Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/01/2012
Tutti li vogliono. E molti, ormai, li hanno. Gli americani, certamente. Gli israeliani, ovvio. E presto pure gli iraniani, a credere a dispacci in provenienza da Teheran. Per non parlare di chi ce li ha, ma non ne parla mai e li usa –per ora- poco. I droni, come si chiamano i velivoli senza pilota, sono la nuova frontiera della guerra del XXI Secolo: prima solo da ricognizione, poi anche da attacco, hanno un sacco di vantaggi sugli aerei convenzionali e rendono gli stessi servizi: costano di meno: e, se ne perdete uno, non vi giocate il pilota e il suo addestramento. Certo, c’è l’inconveniente che possono essere imprecisi, scambiare amici per nemici e civili per talebani –chiedete ai pachistani, se fate spallucce-. Ma non è che gli aerei con pilota sono esenti da ‘fuoco amico’ e ‘danni collaterali’. E, allora, viva i droni.
Il Pentagono, che ha appena annunciato un ridimensionamento del proprio apparato militare, meno uomini, più tecnologia, progetta di aumentarli del 30%. L'Amministrazione Obama vuole potenziarne l’impiego in operazioni d’intelligence mirate anti-terrorismo (in Pakistan o in Somalia, in Afghanistan o nello Yemen). Il progetto del segretario alla difesa Leon Panetta sarà contenuto nella legge finanziaria che sarà presentata il 13 febbraio.
Intanto, in Israele, una nota del ministero della difesa fa sapere che un drone delle dimensioni d’un Boeing 737 (apertura alare di 26 metri) si e' schiantato al suolo durante un volo di prova. Ma come, ‘sti aerei automatici non erano piccoli? Il ‘super-drone’ si chiama Heron TP e può coprire –giusto per fare un esempio- la distanza tra Israele e l'Iran, con a bordo strumenti di spionaggio adatti a scovare i siti nucleari nascosti iraniani. Armi? Beh, fate un po’ voi…
Se foste iraniani, vi sentireste fischiare le orecchie –magari, è un drone israeliano che vi sorvola-. E allora Mehdi Iraji, un ingegnere aeronautico, il responsabile del progetto, annuncia che è già (quasi) pronto un drone islamico: si chiamerà A1, volerà a un’altezza massima di 3.000 metri, avrà un’autonomia di due ore e potrà portare un ordigno di 5 kg. Più cauto, il ministro della difesa, generale Ahmad Vahidi, si limita ad annunciare un drone per la sorveglianza del mare.
Da qualche parte, c’è un confine tra realtà e propaganda. Quando invasero l’Iraq, gli americani dissero che Saddam Hussein aveva un drone per disseminare armi di distruzione di massa. Lo trovarono: era un modellino in legno, senza motore né tecnologia né armi di sorta.
martedì 31 gennaio 2012
lunedì 30 gennaio 2012
Ue: crisi, Vertice, l'Europa, l'Italia e l'ombelico
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 30/01/2012
No, non è che l’Italia è l’ombelico dell’Europa, anche se, ora che abbiamo un Professore da esibire nei consessi internazionali, è un po’ più vero di prima e, comunque, ci piace crederlo. E’, piuttosto, che, mentre a Bruxelles si decidono i destini dell’Europa e, quindi, un po’ (tanto) anche i nostri, noi continuiamo a preferire guardarci l’ombelico e credere che i nostri punti di riferimento politici nazionali siano quelli che realmente contano, o almeno i soli che realmente contano per noi.
Prendiamo la lettura data e l’uso fatto, la scorsa settimana, della mozione unitaria del Parlamento sulla politica europea. Su La Stampa, Emma Bonino, vice-presidente del Senato, ex commissaria a Bruxelles, uno dei pochi politici italiani che pensa europeo, scrive che, di quella mozione, “quel che è più importante è l’indicazione dell'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa”, definendone progetto, metodo ed agenda. Il Parlamento italiano ha impegnato il governo a sottoscrivere, con altri partner europei, “una dichiarazione che accompagni il trattato internazionale” sul patto di Bilancio, ispirandosi al modello della dichiarazione sul futuro dell'Europa annessa nel 2000 al Trattato di Nizza su proposta di Giuliano Amato e Gerard Schroeder e sottoscritta dai Paesi fondatori delle Comunità europee.
Ma, s’interroga in proposito su l’Unità l’ambasciatore Rocco Cangelosi, vice-presidente del Comitato italiano del Movimento europeo, ex rappresentante dell’Italia presso l’Ue, “quanti hanno notato o compreso il significato di quelle quattro righe che chiudono la mozione? Quello che è apparso su tutti i giornali è solo una lettura politica di un evento: l’emersione di una maggioranza nascosta a sostegno del Governo Monti”. Eppure, “la mozione parlamentare che vincola il governo italiano a tale impegno è nobilissima e rappresenterebbe una svolta per la nostra politica europea, restituendo all’Italia il suo ruolo di Paese fondatore e federatore”.
Ora, uno può anche chiedersi, nell’ennesima versione del gioco dell’uovo e della gallina, che cosa venga prima: le forze politiche italiane volevano davvero esprimersi sull’Europa e hanno scoperto che quello era un terreno di convergenza?, oppure cercavano un terreno di convergenza relativamente indolore e hanno trovato che l’Europa poteva esserlo? Magari, è la seconda che ho detto. Ma carta ora canta: c’è un documento del Parlamento che impegna il governo ad andare oltre l’accordo di Bruxelles, ammesso che ci sia, sul Patto di Bilancio e l’aumento del fondo ‘salva Stati’, tutto rigore, poca solidarietà e (quasi) niente crescita –almeno per ora-.
La Bonino scrive: “Al punto a cui sono arrivati i negoziati fra i 26 e nonostante la buona volontà del governo italiano e della delegazione del Parlamento europeo, è difficile immaginare che il trattato internazionale – voluto dalla cancelliera Merkel come atto sacrificale offerto ai suoi euroscettici liberali – possa contenere innovazioni significative sul piano degli impegni per la crescita e per la disciplina democratica”. E, allora, va “condivisa la proposta del Parlamento europeo d’una “clausola di decadenza”, cioè una sanzione automatica di disattivazione del trattato nel caso in cui esso non sia integrato entro una data precisa (io propongo entro il 31 dicembre 2015) nel diritto dell'Unione. Credo che il governo italiano – poiché il Parlamento europeo ha solo lo status di osservatore nel negoziato – debba farsi carico con determinazione di questa proposta”.
Gli europeisti, si sa, sono pazienti e ostinati. E pure ottimisti. “Noi ci auguriamo –parole di Cangelosi-, che lo sforzo fatto dal Parlamento italiano non svanisca nell’oblio delle buone intenzioni e che il nostro governo lanci una forte iniziativa mirante a riprendere il cammino delle riforme istituzionali. Ha strumenti adeguati per farlo: una forte componente europeista, il sostegno di un presidente della Repubblica che dell’Europa ha fatto una delle sue principali ragioni di azione e di vita, una diplomazia che in passato ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide più improbabili”. “Vogliamo credere –conclude l’ambasciatore- che gli impegni presi non vengano disattesi e che le speranze che nutrono molti giovani cittadini europei non vadano ancora una volte deluse, naufragando contro gli scogli della Finanz Realpolitik” e l’italico ombelico.
No, non è che l’Italia è l’ombelico dell’Europa, anche se, ora che abbiamo un Professore da esibire nei consessi internazionali, è un po’ più vero di prima e, comunque, ci piace crederlo. E’, piuttosto, che, mentre a Bruxelles si decidono i destini dell’Europa e, quindi, un po’ (tanto) anche i nostri, noi continuiamo a preferire guardarci l’ombelico e credere che i nostri punti di riferimento politici nazionali siano quelli che realmente contano, o almeno i soli che realmente contano per noi.
Prendiamo la lettura data e l’uso fatto, la scorsa settimana, della mozione unitaria del Parlamento sulla politica europea. Su La Stampa, Emma Bonino, vice-presidente del Senato, ex commissaria a Bruxelles, uno dei pochi politici italiani che pensa europeo, scrive che, di quella mozione, “quel che è più importante è l’indicazione dell'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa”, definendone progetto, metodo ed agenda. Il Parlamento italiano ha impegnato il governo a sottoscrivere, con altri partner europei, “una dichiarazione che accompagni il trattato internazionale” sul patto di Bilancio, ispirandosi al modello della dichiarazione sul futuro dell'Europa annessa nel 2000 al Trattato di Nizza su proposta di Giuliano Amato e Gerard Schroeder e sottoscritta dai Paesi fondatori delle Comunità europee.
Ma, s’interroga in proposito su l’Unità l’ambasciatore Rocco Cangelosi, vice-presidente del Comitato italiano del Movimento europeo, ex rappresentante dell’Italia presso l’Ue, “quanti hanno notato o compreso il significato di quelle quattro righe che chiudono la mozione? Quello che è apparso su tutti i giornali è solo una lettura politica di un evento: l’emersione di una maggioranza nascosta a sostegno del Governo Monti”. Eppure, “la mozione parlamentare che vincola il governo italiano a tale impegno è nobilissima e rappresenterebbe una svolta per la nostra politica europea, restituendo all’Italia il suo ruolo di Paese fondatore e federatore”.
Ora, uno può anche chiedersi, nell’ennesima versione del gioco dell’uovo e della gallina, che cosa venga prima: le forze politiche italiane volevano davvero esprimersi sull’Europa e hanno scoperto che quello era un terreno di convergenza?, oppure cercavano un terreno di convergenza relativamente indolore e hanno trovato che l’Europa poteva esserlo? Magari, è la seconda che ho detto. Ma carta ora canta: c’è un documento del Parlamento che impegna il governo ad andare oltre l’accordo di Bruxelles, ammesso che ci sia, sul Patto di Bilancio e l’aumento del fondo ‘salva Stati’, tutto rigore, poca solidarietà e (quasi) niente crescita –almeno per ora-.
La Bonino scrive: “Al punto a cui sono arrivati i negoziati fra i 26 e nonostante la buona volontà del governo italiano e della delegazione del Parlamento europeo, è difficile immaginare che il trattato internazionale – voluto dalla cancelliera Merkel come atto sacrificale offerto ai suoi euroscettici liberali – possa contenere innovazioni significative sul piano degli impegni per la crescita e per la disciplina democratica”. E, allora, va “condivisa la proposta del Parlamento europeo d’una “clausola di decadenza”, cioè una sanzione automatica di disattivazione del trattato nel caso in cui esso non sia integrato entro una data precisa (io propongo entro il 31 dicembre 2015) nel diritto dell'Unione. Credo che il governo italiano – poiché il Parlamento europeo ha solo lo status di osservatore nel negoziato – debba farsi carico con determinazione di questa proposta”.
Gli europeisti, si sa, sono pazienti e ostinati. E pure ottimisti. “Noi ci auguriamo –parole di Cangelosi-, che lo sforzo fatto dal Parlamento italiano non svanisca nell’oblio delle buone intenzioni e che il nostro governo lanci una forte iniziativa mirante a riprendere il cammino delle riforme istituzionali. Ha strumenti adeguati per farlo: una forte componente europeista, il sostegno di un presidente della Repubblica che dell’Europa ha fatto una delle sue principali ragioni di azione e di vita, una diplomazia che in passato ha dimostrato di essere all’altezza delle sfide più improbabili”. “Vogliamo credere –conclude l’ambasciatore- che gli impegni presi non vengano disattesi e che le speranze che nutrono molti giovani cittadini europei non vadano ancora una volte deluse, naufragando contro gli scogli della Finanz Realpolitik” e l’italico ombelico.
sabato 28 gennaio 2012
Usa 2012: è la Rice, outsider o vice, il jolly repubblicano
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/01/2012
Per quasi tre anni, se n’è rimasta buona buona nella riserva dell’Unione, a insegnare scienze politiche a Stanford, in California, la sua Università, dove, intanto, ha fatto una bella carriera, a suonare il piano per diletto e a seguire le vicende del football, quello americano, sport di cui è grande appassionata. L’unico fidanzato che le è mai stato ufficialmente riconosciuto, negli Anni Settanta, è un giocatore, Rick Upchurch, e il presidente della federazione le fu accompagnatore in alcuni eventi mondani.
Eppure, nonostante il suo ritiro, Condoleezza Rice era e resta una delle cinque donne più popolari d’America: a fine 2011, un sondaggio la conferma nel gotha femminile degli Stati Uniti, accanto a Hillary Clinton –in vetta alla classifica, ininterrottamente, da dieci anni-, con la star tv Oprah Winfrey, la first lady Michelle Obama e l’ex candidata a tutto Sarah Palin.
Nubile, senza figli, Condi Rice è oggi considerata da molti repubblicani l’ideale vice del candidato repubblicano alla Casa Bianca: donna e nera, sarebbe perfettamente complementare a un bianco e uomo, quale si profila nella sfida tra Mitt Romney e Newt Gingrich. Anche se chi guarda al pelo nell’uovo la trova un po’ troppo doppione di Romney –istruita, educata e moderata- e, per le stesse ragioni, un po’ troppo antitetica a Gingrich.
Mentre il Washington Times, quotidiano conservatore, la candida a vice, c’è, però, pure chi pensa a lei come grimaldello per forzare lo stallo che rischia di prodursi
tra Romney e Gingrich, se i due, dopo le primarie in Florida del 31 gennaio, s’impantanano in una testa a testa infinito. Una candidatura a presidente della Rice sarebbe, per l’establishment repubblicano, la trovata per liberarsi, d’un colpo solo,
di Romney il perdente e di Gingrich lo zombi.
“I candidati repubblicani? Un grande disastro”, è il giudizio, interessato, pronunciato ieri da Barack Obama; ma è anche l’opinione dei saggi del partito. Quello della Rice non è certo l’unico nome affisso nella casella ‘outsiders’. Ci sono i due rimasti in panchina, anzi ai microfoni della Fox, Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, e la Palin, ex governatrice dell’Alaska, tutti e due area Tea Party; e poi ci sono i ‘bushiani’, Mitch Daniels, l’uomo del bilancio alla Casa Bianca con George W., quindi governatore dell’Indiana, e Jeb Bush, il fratello minore, quello che doveva essere presidente nei calcoli di famiglia, ora ex governatore della Florida.
Anche la Rice dovrebbe essere una ‘bushiana’. Ma nei tre anni trascorsi dall’abbandono degli incarichi pubblici –consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato-, la professoressa che parla il russo ha preso un po’ le distanze
da Bush e, soprattutto, dal suo vice Dick Cheney. In un ponderoso libro di memorie pubblicato l’autunno scorso –oltre 700 pagine-, Condi solleva un velo sui contrasti alla Casa Bianca tra il 2001 e il 2008.
Proprio l’uscita del libro segnalò la volontà di ritorno di Condoleezza, che si porta dietro con disinvoltura quel nome sbagliato e imbarazzante: il padre, un melomane nell’Alabama segregazionista degli Anni Cinquanta, voleva chiamarla Con Dolcezza, come in uno spartito musicale, ma l’impiegato all’anagrafee si confuse e ne venne fuori una cosa improbabile, che si risolve con Condi.
Nel libro la Rice fa qualche mea culpa (le scarpe di Ferragamo comprate a New York mentre New Orleans affondava sotto l’uragano Katrina) e poche rivelazioni (l’ansia per l’album di sue foto che il colonnello Gheddafi le mostrò sotto la tenda). Chi la conosce dice che ora e' riposata e ''ansiosa di tornare in politica''.
Politologi conservatori affermano che la sua scelta come vice ''cambierebbe a fondo la dinamica delle elezioni 2012”, perché “metterebbe a tacere le accuse di razzismo nei confronti dei conservatori”. E l'essere donna spingerebbe molte elettrici moderate “a prendere in considerazione i repubblicani''. Inoltre, la sua scelta bilancerebbe l’eventuale sostituzione del vice di Obama Joe Biden con Hillary Clinton.
Anche nel 2008 si parlò di una candidature della Rice alle primarie. Lei lo escluse, con una frase che pesa ancora oggi: “C’è una cosa che non mi vedo fare: candidarmi a un ufficio elettivo”. Ma, incoraggiate dai sondaggi, le voci che potesse fare il vice andarono avanti fino a che, in agosto, John McCain non scelse la Palin.
Per quasi tre anni, se n’è rimasta buona buona nella riserva dell’Unione, a insegnare scienze politiche a Stanford, in California, la sua Università, dove, intanto, ha fatto una bella carriera, a suonare il piano per diletto e a seguire le vicende del football, quello americano, sport di cui è grande appassionata. L’unico fidanzato che le è mai stato ufficialmente riconosciuto, negli Anni Settanta, è un giocatore, Rick Upchurch, e il presidente della federazione le fu accompagnatore in alcuni eventi mondani.
Eppure, nonostante il suo ritiro, Condoleezza Rice era e resta una delle cinque donne più popolari d’America: a fine 2011, un sondaggio la conferma nel gotha femminile degli Stati Uniti, accanto a Hillary Clinton –in vetta alla classifica, ininterrottamente, da dieci anni-, con la star tv Oprah Winfrey, la first lady Michelle Obama e l’ex candidata a tutto Sarah Palin.
Nubile, senza figli, Condi Rice è oggi considerata da molti repubblicani l’ideale vice del candidato repubblicano alla Casa Bianca: donna e nera, sarebbe perfettamente complementare a un bianco e uomo, quale si profila nella sfida tra Mitt Romney e Newt Gingrich. Anche se chi guarda al pelo nell’uovo la trova un po’ troppo doppione di Romney –istruita, educata e moderata- e, per le stesse ragioni, un po’ troppo antitetica a Gingrich.
Mentre il Washington Times, quotidiano conservatore, la candida a vice, c’è, però, pure chi pensa a lei come grimaldello per forzare lo stallo che rischia di prodursi
tra Romney e Gingrich, se i due, dopo le primarie in Florida del 31 gennaio, s’impantanano in una testa a testa infinito. Una candidatura a presidente della Rice sarebbe, per l’establishment repubblicano, la trovata per liberarsi, d’un colpo solo,
di Romney il perdente e di Gingrich lo zombi.
“I candidati repubblicani? Un grande disastro”, è il giudizio, interessato, pronunciato ieri da Barack Obama; ma è anche l’opinione dei saggi del partito. Quello della Rice non è certo l’unico nome affisso nella casella ‘outsiders’. Ci sono i due rimasti in panchina, anzi ai microfoni della Fox, Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, e la Palin, ex governatrice dell’Alaska, tutti e due area Tea Party; e poi ci sono i ‘bushiani’, Mitch Daniels, l’uomo del bilancio alla Casa Bianca con George W., quindi governatore dell’Indiana, e Jeb Bush, il fratello minore, quello che doveva essere presidente nei calcoli di famiglia, ora ex governatore della Florida.
Anche la Rice dovrebbe essere una ‘bushiana’. Ma nei tre anni trascorsi dall’abbandono degli incarichi pubblici –consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato-, la professoressa che parla il russo ha preso un po’ le distanze
da Bush e, soprattutto, dal suo vice Dick Cheney. In un ponderoso libro di memorie pubblicato l’autunno scorso –oltre 700 pagine-, Condi solleva un velo sui contrasti alla Casa Bianca tra il 2001 e il 2008.
Proprio l’uscita del libro segnalò la volontà di ritorno di Condoleezza, che si porta dietro con disinvoltura quel nome sbagliato e imbarazzante: il padre, un melomane nell’Alabama segregazionista degli Anni Cinquanta, voleva chiamarla Con Dolcezza, come in uno spartito musicale, ma l’impiegato all’anagrafee si confuse e ne venne fuori una cosa improbabile, che si risolve con Condi.
Nel libro la Rice fa qualche mea culpa (le scarpe di Ferragamo comprate a New York mentre New Orleans affondava sotto l’uragano Katrina) e poche rivelazioni (l’ansia per l’album di sue foto che il colonnello Gheddafi le mostrò sotto la tenda). Chi la conosce dice che ora e' riposata e ''ansiosa di tornare in politica''.
Politologi conservatori affermano che la sua scelta come vice ''cambierebbe a fondo la dinamica delle elezioni 2012”, perché “metterebbe a tacere le accuse di razzismo nei confronti dei conservatori”. E l'essere donna spingerebbe molte elettrici moderate “a prendere in considerazione i repubblicani''. Inoltre, la sua scelta bilancerebbe l’eventuale sostituzione del vice di Obama Joe Biden con Hillary Clinton.
Anche nel 2008 si parlò di una candidature della Rice alle primarie. Lei lo escluse, con una frase che pesa ancora oggi: “C’è una cosa che non mi vedo fare: candidarmi a un ufficio elettivo”. Ma, incoraggiate dai sondaggi, le voci che potesse fare il vice andarono avanti fino a che, in agosto, John McCain non scelse la Palin.
venerdì 27 gennaio 2012
Usa 2012: candidato che vai stratega che trovi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/01/2012
Uscendo dalle ‘Idi di Marzo’, ti chiedi se davvero gli americani sappiano, ogni quattro anni, chi sia l'uomo che vanno ad eleggere presidente degli Stati Uniti. Come te l’eri chiesto in passato vedendo l’inquietante ‘The Manchurian Candidate’, o il delizioso 'Being There', dove Peter Sellers è un 'giardiniere' alla Casa Bianca. Dietro ogni candidato, e quindi dietro ogni presidente, ci sono strateghi che magari ne forgiano l'immagine a loro somiglianza, o che li costruiscono per la vittoria, indipendentemente da come essi stessi siano in realtà. Forse, alla fine, solo gli strateghi conoscono davvero i candidati, di cui cercano di nascondere le debolezze agli elettori.
Nel film scritto, diretto e interpretato da George Clooney, lo stratega è Ryan Gosling: prima, crede al suo uomo; poi, ne è deluso; ma lo porta lo stesso alla ‘nomination', facendo in modo che gli altri non s’accorgano del bluff che lui ha scoperto e tradendo così i propri ideali. Clooney resta quel che è, un politico che cerca il potere, con l’appeal d'un richiamo ai valori profondi della Costituzione visti sotto una luce contemporanea e accattivante; Gosling si trasforma da idealista in mestierante.
Nulla a che vedere con Usa 2012?, solo perché le primarie sono, quest’anno, un gioco tutto repubblicano? Non ci scommetterei un cent. Guru e strateghi sono all’opera per portare al successo il loro uomo, anche se è ‘fallato’ –e loro lo sanno bene-. Capita che ci riescano: pensate ad esempio a Karl Rove, lo stratega repubblicano che riuscì a fare eleggere e rieleggere George W. Bush, che, di suo, ci metteva ben poco, a parte l’innata spontaneità nell’apparire un americano qualunque, istintivamente socievole e serenamente ignorante.
David Axelrod è l'uomo di Barack Obama, James Carville lo fu di Bill Clinton. Rove, a destra, cerca ancora un successore. C'era chi pensava l'avesse trovato in Dave Carvey, che, però, s'è scelto il cavallo sbagliato: Rick Perry s'è pubblicamente rivelato un flop con le gaffes e le amnesie. Carvey aveva cominciato con Gingrich, quando l’ex speaker della Camera decise di scendere in lizza. Ma, dopo un po’, lo stratega mollò la campagna di Penna Bianca: “Newt non segue i miei consigli”, spiegò, aggiungendo velenosamente che era difficile fargli entrare in testa concetti diversi da quelli che già possiede.
Stranamente, in questa fase della campagna le 'teste d'uovo' democratiche e repubblicane hanno, però, un solo pensiero in testa, lo stesso: proprio lui, Gingrich. I democratici fanno di tutto per favorirlo contro Mitt Romney; i repubblicani non sanno a che santo votarsi per evitare che ottenga la nomination.
