sabato 31 dicembre 2016
L'ultimo post. Buon 2017 su www.giampierogramaglia.eu
Buona Sera e Buon Anno. Questo è il mio ultimo post su questo mio vecchio blog: dal 1o gennaio 2017, sarò sul mio nuovo blog www.giampierogramaglia.eu, realizzato grazie all'indispensabile collaborazione informatica dello Studio Ahmpla e dove spero di ritrovarvi tutti.
Questo blog, avviato nella primavera del 2010 e che da allora ha ospitato praticamente tutta la mia produzione giornalistica, resterà comunque raggiungibile, sia dal nuovo blog che autonomamente.
Ringrazio tutti coloro che lo hanno visitato e, in particolare, quanti con le critiche e i suggerimenti hanno contribuito a tenerlo vivo e a migliorarlo. E spero che il nuovo blog possa crescere nel tempo anche grazie ai contributi e agli input di lettori e visitatori: per il momento, vi sono già stati caricati tutti i contenuti 2016.
A Tutti, l'Augurio di un 2017 Migliore. Buon Anno!
Usa-Russia: Putin fa il magnanimo aspettando Trump
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/12/2016
E’ un anno da Pallone d’Oro, per
Vladimir Putin: il presidente russo fa sempre gol, quando va all'attacco e
quando gioca in contropiede. Il giorno dopo l’annuncio della pace in Siria,
Putin fa sfoggio di magnanimità nei confronti degli Stati Uniti e frena la
spirale della nuova Guerra Fredda fra i due Paesi.
Giovedì, il presidente Obama
aveva espulso 35 diplomatici e russi dagli Usa, coinvolti – è l’accusa – nelle
operazioni di hackeraggio delle elezioni presidenziali dell’8 Novembre. Ieri,
Putin ha deciso di non rispondere ‘occhio per occhio e dente per dente’, come
si usa in questi casi e come gli suggeriva il Ministero degli Esteri russo,
dandogli la lista nominativa di 35 americani da espellere.
Il contrasto tra il Cremlino e la
diplomazia russa è stato, probabilmente, una pantomima. Putin strizza un’altra
volta l’occhio a Donald Trump, il presidente eletto - anche grazie alle mene
russe -, e dice di sperare in un “salto di qualità” nelle relazioni
russo-americane dopo il suo insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio. Il
disgelo potrebbe arrivare in primavera.
Con Obama e la sua
Amministrazione, il discorso per Putin è chiuso. Oltre a ordinare l’espulsione
dei 35 russi con le loro famiglie entro 72 ore, Obama ha disposto la chiusura
di alcune residenze e centri russi e una raffica di sanzioni.
Secondo la stampa Usa, il
presidente s’appresta a diffondere un dettagliato 'rapporto analitico
congiunto' dell'Fbi e del ministero della Sicurezza Interna basato su materiale
raccolto dalla Cia e dalle altre agenzie dell’intelligence americana e
conferito alla National Security Agency. Vi si spiegherà come i funzionari
russi espulsi, agendo sotto copertura diplomatica, avrebbero manipolato le
elezioni americane, a favore di Trump e ai danni di Hillary Clinton.
Entro tre settimane, prima che
Obama lasci la Casa Bianca, sarà poi pubblicato un rapporto ancora
più dettagliato, ordinato dal presidente. Ma molti elementi relativi alle
modalità con cui sono state ottenute le prove della violazione dei
computer da parte dei russi e registrazioni di conversazioni resteranno
classificati, per evitare di fornire indizi a Mosca su come sono stati scoperti
o intercettate.
Se la freddezza di Putin non
stupisce, l’attivismo un po’ scomposto di Obama colpisce e desta interrogativi anche
sui media Usa. Da una decina di giorni in qua, il presidente a fine mandato
mena fendenti diplomatici che non aveva mai menato in otto anni: contro Israele,
facendo passare all’Onu una risoluzione anti - insediamenti e impelagandosi in
polemiche con il premier Netanyahu, e contro la Russia.
Obama è uno che non sa perdere?, è
ombroso e vendicativo? Certo, Trump gliene ha dette e fatte di tutti i colori,
impegnandosi a smantellare - nei primi cento giorni alla Casa Bianca – il suo
lascito in politica interna – la riforma della sanità – e a rivedere l’accordo
sul nucleare con l’Iraq e la ripresa delle relazioni con Cuba, oltre che gli
atteggiamenti verso la Russia, Israele e nel Medio Oriente.
Al Cremlino, c’è pure chi nota la
coincidenza tra il cessate-il-fuoco in Siria negoziato da Putin, che pare
reggere, e l’offensiva anti-russa di un
Obama – è l’illazione – stizzoso e rosicone.
