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domenica 23 ottobre 2011

Libia: Gheddafi ucciso, la fine dei satrapi, dubbi e incognite

Scritto per L'Indro, quotidiano online

Se le foto non ci sono, c’è chi le reclama: dopo l’eliminazione di Osama bin Laden, il primo maggio, media e opinione pubblica internazionale contestarono agli Stati Uniti la carenza di documentazione fotografica. Se ci sono, c’è chi ne deplora la pubblicazione: le immagini di Muammar Gheddafi prima colpito a morte e poi ormai cadavere, vilipeso e trascinato senza alcuna ‘pietas’, appaiono a molti un’ostentata esibizione della miseria umana, ma sono anche, indubitabilmente, un documento storico. La fine tragica e cruenta del tiranno è forse inevitabile, come fu per Mussolini e Hitler, per Ceausescu e Saddam Hussein: un modo per liberare il popolo dalla fascinazione che ne subisce (e, magari, dalle sudditanze che gli restano).

Il dittatore è morto, viva la Libia. L’uccisione di Gheddafi chiude una fase della partecipazione internazionale al conflitto libico e lascia gli insorti di ieri che sono i vincitori di oggi alle prese con i problemi della riconciliazione, della ricostruzione e della definizione dei nuovi assetti istituzionali e politici. La fine del conflitto, che il Consiglio atlantico si appresta a sancire, è già stata annunciata nelle prime reazioni dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ky-moon, che chiede di “fermare i combattimenti” innescati da una risoluzione delle Nazioni Unite il cui mandato –proteggere i civili- è stato molto dilatato dai raid Nato, e pure dal presidente statunitense Barack Obama.

Le circostanze dell’eliminazione del colonnello che, per 42 anni, ha esercitato in Libia un potere assoluto sono tuttora incerte e confuse: probabilmente, la loro ricostruzione resterà, per anni, oggetto di indagini e rivelazioni, come sta già accadendo per l’eliminazione di bin Laden. Alcuni punti apparentemente fermi appaiono, però, simbolici: il rais è stato ucciso a Sirte, la città dov’era nato e la sua roccaforte; ed è stato scovato in una sorta di fogna, una condotta dell’acqua, dove aveva cercato un ultimo rifugio, lui che definiva “ratti” i ribelli. E’ morto in Libia, come aveva più volte detto di volere fare, ma non combattendo, bensì scappando e, all’ultimo, implorando una clemenza (“Non sparate”) che non gli è stata concessa.

La sua fine non è stata gloriosa: nulla di eroico, in quella morte. Ma nulla di eroico, neppure, nella festa rozza e barbara sul suo cadavere vilipeso da una folla in festa. Se ci indignarono negli Anni Novanta le immagini del soldato americano trascinato per le strade di Mogadiscio, dopo essere stato ucciso, così ci devono indignare pure queste.

Il regime del colonnello finisce nel sangue: che Gheddafi, almeno, possa esserne l’ultima vittima. Dopo 42 anni di dittatura, dal suo colpo di Stato e dopo otto mesi d’insurrezione e di conflitto, la Libia, ora, ha in qualche modo chiuso con il suo passato e può guardare al suo futuro: Il Paese deve restare unito, ma deve muoversi verso la riconciliazione e il rinnovamento democratico, dicono quasi all’unisono i commenti dal Mondo, nella consapevolezza che le incognite sul futuro sono molte e pesanti: la coalizione degli insorti è traversata da divisioni tribali, religiose, sociali, politiche.

Con Gheddafi dopo Mubarak e Ben Ali, la primavera araba spazza via le illusioni di immortalità dei vecchi dittatori. Ma non ha ancora sostituito ad essi certezze democratiche.

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