L’accento populista del discorso sullo stato dell'Unione di Obama, che ha già deciso di disfarsi del segretario al Tesoro Timothy Geithner, risponde proprio a questa logica: più tasse ai ricchi per un'America più giusta è il ritornello di una campagna anti-Romney, perché il miliardario mormone paga in tasse poco più del 15 % del suo reddito, mentre l'americano medio paga il 30%. Nulla di illegale, perché Romney si limita a usufruire di una legislazione vantaggiosa per i 'capital gains'; ma lo stesso qualcosa di difficile da trangugiare nell'Unione della crisi, dove i ricchi saggi, come Warren Buffett e Bill Gates, sono d'accordo con Obama. E lo sarebbe stato pure Steve Jobs (non a caso la vedova era accanto alla first lady, durante il discorso di martedì sera).
Larry Sabato, uno dei politologi più sfruttati dalla tv Usa, ha coniato il neologismo ‘Newt-mare’: come ‘nightmare’, che significa incubo, per definire il panico con cui l'establishment repubblicano segue il recupero e il sorpasso di Gingrich su Romney. E Sabato avalla quello che molti pensano: se Newt dovesse vincere in Florida, è possibile che un candidato nuovo entri in lizza, magari prima del Super-Martedì del 6 marzo..
Perché, spiega Sabato, contro Gingrich Obama vincerebbe a mani basse, mentre contro Romney sarebbe partita vera. Fra i nomi che circolano, Mitch Daniels, governatore dell’Indiana, o Jeb Bush, ex governatore della Florida, figlio e fratello di ex presidente. Ma la carta che spariglia potrebbe essere Condi Rice, ex segretario di Stato di Bush: donna, nera, virtuosa pianista, sarebbe una bella sfida per il presidente uscente.
Uscendo dalle ‘Idi di Marzo’, ti chiedi se davvero gli americani sappiano, ogni quattro anni, chi sia l'uomo che vanno ad eleggere presidente degli Stati Uniti. Come te l’eri chiesto in passato vedendo l’inquietante ‘The Manchurian Candidate’, o il delizioso 'Being There', dove Peter Sellers è un 'giardiniere' alla Casa Bianca. Dietro ogni candidato, e quindi dietro ogni presidente, ci sono strateghi che magari ne forgiano l'immagine a loro somiglianza, o che li costruiscono per la vittoria, indipendentemente da come essi stessi siano in realtà. Forse, alla fine, solo gli strateghi conoscono davvero i candidati, di cui cercano di nascondere le debolezze agli elettori.
Nel film scritto, diretto e interpretato da George Clooney, lo stratega è Ryan Gosling: prima, crede al suo uomo; poi, ne è deluso; ma lo porta lo stesso alla ‘nomination', facendo in modo che gli altri non s’accorgano del bluff che lui ha scoperto e tradendo così i propri ideali. Clooney resta quel che è, un politico che cerca il potere, con l’appeal d'un richiamo ai valori profondi della Costituzione visti sotto una luce contemporanea e accattivante; Gosling si trasforma da idealista in mestierante.
Nulla a che vedere con Usa 2012?, solo perché le primarie sono, quest’anno, un gioco tutto repubblicano? Non ci scommetterei un cent. Guru e strateghi sono all’opera per portare al successo il loro uomo, anche se è ‘fallato’ –e loro lo sanno bene-. Capita che ci riescano: pensate ad esempio a Karl Rove, lo stratega repubblicano che riuscì a fare eleggere e rieleggere George W. Bush, che, di suo, ci metteva ben poco, a parte l’innata spontaneità nell’apparire un americano qualunque, istintivamente socievole e serenamente ignorante.
David Axelrod è l'uomo di Barack Obama, James Carville lo fu di Bill Clinton. Rove, a destra, cerca ancora un successore. C'era chi pensava l'avesse trovato in Dave Carvey, che, però, s'è scelto il cavallo sbagliato: Rick Perry s'è pubblicamente rivelato un flop con le gaffes e le amnesie. Carvey aveva cominciato con Gingrich, quando l’ex speaker della Camera decise di scendere in lizza. Ma, dopo un po’, lo stratega mollò la campagna di Penna Bianca: “Newt non segue i miei consigli”, spiegò, aggiungendo velenosamente che era difficile fargli entrare in testa concetti diversi da quelli che già possiede.
Stranamente, in questa fase della campagna le 'teste d'uovo' democratiche e repubblicane hanno, però, un solo pensiero in testa, lo stesso: proprio lui, Gingrich. I democratici fanno di tutto per favorirlo contro Mitt Romney; i repubblicani non sanno a che santo votarsi per evitare che ottenga la nomination.
L’accento populista del discorso sullo stato dell'Unione di Obama, che ha già deciso di disfarsi del segretario al Tesoro Timothy Geithner, risponde proprio a questa logica: più tasse ai ricchi per un'America più giusta è il ritornello di una campagna anti-Romney, perché il miliardario mormone paga in tasse poco più del 15 % del suo reddito, mentre l'americano medio paga il 30%. Nulla di illegale, perché Romney si limita a usufruire di una legislazione vantaggiosa per i 'capital gains'; ma lo stesso qualcosa di difficile da trangugiare nell'Unione della crisi, dove i ricchi saggi, come Warren Buffett e Bill Gates, sono d'accordo con Obama. E lo sarebbe stato pure Steve Jobs (non a caso la vedova era accanto alla first lady, durante il discorso di martedì sera).
Larry Sabato, uno dei politologi più sfruttati dalla tv Usa, ha coniato il neologismo ‘Newt-mare’: come ‘nightmare’, che significa incubo, per definire il panico con cui l'establishment repubblicano segue il recupero e il sorpasso di Gingrich su Romney. E Sabato avalla quello che molti pensano: se Newt dovesse vincere in Florida, è possibile che un candidato nuovo entri in lizza, magari prima del Super-Martedì del 6 marzo..
Perché, spiega Sabato, contro Gingrich Obama vincerebbe a mani basse, mentre contro Romney sarebbe partita vera. Fra i nomi che circolano, Mitch Daniels, governatore dell’Indiana, o Jeb Bush, ex governatore della Florida, figlio e fratello di ex presidente. Ma la carta che spariglia potrebbe essere Condi Rice, ex segretario di Stato di Bush: donna, nera, virtuosa pianista, sarebbe una bella sfida per il presidente uscente.
SPIGOLI: quanto Terzi fa scelte 'di prima'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/01/2012
Sul suo nome, e sulle sue scelte, c’era qualche diffidenza. Ma il ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata va guadagnando consensi e, per ora, azzecca le scelte che contano. Manda a Washington, al posto d’ambasciatore d’Italia negli Usa -il suo, fino a novembre-, un diplomatico di sicuro valore e ben preparato, Claudio Bisogniero, figlio del generale Riccardo, comandante dei carabinieri e capo di Stato Maggiore della Difesa, ma venuto su forte del suo (Usa e Cina, Onu e Nato ai vertici dell’Alleanza, Quirinale con Cossiga e Farnesina); e chiama da Washington a fargli da portavoce Giuseppe Manzo, un diplomatico ancora giovane -44 anni-, ma che ha già consuetudine con la stampa e che, soprattutto, gode del rispetto e dell’amicizia
dei giornalisti che lo conoscono. Nell’avvicendare il portavoce, Terzi mostra tatto ed equilibrio: non si disfa di chi c’era e basta; anzi, destina il ministro Maurizio Massari a un incarico di fiducia, inviato speciale per il Mediterraneo e le primavere arabe. Chiamato a occuparsi soprattutto di Stati Uniti e di Medio Oriente, perché all’Europa ci pensano il premier ed Enzo Moavero, Terzi viaggia dove deve ed è accreditato d’una certa attendibilità dalla stampa estera: la Cnn lo intervista sulle sanzioni dell’Ue all’Iran. Gli riesce pure di portare subito Monti da Obama: l’appuntamento alla Casa Bianca è il 9 febbraio (il 10, poi, l’incontro con Ban Ki-moon al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York). Ma questa è l’impresa più facile. Quando presenta le credenziali a Obama il 18 gennaio, Bisogniero si sente tessere l’elogio dell’Italia e del premier. Una manna, che prima non capitava.
Sul suo nome, e sulle sue scelte, c’era qualche diffidenza. Ma il ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata va guadagnando consensi e, per ora, azzecca le scelte che contano. Manda a Washington, al posto d’ambasciatore d’Italia negli Usa -il suo, fino a novembre-, un diplomatico di sicuro valore e ben preparato, Claudio Bisogniero, figlio del generale Riccardo, comandante dei carabinieri e capo di Stato Maggiore della Difesa, ma venuto su forte del suo (Usa e Cina, Onu e Nato ai vertici dell’Alleanza, Quirinale con Cossiga e Farnesina); e chiama da Washington a fargli da portavoce Giuseppe Manzo, un diplomatico ancora giovane -44 anni-, ma che ha già consuetudine con la stampa e che, soprattutto, gode del rispetto e dell’amicizia
dei giornalisti che lo conoscono. Nell’avvicendare il portavoce, Terzi mostra tatto ed equilibrio: non si disfa di chi c’era e basta; anzi, destina il ministro Maurizio Massari a un incarico di fiducia, inviato speciale per il Mediterraneo e le primavere arabe. Chiamato a occuparsi soprattutto di Stati Uniti e di Medio Oriente, perché all’Europa ci pensano il premier ed Enzo Moavero, Terzi viaggia dove deve ed è accreditato d’una certa attendibilità dalla stampa estera: la Cnn lo intervista sulle sanzioni dell’Ue all’Iran. Gli riesce pure di portare subito Monti da Obama: l’appuntamento alla Casa Bianca è il 9 febbraio (il 10, poi, l’incontro con Ban Ki-moon al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York). Ma questa è l’impresa più facile. Quando presenta le credenziali a Obama il 18 gennaio, Bisogniero si sente tessere l’elogio dell’Italia e del premier. Una manna, che prima non capitava.
giovedì 26 gennaio 2012
Privacy: Reding, nuove norme Ue per i cittadini e le imprese
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/01/2012
Per meglio tutelare la privacy dei cittadini europei, compromessa dalla disseminazione dei dati su internet, la Commissione di Bruxelles propone un nuovo Regolamento, che adegua norme vecchie di 17 anni (un’eternità, in questo campo). Intervistata da Il Fatto, Viviane Reding, vice-presidente della Commissione europea, spiega la sua proposta, insiste sui vantaggi per i cittadini e le aziende e risponde ad alcune delle critiche già mosse.
In Italia, ad esempio, il garante della privacy Francesco Pizzetti dice, in dichiarazioni a EurActiv.it, che il nuovo regolamento "risponde ai cambiamenti già avvenuti, ma rischia di non essere abbastanza flessibile” in vista dei cambiamenti futuri. E Pizzetti avverte che “una normativa così dettagliata può rappresentare un potenziale ostacolo a forme di accordo internazionali".
1)Quali sono i principi di fondo che la Commissione intende affermare con questo Regolamento?
La protezione dei dati personali è un diritto fondamentale per tutti gli europei, ma i cittadini oggi sentono spesso di non avere il pieno controllo dei propri dati. Le mie proposte contribuiranno a rafforzare la fiducia della gente nei servizi online e, nel contempo, renderanno la vita più facile e meno costosa a chi lavora sul web. Un sistema legale a livello Ue forte, chiaro e uniforme permetterà di liberare il potenziale del mercato unico digitale e di irrobustire la crescita economica, l’innovazione e la creazione di posti di lavoro.
2)Quali sono le principali evoluzioni concrete in essa contenute rispetto alle norme in essere?
Ecco alcuni degli elementi chiave: ci sarà un singolo insieme di regole sulla privacy, valido in tutta l’Unione. I vincoli amministrativi non necessari saranno rimossi ovunque possibile. Ciò consentirà alle imprese di risparmiare circa 2,3 miliardi di euro l’anno.
Invece dell’attuale obbligo alle aziende di notificare le attività di protezione dei dati, che costa 130 milioni di euro l’anno, sarà accresciuta la responsabilità di quanti trattano i dati: aziende e organizzazioni dovranno notificare gravi violazioni alle norme o alla sicurezza dei dati il più presto possibile (come regola, entro le 24 ore) alle autorità di supervisione nazionali.
Le organizzazioni avranno a che fare con una sola autorità nazionale per la protezione dei dati nel paese Ue dove hanno la sede principale. I singoli cittadini potranno fare riferimento all’autorità di garanzia del proprio paese, anche se i loro dati sono trattati da una società con sede fuori Ue. Quando il consenso al trattamento dei dati è richiesto, esso dovrà essere dato in modo esplicito, invece che essere sottinteso.
3)Si parla anche di ‘data portability’ e di ‘diritto all’oblio’?
Ognuno avrà un accesso più facile ai propri dati e potrà trasferirli più facilmente da un provider all’altro (è il diritto alla ‘data portability’). Ciò accrescerà la concorrenza. Il ‘diritto a essere dimenticati’ aiuterà i cittadini a meglio gestire i rischi online: chiunque potrà distruggere i propri dati, se non ci sarà una ragione legittima per conservarli.
Inoltre, le regole Ue dovranno essere applicate se i dati personali sono trasferiti altrove da aziende che sono attive sul mercato Ue e che offrono i loro servizi a cittadini Ue. Le autorità nazionali indipendenti a garanzia della privacy saranno rafforzate: potranno punire con ammende le aziende che violano le regole sulla privacy (multe fino a un milione di dollari o fino al 2% del giro d’affari globale annuo di una società).
4)Quando si sente parlare di regole per la rete, si grida alla censura. C’è un pericolo del genere?
La riforma considera a pieno la necessità di conciliare la protezione della privacy con la libertà di espressione, anche se non indica criteri a misura di Ue per definirla, perché gli stati ne sono responsabili, essendo la libertà d’espressione molto legata alle tradizioni culturali nazionali. Piuttosto, i singoli paesi dovranno definire le esenzioni alle regole sulla privacy, come le norme per la stampa e per i media, con maggiore precisione di quanto non avvenga finora. Questi interventi nazionali servono perché il diritto alla privacy coesista con le regole sulla libertà di espressione.
5) A fronte, c’è il problema della sicurezza: limitare il trattamento dei dati nell'ambito della cooperazione di polizia e di giustizia può creare falle nella sicurezza dei cittadini dell'Unione?
Una nuova direttiva applicherà principi e regole generali della protezione dei dati alla cooperazione fra polizie e sistemi giudiziari in questioni criminali. E le regole varranno per i trasferimenti di dati sia all’interno di un paese che fra paese e paese. Essendo uguale la legge in tutti i paesi Ue, sarà più facile per le nostre polizie lavorare insieme e scambiarsi informazioni. E ciò contribuirà a combattere il crimine con maggiore efficacia.
5)Per la libertà di internet, una rete senza confini, regole europee hanno un senso?, o ci vogliono regole globali?
La libertà d’espressione e la libertà d’informazione sono diritti fondamentali dei cittadini europei, direttamente legati alla libertà su internet. Internet non dovrebbe mai e in nessun luogo essere soggetto a censura o a filtri e a blocchi dei suoi siti.
Per meglio tutelare la privacy dei cittadini europei, compromessa dalla disseminazione dei dati su internet, la Commissione di Bruxelles propone un nuovo Regolamento, che adegua norme vecchie di 17 anni (un’eternità, in questo campo). Intervistata da Il Fatto, Viviane Reding, vice-presidente della Commissione europea, spiega la sua proposta, insiste sui vantaggi per i cittadini e le aziende e risponde ad alcune delle critiche già mosse.
In Italia, ad esempio, il garante della privacy Francesco Pizzetti dice, in dichiarazioni a EurActiv.it, che il nuovo regolamento "risponde ai cambiamenti già avvenuti, ma rischia di non essere abbastanza flessibile” in vista dei cambiamenti futuri. E Pizzetti avverte che “una normativa così dettagliata può rappresentare un potenziale ostacolo a forme di accordo internazionali".
1)Quali sono i principi di fondo che la Commissione intende affermare con questo Regolamento?
La protezione dei dati personali è un diritto fondamentale per tutti gli europei, ma i cittadini oggi sentono spesso di non avere il pieno controllo dei propri dati. Le mie proposte contribuiranno a rafforzare la fiducia della gente nei servizi online e, nel contempo, renderanno la vita più facile e meno costosa a chi lavora sul web. Un sistema legale a livello Ue forte, chiaro e uniforme permetterà di liberare il potenziale del mercato unico digitale e di irrobustire la crescita economica, l’innovazione e la creazione di posti di lavoro.
2)Quali sono le principali evoluzioni concrete in essa contenute rispetto alle norme in essere?
Ecco alcuni degli elementi chiave: ci sarà un singolo insieme di regole sulla privacy, valido in tutta l’Unione. I vincoli amministrativi non necessari saranno rimossi ovunque possibile. Ciò consentirà alle imprese di risparmiare circa 2,3 miliardi di euro l’anno.
Invece dell’attuale obbligo alle aziende di notificare le attività di protezione dei dati, che costa 130 milioni di euro l’anno, sarà accresciuta la responsabilità di quanti trattano i dati: aziende e organizzazioni dovranno notificare gravi violazioni alle norme o alla sicurezza dei dati il più presto possibile (come regola, entro le 24 ore) alle autorità di supervisione nazionali.
Le organizzazioni avranno a che fare con una sola autorità nazionale per la protezione dei dati nel paese Ue dove hanno la sede principale. I singoli cittadini potranno fare riferimento all’autorità di garanzia del proprio paese, anche se i loro dati sono trattati da una società con sede fuori Ue. Quando il consenso al trattamento dei dati è richiesto, esso dovrà essere dato in modo esplicito, invece che essere sottinteso.
3)Si parla anche di ‘data portability’ e di ‘diritto all’oblio’?
Ognuno avrà un accesso più facile ai propri dati e potrà trasferirli più facilmente da un provider all’altro (è il diritto alla ‘data portability’). Ciò accrescerà la concorrenza. Il ‘diritto a essere dimenticati’ aiuterà i cittadini a meglio gestire i rischi online: chiunque potrà distruggere i propri dati, se non ci sarà una ragione legittima per conservarli.
Inoltre, le regole Ue dovranno essere applicate se i dati personali sono trasferiti altrove da aziende che sono attive sul mercato Ue e che offrono i loro servizi a cittadini Ue. Le autorità nazionali indipendenti a garanzia della privacy saranno rafforzate: potranno punire con ammende le aziende che violano le regole sulla privacy (multe fino a un milione di dollari o fino al 2% del giro d’affari globale annuo di una società).
4)Quando si sente parlare di regole per la rete, si grida alla censura. C’è un pericolo del genere?
La riforma considera a pieno la necessità di conciliare la protezione della privacy con la libertà di espressione, anche se non indica criteri a misura di Ue per definirla, perché gli stati ne sono responsabili, essendo la libertà d’espressione molto legata alle tradizioni culturali nazionali. Piuttosto, i singoli paesi dovranno definire le esenzioni alle regole sulla privacy, come le norme per la stampa e per i media, con maggiore precisione di quanto non avvenga finora. Questi interventi nazionali servono perché il diritto alla privacy coesista con le regole sulla libertà di espressione.
5) A fronte, c’è il problema della sicurezza: limitare il trattamento dei dati nell'ambito della cooperazione di polizia e di giustizia può creare falle nella sicurezza dei cittadini dell'Unione?
Una nuova direttiva applicherà principi e regole generali della protezione dei dati alla cooperazione fra polizie e sistemi giudiziari in questioni criminali. E le regole varranno per i trasferimenti di dati sia all’interno di un paese che fra paese e paese. Essendo uguale la legge in tutti i paesi Ue, sarà più facile per le nostre polizie lavorare insieme e scambiarsi informazioni. E ciò contribuirà a combattere il crimine con maggiore efficacia.
5)Per la libertà di internet, una rete senza confini, regole europee hanno un senso?, o ci vogliono regole globali?
La libertà d’espressione e la libertà d’informazione sono diritti fondamentali dei cittadini europei, direttamente legati alla libertà su internet. Internet non dovrebbe mai e in nessun luogo essere soggetto a censura o a filtri e a blocchi dei suoi siti.
mercoledì 25 gennaio 2012
Usa: lo stato dell'Unione di Obama, un programma, non un testamento
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 25/01/2012
Potrebbe essere l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione del presidente Obama. Certo, è l’ultimo del suo primo mandato. Ma non ha né il tono né la sostanza del testamento politico: non è un bilancio; al contrario, è un programma da realizzare di qui al 2016 con un piano per rilanciare l’America, l’economia e i posti di lavoro.
Proprio per convincere gli americani ad affidargli un secondo mandato nelle elezioni del 6 novembre, Obama prospetta loro una serie di misure per accelerare la crescita, finite sotto le critiche dei repubblicani ancor prima di essere ufficializzate. Lo speaker della Camera John Boehner l’ha bollato come “un comizio da campagna elettorale”.
L’obiettivo del presidente è di costruire un’economia che cresca e che duri. E Obama, che indossa i panni del difensore della classe media, punta a realizzare “un’America dove ciascuno ha la sua opportunità, ciascuno dà il suo contributo e ciascuno rispetta le regole del gioco”. Fa la consueta panoramica di politica estera, parla dell’Iran e delle Primavere arabe, della Cina e (poco) dell’Europa, ma si concentra sui temi che più stanno a cuore al pubblico davanti alle tv: la ripresa e l’occupazione.
Inevitabilmente, il discorso sullo stato dell’Unione 2012 cade nel pieno della corsa alla nomination repubblicana per la Casa Bianca: poche ore prima che lui parlasse, Mitt Romney, uno dei potenziali candidati –l’altro è Newt Gingrich, in forte ascesa-, ha finalmente reso pubblica la sua dichiarazione dei redditi, lungamente reclamata dalla Casa Bianca, ma anche dai rivali di partito.
S’è così scoperto che il milionario mormone, ex governatore del Massachusetts, versa all'erario il 13,9% del reddito nel 20120 e il 15,4% nel 2011. In cifre assolute, Romney paga un sacco di soldi: circa 6,2 milioni di dollari per un reddito accumulato nel biennio di 45,2 milioni di dollari. In percentuale, paga meno della sua segretaria, perché la stragrande maggioranza delle sue entrate vengono da capital gain (un regalo ai ricchi dell’Amministrazione Bush). Se il suo fosse un reddito da lavoro, allora sarebbe tassato con un'aliquota più che doppia, al 35%.
Obama guadagna molto meno di Romney (1,73 milioni di dollari nel 2010, frutto soprattutto della vendita dei suoi libri), ma versa al fisco un aliquota di circa il 25%. E il presidente vuole che, ad ascoltarlo, oltre a deputati e senatori in seduta congiunta e ai vertici istituzionali, ci sia, fra i soliti invitati ‘eccellenti’ e ‘simbolici’, nel palco della fist lady Michelle, Debbie Bosanek, segretaria del miliardario Warren Buffett. Accanto, avrà la vedova di Steve Jobs.
Buffett è l’autore di una proposta per aumentare le tasse sui ricchi che il presidente evoca di nuovo nel suo discorso, dopo averla più volte evocata in giro per l’America. Buffett parte dalla constatazione che la sua imposizione è percentualmente più bassa di quella della sua segretaria e propone di correggere l’ingiustizia. A settembre, Obama presentò al Congresso la ‘Buffett Rule’, ma i repubblicani, in maggioranza alla Camera, la bocciarono come un principio di ‘lotta di classe’.
Ora, il presidente insiste per un riequilibrio della fiscalità, in modo che i ricchi diano un contributo percentualmente maggiore dei loro dipendenti alla riduzione del debito e al superamento della crisi. Pronunciato il discorso, Obama porterà il suo messaggio in cinque Stati chiave delle prossime elezioni, Iowa, Michigan, Arizona, Nevada e Colorado.
Potrebbe essere l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione del presidente Obama. Certo, è l’ultimo del suo primo mandato. Ma non ha né il tono né la sostanza del testamento politico: non è un bilancio; al contrario, è un programma da realizzare di qui al 2016 con un piano per rilanciare l’America, l’economia e i posti di lavoro.
Proprio per convincere gli americani ad affidargli un secondo mandato nelle elezioni del 6 novembre, Obama prospetta loro una serie di misure per accelerare la crescita, finite sotto le critiche dei repubblicani ancor prima di essere ufficializzate. Lo speaker della Camera John Boehner l’ha bollato come “un comizio da campagna elettorale”.