Se l’immagine di Trump sui
maggiori media tradizionali Usa resta negativa, quella di Obama non esce bene
da questa ondata di decisioni apparentemente dettate più dal dispetto che dalla
logica e dall'interesse nazionale.
Da una parte, l’attenzione
s’allontana dalle mene russe nel voto Usa e dai vantaggi che ne avrebbe tratto
il magnate e showman e si concentra sul botta e risposta tra Casa Bianca e
Cremlino.
Dall'altra, Obama – e Putin -
sembrano quasi creare le condizioni perché Trump faccia bella figura
all'esordio in politica estera: migliorerà le relazioni con Israele e rimetterà
in carreggiata quelle con la Russia, raccogliendo il ramoscello d’olivo
portogli ieri da Putin.
Che, intanto, mostra pure attenzione all’Europa e invita a Mosca il presidente Mattarella: l’Italia è fra i Paesi dell’Ue meno inclini a usare le sanzioni contro la Russia.
Che, intanto, mostra pure attenzione all’Europa e invita a Mosca il presidente Mattarella: l’Italia è fra i Paesi dell’Ue meno inclini a usare le sanzioni contro la Russia.
venerdì 30 dicembre 2016
Siria: Putin con Erdogan annuncia la pace, Usa ed Ue esclusi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/12/2016
La pace russa fa un passo forse decisivo in Siria,
mentre gli Stati Uniti dei due presidenti sono talmente assorbiti dai risvolti
interni degli eventi mediorientali da assistere senza intervenire: Barack Obama
e la sua Amministrazione non hanno più l’autorevolezza per farlo, Donald Trump
non ha ancora il potere (ma a suon di tweet caccia il naso dovunque).
E,
comunque, a Trump può anche andare bene così: il colpo di acceleratore di Putin
verso la fine del conflitto sgombera l’orizzonte di un problema spinoso, anche
se lascia senza voce in capitolo l’Occidente intero: l’America senza bussola e
la solita Europa imbelle, costretta a prendere atto di quanto da altri
concordato e ad esprimere una soddisfazione di maniera, all'unisono con l’Onu.
Il fatto che i negoziati conseguenti al cessate-il-fuoco
ora annunciato, e in vigore dalla mezzanotte, si faranno ad Astana, Kazakhstan,
e non in uno dei luoghi deputati della diplomazia equidistante, Ginevra o Vienna,
significa che la partita è russa – o, al massimo, russo-turca - e che Putin la
vuole giocare in casa (25 anni dopo la fine dell’Urss, l’unico cosmodromo russo
continua a essere quello di Baikonur in Kazakhstan: segno che fra i due Paesi
c’è intesa e fiducia).
E’ stato il presidente russo ad annunciare la firma
della tregua tra il regime di Assad e i ribelli usciti sconfitti della
battaglia di Aleppo: “Abbiamo lavorato a lungo – ha detto Putin, spartendo il
merito dello sforzo di pace con il presidente turco Erdogan -; adesso serve
pazienza e grande attenzione”.
Dopo quasi 70 mesi di guerra civile e oltre
mezzo milione di morti, è davvero la volta buona? Se anche il cessate-il-fuoco tenesse e la trattativa
di pace decollasse, la Siria non si trasformerebbe, da un giorno all’altro, in
una Svizzera mediorientale: resta la presenza del sedicente Stato islamico, che
ha perso terreno, ma continua a controllare porzioni di territorio; e resta la
questione curda. Anche se gli eroi della presa di Idlib e della resistenza a
Kobane, perduta e riconquistata, sono stati lasciati da Putin alla mercé del suo
nuovo amico Erdogan, trattati alla stregua di quei terroristi di cui sono stati
a lungo gli unici avversari sul terreno.
Del resto, il Medio Oriente prossimo venturo sembra
una storia di uomini forti: Putin ed Erdogan, presidenti autoritari, l’immarcescibile
al-Assad e il faraone al-Sisi. Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu
sono per ora più interessati a celebrare l’amicizia ritrovata israelo-americana
che preoccupati degli assetti tutto intorno, a patto che le milizie jihadiste
siano tenute sotto scacco e che la stabilità regni, dopo il tempo
dell’incertezza conseguente alle Primavere arabe, di cui restano tracce solo in
Tunisia. Quanto all’Iran, l’intesa che preserva al potere al-Assad gli sta
bene: Teheran ha sempre lavorato in tal senso.
Mordono probabilmente il freno l’Arabia saudita e le
monarchie del Golfo, costrette a trangugiare, per il momento, un trionfo
sciita. Vi sono lì germi di future instabilità.
