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sabato 15 ottobre 2011

Italia-Usa: amb. Salleo, senza hard e pure senza soft power

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/10/2011

“Chi ha le idee migliori vince: la lezione di Steve Jobs vale anche nella politica internazionale”. E chi non ne ha resta al palo. Ferdinando Salleo, uno dei diplomatici italiani dalla carriera più densa di posti eccellenti, ambasciatore al momento del passaggio dall’Urss alla Russia e negli Stati Uniti e segretario generale della Farnesina, affronta così il tema del calo di influenza dell’Italia nel Mondo.

“In politica internazionale il peso di ciascun Paese dipende da due fattori: l’hard power, che è dato dalla potenza militare, la forza economica, la capacità di intervenire in situazioni d’emergenza; e il soft power, che è la capacità di proiettare verso gli altri l’immagine di una società giusta, ordinata, prospera, desiderabile. In un Mondo dominato dai media elettronici, oggi si percepiscono ovunque le immagini che una società genera”. E se proietta immagini negative, come accade oggi, in questo crepuscolo berlusconiano, tutti le colgono subito.

L’Italia era fra le medie potenze per hard power, ma aveva molto soft power. Non è più così?

“Oggi, la proiezione internazionale dell’Italia, la percezione, giusta o sbagliata che sia, non risponde ai criteri del soft power e finisce con l’incidere pure sull’hard power: l’economia è in crisi, ma restiamo la terza potenza della zona euro, la quarta dell’Ue e abbiamo ancora una capacità d’export; eppure, è considerata a livello internazionale fiacca, debole, stagnante. Il nostro sistema bancario è più sano di tanti altri, ma la capacità di farlo valere è modesta. Ci salvano l’arte, i beni culturali, fin quando non crollano la Casa dei Gladiatori o la Domus Aurea”.

Si può ridurre tutto a un problema d’immagine?

“Emaniamo pure una percezione di disordine e un’attendibilità da verificare caso per caso. Perché un elemento importante del soft power è la coerenza dei comportamenti: e lì paghiamo oscillazioni ed esitazioni, o ambiguità. Nel caso della Libia, dall’osanna al crucifige,; e poi aerei sì, ma solo per operazioni di sorveglianza: tutto questo si sconta. Dedichiamo enormi sforzi alle missioni di pace, ma la loro dispersione non ci vale un plus politico per contare sul piano internazionale. E abbiamo praticamente soppresso uno dei punti di forza della presenza all’estero, l’aiuto allo sviluppo, selvaggiamente tagliato, nonostante sua strumento di politica internazionale di primissima portata, sia come hard power che come soft power”.

Media potenza in declino di peso politico, quindi?

“Il peso politico si esercita facendo politica, proponendo idee e perseguendone l’attuazione, cercando soluzioni condivisibili ai problemi internazionali. In passato, l’Italia nei Balcani ha proposto soluzioni, è andata tra i primi nei nuovi Paesi dell’Europa centro-orientale. Furono operazioni di successo”.

Ma, oggi, in Europa come in America ci ascoltano di meno?

“In Europa, siamo fra i padri fondatori: la conferenza di Messina portò ai Trattati di Roma. Senza vanterie, possiamo dire di avere avuto un’idea vincente. Oggi, dovremmo avere un’idea intorno a cui coagulare gli altri Paesi: lamentarsi del direttorio franco-tedesco economico-monetario o di quello franco-britannico nell’Alleanza atlantica non basta; bisogna avere idee migliori. L’Europa è il nostro maggiore patrimonio: aggrappiamoci alle Alpi per non cadere nel Mediterraneo, diceva Ugo La Malfa. E l’Europa è pure la nostra garanzia, perché se contiamo a Bruxelles contiamo di più a Washington. E, se si è ascoltati a Washington, si è pure più ascoltati a Bruxelles”.

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