L’obiettivo del presidente è di costruire un’economia che cresca e che duri. E Obama, che indossa i panni del difensore della classe media, punta a realizzare “un’America dove ciascuno ha la sua opportunità, ciascuno dà il suo contributo e ciascuno rispetta le regole del gioco”. Fa la consueta panoramica di politica estera, parla dell’Iran e delle Primavere arabe, della Cina e (poco) dell’Europa, ma si concentra sui temi che più stanno a cuore al pubblico davanti alle tv: la ripresa e l’occupazione.
Inevitabilmente, il discorso sullo stato dell’Unione 2012 cade nel pieno della corsa alla nomination repubblicana per la Casa Bianca: poche ore prima che lui parlasse, Mitt Romney, uno dei potenziali candidati –l’altro è Newt Gingrich, in forte ascesa-, ha finalmente reso pubblica la sua dichiarazione dei redditi, lungamente reclamata dalla Casa Bianca, ma anche dai rivali di partito.
S’è così scoperto che il milionario mormone, ex governatore del Massachusetts, versa all'erario il 13,9% del reddito nel 20120 e il 15,4% nel 2011. In cifre assolute, Romney paga un sacco di soldi: circa 6,2 milioni di dollari per un reddito accumulato nel biennio di 45,2 milioni di dollari. In percentuale, paga meno della sua segretaria, perché la stragrande maggioranza delle sue entrate vengono da capital gain (un regalo ai ricchi dell’Amministrazione Bush). Se il suo fosse un reddito da lavoro, allora sarebbe tassato con un'aliquota più che doppia, al 35%.
Obama guadagna molto meno di Romney (1,73 milioni di dollari nel 2010, frutto soprattutto della vendita dei suoi libri), ma versa al fisco un aliquota di circa il 25%. E il presidente vuole che, ad ascoltarlo, oltre a deputati e senatori in seduta congiunta e ai vertici istituzionali, ci sia, fra i soliti invitati ‘eccellenti’ e ‘simbolici’, nel palco della fist lady Michelle, Debbie Bosanek, segretaria del miliardario Warren Buffett. Accanto, avrà la vedova di Steve Jobs.
Buffett è l’autore di una proposta per aumentare le tasse sui ricchi che il presidente evoca di nuovo nel suo discorso, dopo averla più volte evocata in giro per l’America. Buffett parte dalla constatazione che la sua imposizione è percentualmente più bassa di quella della sua segretaria e propone di correggere l’ingiustizia. A settembre, Obama presentò al Congresso la ‘Buffett Rule’, ma i repubblicani, in maggioranza alla Camera, la bocciarono come un principio di ‘lotta di classe’.
Ora, il presidente insiste per un riequilibrio della fiscalità, in modo che i ricchi diano un contributo percentualmente maggiore dei loro dipendenti alla riduzione del debito e al superamento della crisi. Pronunciato il discorso, Obama porterà il suo messaggio in cinque Stati chiave delle prossime elezioni, Iowa, Michigan, Arizona, Nevada e Colorado.
domenica 22 gennaio 2012
Usa 2012: South Carolina, vince Gingrich, perde Santorum
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 22/01/2012
Il principale verdetto della South Carolina è un pollice verso per Rick Santorum, integralista cattolico, ex senatore della Pennsylvania,: non è lui, ma Newt Gingrich l’antagonista conservatore del moderato Mitt Romney, nella corsa alla nomination, che, dopo la terza tappa, appare più incerta.
Tre match, tre vincitori diversi: nello Iowa, sembrava avesse vinto Romney, ma s’è poi scoperto che (forse) aveva vinto Santorum; nel New Hampshire, nessun dubbio, ha stravinto Romney; e nella South Carolina, pure nessun dubbio, ha stravinto Gingrich. L’ex speaker della Camera negli Anni Novanta s’è imposto con oltre il 40% dei voti, davanti a Romney che non è arrivato al 28%. Santorum non ha superato il 20%, mentre Ron Paul, il ‘libertario’, qui la faceva da comprimario (e lo si sapeva).
Due le considerazioni che s’impongono. Primo, la volatilità delle posizioni: all’inizio della settimana, i sondaggi davano Romney al 40% e Gingrich sotto di 12 punti; e, invece, alla conta dei suffragi, le posizioni si sono rovesciate. In mezzo, ‘solo’ un dibattito televisivo vinto da Newt e perso da Mitt.
Secondo, Gingrich e Santorum si contendevano qui, in uno Stato del Sud e della ‘cintura della Bibbia’, la leadership dell’area ultra-conservatore degli evangelici e di quella qualunquista del Tea Party. Nonostante l’appoggio degli evangelici, e la debolezza di Gingrich sul fronte dei valori familiari, Santorum ha perso e di brutto. E’ possibile, a questo punto, che la corsa a quattro resti presto a tre: Romney e Gingrich per la nomination, moderati del partito contro conservatori; e Paul per il principio (e, magari, per un posto nel ticket del vincitore).
Prossima tappa, probabilmente decisiva per l’ulteriore sfoltimento del campo di gara, la Florida, uno degli Stati decisivi nella corsa alla Casa Bianca, uno di quegli Stati, come lo Iowa, che oscilla tra democratici e repubblicani, mentre il New Hampshire è democratico per partito preso e la South Carolina repubblicana.
Lì, le primarie sono il 31 gennaio: Romney, che non è parso nella sua forma migliore negli ultimi giorni, deve ritrovare i suoi standard –lo smalto no, perché quello non l’ha mai avuto-, perché un altro passo falso amplificherebbe i dubbi sulla sua ‘presidenziabilità’ e gonfierebbe le vele di Gingrich, che, però, si porta dietro l’hnadicap di un’immagine da zombi della politica.
Il principale verdetto della South Carolina è un pollice verso per Rick Santorum, integralista cattolico, ex senatore della Pennsylvania,: non è lui, ma Newt Gingrich l’antagonista conservatore del moderato Mitt Romney, nella corsa alla nomination, che, dopo la terza tappa, appare più incerta.
Tre match, tre vincitori diversi: nello Iowa, sembrava avesse vinto Romney, ma s’è poi scoperto che (forse) aveva vinto Santorum; nel New Hampshire, nessun dubbio, ha stravinto Romney; e nella South Carolina, pure nessun dubbio, ha stravinto Gingrich. L’ex speaker della Camera negli Anni Novanta s’è imposto con oltre il 40% dei voti, davanti a Romney che non è arrivato al 28%. Santorum non ha superato il 20%, mentre Ron Paul, il ‘libertario’, qui la faceva da comprimario (e lo si sapeva).
Due le considerazioni che s’impongono. Primo, la volatilità delle posizioni: all’inizio della settimana, i sondaggi davano Romney al 40% e Gingrich sotto di 12 punti; e, invece, alla conta dei suffragi, le posizioni si sono rovesciate. In mezzo, ‘solo’ un dibattito televisivo vinto da Newt e perso da Mitt.
Secondo, Gingrich e Santorum si contendevano qui, in uno Stato del Sud e della ‘cintura della Bibbia’, la leadership dell’area ultra-conservatore degli evangelici e di quella qualunquista del Tea Party. Nonostante l’appoggio degli evangelici, e la debolezza di Gingrich sul fronte dei valori familiari, Santorum ha perso e di brutto. E’ possibile, a questo punto, che la corsa a quattro resti presto a tre: Romney e Gingrich per la nomination, moderati del partito contro conservatori; e Paul per il principio (e, magari, per un posto nel ticket del vincitore).
Prossima tappa, probabilmente decisiva per l’ulteriore sfoltimento del campo di gara, la Florida, uno degli Stati decisivi nella corsa alla Casa Bianca, uno di quegli Stati, come lo Iowa, che oscilla tra democratici e repubblicani, mentre il New Hampshire è democratico per partito preso e la South Carolina repubblicana.
Lì, le primarie sono il 31 gennaio: Romney, che non è parso nella sua forma migliore negli ultimi giorni, deve ritrovare i suoi standard –lo smalto no, perché quello non l’ha mai avuto-, perché un altro passo falso amplificherebbe i dubbi sulla sua ‘presidenziabilità’ e gonfierebbe le vele di Gingrich, che, però, si porta dietro l’hnadicap di un’immagine da zombi della politica.
Usa 2012: se il presidente non lo batto, lo ammazzo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/01/2012
Tre morti ammazzati (e un quarto, Reagan, rischiò grosso), quattro deceduti durante il loro mandato: fare il presidente degli Stati Uniti è un mestiere pericoloso, quasi una volta su cinque non ne esci vivo. Così, non c’è da stupirsi che qualcuno abbia pensato di uccidere Barak Obama: aeroplanini contro la Casa Bianca, matti scatenati che attraversano pezzi di Stati Uniti armati di tutto punto per arrivare a Washington e giustiziare il comandante in capo, esaltati che scavalcano la cancellata tutto intorno alla residenza presidenziale, anche le cronache di Clinton e di Bush jr sono piene di scampati pericoli, a volte amplificati dall’efficienza dei meccanismi di sorveglianza. Senza contare gli intrighi internazionali, veri o presunti che siano mai stati.
Quella ora portata in primo piano dall’Huffington Post, in piena campagna elettorale Usa 2012, è una storia che mette insieme il fanatismo degli estremisti d’America e i temi più incendiari della politica internazionale, il Medio Oriente, la sicurezza di Israele, il ruolo Usa in quell’area.
Andrew Adler, il proprietario di una pubblicazione della Georgia, l’Atlanta Jewish Times, ha suggerito al governo israeliano di prendere in considerazione l’assassinio di Obama. Un articolo di Adler, scritto all’inizio dell’anno, parte dalla necessità di proteggere il popolo di Israele dalle minacce rappresentate da Hamas e gli Hezbollah e indica che Israele ha sostanzialmente a disposizione tre opzioni: 1) attaccare Hamas e gli Hezbollah; 2) ordinare la distruzione delle installazioni nucleari iraniane a ogni costo; 3) uccidere Obama.
Ora, l’impressione è quella di avere a che fare con un esaltato del suo, che non gode di contatti particolari e che non è l’emissario di qualcuno. Né si capisce come l’uccisione di Obama migliorerebbe la sicurezza di Israele, in un momento in cui l’importante sembrerebbe non fare nulla che comprometta gli equilibri della Regione, già traballanti per gli incerti esiti della Primavera egiziana e dalla situazione in Siria. A Obama, con cui ha rapporti freddi, il premier israeliano Benjamin Netaniahu rimprovera l’apertura al dialogo con l’Islam e un’amicizia per Israele meno acritica
di quella dei suoi predecessori, ma di qui a farne un ‘nemico pubblico numero 1’
nel mirino del Mossad ce ne corre.
Alla fine, Adler, in una dichiarazione rilasciata venerdì alla Jewish Telegraphic Agency, fa una marcia indietro totale: “Me ne pento molto, vorrei non averlo mai scritto”. Episodio chiuso? Fin qui, la ricostruzione sull’Huffington Post. Certamente, non è la prima volta, e neppure, probabilmente, la più pericolosa che Obama è finito sotto tiro per la sua politica mediorientale, o per altri aspetti della sua politica estera –pensiamo solo al Pakistan-, che molti suoi critici considerano eccessivamente passiva.
Ma l’episodio acquista rilievo nel pieno della campagna per le elezioni presidenziali del 6 novembre, mentre gli aspiranti alla nomination repubblicana, che sabato si sono affrontati nelle primarie in South Carolina, appaiono divisi su tutto, meno che nell’attaccare il presidente sulla politica estera.
Quello lo fanno tutti, sia pure da angolature diverse. Un iper-conservatore come
Newt Gingrich e un moderato cone Mitt Romney –i due favoriti in South Carolina- concordano nel contestare Obama gestisce le minacce provenienti da nazioni ostili agli Stati Uniti, specie l’Iran. E secondo The Hill, una rivista di Washington, più
d’un aspirante repubblicano pensa che il presidente sia troppo duro con Israele e non lo sia abbastanza con i nemici di Israele.
Parlando a dicembre a un forum di ebrei d’America repubblicani, Romney disse: “Obama appare più generoso con i nostri nemici che con i nostri amici”. Secondo Michelle Bachmann, una candidata già uscita di scena, “il presidente ha confuso l’impegno con la pacificazione e ha così dato corda ai nemici di Israele”. Eppure, la popolarità di Obama nella comunità ebraica americana, importante ai fini della sua rielezione, pare tenere bene: Forward, un sito ebraico, scrive che i principali finanziatori ebrei della campagna 2008 restano accanto al presidente, e soprattutto continuano a foraggiarlo, in questa campagna.
Lo stesso Obama, in un’intervista a Time, ha respinto le accuse repubblicane alla sua politica estera: “L’America è più forte”, dice. Certo, ha eliminato Osama bin Laden e altri suoi accoliti, ha portato a casa i ragazzi dall’Iraq e si appresta a cominciare a ritirarli dall’Afghanistan, riduce la presenza militare in Europa. E si sente così sicura da abbassare (un po’) la guardia alle frontiere e da puntare sul turismo per rilanciare l’economia.
Tre morti ammazzati (e un quarto, Reagan, rischiò grosso), quattro deceduti durante il loro mandato: fare il presidente degli Stati Uniti è un mestiere pericoloso, quasi una volta su cinque non ne esci vivo. Così, non c’è da stupirsi che qualcuno abbia pensato di uccidere Barak Obama: aeroplanini contro la Casa Bianca, matti scatenati che attraversano pezzi di Stati Uniti armati di tutto punto per arrivare a Washington e giustiziare il comandante in capo, esaltati che scavalcano la cancellata tutto intorno alla residenza presidenziale, anche le cronache di Clinton e di Bush jr sono piene di scampati pericoli, a volte amplificati dall’efficienza dei meccanismi di sorveglianza. Senza contare gli intrighi internazionali, veri o presunti che siano mai stati.
Quella ora portata in primo piano dall’Huffington Post, in piena campagna elettorale Usa 2012, è una storia che mette insieme il fanatismo degli estremisti d’America e i temi più incendiari della politica internazionale, il Medio Oriente, la sicurezza di Israele, il ruolo Usa in quell’area.
Andrew Adler, il proprietario di una pubblicazione della Georgia, l’Atlanta Jewish Times, ha suggerito al governo israeliano di prendere in considerazione l’assassinio di Obama. Un articolo di Adler, scritto all’inizio dell’anno, parte dalla necessità di proteggere il popolo di Israele dalle minacce rappresentate da Hamas e gli Hezbollah e indica che Israele ha sostanzialmente a disposizione tre opzioni: 1) attaccare Hamas e gli Hezbollah; 2) ordinare la distruzione delle installazioni nucleari iraniane a ogni costo; 3) uccidere Obama.
Ora, l’impressione è quella di avere a che fare con un esaltato del suo, che non gode di contatti particolari e che non è l’emissario di qualcuno. Né si capisce come l’uccisione di Obama migliorerebbe la sicurezza di Israele, in un momento in cui l’importante sembrerebbe non fare nulla che comprometta gli equilibri della Regione, già traballanti per gli incerti esiti della Primavera egiziana e dalla situazione in Siria. A Obama, con cui ha rapporti freddi, il premier israeliano Benjamin Netaniahu rimprovera l’apertura al dialogo con l’Islam e un’amicizia per Israele meno acritica
di quella dei suoi predecessori, ma di qui a farne un ‘nemico pubblico numero 1’
nel mirino del Mossad ce ne corre.
Alla fine, Adler, in una dichiarazione rilasciata venerdì alla Jewish Telegraphic Agency, fa una marcia indietro totale: “Me ne pento molto, vorrei non averlo mai scritto”. Episodio chiuso? Fin qui, la ricostruzione sull’Huffington Post. Certamente, non è la prima volta, e neppure, probabilmente, la più pericolosa che Obama è finito sotto tiro per la sua politica mediorientale, o per altri aspetti della sua politica estera –pensiamo solo al Pakistan-, che molti suoi critici considerano eccessivamente passiva.
Ma l’episodio acquista rilievo nel pieno della campagna per le elezioni presidenziali del 6 novembre, mentre gli aspiranti alla nomination repubblicana, che sabato si sono affrontati nelle primarie in South Carolina, appaiono divisi su tutto, meno che nell’attaccare il presidente sulla politica estera.
Quello lo fanno tutti, sia pure da angolature diverse. Un iper-conservatore come
Newt Gingrich e un moderato cone Mitt Romney –i due favoriti in South Carolina- concordano nel contestare Obama gestisce le minacce provenienti da nazioni ostili agli Stati Uniti, specie l’Iran. E secondo The Hill, una rivista di Washington, più
d’un aspirante repubblicano pensa che il presidente sia troppo duro con Israele e non lo sia abbastanza con i nemici di Israele.
Parlando a dicembre a un forum di ebrei d’America repubblicani, Romney disse: “Obama appare più generoso con i nostri nemici che con i nostri amici”. Secondo Michelle Bachmann, una candidata già uscita di scena, “il presidente ha confuso l’impegno con la pacificazione e ha così dato corda ai nemici di Israele”. Eppure, la popolarità di Obama nella comunità ebraica americana, importante ai fini della sua rielezione, pare tenere bene: Forward, un sito ebraico, scrive che i principali finanziatori ebrei della campagna 2008 restano accanto al presidente, e soprattutto continuano a foraggiarlo, in questa campagna.
Lo stesso Obama, in un’intervista a Time, ha respinto le accuse repubblicane alla sua politica estera: “L’America è più forte”, dice. Certo, ha eliminato Osama bin Laden e altri suoi accoliti, ha portato a casa i ragazzi dall’Iraq e si appresta a cominciare a ritirarli dall’Afghanistan, riduce la presenza militare in Europa. E si sente così sicura da abbassare (un po’) la guardia alle frontiere e da puntare sul turismo per rilanciare l’economia.
Usa 2012: Gingrich batte Romney in dibattito e balza avanti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/01/2012
Se non ci fossero i suoi tre matrimoni, a tenerlo lontano dalla nomination, Newt Gingrich potrebbe pure cominciare a farci un pensierino. Ma tre matrimoni sono troppi per un cantore dei valori della famiglia e della vita: un handicap difficile da sormontare, tant'e' vero che gli evangelici, cioe' gli integralisti cristiani, gli hanno gia' anteposto Rick Santorum, che avra' pure il difetto d'essere cattolico, ma ha sette figli da un'unica moglie.
Lo stato civile debole non ha pero' impedito a Gingrich di trionfare, giovedì sera, nel secondo e ultimo dibattito tv in South Carolina. Il successo proietta l'ex speaker della Camera negli Anni Novanta, l'antagonista di Bill Clinton, verso un risultato nelle primarie di oggi che potrebbe riaprire la partita per la nomination repubblicana o, almeno, chiudere il braccio di ferro con Santorum per chi sia il punto di riferimento di quella destra americana che spazia dal qualunquismo del Tea Party al fondamentalismo degli evangelici..
A vincere il dibattito di Charleston, in diretta sulla Cnn, una mano a Gingrich l'ha data Mitt Romney, il battistrada della corsa dopo Iowa e New Hampshire e anche nei sondaggi nazionali. L'ex governatore del Massachussetts non attraversa un buon momento: i democratici vogliono stanarlo, lui milionario mormone, sulla denuncia dei redditi; i repubblicani suoi rivali lo impallinano perche' troppo moderato.
Cosi', Romney ha perso la sua proverbiale flemma e ha fatto un paio di errori per lui inconsueti. Ha cincischiato sul tema delle tasse, ammettendo di non aver ancora deciso quando renderà pubblica la sua ormai controversa dichiarazione dei redditi -brusii e fischi dal pubblico in sala-. Poi si è avventatamente definito un uomo della strada: sul web, sono subito comparse foto e video delle sue tante e ricche case.
A tirare le castagne dal fuoco a Romney e' stato, sia pure involontariamente, Santorum, che ha cercato a più riprese di mettere in difficolta' Gingrich, per provare di essere lui il vero leader del fronte conservatore.
Ma Newt, che di sicuro non manca d'esprienza, era in forma e l'ha fatta da mattatore, riuscendo pure ad attenuare l'impatto d'una situazione per lui imbarazzante. Poche ore prima del dibattito, tutti i siti Usa pubblicavano il succo dell'attesissima intervista alla sua ex seconda moglie Marianna: la donna racconta che Gingrich, all'epoca già legato all'amante Callista, le propose un "matrimonio aperto".
Richiesto di un commento, Newt ha detto freddo: "Non voglio, ma lo faro". Poi ci e' andato giu duro per i suoi tre minuti: "Sono allibito dal fatto che la Cnn inizi un dibattito presidenziale con questa robaccia. Parlare di un'intervista di questo tipo a due giorni da un voto così importante è un fatto spregevole. La storia è falsa e lo dimostrerò. Sono stanco di questo tipo di media di elite che proteggono Barack Obama , attaccando noi repubblicani".
I sondaggi dopo il dibattito dicono che Gingrich ha scavalcato Romney nellre intenzioni di voto dei repubblicani della South Carolina: 35 pc a 29 pc, posizioni invertite rispetto a prima del confronto. Santorum e' doppiato, Ron Paul il libertario qui e' fuori gioco. Lo staff di Newt gongola, "questo e' il nostro momento".
Ma chi se la spassa e' il presidente Obama, che si esibisce al mitico e nero Apollo Theater di Harlem, a New York, in una serata di artisti suoi sostenitori. Obama se la cava come cantante, forse perche' avere Gingrich come avversario il 6 novembre gli pare una manna.
Se non ci fossero i suoi tre matrimoni, a tenerlo lontano dalla nomination, Newt Gingrich potrebbe pure cominciare a farci un pensierino. Ma tre matrimoni sono troppi per un cantore dei valori della famiglia e della vita: un handicap difficile da sormontare, tant'e' vero che gli evangelici, cioe' gli integralisti cristiani, gli hanno gia' anteposto Rick Santorum, che avra' pure il difetto d'essere cattolico, ma ha sette figli da un'unica moglie.
Lo stato civile debole non ha pero' impedito a Gingrich di trionfare, giovedì sera, nel secondo e ultimo dibattito tv in South Carolina. Il successo proietta l'ex speaker della Camera negli Anni Novanta, l'antagonista di Bill Clinton, verso un risultato nelle primarie di oggi che potrebbe riaprire la partita per la nomination repubblicana o, almeno, chiudere il braccio di ferro con Santorum per chi sia il punto di riferimento di quella destra americana che spazia dal qualunquismo del Tea Party al fondamentalismo degli evangelici..
A vincere il dibattito di Charleston, in diretta sulla Cnn, una mano a Gingrich l'ha data Mitt Romney, il battistrada della corsa dopo Iowa e New Hampshire e anche nei sondaggi nazionali. L'ex governatore del Massachussetts non attraversa un buon momento: i democratici vogliono stanarlo, lui milionario mormone, sulla denuncia dei redditi; i repubblicani suoi rivali lo impallinano perche' troppo moderato.
Cosi', Romney ha perso la sua proverbiale flemma e ha fatto un paio di errori per lui inconsueti. Ha cincischiato sul tema delle tasse, ammettendo di non aver ancora deciso quando renderà pubblica la sua ormai controversa dichiarazione dei redditi -brusii e fischi dal pubblico in sala-. Poi si è avventatamente definito un uomo della strada: sul web, sono subito comparse foto e video delle sue tante e ricche case.
A tirare le castagne dal fuoco a Romney e' stato, sia pure involontariamente, Santorum, che ha cercato a più riprese di mettere in difficolta' Gingrich, per provare di essere lui il vero leader del fronte conservatore.
Ma Newt, che di sicuro non manca d'esprienza, era in forma e l'ha fatta da mattatore, riuscendo pure ad attenuare l'impatto d'una situazione per lui imbarazzante. Poche ore prima del dibattito, tutti i siti Usa pubblicavano il succo dell'attesissima intervista alla sua ex seconda moglie Marianna: la donna racconta che Gingrich, all'epoca già legato all'amante Callista, le propose un "matrimonio aperto".