Sul terreno, mentre in Iraq le forse di Baghdad
lanciano una nuova massiccia offensiva su Mossul, la capitale
dell’autoproclamato Califfo, attaccando cinque quartieri, raid e bombe
anti-jihadisti uccidono decine di civili, tra cui numerosi bambini, in località
della Siria ancora sotto il controllo delle milizie e dell’opposizione ad
al-Assad. Lo denuncia un’organizzazione anti-regime.
Negli Usa, Obama apre un nuovo fronte anti-Trump,
annunciando un inasprimento delle sanzioni contro la Russia per le interferenze
degli hacker di Mosca sul voto negli Usa. Il magnate dà la colpa ai computer
che “ci complicano la vita” e accusa il presidente d’atteggiamenti
“incendiari”, prima d’una telefonata “chiarificatrice”, dopo la quale i due definiscono
“senza problemi” la transizione – roba da Pinocchio -.
Il che non impedisce a Trump di rincuorare Netanyahu: “Sii forte, il 20 gennaio è vicino”. Con lui alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non tratteranno più Israele “con disprezzo. L’Italia è ben contenta d’avere schivato una grana: si fosse votato in Consiglio di Sicurezza dopo il 1° gennaio, si sarebbe dovuta esprimere. Che cosa avrebbe fatto? Il premier Gentiloni fa esercizi d’equilibrio sulla trave: “Gli insediamenti non agevolano la soluzione dei due Stati. Ma cercare d’indurre Israele a negoziati isolandolo è un’illusione”.
Il che non impedisce a Trump di rincuorare Netanyahu: “Sii forte, il 20 gennaio è vicino”. Con lui alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non tratteranno più Israele “con disprezzo. L’Italia è ben contenta d’avere schivato una grana: si fosse votato in Consiglio di Sicurezza dopo il 1° gennaio, si sarebbe dovuta esprimere. Che cosa avrebbe fatto? Il premier Gentiloni fa esercizi d’equilibrio sulla trave: “Gli insediamenti non agevolano la soluzione dei due Stati. Ma cercare d’indurre Israele a negoziati isolandolo è un’illusione”.
giovedì 29 dicembre 2016
Accadde Domani: 2017; immigrazione, Ue sotto Opa pupulismo cerca risposte
Pubblicato su AffarItaliani.it il 29/12/2016
http://www.affaritaliani.it/politica/palazzo-potere/iai-immigrazione-l-ue-sotto-opa-populista-cerca-soluzioni-456549.html
http://www.affaritaliani.it/politica/palazzo-potere/iai-immigrazione-l-ue-sotto-opa-populista-cerca-soluzioni-456549.html
martedì 27 dicembre 2016
Usa: Obama, "se c'ero io con Trump vincevo" e altri sassolini
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/12/2016
Mentre i repubblicani imbarazzano l’America, mischiando il Natale con
l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, che un che di biblico lo ha, ma in
senso apocalittico, Barack Obama si prende qualche soddisfazione ‘last minute’
e si concede qualche libertà in politica estera, specie con Israele –lui e
Benjamin Netanyahu non si sono mai potuti sopportare l’un l’altro -. Il
messaggio di Natale all’America e al Mondo suo e di Michelle è un capolavoro di
sobrietà, di misura, di efficacia: già lo rimpiangi, prima ancora che se ne
vada; anche perché sai quel che ti aspetta.
Trump, dal canto suo, fatta la squadra, ha un po’ ridotto il ritmo dei
tweet. Adesso, sta progettando come cancellare, nei suoi primi cento giorni,
l’eredità e il lascito del suo predecessore. A toglierlo dai libri di storia,
però, non ci riuscirà: ci resterà di sicuro, come primo presidente nero Usa. Ma
pure Donald una citazione se l’è già guadagnata: è il presidente più ricco mai
eletto, il più anziano ad entrare per la prima volta alla Casa Bianca – Ronald Reagan
compì 70 anni tre settimane dopo l’insediamento, lui li ha già compiuti da
oltre sei mesi – e, sulla carta, il meno competente.
Obama è sicuro che, se fosse stato lui l’avversario del magnate e showman,
avrebbe di nuovo vinto: lo dice in un’intervista alla Cnn con il suo consigliere
David Axelrod. Peccato che un emendamento della Costituzione vieti un terzo
mandato. "Se avessi potuto correre e avessi spiegato la mia visione – dice
-, ritengo che avrei potuto mobilitare la maggioranza degli americani".
Secondo il presidente, i suoi connazionali “condividono la direzione verso cui
ci stiamo muovendo” e possono ancora essere mobilitati dai suoi messaggi di
“speranza e cambiamento”.
