerbaigian, Cipro, Islanda e Moldova. Bastano a impegnare il presidente Napolitano, scortato dal ministro degli esteri Frattini, in una maratona diplomatica. Pero’, la lista di quelli che mancano è lunga e fa pensare: c’é chi, come il presidente turco Gul, declina in extremis perché malato; e non c’è il presidente Usa Obama, che è appena stato in Europa evitando l’Italia –arriva il suo vice, Biden, e non è la stessa cosa-; e non ci sono Sarkozy e altri ‘tenori’ europei, Merkel, Cameron, Zapatero, neppure Van Rompuy o Barroso: solo due Paesi del G8 sono al top. Non è un caso che quanti sono stati testimoni delle ultime performances internazionali di Mr B preferiscano starsene alla larga: Napolitano è un signore, e l’Italia un Bel Paese, ma il Cavaliere li fa sentire in imbarazzo.
mercoledì 1 giugno 2011
SPIGOLI: da un ring all'altro, Mr B col naso sanguinante
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/06/2011
«Con il naso sanguinante», come chi ha appena preso un pugno dagli elettori: cosi’,
la Bbc raffigura Berlusconi, il giorno dopo la batosta nella amministrative. «Comunque la si giri –scrive sul suo sito l’emittente modello del servizio pubblico-,
il premier è il gran perdente nelle elezioni locali». Per FT , i risultati costituiscono
«un colpo politico» inferto a Mr B e “potrebbero alimentare una lotta di potere all’interno del gruppo di governo”, aprire, cioè, una sorta di guerra di successione (con il rischio che, nel frattempo, il Cavaliere dilapidi tutto il capitale accumulato). Tutta la stampa europea dedica attenzione al voto italiano e anche quella americana registra “il severo monito”degli elettori alla coalizione al governo (WSJ) –e pure NYT, WP, che parla di «enorme sconfitta», Cnn, SFC, Ap e molti altri-. In Europa, titoli e commenti si succedono e si assomigliano: il Guardian parla di «umiliazione» per il premier, il Times vede «il berlusconismo minacciato» dalla perdita di Milano, Libération considera il capoluogo lombardo «liberato», lo spagnolo Abc evidenzia
il «simbolismo» dell’unione « delle capitali del Nord e del Sud per dare una botta a Berlusconi ». E molti giornali, specie francesi, collegano la batosta elettorale di Mr B con gli sviluppi del Rubygate: battuto sul ring della politica, Mr B deve subito salire su quello della giustizia. Fra tutti i quotidiani, uno solo, El Pais, non punta su chi ha perso, ma su chi ha vinto: «La sinistra italiana –titola il giornale spagnolo- resuscita con brio».
«Con il naso sanguinante», come chi ha appena preso un pugno dagli elettori: cosi’,
la Bbc raffigura Berlusconi, il giorno dopo la batosta nella amministrative. «Comunque la si giri –scrive sul suo sito l’emittente modello del servizio pubblico-,
il premier è il gran perdente nelle elezioni locali». Per FT , i risultati costituiscono
«un colpo politico» inferto a Mr B e “potrebbero alimentare una lotta di potere all’interno del gruppo di governo”, aprire, cioè, una sorta di guerra di successione (con il rischio che, nel frattempo, il Cavaliere dilapidi tutto il capitale accumulato). Tutta la stampa europea dedica attenzione al voto italiano e anche quella americana registra “il severo monito”degli elettori alla coalizione al governo (WSJ) –e pure NYT, WP, che parla di «enorme sconfitta», Cnn, SFC, Ap e molti altri-. In Europa, titoli e commenti si succedono e si assomigliano: il Guardian parla di «umiliazione» per il premier, il Times vede «il berlusconismo minacciato» dalla perdita di Milano, Libération considera il capoluogo lombardo «liberato», lo spagnolo Abc evidenzia
il «simbolismo» dell’unione « delle capitali del Nord e del Sud per dare una botta a Berlusconi ». E molti giornali, specie francesi, collegano la batosta elettorale di Mr B con gli sviluppi del Rubygate: battuto sul ring della politica, Mr B deve subito salire su quello della giustizia. Fra tutti i quotidiani, uno solo, El Pais, non punta su chi ha perso, ma su chi ha vinto: «La sinistra italiana –titola il giornale spagnolo- resuscita con brio».
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