Richiesto di un commento, Newt ha detto freddo: "Non voglio, ma lo faro". Poi ci e' andato giu duro per i suoi tre minuti: "Sono allibito dal fatto che la Cnn inizi un dibattito presidenziale con questa robaccia. Parlare di un'intervista di questo tipo a due giorni da un voto così importante è un fatto spregevole. La storia è falsa e lo dimostrerò. Sono stanco di questo tipo di media di elite che proteggono Barack Obama , attaccando noi repubblicani".
I sondaggi dopo il dibattito dicono che Gingrich ha scavalcato Romney nellre intenzioni di voto dei repubblicani della South Carolina: 35 pc a 29 pc, posizioni invertite rispetto a prima del confronto. Santorum e' doppiato, Ron Paul il libertario qui e' fuori gioco. Lo staff di Newt gongola, "questo e' il nostro momento".
Ma chi se la spassa e' il presidente Obama, che si esibisce al mitico e nero Apollo Theater di Harlem, a New York, in una serata di artisti suoi sostenitori. Obama se la cava come cantante, forse perche' avere Gingrich come avversario il 6 novembre gli pare una manna.
venerdì 20 gennaio 2012
Usa 2012: Perry va, Gingrich o Santorum l'anti-Romney
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/01/2012
E quattro: quattro fuori e quattro dentro. Rick Perry, governatore del Texas, un clone di George W. Bush, lascia la corsa alla nomination repubblicana senza neppure attendere l’esito delle primarie di martedì prossimo nella South Carolina. Restano, così, in corsa Mitt Romney, il battistrada, che non vive però il momento più brillante della sua campagna color grigio monotono; Ron Paul, il ‘libertario’, che non ce la farà, ma non mollerà tanto presto; e i due conservatori rimasti a contendersi i voti, se ci saranno, del Tea Party e degli evangelici: Newt Gingrich, una vecchia volpe politica, una penna bianca dei conservatori americani, cui Perry lascia i suoi delegati –poca cosa- e Rick Santorum, l’integralista cattolico, la sorpresa delle prime battute di questa corsa.
Perry finisce in panchina, con gli altri esclusi: Herman Cain, nero, pizzaiolo, milionario, messosi fuori da solo, dopo le accuse di molestie sessuali rivoltegli
da sue ex dipendenti; Michele Bachmann, l’unica donna, bocciata dallo Iowa che, l’estate scorsa, l’aveva proclamata favorita del Tea Party; e Jon Huntsman, l’ex ambasciatore in Cina, uscito di scena due giorni fa, dopo avere constatato lo scarso impatto finora avuto nella corsa.
A Perry, la botta decisiva l’ha forse data il dibattito a cinque di martedì sera e l’ennesima gaffe: questa volta, ha equiparato l’attuale leadership turca islamico-moderata a terroristi integralisti e ha tessuto l’elogio della Turchia ai tempi della dittatura militare. Castronerie di politica internazionale, ma distinguo difficili da cogliere per i suoi elettori texani, che tutto quello che sta a Est del Pecos lo guardano con diffidenza.
Sabato, la South Carolina o, al massimo, il 31 gennaio la Florida diranno qual è il campione dei conservatori che contenderà la nomination al moderato Romney: Gingrich e Santorum, infatti, si spartiscono gli stessi voti e la presenza dell’uno azzoppa l’altro. Fin quando loro si beccano, Romney sta tranquillo; e Obama sta tranquillissimo. E si prende il tempo di ricevere le credenziali degli ambasciatori: il nuovo rappresentante dell’Italia a Washington Claudio Bisogniero, che rimpiazza l’ambasciatore Terzi divenuto ministro, gli presenta le sue e si sente tessere l’elogio del Governo Monti e dell’amicizia italo-americana.
I saggi repubblicani capiscono che, a forza di attaccarsi fra di loro, gli aspiranti alla nomination fanno il gioco dei democratici e invitano a cessare il fratricidio. Anche se, in realtà, l’ex governatore del Massachusetts si comporta già da candidato e insiste che lui è l’unico dei repubblicani in lizza a potere battere il presidente in carica –vero: lo dicono i sondaggi e lo dice il buonsenso, ma Gingrich va in giro proclamando il contrario-.
Obama non degna d’una battuta Paul, Gingrich e Santorum, ma stuzzica Romney: lo invita a rendere pubblici i suoi redditi, su cui il milionario mormone continua a non fare chiarezza, e lo iene sotto tiro per quegli otto milioni di dollari depositati su conti nelle isole Cayman. Nessun reato, insisttono i legali di Romney, ma neppure il biglietto da visita migliore per chi vuole essere presidente d’un Paese che non è ancora uscito dalla crisi e che, anzi, teme di ricadere nella recessione., dove i senza lavoro sono parecchi milioni e i poveri varie decine di milioni. Obama lo incalza: “Dichiari almeno le tasse che paga”, i candidati alla presidenza lo fanno sempre. E intanto assume alla casa Bianca un ex collega di Romney: Jeffrey Zients, che è il nuovo responsabile del bilancio, lavorò nella stessa azienda dell’ex governatore, ma in tempi diversi.
A questo punto, dunque, la South Carolina deve soprattutto dire chi è più forte fra Gingrich, che riceve l’endorsement di Sarah Palin, la grande assente di questa corsa, e Santorum, che ottiene invece l’appoggio, ben più pesante sulla carta, ma tiepido nella forma, degli evangelici. Resta da vedere quanto davvero i cristiani ultra-conservatori siano convinti d’appoggiare un ‘papista’, che, per di più, avrebbe speso nella campagna anche soldi raccolti per beneficienza.
I sondaggi dicono che Romney è nettamente in testa in South Carolina, ma che sta perdendo consensi: sfiorava il 40%, ora è a un terzo, mentre Gingrich è salito sopra la soglia del 20% e Santorum ne resta al di sotto. Paul, che qui non è proprio a suo agio, sta al 13%. E ora Newt e Rick devono spartirsi il 6% di Perry: se andasse tutto a Gingrick, lui e Romney sarebbero quasi testa a testa. Gli stessi sondaggi mostrano statisticamente pari Obama con Romney e anche con Paul, ma i candidati repubblicani godono, in questa fase, di una maggiore esposizione mediatica del presidente (e, comunque, sia Gingrich che Santorum escono stracciati nel duello).
In attesa di contare i voti della South Carolina, c’è chi riconta quelli dello Iowa, dove Romney aveva battuto Santorum di soli otto suffragi –e poi s’è scoperto che, in realtà, avrebbe perso per 34-. Il partito decide che è stata pari e patta, tanto i due hanno portato a casa, cioè alla convention, lo stesso numero di delegati. E già si profila la Florida, dove Romney per il momento viaggia oltre il 40% e Gingrich al 25%. Ma gli indecisi sono un sacco.
E quattro: quattro fuori e quattro dentro. Rick Perry, governatore del Texas, un clone di George W. Bush, lascia la corsa alla nomination repubblicana senza neppure attendere l’esito delle primarie di martedì prossimo nella South Carolina. Restano, così, in corsa Mitt Romney, il battistrada, che non vive però il momento più brillante della sua campagna color grigio monotono; Ron Paul, il ‘libertario’, che non ce la farà, ma non mollerà tanto presto; e i due conservatori rimasti a contendersi i voti, se ci saranno, del Tea Party e degli evangelici: Newt Gingrich, una vecchia volpe politica, una penna bianca dei conservatori americani, cui Perry lascia i suoi delegati –poca cosa- e Rick Santorum, l’integralista cattolico, la sorpresa delle prime battute di questa corsa.
Perry finisce in panchina, con gli altri esclusi: Herman Cain, nero, pizzaiolo, milionario, messosi fuori da solo, dopo le accuse di molestie sessuali rivoltegli
da sue ex dipendenti; Michele Bachmann, l’unica donna, bocciata dallo Iowa che, l’estate scorsa, l’aveva proclamata favorita del Tea Party; e Jon Huntsman, l’ex ambasciatore in Cina, uscito di scena due giorni fa, dopo avere constatato lo scarso impatto finora avuto nella corsa.
A Perry, la botta decisiva l’ha forse data il dibattito a cinque di martedì sera e l’ennesima gaffe: questa volta, ha equiparato l’attuale leadership turca islamico-moderata a terroristi integralisti e ha tessuto l’elogio della Turchia ai tempi della dittatura militare. Castronerie di politica internazionale, ma distinguo difficili da cogliere per i suoi elettori texani, che tutto quello che sta a Est del Pecos lo guardano con diffidenza.
Sabato, la South Carolina o, al massimo, il 31 gennaio la Florida diranno qual è il campione dei conservatori che contenderà la nomination al moderato Romney: Gingrich e Santorum, infatti, si spartiscono gli stessi voti e la presenza dell’uno azzoppa l’altro. Fin quando loro si beccano, Romney sta tranquillo; e Obama sta tranquillissimo. E si prende il tempo di ricevere le credenziali degli ambasciatori: il nuovo rappresentante dell’Italia a Washington Claudio Bisogniero, che rimpiazza l’ambasciatore Terzi divenuto ministro, gli presenta le sue e si sente tessere l’elogio del Governo Monti e dell’amicizia italo-americana.
I saggi repubblicani capiscono che, a forza di attaccarsi fra di loro, gli aspiranti alla nomination fanno il gioco dei democratici e invitano a cessare il fratricidio. Anche se, in realtà, l’ex governatore del Massachusetts si comporta già da candidato e insiste che lui è l’unico dei repubblicani in lizza a potere battere il presidente in carica –vero: lo dicono i sondaggi e lo dice il buonsenso, ma Gingrich va in giro proclamando il contrario-.
Obama non degna d’una battuta Paul, Gingrich e Santorum, ma stuzzica Romney: lo invita a rendere pubblici i suoi redditi, su cui il milionario mormone continua a non fare chiarezza, e lo iene sotto tiro per quegli otto milioni di dollari depositati su conti nelle isole Cayman. Nessun reato, insisttono i legali di Romney, ma neppure il biglietto da visita migliore per chi vuole essere presidente d’un Paese che non è ancora uscito dalla crisi e che, anzi, teme di ricadere nella recessione., dove i senza lavoro sono parecchi milioni e i poveri varie decine di milioni. Obama lo incalza: “Dichiari almeno le tasse che paga”, i candidati alla presidenza lo fanno sempre. E intanto assume alla casa Bianca un ex collega di Romney: Jeffrey Zients, che è il nuovo responsabile del bilancio, lavorò nella stessa azienda dell’ex governatore, ma in tempi diversi.
A questo punto, dunque, la South Carolina deve soprattutto dire chi è più forte fra Gingrich, che riceve l’endorsement di Sarah Palin, la grande assente di questa corsa, e Santorum, che ottiene invece l’appoggio, ben più pesante sulla carta, ma tiepido nella forma, degli evangelici. Resta da vedere quanto davvero i cristiani ultra-conservatori siano convinti d’appoggiare un ‘papista’, che, per di più, avrebbe speso nella campagna anche soldi raccolti per beneficienza.
I sondaggi dicono che Romney è nettamente in testa in South Carolina, ma che sta perdendo consensi: sfiorava il 40%, ora è a un terzo, mentre Gingrich è salito sopra la soglia del 20% e Santorum ne resta al di sotto. Paul, che qui non è proprio a suo agio, sta al 13%. E ora Newt e Rick devono spartirsi il 6% di Perry: se andasse tutto a Gingrick, lui e Romney sarebbero quasi testa a testa. Gli stessi sondaggi mostrano statisticamente pari Obama con Romney e anche con Paul, ma i candidati repubblicani godono, in questa fase, di una maggiore esposizione mediatica del presidente (e, comunque, sia Gingrich che Santorum escono stracciati nel duello).
In attesa di contare i voti della South Carolina, c’è chi riconta quelli dello Iowa, dove Romney aveva battuto Santorum di soli otto suffragi –e poi s’è scoperto che, in realtà, avrebbe perso per 34-. Il partito decide che è stata pari e patta, tanto i due hanno portato a casa, cioè alla convention, lo stesso numero di delegati. E già si profila la Florida, dove Romney per il momento viaggia oltre il 40% e Gingrich al 25%. Ma gli indecisi sono un sacco.
giovedì 19 gennaio 2012
Ue: Monti vede Tusk, Italia spinge oltre Patto Bilancio
Scritto per EurActiv.it il 19/01/2012
Il colloquio, oggi, a Roma, tra i premier italiano Mario Monti e polacco Donald Tusk ha chiuso la fitta serie d’incontri bilaterali del Professore in vista del Vertice europeo di fine gennaio sul Patto di Bilancio. Monti è stato, nei giorni scorsi, a Parigi, Berlino e Londra: per completare la ‘raccolta’ dei grandi Paesi dell’Unione, gli manca solo la Spagna del nuovo premier Mariano Rajoy. La serie di bilaterali doveva essere coronata, venerdì, dal triangolare a Roma Italia-Francia-Germania, slittato, però, a febbraio. Dalla prossima settimana, Monti ha un intenso calendario di appuntamenti europei: l’Eurogruppo, lunedì, l’Ecofin, martedì, e, a fine mese, il Vertice europeo.
---.
Monti e Tusk hanno constatato la “perfetta cooperazione” tra i due Paesi in ambito europeo, e non solo, e hanno deciso di tenere il 28 maggio un primo vertice intergovernativo tra i due Paesi. Il premier italiano ha indicato al collega polacco, che, nel secondo semestre 2011, ha gestito la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, la prospettiva di “costruire ponti per unire l’Europa” e che il Vertice di Bruxelles segni “un passo in avanti verso politiche di sviluppo”.
Ci sono manovre in corso per spingere il governo Monti oltre l'accordo sul Patto di Bilancio del 9 dicembre. La visita di Tusk può essere stata un’occasione per cercare di coinvolgere proprio la Polonia con il Belgio –si ha notizia di colloqui in tal senso tra il presidente Giorgio Napolitano e il premier Elio Di Rupo- e la Spagna nell'impegno ad andare oltre il nuovo Trattato verso l'Unione politica.
La mozione unitaria del Parlamento italiano, che dovrebbe essere approvata il 25 gennaio, darebbe il via all'adesione al nuovo Trattato, ma impegnerebbe il governo italiano "a promuovere -dice una bozza- in una dichiarazione a latere del Trattato la necessità di convocare una Convenzione europea al fine di riaprire e completare il processo costituente verso un'Unione politica" aperta a tutti quanti sceglieranno di parteciparvi".
L'iniziativa parte da una riunione degli Europeos -Amato, Bonino, Micossi, Saccomanni, Massolo, Nelli Feroci, Cangelosi, la Dassù, Dastoli e una dozzina d'altri- a Piazza Venezia il 22 dicembre e s'è già aperta un varco. I precedenti storici non mancano: il più famoso, la dichiarazione Amato/Schroeder del 2000 a integrazione del Trattato di Nizza, che aprì la strada a quello che sarebbe poi divenuto il Trattato di Lisbona.
Il colloquio, oggi, a Roma, tra i premier italiano Mario Monti e polacco Donald Tusk ha chiuso la fitta serie d’incontri bilaterali del Professore in vista del Vertice europeo di fine gennaio sul Patto di Bilancio. Monti è stato, nei giorni scorsi, a Parigi, Berlino e Londra: per completare la ‘raccolta’ dei grandi Paesi dell’Unione, gli manca solo la Spagna del nuovo premier Mariano Rajoy. La serie di bilaterali doveva essere coronata, venerdì, dal triangolare a Roma Italia-Francia-Germania, slittato, però, a febbraio. Dalla prossima settimana, Monti ha un intenso calendario di appuntamenti europei: l’Eurogruppo, lunedì, l’Ecofin, martedì, e, a fine mese, il Vertice europeo.
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Monti e Tusk hanno constatato la “perfetta cooperazione” tra i due Paesi in ambito europeo, e non solo, e hanno deciso di tenere il 28 maggio un primo vertice intergovernativo tra i due Paesi. Il premier italiano ha indicato al collega polacco, che, nel secondo semestre 2011, ha gestito la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, la prospettiva di “costruire ponti per unire l’Europa” e che il Vertice di Bruxelles segni “un passo in avanti verso politiche di sviluppo”.
Ci sono manovre in corso per spingere il governo Monti oltre l'accordo sul Patto di Bilancio del 9 dicembre. La visita di Tusk può essere stata un’occasione per cercare di coinvolgere proprio la Polonia con il Belgio –si ha notizia di colloqui in tal senso tra il presidente Giorgio Napolitano e il premier Elio Di Rupo- e la Spagna nell'impegno ad andare oltre il nuovo Trattato verso l'Unione politica.
La mozione unitaria del Parlamento italiano, che dovrebbe essere approvata il 25 gennaio, darebbe il via all'adesione al nuovo Trattato, ma impegnerebbe il governo italiano "a promuovere -dice una bozza- in una dichiarazione a latere del Trattato la necessità di convocare una Convenzione europea al fine di riaprire e completare il processo costituente verso un'Unione politica" aperta a tutti quanti sceglieranno di parteciparvi".
L'iniziativa parte da una riunione degli Europeos -Amato, Bonino, Micossi, Saccomanni, Massolo, Nelli Feroci, Cangelosi, la Dassù, Dastoli e una dozzina d'altri- a Piazza Venezia il 22 dicembre e s'è già aperta un varco. I precedenti storici non mancano: il più famoso, la dichiarazione Amato/Schroeder del 2000 a integrazione del Trattato di Nizza, che aprì la strada a quello che sarebbe poi divenuto il Trattato di Lisbona.
mercoledì 18 gennaio 2012
Ue: P.e., Schulz il presidente da 'kapò' a 'europreoccupato'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/01/2012. Il tema pure su www.EurActiv.it il 17/01/2012
C’è da allarmarsi davvero, se, dopo il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, anche il neo-presidente del Parlamento europeo esordisce nel ruolo con toni se non ‘euro-scettici’ certo ‘euro-preoccupati’. Martin Schulz, socialdemocratico tedesco, ringrazia i colleghi che lo hanno appena eletto e sbotta: “Per la prima volta dalla sua fondazione, il fallimento dell’Unione non è un’ipotesi irrealistica”.
Nel discorso d’insediamento, Schulz lancia una sfida ai governi che da mesi passano da un Vertice all’altro e –dice- “ci riportano a un periodo superato, quello del Congresso di Vienna”. Per lui, “l’inflazione dei Vertici” esclude dal processo decisionale europeo i Parlamenti, anche i nazionali. E il neo-presidente se la prende con le agenzie di rating, al cui sistema “bisogna dire un no chiaro” perché è “una minaccia per il progetto europeo”: “Cresce il sospetto –afferma- che anonime agenzie con sede a New York siano più potenti di governi democraticamente eletti”.
A Strasburgo, questa è la sessione plenaria di metà mandato ed è tempo di rinnovo delle cariche: presidente, 14 vice (scontata la conferma dei due italiani Gianni Pittella, Pd, e Roberta Angelilli, Pdl), questori, capigruppo. E’ tutto già deciso, o quasi, perché pure l’Europa è terra d’inciuci, o almeno d’intese, quando ci sono di mezzo le poltrone
Il socialdemocratico Schulz passa al primo scrutinio. Lui, che fu un giorno apostrofato in aula dall'allora premier italiano Silvio Berlusconi come "kapò", nega, con i giornalisti, che la sua carriera politica sia dipesa da quell’episodio. La presidenza dell’Assemblea non è mai toccata a un italiano da quando, nel 1979, il Parlamento viene eletto a suffragio universale –Emilio Colombo fu l’ultimo presidente della fase precedente-.
Schulz, che prende il posto del popolare polacco Jerzy Buzek –un avvicendamento concordato all’inizio della legislatura, fra i due maggiori gruppi parlamentari-, ha ottenuto 387 voti sui 670 validi espressi. La scelta del tedesco viene accolta con toni positivi da molti euro-deputati italiani, che gli presentano però una lista di richieste: il Pdl gli chiede equilibrio e s’aspetta difesa del ruolo del Parlamento, il Pd di dare la priorità alla lotta contro la crisi, l’Idv di restituire forza alla voce dell’Europa. Critiche da Mara Bizzotto, Lega Nord: la sua elezione è “una vittoria dei poteri forti”.
Certo, a quel posto, in tempi di crisi e di dubbi, ci vorrebbe un leader vero, un uomo carismatico, piuttosto che un politico che stinge sul funzionario, spesso grigio, quando non cede all’ira. Però, l’Europa questo offre. E a Bruxelles e nelle capitali, non sempre c’è di meglio.
Padre poliziotto, un passato da libraio, Schulz, 57 anni, faceva politica a livello locale, prima d’essere eletto, nel 1994, deputato europeo: fece la gavetta e poi la trafila nel gruppo, fino a diventarne presidente nel 2004. L’episodio che lo rende noto agli italiani risale al 2 luglio 2003: Berlusconi, allora premier, presenta all’Assemblea il programma della presidenza di turno italiana del Consiglio europeo.
Da portavoce dei socialisti, Shultz critica l’intervento del Cavaliere, esprime il timore che «il virus del conflitto di interessi si espanda anche a livello europeo» e chiede che cosa l’Italia intenda fare «per accelerare l'introduzione del mandato di arresto europeo». Altri eurodeputati si alzano mostrando cartelloni con la scritta "La legge è uguale per tutti" in diverse lingue.
Berlusconi reagisce male: li bolla come “turisti della democrazia»; e a Schulz dice: “In Italia un produttore sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: la suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto!». Ne segue un putiferio. A Strasburgo, l’eco di quello scambio non s’è ancora perso.
C’è da allarmarsi davvero, se, dopo il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, anche il neo-presidente del Parlamento europeo esordisce nel ruolo con toni se non ‘euro-scettici’ certo ‘euro-preoccupati’. Martin Schulz, socialdemocratico tedesco, ringrazia i colleghi che lo hanno appena eletto e sbotta: “Per la prima volta dalla sua fondazione, il fallimento dell’Unione non è un’ipotesi irrealistica”.
Nel discorso d’insediamento, Schulz lancia una sfida ai governi che da mesi passano da un Vertice all’altro e –dice- “ci riportano a un periodo superato, quello del Congresso di Vienna”. Per lui, “l’inflazione dei Vertici” esclude dal processo decisionale europeo i Parlamenti, anche i nazionali. E il neo-presidente se la prende con le agenzie di rating, al cui sistema “bisogna dire un no chiaro” perché è “una minaccia per il progetto europeo”: “Cresce il sospetto –afferma- che anonime agenzie con sede a New York siano più potenti di governi democraticamente eletti”.
A Strasburgo, questa è la sessione plenaria di metà mandato ed è tempo di rinnovo delle cariche: presidente, 14 vice (scontata la conferma dei due italiani Gianni Pittella, Pd, e Roberta Angelilli, Pdl), questori, capigruppo. E’ tutto già deciso, o quasi, perché pure l’Europa è terra d’inciuci, o almeno d’intese, quando ci sono di mezzo le poltrone
Il socialdemocratico Schulz passa al primo scrutinio. Lui, che fu un giorno apostrofato in aula dall'allora premier italiano Silvio Berlusconi come "kapò", nega, con i giornalisti, che la sua carriera politica sia dipesa da quell’episodio. La presidenza dell’Assemblea non è mai toccata a un italiano da quando, nel 1979, il Parlamento viene eletto a suffragio universale –Emilio Colombo fu l’ultimo presidente della fase precedente-.
Schulz, che prende il posto del popolare polacco Jerzy Buzek –un avvicendamento concordato all’inizio della legislatura, fra i due maggiori gruppi parlamentari-, ha ottenuto 387 voti sui 670 validi espressi. La scelta del tedesco viene accolta con toni positivi da molti euro-deputati italiani, che gli presentano però una lista di richieste: il Pdl gli chiede equilibrio e s’aspetta difesa del ruolo del Parlamento, il Pd di dare la priorità alla lotta contro la crisi, l’Idv di restituire forza alla voce dell’Europa. Critiche da Mara Bizzotto, Lega Nord: la sua elezione è “una vittoria dei poteri forti”.
Certo, a quel posto, in tempi di crisi e di dubbi, ci vorrebbe un leader vero, un uomo carismatico, piuttosto che un politico che stinge sul funzionario, spesso grigio, quando non cede all’ira. Però, l’Europa questo offre. E a Bruxelles e nelle capitali, non sempre c’è di meglio.
Padre poliziotto, un passato da libraio, Schulz, 57 anni, faceva politica a livello locale, prima d’essere eletto, nel 1994, deputato europeo: fece la gavetta e poi la trafila nel gruppo, fino a diventarne presidente nel 2004. L’episodio che lo rende noto agli italiani risale al 2 luglio 2003: Berlusconi, allora premier, presenta all’Assemblea il programma della presidenza di turno italiana del Consiglio europeo.
Da portavoce dei socialisti, Shultz critica l’intervento del Cavaliere, esprime il timore che «il virus del conflitto di interessi si espanda anche a livello europeo» e chiede che cosa l’Italia intenda fare «per accelerare l'introduzione del mandato di arresto europeo». Altri eurodeputati si alzano mostrando cartelloni con la scritta "La legge è uguale per tutti" in diverse lingue.
Berlusconi reagisce male: li bolla come “turisti della democrazia»; e a Schulz dice: “In Italia un produttore sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: la suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto!». Ne segue un putiferio. A Strasburgo, l’eco di quello scambio non s’è ancora perso.
martedì 17 gennaio 2012
Usa 2012: Huntsman out; e Newt lancia il cane contro Mitt
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/01/2012
Al Giro, c’è chi si ritira il giorno di riposo. Alle primarie repubblicane, qualcosa di simile fa John Huntsman, uno dei (pochi) candidati ‘per bene’ alla nomination, ex ambasciatore degli Usa in Cina –la scelta fu fatta da Barack Obama-: Huntsman decide di lasciare la corsa a freddo, nell’intervallo tra un caucus e un voto. Un’ombra nello Iowa, terzo nel New Hampshire, l’ex ambasciatore, nonostante il prodigarsi delle sue tre figlie, aveva appena il 4% delle intenzioni di voto nella South Carolina, dove le primarie si svolgeranno martedì prossimo, il 23 gennaio.
Troppo poco, per continuare a crederci (e a spenderci soldi). Così, Huntsman annuncia il ritiro, invitando i suoi sostenitori a votare per Mitt Romney, il battistrada e sempre più il favorito, mormone come lui e come lui una persona ‘per bene’. La pattuglia degli aspiranti alla nomination s’è dunque ridotta, in poche battute, da otto a cinque: s’è fatto da parte prima che le primarie cominciassero Herman Cain, nero, pizzaiolo, milionario e molestatore sessuale; s’è ritirata dopo lo smacco nello Iowa l’unica donna, Michelle Bachmann; e, ora, esce di scena Huntsman.
Restano Romney, Ron Paul, ex deputato del Texas, uno tosto che non mollerà presto, e tre conservatori che si contendono i favori del Tea Party e della destra evangelica: Rick Santorum, ex senatore, cattolico, bene nello Iowa, poca cosa nel New Hampshire; Newt Gingrich, uno zombie degli Anni Novanta, benino qui e là, ma mai convincente; e Rick Perry, governatore del Texas, che dopo avere deluso nello Iowa ha passato al secondo giro, puntando a sbancare la South Carolina.
Nell’attesa di scoprire chi possa essere il ‘campione’ conservatore che sfidi fino in fondo, o almeno fino al ‘super-martedì’ del 6 marzo Mitt l’illuminato e Ron il libertario, i candidati repubblicani continuano ad azzuffarsi fra di loro, con buona pace del presidente Obama, che mette soldi in cassa e, per ora, ne spende pochi.
Per cercare di fermare Romney, Gingrich tira fuori un episodio degli Anni Ottanta, quando l’allora uomo d’affari mormone piazzò il cane di famiglia Seamus dentro la cuccia sul tettuccio dell’auto e viaggiò così da Boston al Canada. Gingrich prende le difese di Seamus, nel frattempo passato a miglior vita –non risulta per un cimurro beccato in quel frangente-. Ma, nonostante la volante animalista in suo soccorso, resta ancorato a un 12% di sostegno nazionale, contro il 37% di Romney.
Anche Perry si fa sentire, ma, come spesso gli capita, a sproposito. Prende le difese dei marines che un video mostra mentre, in Afghanistan, urinano sui cadaveri di talebani: Perry non vuole che i militari siano processati, mentre l’opinione pubblica è scossa da quelle immagini, che hanno ricondotto l’America all’orrore di Abu Ghraib e ai sensi di colpa per le violazioni dei diritti dell’uomo nella guerra al terrorismo.
L’unico ad attaccare davvero Obama è Rupert Murdoch, che appoggia Santorum contro Romney e denuncia il presidente perché non sostiene un progetto di legge contro la pirateria online. Murdoch contro Obama, duello a sorpresa per la Casa Bianca? Bella idea, ma c’è un però: Murdoch è australiano, nato a Melbourne, e non può divenire presidente degli Stati Uniti.
Al Giro, c’è chi si ritira il giorno di riposo. Alle primarie repubblicane, qualcosa di simile fa John Huntsman, uno dei (pochi) candidati ‘per bene’ alla nomination, ex ambasciatore degli Usa in Cina –la scelta fu fatta da Barack Obama-: Huntsman decide di lasciare la corsa a freddo, nell’intervallo tra un caucus e un voto. Un’ombra nello Iowa, terzo nel New Hampshire, l’ex ambasciatore, nonostante il prodigarsi delle sue tre figlie, aveva appena il 4% delle intenzioni di voto nella South Carolina, dove le primarie si svolgeranno martedì prossimo, il 23 gennaio.
Troppo poco, per continuare a crederci (e a spenderci soldi). Così, Huntsman annuncia il ritiro, invitando i suoi sostenitori a votare per Mitt Romney, il battistrada e sempre più il favorito, mormone come lui e come lui una persona ‘per bene’. La pattuglia degli aspiranti alla nomination s’è dunque ridotta, in poche battute, da otto a cinque: s’è fatto da parte prima che le primarie cominciassero Herman Cain, nero, pizzaiolo, milionario e molestatore sessuale; s’è ritirata dopo lo smacco nello Iowa l’unica donna, Michelle Bachmann; e, ora, esce di scena Huntsman.
Restano Romney, Ron Paul, ex deputato del Texas, uno tosto che non mollerà presto, e tre conservatori che si contendono i favori del Tea Party e della destra evangelica: Rick Santorum, ex senatore, cattolico, bene nello Iowa, poca cosa nel New Hampshire; Newt Gingrich, uno zombie degli Anni Novanta, benino qui e là, ma mai convincente; e Rick Perry, governatore del Texas, che dopo avere deluso nello Iowa ha passato al secondo giro, puntando a sbancare la South Carolina.
Nell’attesa di scoprire chi possa essere il ‘campione’ conservatore che sfidi fino in fondo, o almeno fino al ‘super-martedì’ del 6 marzo Mitt l’illuminato e Ron il libertario, i candidati repubblicani continuano ad azzuffarsi fra di loro, con buona pace del presidente Obama, che mette soldi in cassa e, per ora, ne spende pochi.
Per cercare di fermare Romney, Gingrich tira fuori un episodio degli Anni Ottanta, quando l’allora uomo d’affari mormone piazzò il cane di famiglia Seamus dentro la cuccia sul tettuccio dell’auto e viaggiò così da Boston al Canada. Gingrich prende le difese di Seamus, nel frattempo passato a miglior vita –non risulta per un cimurro beccato in quel frangente-. Ma, nonostante la volante animalista in suo soccorso, resta ancorato a un 12% di sostegno nazionale, contro il 37% di Romney.
Anche Perry si fa sentire, ma, come spesso gli capita, a sproposito. Prende le difese dei marines che un video mostra mentre, in Afghanistan, urinano sui cadaveri di talebani: Perry non vuole che i militari siano processati, mentre l’opinione pubblica è scossa da quelle immagini, che hanno ricondotto l’America all’orrore di Abu Ghraib e ai sensi di colpa per le violazioni dei diritti dell’uomo nella guerra al terrorismo.
L’unico ad attaccare davvero Obama è Rupert Murdoch, che appoggia Santorum contro Romney e denuncia il presidente perché non sostiene un progetto di legge contro la pirateria online. Murdoch contro Obama, duello a sorpresa per la Casa Bianca? Bella idea, ma c’è un però: Murdoch è australiano, nato a Melbourne, e non può divenire presidente degli Stati Uniti.
Ue: crisi, S&P, Sarko nei guai e Monti coi piani all'aria
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/01/2012. Il tema pure su www.euractiv.it il 16/01/2012
La risacca dell’onda di S&P risucchia il calendario europeo di questa settimana e lo stravolge. Il Vertice triangolare di Roma tra Mario Monti, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, previsto venerdì 20 gennaio, slitta a febbraio, cioè dopo il Vertice europeo di fine mese. Il rinvio nasce da una richiesta francese per "urgenti impegni di natura interna" del presidente Sarkozy. Ma non fa gioco al premier Monti: il Professore avrebbe preferito presentarsi agli appuntamenti collegiali della prossima settimana, eurogruppo, Ecofin, Consiglio europeo, dopo avere concordato con Germania e Francia una piattaforma comune.
La ‘sentenza’, molto discussa, di ‘retrocessione collettiva’ dell’affidabilità di quasi tutta l’eurozona, emessa con scelta di tempo sospetta da S&P, fa pure da tela di fondo all’incontro, a Roma, tra il presidente del Consiglio italiano e il presidente del Vertice europeo Herman Van Rompuy, che ha di nuovo promosso pubblicamente l’operato del ‘governo del Professore’ (“L’Italia -ha detto, fra l’altro, Van Rompuy- si sta muovendo nella giusta direzione”). Dell’effetto risacca hanno pure parlato a Palazzo Chigi Monti e i leader dei partiti che lo sostengono, concordando sull’idea di presentare in Parlamento una mozione comune sull’Unione europea, anche se Angelino Alfano tiene a precisare che “Pd e Pdl hanno idee diverse”.
D’accordo quasi su tutto, invece, Monti e Van Rompuy: insufficiente la governance dell’eurozona, necessarie misure per una crescita sostenibile (e quindi bene le liberalizzazioni), sì al Patto di Bilancio che, se definito a fine mese e formalizzato il 1.o marzo, entrerà in vigore a luglio.
La Francia, come l’Italia e molti altri Paesi dell’eurozona, ha subito, venerdì scorso, lo smacco d’una ‘retrocessione’ da parte dell’agenzia di rating americana: più pesante per Parigi, perché l’Italia, alle perdite d’affidabilità, c’e’ ormai assuefatta, mentre per la Francia era la prima volta. E, nella prospettiva delle presidenziali francesi della primavera prossima, la botta è grossa: Sarkozy, giorni fa, aveva confidato a un suo collaboratore “Se perdo la tripla A, sono finito”.
Viene in soccorso suo e degli altri leader feriti il presidente della Bce Mario Draghi, che, come Commissione e Parlamento europei, s’interroga sull’attendibilità di S&P e delle sue sorelle Moody’s e Fitch: bisogna farne nascere altre, magari una europea, dice, per metterle in concorrenza l’una con l’altra. Però, sul fronte della crisi, di smacco in smacco, la situazione “è molto grave e sta peggiorando”.
La data del nuovo triangolare deve ancora essere definita. Confermata, invece, la tappa a Londra di Monti domani per un incontro col premier britannico David Cameron, terza tappa d’un trittico che ha portato il Professore la scorsa settimana a Parigi e a Berlino. E Van Rompuy ha pure confermato a Roma che il vertice europeo di fine gennaio dovrebbe segnare l’accordo sui contenuti del Patto di Bilancio deciso il 9 dicembre: un negoziato condotto a tempi di record.
La sera del 29 Sarkozy, ieri a Madrid per vedere il nuovo premier spagnolo Mariano Rajoy, spiegherà ai francesi in diretta tv le sue ricette per uscire dallo stallo economico. Il presidente deve fare fronte a un mare di critiche da parte delle opposizioni, ma anche del suo elettorato, a meno di cento giorni dal voto presidenziale. Unica consolazione: Moody's ha ieri confermato alla Francia il rating massimo.
Inizialmente, Sarkozy doveva parlare ai francesi il 25, ma quando ha saputo che il suo rivale ‘numero 1’, il socialista François Hollande sarebbe comparso il 26 a una popolare trasmissione, ha rinviato la sua sortita, per non fornire all’avversario punti di riferimento.
La risacca dell’onda di S&P risucchia il calendario europeo di questa settimana e lo stravolge. Il Vertice triangolare di Roma tra Mario Monti, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, previsto venerdì 20 gennaio, slitta a febbraio, cioè dopo il Vertice europeo di fine mese. Il rinvio nasce da una richiesta francese per "urgenti impegni di natura interna" del presidente Sarkozy. Ma non fa gioco al premier Monti: il Professore avrebbe preferito presentarsi agli appuntamenti collegiali della prossima settimana, eurogruppo, Ecofin, Consiglio europeo, dopo avere concordato con Germania e Francia una piattaforma comune.
La ‘sentenza’, molto discussa, di ‘retrocessione collettiva’ dell’affidabilità di quasi tutta l’eurozona, emessa con scelta di tempo sospetta da S&P, fa pure da tela di fondo all’incontro, a Roma, tra il presidente del Consiglio italiano e il presidente del Vertice europeo Herman Van Rompuy, che ha di nuovo promosso pubblicamente l’operato del ‘governo del Professore’ (“L’Italia -ha detto, fra l’altro, Van Rompuy- si sta muovendo nella giusta direzione”). Dell’effetto risacca hanno pure parlato a Palazzo Chigi Monti e i leader dei partiti che lo sostengono, concordando sull’idea di presentare in Parlamento una mozione comune sull’Unione europea, anche se Angelino Alfano tiene a precisare che “Pd e Pdl hanno idee diverse”.
D’accordo quasi su tutto, invece, Monti e Van Rompuy: insufficiente la governance dell’eurozona, necessarie misure per una crescita sostenibile (e quindi bene le liberalizzazioni), sì al Patto di Bilancio che, se definito a fine mese e formalizzato il 1.o marzo, entrerà in vigore a luglio.
La Francia, come l’Italia e molti altri Paesi dell’eurozona, ha subito, venerdì scorso, lo smacco d’una ‘retrocessione’ da parte dell’agenzia di rating americana: più pesante per Parigi, perché l’Italia, alle perdite d’affidabilità, c’e’ ormai assuefatta, mentre per la Francia era la prima volta. E, nella prospettiva delle presidenziali francesi della primavera prossima, la botta è grossa: Sarkozy, giorni fa, aveva confidato a un suo collaboratore “Se perdo la tripla A, sono finito”.
Viene in soccorso suo e degli altri leader feriti il presidente della Bce Mario Draghi, che, come Commissione e Parlamento europei, s’interroga sull’attendibilità di S&P e delle sue sorelle Moody’s e Fitch: bisogna farne nascere altre, magari una europea, dice, per metterle in concorrenza l’una con l’altra. Però, sul fronte della crisi, di smacco in smacco, la situazione “è molto grave e sta peggiorando”.
La data del nuovo triangolare deve ancora essere definita. Confermata, invece, la tappa a Londra di Monti domani per un incontro col premier britannico David Cameron, terza tappa d’un trittico che ha portato il Professore la scorsa settimana a Parigi e a Berlino. E Van Rompuy ha pure confermato a Roma che il vertice europeo di fine gennaio dovrebbe segnare l’accordo sui contenuti del Patto di Bilancio deciso il 9 dicembre: un negoziato condotto a tempi di record.
La sera del 29 Sarkozy, ieri a Madrid per vedere il nuovo premier spagnolo Mariano Rajoy, spiegherà ai francesi in diretta tv le sue ricette per uscire dallo stallo economico. Il presidente deve fare fronte a un mare di critiche da parte delle opposizioni, ma anche del suo elettorato, a meno di cento giorni dal voto presidenziale. Unica consolazione: Moody's ha ieri confermato alla Francia il rating massimo.
Inizialmente, Sarkozy doveva parlare ai francesi il 25, ma quando ha saputo che il suo rivale ‘numero 1’, il socialista François Hollande sarebbe comparso il 26 a una popolare trasmissione, ha rinviato la sua sortita, per non fornire all’avversario punti di riferimento.
giovedì 12 gennaio 2012
Porcellu, Cosentino: 'Italia, Europa'?, no, 'Italia, Italia'
consulta cameraScritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 12/01/2012
Un giovedì mattina d’inizio 2012, che a Roma c’è il sole e si esce senza cappotto, uno legge sulla stampa, anche tedesca, i resoconti della visita a Berlino del presidente del Consiglio Mario Monti e segue l’intervento alla Camera dello stesso premier e si sente (qiasi) bene in questo Paese: Italia, Europa … Non che tutto fili liscio, chiaro: ci sono da fare i sacrifici e non si capisce bene dove andrà a uscire il tunnel in cui siamo entrati; e il Professore dice alla Welt che non abbiamo bisogno degli Stati Uniti d’Europa e fa l’elogio della sussidiarietà, che è una delle parole, se non dei concetti, più poveri di forza d’evocazione che siano mai state inventati. Però, quando sta lì accanto alla Merkel, lui, il Professore, e lei, la preside della scuola europea che stiamo frequentando, non è chiaro chi abbia più autorità: lei ha –magari- il potere, ma lui ha il sapere.
Insomma, sei lì che stai pensando quanto è cambiata questa Italia in poche settimane, quando il cellulare t’annuncia una notizia. Dice che Piazza Affari ha aperto “positiva”, mentre le borse del resto d’Europa “sono fiacche”; e che, udite udite, gioite gioite, lo spread è sceso sotto i 500 punti. Visto?, ve lo dicevo io: anche i mercati se ne sono (finalmente) accorti: Italia, Europa, altro che Grecia e default.
Passano poco più di due ore. Alle 12.45, il cellulare annuncia un’altra notizia: “Referendum elettorali –recita il messaggio ANSA-, la Consulta boccia i due quesiti contro il Porcellum. Resta attuale legge elettorale, parola alle Camere”: Ma come?, se avevo persino firmato, andando al banchetto, come un milione abbondante di altri italiani?
Mastico amaro. Il cellulare annuncia un’altra notizia: spero sia Tevez al Milan, così litiga con Ibra e la banda (calcistica) di Mr B va a ramengo. Invece no: “Camera –scrive l’ANSA, alle 14.23-: no ad arresto ex sottosegretario Cosentino. 309 i contrari, 298 i favorevoli, nessun astenuto, voto segreto”.
Ci resto davvero male. Ma come?, se la Lega in commissione l’aveva ‘mollato’?, se è uno che i magistrati non hanno dubbi sulle sue collusioni? Il referendum, Cosentino: tutto avviene nel rispetto delle regole, l’equilibrio della Consulta non è in discussione; il diritto della Camera a decidere neppure … Ma qualcosa non quadra, se le regole garantiscono una stortura e un’iniquità … E capisco che è ancora ‘Italia, Italia’, altro che ‘Italia, Europa’: Monti, i sacrifici sopportati con britannico autocontrollo, lo spread, tutto vero e tutto persino bene; ma poi ti rimane il Porcellum e una politica che tutela se stessa e non i cittadini. E, allora, resti dove sei: una volta si diceva a metà del guado, sperando di esserci arrivati; e lì la corrente è più forte e può ancora portarti via.
Un giovedì mattina d’inizio 2012, che a Roma c’è il sole e si esce senza cappotto, uno legge sulla stampa, anche tedesca, i resoconti della visita a Berlino del presidente del Consiglio Mario Monti e segue l’intervento alla Camera dello stesso premier e si sente (qiasi) bene in questo Paese: Italia, Europa … Non che tutto fili liscio, chiaro: ci sono da fare i sacrifici e non si capisce bene dove andrà a uscire il tunnel in cui siamo entrati; e il Professore dice alla Welt che non abbiamo bisogno degli Stati Uniti d’Europa e fa l’elogio della sussidiarietà, che è una delle parole, se non dei concetti, più poveri di forza d’evocazione che siano mai state inventati. Però, quando sta lì accanto alla Merkel, lui, il Professore, e lei, la preside della scuola europea che stiamo frequentando, non è chiaro chi abbia più autorità: lei ha –magari- il potere, ma lui ha il sapere.
Insomma, sei lì che stai pensando quanto è cambiata questa Italia in poche settimane, quando il cellulare t’annuncia una notizia. Dice che Piazza Affari ha aperto “positiva”, mentre le borse del resto d’Europa “sono fiacche”; e che, udite udite, gioite gioite, lo spread è sceso sotto i 500 punti. Visto?, ve lo dicevo io: anche i mercati se ne sono (finalmente) accorti: Italia, Europa, altro che Grecia e default.
Passano poco più di due ore. Alle 12.45, il cellulare annuncia un’altra notizia: “Referendum elettorali –recita il messaggio ANSA-, la Consulta boccia i due quesiti contro il Porcellum. Resta attuale legge elettorale, parola alle Camere”: Ma come?, se avevo persino firmato, andando al banchetto, come un milione abbondante di altri italiani?
Mastico amaro. Il cellulare annuncia un’altra notizia: spero sia Tevez al Milan, così litiga con Ibra e la banda (calcistica) di Mr B va a ramengo. Invece no: “Camera –scrive l’ANSA, alle 14.23-: no ad arresto ex sottosegretario Cosentino. 309 i contrari, 298 i favorevoli, nessun astenuto, voto segreto”.
Ci resto davvero male. Ma come?, se la Lega in commissione l’aveva ‘mollato’?, se è uno che i magistrati non hanno dubbi sulle sue collusioni? Il referendum, Cosentino: tutto avviene nel rispetto delle regole, l’equilibrio della Consulta non è in discussione; il diritto della Camera a decidere neppure … Ma qualcosa non quadra, se le regole garantiscono una stortura e un’iniquità … E capisco che è ancora ‘Italia, Italia’, altro che ‘Italia, Europa’: Monti, i sacrifici sopportati con britannico autocontrollo, lo spread, tutto vero e tutto persino bene; ma poi ti rimane il Porcellum e una politica che tutela se stessa e non i cittadini. E, allora, resti dove sei: una volta si diceva a metà del guado, sperando di esserci arrivati; e lì la corrente è più forte e può ancora portarti via.
mercoledì 11 gennaio 2012
USA 2012: NH, Romney raddoppia, Paul è tosto, spunta Huntsman
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano l'11/01/2012
Romney raddoppia, Paul si conferma uno tosto, Huntsman fa capolino, Santorum e Gingrich galleggiano –ma ‘penna bianca’ potrebbe pure decidere di auto-affondarsi-. Perry non lascia solo perché ‘salta’ questa tappa per lui ostica e concentra soldi ed energie sulla prossima, la Sputh Carolina, a lui sulla carta più favorevole: è una scommessa da ‘dentro o fuori’.
Le primarie nel New Hampshire, seconda tappa della nomination del candidato repubblicano alla Casa Bianca, confermano il verdetto dello Iowa, una settimana fa: in testa alla corsa c’è Mitt Romney, l’ex governatore del Massachussetts, quello che non sbaglia mai una mossa (anche se, qui, una gaffe l’ha fatta, quando ha detto che gli piace licenziare). Romney vince con quasi il 40% dei voti, ben oltre quella soglia del 30% che, secondo gli analisti, avrebbe lasciato la gara aperta.
Dietro di lui, che qui giocava quasi in casa, il libertario Ron Paul, terzo nella Iowa, che di voti ne prende uno su quattro. “Gli stiamo alle calcagna”, dice l’ex deputato del Texas ai suoi sostenitori, che non hanno certo bisogno di essere arringati, ‘gasati’ come sono con quel loro slogan ‘Rivoluzione, rivoluzione’.
Terzo, l’altro mormone, come Romney, del 5+1 da superenalotto repubblicano: Jon Huntsman, ex governatore dello Utah ed ex ambasciatore in Cina, tenutosi ai margini nello Iowa e sceso in campo qui con le sue tre figlie che appaiono il brand migliore del suo prodotto, prende un voto su cinque. Bene, ma non abbastanza per essere sicuri di andare lontano, perché mica tutta l’America è New England.
Rick Santorum, la rivelazione dello Iowa, l’integralista cattolico con sette figli, ex senatore nel giro di George W. Bush, e Newt Gingrich, il leader sopravvissuto degli Anni Novanta, galleggiano intorno al 10%. Né l’uno né l’altro contava di fare bottino qui, ma Gingrich mostra di non riuscire a sfondare e potrebbe anche decidere di smetterla di buttare via soldi: magari, arriva alla South Carolina, per cercare di prendere una boccata d’ossigeno; o, magari, getta la spugna fra poche ore.
Se lo Iowa serve, di solito, a scremare il campo da potenziali ‘nani e ballerine’, più che a indicare il futuro vincitore, il New Hampshire spesso ci azzecca. E chi fa doppietta è, statisticamente, quasi sicuro di farcela. Il che giustifica i toni trionfali, ma un po’ banali, di Romney il vincitore: “Qui, facciamo la storia”, ha detto. E poi smette di attaccare i suoi rivali, ma lancia una stoccata al presidente Obama, che –dice- “governa come un leader europeo”: un’accusa ‘mortale’, per i conservatori d’America che quei mollaccioni di europei non li sopportano proprio.
Romney raddoppia, Paul si conferma uno tosto, Huntsman fa capolino, Santorum e Gingrich galleggiano –ma ‘penna bianca’ potrebbe pure decidere di auto-affondarsi-. Perry non lascia solo perché ‘salta’ questa tappa per lui ostica e concentra soldi ed energie sulla prossima, la Sputh Carolina, a lui sulla carta più favorevole: è una scommessa da ‘dentro o fuori’.
Le primarie nel New Hampshire, seconda tappa della nomination del candidato repubblicano alla Casa Bianca, confermano il verdetto dello Iowa, una settimana fa: in testa alla corsa c’è Mitt Romney, l’ex governatore del Massachussetts, quello che non sbaglia mai una mossa (anche se, qui, una gaffe l’ha fatta, quando ha detto che gli piace licenziare). Romney vince con quasi il 40% dei voti, ben oltre quella soglia del 30% che, secondo gli analisti, avrebbe lasciato la gara aperta.
Dietro di lui, che qui giocava quasi in casa, il libertario Ron Paul, terzo nella Iowa, che di voti ne prende uno su quattro. “Gli stiamo alle calcagna”, dice l’ex deputato del Texas ai suoi sostenitori, che non hanno certo bisogno di essere arringati, ‘gasati’ come sono con quel loro slogan ‘Rivoluzione, rivoluzione’.
Terzo, l’altro mormone, come Romney, del 5+1 da superenalotto repubblicano: Jon Huntsman, ex governatore dello Utah ed ex ambasciatore in Cina, tenutosi ai margini nello Iowa e sceso in campo qui con le sue tre figlie che appaiono il brand migliore del suo prodotto, prende un voto su cinque. Bene, ma non abbastanza per essere sicuri di andare lontano, perché mica tutta l’America è New England.
Rick Santorum, la rivelazione dello Iowa, l’integralista cattolico con sette figli, ex senatore nel giro di George W. Bush, e Newt Gingrich, il leader sopravvissuto degli Anni Novanta, galleggiano intorno al 10%. Né l’uno né l’altro contava di fare bottino qui, ma Gingrich mostra di non riuscire a sfondare e potrebbe anche decidere di smetterla di buttare via soldi: magari, arriva alla South Carolina, per cercare di prendere una boccata d’ossigeno; o, magari, getta la spugna fra poche ore.
Se lo Iowa serve, di solito, a scremare il campo da potenziali ‘nani e ballerine’, più che a indicare il futuro vincitore, il New Hampshire spesso ci azzecca. E chi fa doppietta è, statisticamente, quasi sicuro di farcela. Il che giustifica i toni trionfali, ma un po’ banali, di Romney il vincitore: “Qui, facciamo la storia”, ha detto. E poi smette di attaccare i suoi rivali, ma lancia una stoccata al presidente Obama, che –dice- “governa come un leader europeo”: un’accusa ‘mortale’, per i conservatori d’America che quei mollaccioni di europei non li sopportano proprio.
Usa 2012: l'orco della Casa Bianca mangia i capi dello staff
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/01/2012
C’è un orco alla Casa Bianca, che, invece di mangiare i bambini, si divora i suoi collaboratori più stretti? Ne viene quasi il sospetto, dopo l’annuncio delle dimissioni da segretario generale di William Daley, il secondo ‘capo dello staff’ a lasciare il posto in meno di tre anni dall’insediamento di Obama alla presidenza il 20 gennaio 2009. Il segretario generale è, tradizionalmente, l’uomo più fido del presidente degli Stati Uniti e ‘regna’ sull’ala ovest della Casa Bianca, il centro nervoso dell’esecutivo americano.
Il presidente non è parso di buon umore, nel comunicare le dimissioni di Daley e la sua sostituzione con Jack Lew, responsabile del bilancio dall’inizio del mandato –dopo esserlo già stato con Clinton presidente negli Anni Novanta-: un uomo che conosce Washington come le sue tasche, anche se è più un contabile che un politico. Obama è stato esplicito: “E’ una notizia che non mi fa piacere” –immaginiamo che piacere abbia fatto a Lew sentirglielo dire-.
Daley è un altro pezzo della ‘cricca di Chicago’ che torna a casa. Un anno fa, di questi tempi, era toccato a Rahm Emanuel, che aveva lasciato il posto di capo dello staff il 6 gennaio per partire alla conquista dell’incarico di sindaco di Chicago –missione, nel frattempo compiuta-. Adesso, Daley, 63 anni, fa sapere di volere passare più tempo con la sua famiglia, sempre a Chicago, dove il fratello Richard è stato sindaco per 22 anni e dove il padre lo era stato per una vita. I Daley stanno a Chicago un po’ come i Kennedy stanno a Boston: s’identificano con la città.
Le dimissioni di Daley s’intrecciano con le polemiche sullo ‘strapotere’ attribuito alla first lady Michelle, che sarebbe stata all’origine dell’uscita di scena di Emmanuel e magari pure della partenza, ora di Daley. Ma né Rahm, un caratteraccio del suo, né William lasciano in rotta con Obama: uno è diventato sindaco della sua città, l’altro s’appresta a co-presiedere il comitato per la rielezione del presidente nel voto del 6 novembre.
Fonte di molti fastidi è 'The Obamas', il libro di una giornalista del New York Times, Judy Kantor, secondo cui Michelle e lo staff del presidente sono spesso finiti ai ferri corti. La Casa Bianca smentisce; e nega che gli Obama abbiano tentato di tenere segreto un party per Halloween nel 2009 pieno di vip e stelle di Hollywood sul tema "Alice nel Paese delle Meraviglie" con la regia di Tim Burton (già regista del film) e il Cappellaio Matto Johnny Depp in carne e ossa. Per la Kantor, Michelle avrebbe avuto giorni difficili alla Casa Bianca, prima di trasformarsi da una "scettica outsider" che non voleva adattarsi a Washington in una presenza importante e innovativa.
Quanto a Daley, che volesse lasciare non era un mistero: a ottobre, lo aveva detto lui stesso a una tv (di Chicago, ti pare), anche se aveva indicato come data del ritorno a casa il gennaio 2013, dopo la rielezione del presidente. Invece, se ne va un anno prima, con le pive nel sacco perché ha fallito la sua missione. Ex banchiere d’affari –il che non è il miglior biglietto da visita, di questi tempi-, Daley doveva riavvicinare il presidente a Wall Street e o gestire i rapporti con il Congresso, dopo che le elezioni di midterm avevano cambiato i rapporti di forza tra l’Amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana, ormai in maggioranza alla Camera.
Su entrambi i fronti, Daley ha fatto un buco nell’acqua. E, in effetti, dopo lo scontro al calor bianco tra il presidente e il Congresso sull’innalzamento del tetto del debito, una parte dei suoi poteri era già stata trasferita a Pete Rouse, un fidatissimo ex consigliere dell’Obama senatore. Resta il fatto che l’abbandono del capo dello staff non è un affare per Obama, che, però, non perde la voglia di fare scherzi ai suoi potenziali rivali repubblicani che si affrontano nel New Hampshire. Il presidente ruba loro un po’ di scena nel giorno delle primarie, comprando un grosso spazio pubblicitario sul più diffuso quotidiano dello Stato.
C’è un orco alla Casa Bianca, che, invece di mangiare i bambini, si divora i suoi collaboratori più stretti? Ne viene quasi il sospetto, dopo l’annuncio delle dimissioni da segretario generale di William Daley, il secondo ‘capo dello staff’ a lasciare il posto in meno di tre anni dall’insediamento di Obama alla presidenza il 20 gennaio 2009. Il segretario generale è, tradizionalmente, l’uomo più fido del presidente degli Stati Uniti e ‘regna’ sull’ala ovest della Casa Bianca, il centro nervoso dell’esecutivo americano.
Il presidente non è parso di buon umore, nel comunicare le dimissioni di Daley e la sua sostituzione con Jack Lew, responsabile del bilancio dall’inizio del mandato –dopo esserlo già stato con Clinton presidente negli Anni Novanta-: un uomo che conosce Washington come le sue tasche, anche se è più un contabile che un politico. Obama è stato esplicito: “E’ una notizia che non mi fa piacere” –immaginiamo che piacere abbia fatto a Lew sentirglielo dire-.
Daley è un altro pezzo della ‘cricca di Chicago’ che torna a casa. Un anno fa, di questi tempi, era toccato a Rahm Emanuel, che aveva lasciato il posto di capo dello staff il 6 gennaio per partire alla conquista dell’incarico di sindaco di Chicago –missione, nel frattempo compiuta-. Adesso, Daley, 63 anni, fa sapere di volere passare più tempo con la sua famiglia, sempre a Chicago, dove il fratello Richard è stato sindaco per 22 anni e dove il padre lo era stato per una vita. I Daley stanno a Chicago un po’ come i Kennedy stanno a Boston: s’identificano con la città.
Le dimissioni di Daley s’intrecciano con le polemiche sullo ‘strapotere’ attribuito alla first lady Michelle, che sarebbe stata all’origine dell’uscita di scena di Emmanuel e magari pure della partenza, ora di Daley. Ma né Rahm, un caratteraccio del suo, né William lasciano in rotta con Obama: uno è diventato sindaco della sua città, l’altro s’appresta a co-presiedere il comitato per la rielezione del presidente nel voto del 6 novembre.
Fonte di molti fastidi è 'The Obamas', il libro di una giornalista del New York Times, Judy Kantor, secondo cui Michelle e lo staff del presidente sono spesso finiti ai ferri corti. La Casa Bianca smentisce; e nega che gli Obama abbiano tentato di tenere segreto un party per Halloween nel 2009 pieno di vip e stelle di Hollywood sul tema "Alice nel Paese delle Meraviglie" con la regia di Tim Burton (già regista del film) e il Cappellaio Matto Johnny Depp in carne e ossa. Per la Kantor, Michelle avrebbe avuto giorni difficili alla Casa Bianca, prima di trasformarsi da una "scettica outsider" che non voleva adattarsi a Washington in una presenza importante e innovativa.
Quanto a Daley, che volesse lasciare non era un mistero: a ottobre, lo aveva detto lui stesso a una tv (di Chicago, ti pare), anche se aveva indicato come data del ritorno a casa il gennaio 2013, dopo la rielezione del presidente. Invece, se ne va un anno prima, con le pive nel sacco perché ha fallito la sua missione. Ex banchiere d’affari –il che non è il miglior biglietto da visita, di questi tempi-, Daley doveva riavvicinare il presidente a Wall Street e o gestire i rapporti con il Congresso, dopo che le elezioni di midterm avevano cambiato i rapporti di forza tra l’Amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana, ormai in maggioranza alla Camera.
Su entrambi i fronti, Daley ha fatto un buco nell’acqua. E, in effetti, dopo lo scontro al calor bianco tra il presidente e il Congresso sull’innalzamento del tetto del debito, una parte dei suoi poteri era già stata trasferita a Pete Rouse, un fidatissimo ex consigliere dell’Obama senatore. Resta il fatto che l’abbandono del capo dello staff non è un affare per Obama, che, però, non perde la voglia di fare scherzi ai suoi potenziali rivali repubblicani che si affrontano nel New Hampshire. Il presidente ruba loro un po’ di scena nel giorno delle primarie, comprando un grosso spazio pubblicitario sul più diffuso quotidiano dello Stato.
martedì 10 gennaio 2012
Usa 2012: New Hampshire, Romney il metronomo e l'altro mormone
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/01/2012
Anche i metronomi, qualche volta, perdono una battuta. Mitt Romney, milionario, mormone, ex governatore del Massachussetts, indiscusso battistrada nella corsa
alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, ha fatto un passo falso, il primo, forse, della sua campagna, alla vigilia delle primarie nel New Hampshire, che oggi potrebbero consacrarlo favorito assoluto e sfoltire il campo dei suoi rivali: Rick Perry è in odore d’abbandono, una settimana dopo il responso deludente nello Iowa.
Dipinto dagli avversari come un manager dedito a liquidare aziende e posti di lavoro, Romney difende il suo curriculum da buon manager: "Mi piace –dice- licenziare le persone che lavorano per me, se non mi rendono un buon servizio, e assumere qualcun altro al loro posto". Jon Huntsman, che qui si gioca le carte migliori, ha una replica tagliente: "A Romney piace licenziare, a me piace creare posti di lavoro".
A fidarsi dei sondaggi, le primarie in questo Stato del New England rischiano di diventare una partita fra mormoni (anche Huntsman lo è). L’ex governatore e l’ex ambasciatore sono i due unici candidati spendibili in questo angolo d’America libertario, ma anche ‘liberal’, con tratti conservatori, ma mai razzista. Huntsman accusa Romney di condurre una campagna senza visione: “Io credo di dovere mettere il mio Paese al primo posto, mentre Mr Romney sembra credere che si debba mettere prima la politica”. Una risposta alle critiche di Romney perché Huntsman accettò la nomina ad ambasciatore in Cina dal presidente Obama, un democratico.
Presto 65 anni, figlio di un padre nato in Messico –potrebbe avere doppia cittadinanza-, sposato con Ann, cinque figli, è stato organizzatore dei Giochi d’Inverno a Salt Lake City nel 2002, governatore del Massachussetts dal 2003 al 2007 e candidato alla nomination nel 2008 –fu l’ultimo a cedere le armi a John McCain-. Molti repubblicani lo considerano “l’uomo giusto”, un presidente predestinato; altri lo vivono come una mina vagante, un perdente predestinato.
Figlio d’arte –il padre, George W., fu governatore del Michigan, la madre Lenore provò a diventare senatore-, un trascorso da missionario in Francia, dopo gli studi si mise in affari con risultati brillanti. Si candidò a senatore nel 1994, ma scelse il collegio sbagliato, contro quel Ted Kennedy destinato a tenere il seggio fino alla sua morte, uno praticamente imbattibile. Poi si dedicò alle Olimpiadi invernali: dovevano essere un disastro finanziario e, invece, ne venne fuori un successo.
Nel 2002, fu eletto governatore del Massachussetts: un’impresa per un repubblicano, perché lo Stato di Boston ha una grossa tradizione democratica. Durante il mandato, realizzò una grossa riforma dell’assistenza sanitaria statale, cui s’è ispirato, nel 2010, Obama per varare la sua riforma nazionale.
Nel 2006, Romney non puntò a un secondo mandato. Pensava già alla nomination 2008 e, intanto, spostava la sua retorica su posizioni più conservatrici, così da non essere troppo percepito come un corpo estraneo all’anima più profonda –qualunquista, sudista, evangelica- del partito repubblicano.
Sconfitto nel 2008, Romney continuò a prepararsi alla Casa Bianca. In questa campagna, ha finora dimostrato tenuta e costanza: è praticamente sempre rimasto in testa ai sondaggi. E i repubblicani dell’establishment, quelli che hanno posto di lavoro a Washington e casa a Georgetown, o nei sobborghi borghesi, preferiscono correre il rischio di perdere con lui che di vincere con un ingombrante portabandiera del Tea Party o un eccentrico alfiere dell’anti-politica o del libertarismo.
L’esperienza della corsa alla nomination lo aiuta a evitare errori o ingenuità. Contro di lui, ci sono, però, il grigiore, l’uniformità, la monotonia: Mitt è spesso percepito come una persona noiosa, che manca di brillantezza. Non di brillantina, chè ne ha pieni i capelli.
Anche i metronomi, qualche volta, perdono una battuta. Mitt Romney, milionario, mormone, ex governatore del Massachussetts, indiscusso battistrada nella corsa
alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, ha fatto un passo falso, il primo, forse, della sua campagna, alla vigilia delle primarie nel New Hampshire, che oggi potrebbero consacrarlo favorito assoluto e sfoltire il campo dei suoi rivali: Rick Perry è in odore d’abbandono, una settimana dopo il responso deludente nello Iowa.
Dipinto dagli avversari come un manager dedito a liquidare aziende e posti di lavoro, Romney difende il suo curriculum da buon manager: "Mi piace –dice- licenziare le persone che lavorano per me, se non mi rendono un buon servizio, e assumere qualcun altro al loro posto". Jon Huntsman, che qui si gioca le carte migliori, ha una replica tagliente: "A Romney piace licenziare, a me piace creare posti di lavoro".
A fidarsi dei sondaggi, le primarie in questo Stato del New England rischiano di diventare una partita fra mormoni (anche Huntsman lo è). L’ex governatore e l’ex ambasciatore sono i due unici candidati spendibili in questo angolo d’America libertario, ma anche ‘liberal’, con tratti conservatori, ma mai razzista. Huntsman accusa Romney di condurre una campagna senza visione: “Io credo di dovere mettere il mio Paese al primo posto, mentre Mr Romney sembra credere che si debba mettere prima la politica”. Una risposta alle critiche di Romney perché Huntsman accettò la nomina ad ambasciatore in Cina dal presidente Obama, un democratico.
Presto 65 anni, figlio di un padre nato in Messico –potrebbe avere doppia cittadinanza-, sposato con Ann, cinque figli, è stato organizzatore dei Giochi d’Inverno a Salt Lake City nel 2002, governatore del Massachussetts dal 2003 al 2007 e candidato alla nomination nel 2008 –fu l’ultimo a cedere le armi a John McCain-. Molti repubblicani lo considerano “l’uomo giusto”, un presidente predestinato; altri lo vivono come una mina vagante, un perdente predestinato.
Figlio d’arte –il padre, George W., fu governatore del Michigan, la madre Lenore provò a diventare senatore-, un trascorso da missionario in Francia, dopo gli studi si mise in affari con risultati brillanti. Si candidò a senatore nel 1994, ma scelse il collegio sbagliato, contro quel Ted Kennedy destinato a tenere il seggio fino alla sua morte, uno praticamente imbattibile. Poi si dedicò alle Olimpiadi invernali: dovevano essere un disastro finanziario e, invece, ne venne fuori un successo.
Nel 2002, fu eletto governatore del Massachussetts: un’impresa per un repubblicano, perché lo Stato di Boston ha una grossa tradizione democratica. Durante il mandato, realizzò una grossa riforma dell’assistenza sanitaria statale, cui s’è ispirato, nel 2010, Obama per varare la sua riforma nazionale.
Nel 2006, Romney non puntò a un secondo mandato. Pensava già alla nomination 2008 e, intanto, spostava la sua retorica su posizioni più conservatrici, così da non essere troppo percepito come un corpo estraneo all’anima più profonda –qualunquista, sudista, evangelica- del partito repubblicano.
Sconfitto nel 2008, Romney continuò a prepararsi alla Casa Bianca. In questa campagna, ha finora dimostrato tenuta e costanza: è praticamente sempre rimasto in testa ai sondaggi. E i repubblicani dell’establishment, quelli che hanno posto di lavoro a Washington e casa a Georgetown, o nei sobborghi borghesi, preferiscono correre il rischio di perdere con lui che di vincere con un ingombrante portabandiera del Tea Party o un eccentrico alfiere dell’anti-politica o del libertarismo.
L’esperienza della corsa alla nomination lo aiuta a evitare errori o ingenuità. Contro di lui, ci sono, però, il grigiore, l’uniformità, la monotonia: Mitt è spesso percepito come una persona noiosa, che manca di brillantezza. Non di brillantina, chè ne ha pieni i capelli.
Spigoli: Ue, brevetto, l'Italia strabica tra Mr B e il Professore
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/01/2012
Soffre di strabismo in Europa –e non solo-, l’Italia del dopo Mr B: un occhio è quello del Caimano, con il suo lascito impegni mancati e di posizioni avventurose; l’altro è quello del Professore, che guarda più lontano della prossima scadenza elettorale, quando che sia. Così, succede che l’Italia, per decisione di Berlusconi e del suo governo, resta fuori, insieme alla Spagna, dal brevetto unico europeo per una malposta questione di orgoglio linguistico, mentre gli altri Paesi vanno avanti con la formula delle cosiddette ‘cooperazioni rafforzate’, un cavallo di battaglia italiano. Ma l’Italia di Monti prova a metterci un piede dentro e, in attesa che la Corte di Giustizia europea di Lussemburgo esamini un ricorso nel merito, cerca di creare le condizioni per ottenere la sede del tribunale del brevetto. E Milano, fra le città italiane, è in pole position. A svelare l’iniziativa, è EurActiv.it, portale d’informazione europea nuovo di zecca: il 30 dicembre il ministro Moavero, che aveva già corretto la posizione sul brevetto, scrive al governo danese chiedendo la riapertura dei termini per la presentazione della candidatura alla sede del tribunale , dopo che un’ipotesi d’intesa è saltata a dicembre: francesi e tedeschi, sempre loro, non si sono messi d’accordo sulla sede dell’ufficio centrale del brevetto europeo, che attualmente sta a Monaco e che i tedeschi vorrebbero ci rimanesse –anche perché un brevetto europeo su tre è tedesco-. Così, profittando delle beghe altrui, l’Italia tenta di tornare in gioco. Attenti, però, a non esporci al dileggio come quelli che non stanno al gioco, ma vogliono arbitrare.
Soffre di strabismo in Europa –e non solo-, l’Italia del dopo Mr B: un occhio è quello del Caimano, con il suo lascito impegni mancati e di posizioni avventurose; l’altro è quello del Professore, che guarda più lontano della prossima scadenza elettorale, quando che sia. Così, succede che l’Italia, per decisione di Berlusconi e del suo governo, resta fuori, insieme alla Spagna, dal brevetto unico europeo per una malposta questione di orgoglio linguistico, mentre gli altri Paesi vanno avanti con la formula delle cosiddette ‘cooperazioni rafforzate’, un cavallo di battaglia italiano. Ma l’Italia di Monti prova a metterci un piede dentro e, in attesa che la Corte di Giustizia europea di Lussemburgo esamini un ricorso nel merito, cerca di creare le condizioni per ottenere la sede del tribunale del brevetto. E Milano, fra le città italiane, è in pole position. A svelare l’iniziativa, è EurActiv.it, portale d’informazione europea nuovo di zecca: il 30 dicembre il ministro Moavero, che aveva già corretto la posizione sul brevetto, scrive al governo danese chiedendo la riapertura dei termini per la presentazione della candidatura alla sede del tribunale , dopo che un’ipotesi d’intesa è saltata a dicembre: francesi e tedeschi, sempre loro, non si sono messi d’accordo sulla sede dell’ufficio centrale del brevetto europeo, che attualmente sta a Monaco e che i tedeschi vorrebbero ci rimanesse –anche perché un brevetto europeo su tre è tedesco-. Così, profittando delle beghe altrui, l’Italia tenta di tornare in gioco. Attenti, però, a non esporci al dileggio come quelli che non stanno al gioco, ma vogliono arbitrare.
domenica 8 gennaio 2012
Guantanamo: 10 anni d'abusi e una promessa mancata
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 08/01/2012
Una prigione “umana, ma non confortevole”: così il generale Mike Lehnert definiva, il 10 gennaio 2002, dieci anni or sono, la prigione allestita a Guantanamo, base americana all'estremità orientale di Cuba, per accogliere i prigionieri di guerra fatti in Afghanistan –talebani e membri di al Qaida- presi sotto custodia degli Stati Uniti. Citai le parole del generale in un dispaccio per l’ANSA, riferendo dichiarazioni alla Ap: Lehnert comandava una task force di 660 elementi incaricata
della costruzione di Campo Raggi X, circondato da torri di guardia e cinto da filo spinato.
Proprio quel giorno, cominciarono a giungervi dall’Afghanistan i detenuti, caricati su aerei cargo militari C-141 sulla base di Bagram, vicino a Kabul, o a Kandahar: allo sbarco, alcuni, di loro, tute arancioni, scarpe bianche, capelli rasati, incappucciati e con gli occhi bendati, mani legate, catene ai piedi, davano l'impressione di cercare di ribellarsi, ma erano chiaramente disorientati.
Il tono di quello e di altri dispacci, non solo miei e non solo dell’ANSA, fa chiaramente trasparire che i cronisti di quei giorni non capivano di essere testimoni dell’inizio di una delle vicende più contraddittorie e più degradanti della guerra al terrorismo: la detenzione, per anni, sommaria e illegale, di uomini e ragazzi, magari colpevoli d’atroci crimini e portatori di ideologie dell’odio, ma contro la stragrande maggioranza dei quali, individualmente, la giustizia americana e internazionale non sarebbe stata in grado di formulare una sola singola accusa giuridicamente fondata né d’individuare sedi di giudizio adeguate. Tribunali militari, commissioni speciali, corti di giustizia ordinarie: le Amministrazioni americane, quelle Bush prima, quella Obama poi, hanno oscillato di soluzione in soluzione, senza riuscire a trovarne una che soddisfacesse le ragioni della giustizia e del rispetto dei diritti dell’uomo.
Certo, il clima in cui l’idea della prigione di Guantanamo nacque era ancora quello degli attacchi all’America dell’11 Settembre 2011, appena quattro mesi prima: la guerra in Afghanistan era stata lanciata, il regime dei talebani a Kabul era stato rovesciato, sui campi di battaglia venivano catturati a bizzeffe “nemici combattenti” che custodire laggiù sarebbe stato rischioso. A Mazar-i-Sharif, un’insurrezione di prigionieri di guerra a fine novembre fece centinaia di vittime, fra cui l'agente della Cia Mike Spann, il primo americano caduto in Afghanistan. E i portavoce militari vantavano la massima sicurezza di Campo Raggi X, ma assicuravano che i detenuti sarebbero stati trattati nel rispetto della convenzione di Ginevra e che sarebbero stati loro garantiti contatti con la Croce rossa e con altre organizzazioni umanitarie non governative.
La storia della prigione di Guantanamo s’è poi intrecciata a tutte le forzature del diritto compiute nella guerra al terrorismo: la pratica delle ‘renditions’, la tolleranza della tortura, i trattamenti umilianti inflitti ai detenuti da secondini militari statunitensi –le foto del carcere di Abu Ghraib in Iraq fecero più danni alla credibilità dell’America di qualsiasi battaglia perduta-. La popolazione del Campo, che si pensava potesse toccare le 2.200 unità, non ha mai superato qualche centinaio di persone ed è ora scesa intorno alle 150 unità: detenuti liberati, o trasferiti nei Paesi di provenienza – anche l’Italia - o di cattura, o portati in prigioni continentali statunitensi; quelli giudicati si contano sulle dita di una mano.
La chiusura della prigione di Guantanamo era una promessa elettorale del presidente Obama: sarà una promessa mancata nel primo mandato. Tre anni non sono bastati a realizzarla, né l’obiettivo pare vicino: un po’ perché il mostro alimenta se stesso (quegli uomini non si sa perché siano detenuti, ma liberarli senza motivazione equivarrebbe ad ammettere di avere compiuto abusi); ed un po’ perché il partito della sicurezza, o della paura, resta forte negli Usa (del resto, molti degli ex di Guantanamo sono poi ricomparsi con ruoli chiavi nel terrorismo integralista mondiale; e uno, oggi, negozia per i talebani la ‘riconciliazione’ in Afghanistan).
Ma, ogni giorno che passa, la prigione di Guantanamo è una vittoria dei terroristi: mostra come l’Occidente sia pronto a rinunciare al rispetto dei propri principi di giustizia, equità, tolleranza, quando si tratta della propria sicurezza e dei diritti altrui. Presidente Obama, per piacere, chiudi quel carcere!
Una prigione “umana, ma non confortevole”: così il generale Mike Lehnert definiva, il 10 gennaio 2002, dieci anni or sono, la prigione allestita a Guantanamo, base americana all'estremità orientale di Cuba, per accogliere i prigionieri di guerra fatti in Afghanistan –talebani e membri di al Qaida- presi sotto custodia degli Stati Uniti. Citai le parole del generale in un dispaccio per l’ANSA, riferendo dichiarazioni alla Ap: Lehnert comandava una task force di 660 elementi incaricata
della costruzione di Campo Raggi X, circondato da torri di guardia e cinto da filo spinato.
Proprio quel giorno, cominciarono a giungervi dall’Afghanistan i detenuti, caricati su aerei cargo militari C-141 sulla base di Bagram, vicino a Kabul, o a Kandahar: allo sbarco, alcuni, di loro, tute arancioni, scarpe bianche, capelli rasati, incappucciati e con gli occhi bendati, mani legate, catene ai piedi, davano l'impressione di cercare di ribellarsi, ma erano chiaramente disorientati.
Il tono di quello e di altri dispacci, non solo miei e non solo dell’ANSA, fa chiaramente trasparire che i cronisti di quei giorni non capivano di essere testimoni dell’inizio di una delle vicende più contraddittorie e più degradanti della guerra al terrorismo: la detenzione, per anni, sommaria e illegale, di uomini e ragazzi, magari colpevoli d’atroci crimini e portatori di ideologie dell’odio, ma contro la stragrande maggioranza dei quali, individualmente, la giustizia americana e internazionale non sarebbe stata in grado di formulare una sola singola accusa giuridicamente fondata né d’individuare sedi di giudizio adeguate. Tribunali militari, commissioni speciali, corti di giustizia ordinarie: le Amministrazioni americane, quelle Bush prima, quella Obama poi, hanno oscillato di soluzione in soluzione, senza riuscire a trovarne una che soddisfacesse le ragioni della giustizia e del rispetto dei diritti dell’uomo.
Certo, il clima in cui l’idea della prigione di Guantanamo nacque era ancora quello degli attacchi all’America dell’11 Settembre 2011, appena quattro mesi prima: la guerra in Afghanistan era stata lanciata, il regime dei talebani a Kabul era stato rovesciato, sui campi di battaglia venivano catturati a bizzeffe “nemici combattenti” che custodire laggiù sarebbe stato rischioso. A Mazar-i-Sharif, un’insurrezione di prigionieri di guerra a fine novembre fece centinaia di vittime, fra cui l'agente della Cia Mike Spann, il primo americano caduto in Afghanistan. E i portavoce militari vantavano la massima sicurezza di Campo Raggi X, ma assicuravano che i detenuti sarebbero stati trattati nel rispetto della convenzione di Ginevra e che sarebbero stati loro garantiti contatti con la Croce rossa e con altre organizzazioni umanitarie non governative.
La storia della prigione di Guantanamo s’è poi intrecciata a tutte le forzature del diritto compiute nella guerra al terrorismo: la pratica delle ‘renditions’, la tolleranza della tortura, i trattamenti umilianti inflitti ai detenuti da secondini militari statunitensi –le foto del carcere di Abu Ghraib in Iraq fecero più danni alla credibilità dell’America di qualsiasi battaglia perduta-. La popolazione del Campo, che si pensava potesse toccare le 2.200 unità, non ha mai superato qualche centinaio di persone ed è ora scesa intorno alle 150 unità: detenuti liberati, o trasferiti nei Paesi di provenienza – anche l’Italia - o di cattura, o portati in prigioni continentali statunitensi; quelli giudicati si contano sulle dita di una mano.
La chiusura della prigione di Guantanamo era una promessa elettorale del presidente Obama: sarà una promessa mancata nel primo mandato. Tre anni non sono bastati a realizzarla, né l’obiettivo pare vicino: un po’ perché il mostro alimenta se stesso (quegli uomini non si sa perché siano detenuti, ma liberarli senza motivazione equivarrebbe ad ammettere di avere compiuto abusi); ed un po’ perché il partito della sicurezza, o della paura, resta forte negli Usa (del resto, molti degli ex di Guantanamo sono poi ricomparsi con ruoli chiavi nel terrorismo integralista mondiale; e uno, oggi, negozia per i talebani la ‘riconciliazione’ in Afghanistan).
Ma, ogni giorno che passa, la prigione di Guantanamo è una vittoria dei terroristi: mostra come l’Occidente sia pronto a rinunciare al rispetto dei propri principi di giustizia, equità, tolleranza, quando si tratta della propria sicurezza e dei diritti altrui. Presidente Obama, per piacere, chiudi quel carcere!
sabato 7 gennaio 2012
Usa: Navy Seals, eroismo, alienazione, smargiassate
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/02/2012
Fra i militari di ritorno dal fronte, i ‘rambo’ super-addestrati delle squadre speciali sono quelli che più soffrono di Ptsd, la sigla che in italiano sta per disturbo post-traumatico da stress: una ‘malattia’ già studiata dopo la Grande Guerra e la WW2, ma cui il Vietnam –a partire dall’intenso ‘Tornando a casa’ di Hal Ashby, con Jon Voight e Jane Fonda- e l’Iraq hanno conferito dignità letteraria e cinematografica. Garry B. Trudeau vi dedica alcune delle strisce più amare del suo Doonesbury.
I Navy Seals sono gli uomini delle squadre speciali della U.S. Navy: sono stati loro, il 1.o maggio 2011, a scovare e uccidere, nel suo covo di Abbottabad, in Pakistan, Osama bin Laden, il fondatore e il capo della rete terroristica al Qaida. Spesso eroi nelle cronache di guerra; e talora disadattati nelle cronache dopo il ritorno a casa: inclini alla violenza, in difficoltà nel ritrovare gli affetti
‘di prima’ e la vita ‘normale’.
Qualche volta, sono tragedie vere: famiglie in frantumi, comportamenti asociali, sparatorie. Altre, sono episodi minori: più smargiassate da capitan Fracassa, che fanno dubitare della qualità dell’addestramento, che drammi, anche se poi lo diventano. E’ il caso del militare di 22 anni rimasto anonimo che lotta contro la morte in un letto d’ospedale nei pressi di San Diego, dopo essersi ‘accidentalmente’ sparato alla testa con la sua pistola per fare colpo (letteralmente, ci è riuscito) su una ragazza appena conosciuta in un bar. I due avevano bevuto, lui decisamente troppo. Portatosi a casa la ragazza, il soldato non ha trovato di meglio che mostrarle le sue armi: lei, più lucida, s’è spaventata e gli ha chiesto di metterle via. E lui, per mostrarle che non c’era pericolo,
s’è puntato alla testa la pistola, che credeva scarica, e ha premuto il grilletto: il colpo era in canna ed è partito.
Pochi giorni or sono, i giornalisti americani avevano scelto l’uccisione di Osama come ‘top story’ del 2011, davanti al terremoto in Giappone, alla Primavera araba e alla crisi del debito in Europa (messa prima delle difficoltà economiche degli Stati Uniti). Ed è nel pieno la polemica su una fuga di notizie –presunta- gestita dalla Casa Bianca per alimentare con un film sul raid di Abbottabad l’immagine vincente del presidente Obama (la pellicola uscirà durante la campagna elettorale).
Gli uomini delle squadre speciali non sono solo protagonisti di storie cruente, come in agosto, quando 22 Navy Seals morirono nello schianto in Afghanistan di un elicottero Chinook, forse abbattuto dai talebani: molti facevano parte del Team 6, quello dell’azione contro Osama, anche se nessuno vi aveva preso parte. A volte sono coinvolti in storie strappalacrime: commosse l’America la foto di Hawkeye, occhio di falco, il cane di uno dei seals deceduti su quel Chinook, immobile e prostrato sulla bara del padrone avvolta nella bandiera a stelle e strisce. “Era lui il suo figliolo”, commentò una cugina del soldato morto, più a suo agio con gli animali che con le persone.
Fra i militari di ritorno dal fronte, i ‘rambo’ super-addestrati delle squadre speciali sono quelli che più soffrono di Ptsd, la sigla che in italiano sta per disturbo post-traumatico da stress: una ‘malattia’ già studiata dopo la Grande Guerra e la WW2, ma cui il Vietnam –a partire dall’intenso ‘Tornando a casa’ di Hal Ashby, con Jon Voight e Jane Fonda- e l’Iraq hanno conferito dignità letteraria e cinematografica. Garry B. Trudeau vi dedica alcune delle strisce più amare del suo Doonesbury.
I Navy Seals sono gli uomini delle squadre speciali della U.S. Navy: sono stati loro, il 1.o maggio 2011, a scovare e uccidere, nel suo covo di Abbottabad, in Pakistan, Osama bin Laden, il fondatore e il capo della rete terroristica al Qaida. Spesso eroi nelle cronache di guerra; e talora disadattati nelle cronache dopo il ritorno a casa: inclini alla violenza, in difficoltà nel ritrovare gli affetti
‘di prima’ e la vita ‘normale’.
Qualche volta, sono tragedie vere: famiglie in frantumi, comportamenti asociali, sparatorie. Altre, sono episodi minori: più smargiassate da capitan Fracassa, che fanno dubitare della qualità dell’addestramento, che drammi, anche se poi lo diventano. E’ il caso del militare di 22 anni rimasto anonimo che lotta contro la morte in un letto d’ospedale nei pressi di San Diego, dopo essersi ‘accidentalmente’ sparato alla testa con la sua pistola per fare colpo (letteralmente, ci è riuscito) su una ragazza appena conosciuta in un bar. I due avevano bevuto, lui decisamente troppo. Portatosi a casa la ragazza, il soldato non ha trovato di meglio che mostrarle le sue armi: lei, più lucida, s’è spaventata e gli ha chiesto di metterle via. E lui, per mostrarle che non c’era pericolo,
s’è puntato alla testa la pistola, che credeva scarica, e ha premuto il grilletto: il colpo era in canna ed è partito.
Pochi giorni or sono, i giornalisti americani avevano scelto l’uccisione di Osama come ‘top story’ del 2011, davanti al terremoto in Giappone, alla Primavera araba e alla crisi del debito in Europa (messa prima delle difficoltà economiche degli Stati Uniti). Ed è nel pieno la polemica su una fuga di notizie –presunta- gestita dalla Casa Bianca per alimentare con un film sul raid di Abbottabad l’immagine vincente del presidente Obama (la pellicola uscirà durante la campagna elettorale).
Gli uomini delle squadre speciali non sono solo protagonisti di storie cruente, come in agosto, quando 22 Navy Seals morirono nello schianto in Afghanistan di un elicottero Chinook, forse abbattuto dai talebani: molti facevano parte del Team 6, quello dell’azione contro Osama, anche se nessuno vi aveva preso parte. A volte sono coinvolti in storie strappalacrime: commosse l’America la foto di Hawkeye, occhio di falco, il cane di uno dei seals deceduti su quel Chinook, immobile e prostrato sulla bara del padrone avvolta nella bandiera a stelle e strisce. “Era lui il suo figliolo”, commentò una cugina del soldato morto, più a suo agio con gli animali che con le persone.
giovedì 5 gennaio 2012
Usa 2012: Iowa, vince Romney su Santorum, anzi no Obama
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/01/2012
Ha vinto Romney. Anzi, no, ha vinto Obama. Nelle assemblee dello Iowa che, martedì notte, hanno aperto la stagione delle primarie per scegliere i candidati dei maggiori partiti alla elezioni presidenziali del 6 novembre negli Stati Uniti, Barack Obama, che non ha avversari per la ‘nomination’ democratica, ha mobilitato 75mila elettori e ha arruolato 7500 volontari come militanti per la sua campagna. Una conferma del recupero di popolarità in atto da parte del presidente, cui un sondaggio Gallup attribuisce un indice di gradimento in risalita al 45%, dopo essere sceso nei mesi scorsi sul fondo dei trenta.
Per i repubblicani, dove la corsa alla nomination è aperta e incerta, sono andati a votare poco più di 120 mila elettori, E Mitt Romney, ex governatore del Massachussetts, imprenditore, mormone, s’è imposto per otto voti, 30.015 a 30.007, su Rick Santorum, ex senatore della Pennsylvania, avvocato, cattolico (e integralista). Ma se otto voti (nello Iowa) vi paiono pochi, vi sbagliate: li avesse avuti di vantaggio Santorum su Romney, sarebbero stati (quasi) insignificanti; ma li ha Romney su Santorum e, allora, pesano un sacco, perché significano che l’uomo che fin dall’inizio è stato il battistrada, ma che si porta dietro una patina da perdente, sa vincere anche in trasferta, su un terreno a lui sfavorevole.
Romney, infatti, non solo ha tenuto, ma s’è imposto nel primo test che contava, i caucuses di questo Stato del MidWest rurale e tendenzialmente conservatore, dove religione e ‘valori’, come li intendono gli americani, cioè sì alla vita e no all’aborto, contano. Dietro a lui, l’ex senatore della Pennsylvania, un italo-americano con sette figli, e poi Ron Paul, ex deputato del Texas, un ‘libertario’ che qui sperava di fare meglio, ma che ha la stamina per arrivare fino in fondo, come mostrò già quattro anni or sono, tenendo botta a John McCain e allo stesso Romney fino agli ultimi round.
I suffragi repubblicani si sono un po’ dispersi fra i sette in lizza: Romney il 24,6%, Santorum il 24,5%, Paul il 21,4%. Indietro Newt Gingrich, uno zombie politico degli Anni Novanta, poco più del 13%; Rick Perry, governatore del Texas, poco più del 10%; Michele Bachmann, deputata del Minnesota, icona del Tea Party, che qui aveva vinto un test di prova l’estate scorsa, poco più del 5%. L’altro mormone Jon Huntsman, ex ambasciatore in Cina, che nello Iowa s’è visto poco, ha raccolto 745 voti, manco l’1%. Il miliardario nero Herman Cain s’era fatto da parte dopo le accuse di molestie sessuali di sue ex dipendenti, ma ha preso lo stesso 56 voti.
Perry e la Bachmann stanno già tirando la lezione dalla batosta. Perry va a meditare nel suo Texas, ma manda un tweet di speranza ai suoi sostenitori, annunciando “Eccoci South Carolina” e lasciando quindi intendere che la corsa continua verso le prossime tappe, il New Hampshire, martedì prossimo, 10 gennaio e, appunto, la South Carolina, il 21 gennaio. La Bachmann, invece, sospende la campagna e annulla il viaggio in South Carolina: la sua corsa finisce qui, lacrime e delusione.
Partita a tre, scrive il New York Times e un po’ tutta la stampa americana. E forse partita già vinta per Romney. Ma il personaggio del giorno è Santorum, se non altro perché nessuno, prima di Natale, lo prendeva in considerazione. E, poi, ogni voto dello Iowa è costato a Romney 113 dollari, a Santorum neppure due.
L’ex governatore del Massachussetts, già organizzatore dei Giochi d’Inverno del 2002 a Salt Lake City, non ha finora sbagliato una mossa, ma non ne neppure fatto una vincente –gli è bastato assistere allo ‘squagliarsi’ dei suoi avversari l’uno dopo l’altro-. Santorum, molto vicino all’Amministrazione di George W. Bush, è sostenuto con riluttanza dalla destra religiosa evangelica, che, strada facendo, ha man mano bruciato i paladini suoi e del Tea Party. Paul, dei tre, è quello che ha la storia politica più densa, ma anche più stramba: da presidente, promette d’introdurre la ‘flat tax’, tassa unica con aliquota uguale per tutti, di abolire la Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, e di richiamare in patria tutte le truppe Usa nel Mondo.
Le primarie nel New Hampshire proporranno un contesto politico e sociale totalmente diverso: siamo nel New England, la regione più liberal e più europea degli Stati Uniti. Romney, lì, è favorito –e incassa l’appoggio di McCain, che lo battè nel 2008-; Santorum dovrebbe, invece, essere in difficoltà, nonostante gli slogan ‘obamiani ‘tipo ‘We can win’, possiamo vincere; Paul, che ha dalla sua gli ‘under 30’, dovrebbe tenere bene, perché qui le sue idee libertarie attecchiscono –‘Live Free or Die’, vivere libero o morire, è il motto dello Stato-; Gingrich potrebbe tornare a galleggiare; Huntsman misurare il suo (scarso) peso reale.
Intanto, Obama, appena tornato a Washington dalle vacanze alle Hawaii, lancia un messaggio video in cui mostra capelli improvvisamente bianchi: si era già notato il suo ‘sale e pepe’,, ma qui appare quasi un vecchio. Segno che il potere forse non logora, ma incanutisce. Il tono, però, è battagliero e galvanizzante: chiede altri quattro anni per cambiare l’America. Nei primi quattro, a dire il vero, ci ha provato poco.
Ha vinto Romney. Anzi, no, ha vinto Obama. Nelle assemblee dello Iowa che, martedì notte, hanno aperto la stagione delle primarie per scegliere i candidati dei maggiori partiti alla elezioni presidenziali del 6 novembre negli Stati Uniti, Barack Obama, che non ha avversari per la ‘nomination’ democratica, ha mobilitato 75mila elettori e ha arruolato 7500 volontari come militanti per la sua campagna. Una conferma del recupero di popolarità in atto da parte del presidente, cui un sondaggio Gallup attribuisce un indice di gradimento in risalita al 45%, dopo essere sceso nei mesi scorsi sul fondo dei trenta.
Per i repubblicani, dove la corsa alla nomination è aperta e incerta, sono andati a votare poco più di 120 mila elettori, E Mitt Romney, ex governatore del Massachussetts, imprenditore, mormone, s’è imposto per otto voti, 30.015 a 30.007, su Rick Santorum, ex senatore della Pennsylvania, avvocato, cattolico (e integralista). Ma se otto voti (nello Iowa) vi paiono pochi, vi sbagliate: li avesse avuti di vantaggio Santorum su Romney, sarebbero stati (quasi) insignificanti; ma li ha Romney su Santorum e, allora, pesano un sacco, perché significano che l’uomo che fin dall’inizio è stato il battistrada, ma che si porta dietro una patina da perdente, sa vincere anche in trasferta, su un terreno a lui sfavorevole.
Romney, infatti, non solo ha tenuto, ma s’è imposto nel primo test che contava, i caucuses di questo Stato del MidWest rurale e tendenzialmente conservatore, dove religione e ‘valori’, come li intendono gli americani, cioè sì alla vita e no all’aborto, contano. Dietro a lui, l’ex senatore della Pennsylvania, un italo-americano con sette figli, e poi Ron Paul, ex deputato del Texas, un ‘libertario’ che qui sperava di fare meglio, ma che ha la stamina per arrivare fino in fondo, come mostrò già quattro anni or sono, tenendo botta a John McCain e allo stesso Romney fino agli ultimi round.
I suffragi repubblicani si sono un po’ dispersi fra i sette in lizza: Romney il 24,6%, Santorum il 24,5%, Paul il 21,4%. Indietro Newt Gingrich, uno zombie politico degli Anni Novanta, poco più del 13%; Rick Perry, governatore del Texas, poco più del 10%; Michele Bachmann, deputata del Minnesota, icona del Tea Party, che qui aveva vinto un test di prova l’estate scorsa, poco più del 5%. L’altro mormone Jon Huntsman, ex ambasciatore in Cina, che nello Iowa s’è visto poco, ha raccolto 745 voti, manco l’1%. Il miliardario nero Herman Cain s’era fatto da parte dopo le accuse di molestie sessuali di sue ex dipendenti, ma ha preso lo stesso 56 voti.
Perry e la Bachmann stanno già tirando la lezione dalla batosta. Perry va a meditare nel suo Texas, ma manda un tweet di speranza ai suoi sostenitori, annunciando “Eccoci South Carolina” e lasciando quindi intendere che la corsa continua verso le prossime tappe, il New Hampshire, martedì prossimo, 10 gennaio e, appunto, la South Carolina, il 21 gennaio. La Bachmann, invece, sospende la campagna e annulla il viaggio in South Carolina: la sua corsa finisce qui, lacrime e delusione.
Partita a tre, scrive il New York Times e un po’ tutta la stampa americana. E forse partita già vinta per Romney. Ma il personaggio del giorno è Santorum, se non altro perché nessuno, prima di Natale, lo prendeva in considerazione. E, poi, ogni voto dello Iowa è costato a Romney 113 dollari, a Santorum neppure due.
L’ex governatore del Massachussetts, già organizzatore dei Giochi d’Inverno del 2002 a Salt Lake City, non ha finora sbagliato una mossa, ma non ne neppure fatto una vincente –gli è bastato assistere allo ‘squagliarsi’ dei suoi avversari l’uno dopo l’altro-. Santorum, molto vicino all’Amministrazione di George W. Bush, è sostenuto con riluttanza dalla destra religiosa evangelica, che, strada facendo, ha man mano bruciato i paladini suoi e del Tea Party. Paul, dei tre, è quello che ha la storia politica più densa, ma anche più stramba: da presidente, promette d’introdurre la ‘flat tax’, tassa unica con aliquota uguale per tutti, di abolire la Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, e di richiamare in patria tutte le truppe Usa nel Mondo.
Le primarie nel New Hampshire proporranno un contesto politico e sociale totalmente diverso: siamo nel New England, la regione più liberal e più europea degli Stati Uniti. Romney, lì, è favorito –e incassa l’appoggio di McCain, che lo battè nel 2008-; Santorum dovrebbe, invece, essere in difficoltà, nonostante gli slogan ‘obamiani ‘tipo ‘We can win’, possiamo vincere; Paul, che ha dalla sua gli ‘under 30’, dovrebbe tenere bene, perché qui le sue idee libertarie attecchiscono –‘Live Free or Die’, vivere libero o morire, è il motto dello Stato-; Gingrich potrebbe tornare a galleggiare; Huntsman misurare il suo (scarso) peso reale.
Intanto, Obama, appena tornato a Washington dalle vacanze alle Hawaii, lancia un messaggio video in cui mostra capelli improvvisamente bianchi: si era già notato il suo ‘sale e pepe’,, ma qui appare quasi un vecchio. Segno che il potere forse non logora, ma incanutisce. Il tono, però, è battagliero e galvanizzante: chiede altri quattro anni per cambiare l’America. Nei primi quattro, a dire il vero, ci ha provato poco.
mercoledì 4 gennaio 2012
Usa 2012: Iowa, se otto voti vi sembrano pochi...
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 04/01/2012
Se otto voti (nello Iowa) vi sembrano pochi, vi sbagliate. Certo, li avesse avuti di vantaggio Rick Santorum su Mitt Romney, sarebbero stati insignificanti. Ma li ha Romney su Santorum e, allora, pesano un sacco: significano che l’ex governatore del Massachussetts, mormone, fin dall’inizio battistrada nella corsa alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, sa vincere anche sul terreno a lui più sfavorevole.
Romney, infatti, non solo ha tenuto, ma s’è imposto nel primo test che contava, i caucuses, cioè le assemblee, di questo Stato del MidWest rurale e tendenzialmente conservatore, dove religione e ‘valori’, come li intendono gli americani, contano. Dietro a lui, sia pure di otto voti soltanto, Santorum, ex senatore della Pennsylvania, e poi Ron Paul, un ‘libertario’ che qui sperava di fare meglio (ma che ha la stamina per arrivare fino in fondo).
In tutto, i voti espressi sono stati circa 120mila. Romney ne ha avuti 30015, Santorum 30007 (entrambi, un po’ più del 24,5%); Paul 26.219 (il 21,4%). Santorum, cattolico, conservatore, è sostenuto dalla destra evangelica, che, strada facendo, ha man mano bruciato i paladini suoi e del Tea Party.
Michele Bachman, deputata del Minnesota, ha preso poco più del 5%, Rick Perry, governatore del Texas, poco più del 10%. Newt Gingrich, uno zombie politico degli Anni Novanta, poco più del 13% (e potrebbe comunque sopravvivere). Il miliardario nero pizzaiolo Herman Cain s’era fatto da parte da solo affondato dalle accuse di molestie sessuali di sue ex dipendenti.
Martedì prossimo, il 10, le primarie nel New Hampshire saranno in un contesto politico e sociale totalmente diverso: New England, la regione più liberal e più europea degli Stati Uniti. Romney, lì, è favorito; Santorum dovrebbe, invece, essere in difficoltà. La Bachman e Perry potrebbero anche non arrivarci, così come l’altro mormone Jon Huntsman, che nello Iowa non è arrivato all’1%. Partita a tre, scrive il New York Times e tutta la stampa americana. O, forse, partita già vinta per Romney.
Se otto voti (nello Iowa) vi sembrano pochi, vi sbagliate. Certo, li avesse avuti di vantaggio Rick Santorum su Mitt Romney, sarebbero stati insignificanti. Ma li ha Romney su Santorum e, allora, pesano un sacco: significano che l’ex governatore del Massachussetts, mormone, fin dall’inizio battistrada nella corsa alla nomination repubblicana alla Casa Bianca, sa vincere anche sul terreno a lui più sfavorevole.
Romney, infatti, non solo ha tenuto, ma s’è imposto nel primo test che contava, i caucuses, cioè le assemblee, di questo Stato del MidWest rurale e tendenzialmente conservatore, dove religione e ‘valori’, come li intendono gli americani, contano. Dietro a lui, sia pure di otto voti soltanto, Santorum, ex senatore della Pennsylvania, e poi Ron Paul, un ‘libertario’ che qui sperava di fare meglio (ma che ha la stamina per arrivare fino in fondo).
In tutto, i voti espressi sono stati circa 120mila. Romney ne ha avuti 30015, Santorum 30007 (entrambi, un po’ più del 24,5%); Paul 26.219 (il 21,4%). Santorum, cattolico, conservatore, è sostenuto dalla destra evangelica, che, strada facendo, ha man mano bruciato i paladini suoi e del Tea Party.
Michele Bachman, deputata del Minnesota, ha preso poco più del 5%, Rick Perry, governatore del Texas, poco più del 10%. Newt Gingrich, uno zombie politico degli Anni Novanta, poco più del 13% (e potrebbe comunque sopravvivere). Il miliardario nero pizzaiolo Herman Cain s’era fatto da parte da solo affondato dalle accuse di molestie sessuali di sue ex dipendenti.
Martedì prossimo, il 10, le primarie nel New Hampshire saranno in un contesto politico e sociale totalmente diverso: New England, la regione più liberal e più europea degli Stati Uniti. Romney, lì, è favorito; Santorum dovrebbe, invece, essere in difficoltà. La Bachman e Perry potrebbero anche non arrivarci, così come l’altro mormone Jon Huntsman, che nello Iowa non è arrivato all’1%. Partita a tre, scrive il New York Times e tutta la stampa americana. O, forse, partita già vinta per Romney.
martedì 3 gennaio 2012
Iran: rombi di guerra nel Golfo, i 'buoni' e i 'cattivi'
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/01/2012
IRAN 1 – I ‘guerrafondai’
Un vero e proprio ‘partito della guerra tra l’Iran e l’Occidente’ non esiste; o, almeno, non dovrebbe esistere, fatte salve frange di estremisti integralisti in Iran e, magari, pure in Israele, dove la fazione dell’attacco preventivo non è mai morta –e forse ha già colpito, con i sabotaggi in impianti nucleari iraniani-. Ma un ‘partito del rialzo della tensione’ c’è di sicuro, in Iran, in Israele e negli Stati Uniti.
Ad animarlo, interessi diversi. In Iran, dove il regime è traversato da contrasti interni, fra i fautori della linea dura del presidente Ahmadinejad e i partigiani del dialogo con i moderati, l’innalzamento del livello del confronto consente al potere di compattare il sostegno dell’opinione pubblica, chiamata a parare un attacco che viene dall’esterno.
In Israele, dove la minaccia di un Iran dotato dell’arma nucleare è percepita con più forza, ed è forse esagerata, c’è chi pensa che il manifestarsi d’un potenziale focolaio di tensione e di conflitto ri-concentri l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla pericolosità della regione. In tale ottica i progressi verso la democrazia dei Paesi protagonisti della Primavera araba portano una percezione, falsa e pericolosa, di maggiore sicurezza, mentre, invece, almeno nell’analisi israeliana, ma non solo, le incertezze della situazione in Egitto, il mix di proteste e di repressione in Siria –ormai vicina alla guerra civile- e le ingerenze iraniane in tutta la Regione, oltre alle divisioni palestinesi, accrescono l’instabilità del Medio Oriente e non la diminuiscono di sicuro.
Negli Stati Uniti, infine, in un anno elettorale, la Casa Bianca può avere interesse, per motivi sostanzialmente analoghi a quelli del regime iraniano, a fare crescere la percezione di una minaccia esterna, militare o terroristica, perché ciò suscita sentimenti di solidarietà nazionale e fa scattare il riflesso a stringersi intorno al presidente, aumentandone, quindi, le possibilità di conferma per un secondo mandato. Ma, nonostante le scontate dichiarazioni che ‘tutte le opzioni sono aperte’ e che ‘il ricorso alla forza non è escluso’, Barack Obama e la sua Amministrazione non hanno intenzione di arrivare fino a quel punto.
IRAN 2 – I ‘pacifisti’
A parole, tutti vogliono un abbassamento della tensione tra l’Iran e l’Occidente, usando a sostegno concetti nobili come la pace e il dialogo fra i popoli (ma avendo magari in mente libertà degli affari e la sicurezza energetica). Nei fatti, i più interessati a che la situazione resti sotto controllo e, anzi, si raffreddi sono i Paesi europei, specie quelli come la Francia, la Germania e anche l’Italia, che fanno affari con l’Iran e ne comprano energia. E, poi, ci sono Russia e Cina: Mosca è il ‘grande protettore’ dei programmi nucleari civili iraniani, Pechino è ostile ad ogni eco di egemonia internazionale degli Stati Uniti. E il ‘partito della pace’ annovera nelle sue fila i Paesi arabi del Medio Oriente preoccupati dell’impatto d’un conflitto nella Regione.
Gli europei sono, però, tra l’incudine e il martello: da una parte, non vogliono rompere con l’Iran e neppure giungere a un confronto nel Golfo che ne rallenti, se non addirittura interrompa, il flusso energetico e commerciale; dall’altra, non vogliono prendere le distanze dagli Stati Uniti e sono partecipi del rischio d’instabilità che un Iran dotato della ‘bomba’ costituirebbe, non solo per il Medio Oriente. Ecco, allora, Bruxelles percorrere, insieme a Washington, ma in contrasto con Russia e Cina, la via dell’inasprimento delle sanzioni per via europea o bilaterale, visto che all’Onu russi e cinesi hanno il potere di bloccare le misure. Con contraccolpi economici e finanziari immediati, vista la caduta del rial nelle ultime ore.
Infine, al partito della pace s’iscrivono, almeno per il momento, anche i più bellicosi e guerrafondai dei candidati alla nomination repubblicana alla Casa Bianca: la loro non è una scelta di principio, ma di comodo. Tranne i due mormoni Romney, un politico d’esperienza preparato a 360 gradi, e Huntsman, un ex ambasciatore in Cina che sulla politica estera è a suo agio, gli altri sono dilettanti in materia e hanno già dato prova della loro ignoranza negli affari internazionali: c’è chi non sa dove stia la Libia e chi non sa che gli Stati Uniti hanno partecipato al conflitto libico. Meglio che il tema resti fuori dalla campagna elettorale, così da non rischiare gaffes letali. Al momento buono, se ci sarà da menar le mani, loro saranno pronti; o, meglio, sarebbero, perché gli elettori americani alla Casa Bianca non ce li manderanno.
IRAN 1 – I ‘guerrafondai’
Un vero e proprio ‘partito della guerra tra l’Iran e l’Occidente’ non esiste; o, almeno, non dovrebbe esistere, fatte salve frange di estremisti integralisti in Iran e, magari, pure in Israele, dove la fazione dell’attacco preventivo non è mai morta –e forse ha già colpito, con i sabotaggi in impianti nucleari iraniani-. Ma un ‘partito del rialzo della tensione’ c’è di sicuro, in Iran, in Israele e negli Stati Uniti.
Ad animarlo, interessi diversi. In Iran, dove il regime è traversato da contrasti interni, fra i fautori della linea dura del presidente Ahmadinejad e i partigiani del dialogo con i moderati, l’innalzamento del livello del confronto consente al potere di compattare il sostegno dell’opinione pubblica, chiamata a parare un attacco che viene dall’esterno.
In Israele, dove la minaccia di un Iran dotato dell’arma nucleare è percepita con più forza, ed è forse esagerata, c’è chi pensa che il manifestarsi d’un potenziale focolaio di tensione e di conflitto ri-concentri l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla pericolosità della regione. In tale ottica i progressi verso la democrazia dei Paesi protagonisti della Primavera araba portano una percezione, falsa e pericolosa, di maggiore sicurezza, mentre, invece, almeno nell’analisi israeliana, ma non solo, le incertezze della situazione in Egitto, il mix di proteste e di repressione in Siria –ormai vicina alla guerra civile- e le ingerenze iraniane in tutta la Regione, oltre alle divisioni palestinesi, accrescono l’instabilità del Medio Oriente e non la diminuiscono di sicuro.
Negli Stati Uniti, infine, in un anno elettorale, la Casa Bianca può avere interesse, per motivi sostanzialmente analoghi a quelli del regime iraniano, a fare crescere la percezione di una minaccia esterna, militare o terroristica, perché ciò suscita sentimenti di solidarietà nazionale e fa scattare il riflesso a stringersi intorno al presidente, aumentandone, quindi, le possibilità di conferma per un secondo mandato. Ma, nonostante le scontate dichiarazioni che ‘tutte le opzioni sono aperte’ e che ‘il ricorso alla forza non è escluso’, Barack Obama e la sua Amministrazione non hanno intenzione di arrivare fino a quel punto.
IRAN 2 – I ‘pacifisti’
A parole, tutti vogliono un abbassamento della tensione tra l’Iran e l’Occidente, usando a sostegno concetti nobili come la pace e il dialogo fra i popoli (ma avendo magari in mente libertà degli affari e la sicurezza energetica). Nei fatti, i più interessati a che la situazione resti sotto controllo e, anzi, si raffreddi sono i Paesi europei, specie quelli come la Francia, la Germania e anche l’Italia, che fanno affari con l’Iran e ne comprano energia. E, poi, ci sono Russia e Cina: Mosca è il ‘grande protettore’ dei programmi nucleari civili iraniani, Pechino è ostile ad ogni eco di egemonia internazionale degli Stati Uniti. E il ‘partito della pace’ annovera nelle sue fila i Paesi arabi del Medio Oriente preoccupati dell’impatto d’un conflitto nella Regione.
Gli europei sono, però, tra l’incudine e il martello: da una parte, non vogliono rompere con l’Iran e neppure giungere a un confronto nel Golfo che ne rallenti, se non addirittura interrompa, il flusso energetico e commerciale; dall’altra, non vogliono prendere le distanze dagli Stati Uniti e sono partecipi del rischio d’instabilità che un Iran dotato della ‘bomba’ costituirebbe, non solo per il Medio Oriente. Ecco, allora, Bruxelles percorrere, insieme a Washington, ma in contrasto con Russia e Cina, la via dell’inasprimento delle sanzioni per via europea o bilaterale, visto che all’Onu russi e cinesi hanno il potere di bloccare le misure. Con contraccolpi economici e finanziari immediati, vista la caduta del rial nelle ultime ore.
Infine, al partito della pace s’iscrivono, almeno per il momento, anche i più bellicosi e guerrafondai dei candidati alla nomination repubblicana alla Casa Bianca: la loro non è una scelta di principio, ma di comodo. Tranne i due mormoni Romney, un politico d’esperienza preparato a 360 gradi, e Huntsman, un ex ambasciatore in Cina che sulla politica estera è a suo agio, gli altri sono dilettanti in materia e hanno già dato prova della loro ignoranza negli affari internazionali: c’è chi non sa dove stia la Libia e chi non sa che gli Stati Uniti hanno partecipato al conflitto libico. Meglio che il tema resti fuori dalla campagna elettorale, così da non rischiare gaffes letali. Al momento buono, se ci sarà da menar le mani, loro saranno pronti; o, meglio, sarebbero, perché gli elettori americani alla Casa Bianca non ce li manderanno.
lunedì 2 gennaio 2012
USA 2012: Iowa, da una Rieti d'America alla Casa Bianca
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 02/01/2012
Usa 2012, si comincia a fare sul serio. Beh, insomma, non esageriamo: domani, è come se ci fossero le primarie in provincia di Rieti per scegliere il candidato premier d’un partito italiano alle prossime elezioni politiche. Uno penserebbe: “Rieti?; e chi se ne importa”, un trafiletto nella pagine della politica e può bastare. Perché lo Iowa, lo stato rurale del MidWest che apre, domani, la selezione del candidato repubblicano alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, sta all’Unione un po’ come la provincia di Rieti sta all’Italia: capitale Des Moines, due senatori –come tutti gli Stati USA-, quattro deputati, sei grandi elettori (su 538); e non è neppure al centro del paese, come, invece, Rieti.
Il rito dei ‘caucuses’, assemblee dal nome indiano e dai meccanismi complicati e differenziati, tradizionale avvio della corsa alla ‘nomination’, stavolta solo repubblicana – i democratici il loro candidato l’hanno già, il presidente uscente Barack Obama -, ha, invece, ogni quattro anni, un eccezionale impatto mediatico internazionale. Non perché gli elettori dello Iowa ci azzecchino sovente e scelgano il futuro vincitore –anzi, spesso non accade-, ma perché i più sonoramente bocciati nello Iowa si fanno da parte, evitando di spendere altri soldi in una gara persa: il gruppo si sfoltisce e solo i più forti restano in lizza.
Così, potrà accadere che, nella notte italiana tra martedì e mercoledì, uno o più degli aspiranti alla nomination repubblicana –sette più uno, Herman Cain, che s’è messo in panchina da solo, prima che ce lo mettesse l’opinione pubblica, per le accuse di violenza sessuale mossegli da sue ex dipendenti- decidano di ritirarsi.
I repubblicani non hanno ancora espresso un chiaro favorito per la nomination 2012. Il candidato più costante nelle posizioni di testa dei sondaggi è Mitt Romney, che però non ha, o non ha ancora, una credibilità presidenziale, mentre gli altri suscitano fiammate d’entusiasmo quando scendono in campo –volta a volta, Michele Bachmann, Richard Perry, lo stesso Cain, da ultimo Newt Gingrich-, ma poi, nel giro di qualche settimana, mostrano crepe e debolezze che li fanno calare nella considerazione degli elettori.
Lo Iowa s’addice all’ex senatore ‘libertario’ Ron Paul e all’integralista cattolico Rick Santorum, che era finora stato sempre in coda al gruppo e che è invece emerso negli ultimi giorni. Non è, invece, adatto a Jon Huntsman, mormone come Romney, ex ambasciatore degli Usa in Cina, e, sulla carta, neppure a Romney, troppo intellettuale per chi vive da quelle parti.
Così come si presentano le cose oggi, il campo repubblicano appare più indebolito che rafforzato dall’emergere del Tea Party e sembra destinato alla sconfitta, se la crisi economica non porterà al disastro l’America e Obama. Il Tea Party non è così forte da imporre un proprio presidente alla Casa Bianca, neppure se alleato con l’informale ma fortissimo ‘partito evangelico’, ma può condizionare la scelta del candidato repubblicano; e un candidato troppo conservatore e troppo qualunquista faticherebbe a motivare l’elettorato di centro, pur deluso da Obama. E proprio l’incertezza dei repubblicani, che, l’uno dopo l’altro, paiono ‘divorare’ i loro potenziali favoriti costituisce un vantaggio per Obama.
Usa 2012, si comincia a fare sul serio. Beh, insomma, non esageriamo: domani, è come se ci fossero le primarie in provincia di Rieti per scegliere il candidato premier d’un partito italiano alle prossime elezioni politiche. Uno penserebbe: “Rieti?; e chi se ne importa”, un trafiletto nella pagine della politica e può bastare. Perché lo Iowa, lo stato rurale del MidWest che apre, domani, la selezione del candidato repubblicano alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, sta all’Unione un po’ come la provincia di Rieti sta all’Italia: capitale Des Moines, due senatori –come tutti gli Stati USA-, quattro deputati, sei grandi elettori (su 538); e non è neppure al centro del paese, come, invece, Rieti.
Il rito dei ‘caucuses’, assemblee dal nome indiano e dai meccanismi complicati e differenziati, tradizionale avvio della corsa alla ‘nomination’, stavolta solo repubblicana – i democratici il loro candidato l’hanno già, il presidente uscente Barack Obama -, ha, invece, ogni quattro anni, un eccezionale impatto mediatico internazionale. Non perché gli elettori dello Iowa ci azzecchino sovente e scelgano il futuro vincitore –anzi, spesso non accade-, ma perché i più sonoramente bocciati nello Iowa si fanno da parte, evitando di spendere altri soldi in una gara persa: il gruppo si sfoltisce e solo i più forti restano in lizza.
Così, potrà accadere che, nella notte italiana tra martedì e mercoledì, uno o più degli aspiranti alla nomination repubblicana –sette più uno, Herman Cain, che s’è messo in panchina da solo, prima che ce lo mettesse l’opinione pubblica, per le accuse di violenza sessuale mossegli da sue ex dipendenti- decidano di ritirarsi.
I repubblicani non hanno ancora espresso un chiaro favorito per la nomination 2012. Il candidato più costante nelle posizioni di testa dei sondaggi è Mitt Romney, che però non ha, o non ha ancora, una credibilità presidenziale, mentre gli altri suscitano fiammate d’entusiasmo quando scendono in campo –volta a volta, Michele Bachmann, Richard Perry, lo stesso Cain, da ultimo Newt Gingrich-, ma poi, nel giro di qualche settimana, mostrano crepe e debolezze che li fanno calare nella considerazione degli elettori.
Lo Iowa s’addice all’ex senatore ‘libertario’ Ron Paul e all’integralista cattolico Rick Santorum, che era finora stato sempre in coda al gruppo e che è invece emerso negli ultimi giorni. Non è, invece, adatto a Jon Huntsman, mormone come Romney, ex ambasciatore degli Usa in Cina, e, sulla carta, neppure a Romney, troppo intellettuale per chi vive da quelle parti.
Così come si presentano le cose oggi, il campo repubblicano appare più indebolito che rafforzato dall’emergere del Tea Party e sembra destinato alla sconfitta, se la crisi economica non porterà al disastro l’America e Obama. Il Tea Party non è così forte da imporre un proprio presidente alla Casa Bianca, neppure se alleato con l’informale ma fortissimo ‘partito evangelico’, ma può condizionare la scelta del candidato repubblicano; e un candidato troppo conservatore e troppo qualunquista faticherebbe a motivare l’elettorato di centro, pur deluso da Obama. E proprio l’incertezza dei repubblicani, che, l’uno dopo l’altro, paiono ‘divorare’ i loro potenziali favoriti costituisce un vantaggio per Obama.
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