Nell’intervista, Obama torna a criticare i democratici, che hanno ignorato
interi segmenti dell’elettorato, facilitando la vittoria di Trump, e ad
elogiare Hillary Clinton e la sua prestazione, "in circostanze
difficili", penalizzata dal doppio standard impostole. L’onere della prova
era sempre a carico suo, mentre il suo rivale passava indenne tra uno scandalo
e una menzogna. Nonostante ciò l’ex first lady ha avuto oltre due milioni di
voti popolari in più del suo rivale, che ha però prevalso con i Grandi
Elettori, che è quel che conta.
Intanto, è a Pearl Habour il premier giapponese Shinzo Abe: restituisce la
visita fatta a fine maggio dal presidente statunitense a Hiroshima, a margine
del Vertice del G7. Parallelo il copione: Obama non si scusò per l’atomica
sganciata il 6 agosto 1945 sulla città; e Abe non si scuserà per l’attacco di
sorpresa condotto dall’aviazione nipponica contro la base alle Hawaii il 7
dicembre 1941, che fece circa 2.400 vittime e che innescò l’entrata degli Stati
Uniti nella Seconda Guerra Mondiale.
Obama è stato il primo presidente Usa a Hiroshima; Abe, invece, non è il
primo premier nipponico in esercizio a visitare Pearl Harbor. Nel 1951, dopo
avere firmato a San Francisco il trattato di pace, l'allora premier Shigeru
Yoshida si fermò a Pearl Harbour e depose una corona di fiori al memoriale
delle vittime. Alle Hawaii, in queste ore, c’è pure Ivanka Trump, la figlia del
presidente eletto: presenza inopinata, ma che non ha nulla a che vedere con
quella di Obama ed Abe: è lì con il marito Jared Kushner e i tre figli per
festeggiare Hanukkah, che quest’anno coincide con il Natale.
In mezzo al Pacifico, giungeranno ovattati a Obama gli echi delle polemiche
israeliane, dopo l’astensione degli Usa all’Onu su una risoluzione che condanna
gli insediamenti nei Territori. Votando no, come quasi sempre fatto in passato
in analoghe circostanze, gli Stati Uniti, che all’Onu hanno diritto di veto,
avrebbero bloccato la risoluzione. L’astensione, che gli israeliani considerano
“frutto di un complotto”, ne ha invece permesso l’adozione.
Netanyahu ha bollato il voto come una vergogna, ha annunciato che Israele non la rispetterà – sarà l’ennesima violazione israeliana di un documento internazionale -, ha sospeso i versamenti all’Onu, ha congelato le relazioni diplomatiche con i Paesi che hanno votato sì, fra cui Gran Bretagna, Francia, Spagna, Giappone. Per evitare il voto, il premier aveva pure chiesto l’aiuto di Trump, che non aveva esitato ad esercitare pressioni, specie su un suo futuro buon amico, il presidente egiziano generale al-Sisi.
Netanyahu ha bollato il voto come una vergogna, ha annunciato che Israele non la rispetterà – sarà l’ennesima violazione israeliana di un documento internazionale -, ha sospeso i versamenti all’Onu, ha congelato le relazioni diplomatiche con i Paesi che hanno votato sì, fra cui Gran Bretagna, Francia, Spagna, Giappone. Per evitare il voto, il premier aveva pure chiesto l’aiuto di Trump, che non aveva esitato ad esercitare pressioni, specie su un suo futuro buon amico, il presidente egiziano generale al-Sisi.
Accadde Domani: 2017, l'ipoteca dei populismi sull'Anno Nuovo
Scritto per AffarInternazionali e pubblicato il 27/12/2016
L’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump il 20
gennaio e la serie scadenzata di voti politici in molti grandi Paesi europei,
forse Italia compresa, mettono sul 2017 una sorta d’ipoteca populista; e proprio
l’avanzata dell’anti-politica dall'Ue agli Usa ravviva gli interrogativi sull’asserita
generale ‘crisi strutturale’ della democrazia rappresentativa in tutto l’Occidente.
Il sì alla Brexit nel referendum britannico del 23
giugno e l’affermazione di Trump l’8 novembre, due risultati appena attenuati
dalla vittoria in Austria - nelle presidenziali del 4 dicembre -dell’europeista
verde Alexander van der Bellen, lasciano temere successi dei movimenti
populisti e nazionalisti, xenofobi e anti-Islam, euro-scettici ed anti-euro,
nella raffica di elezioni nell'Unione dei prossimi nove mesi.
Se le prime date in neretto sull'agenda 2017 sono
americane – il 9 gennaio, l’avallo del Congresso alla vittoria di Trump nelle
presidenziali, nonostante la sua rivale Hillary Clinton abbia ottenuto oltre
due milioni di voti popolari più di lui, e il 20 gennaio l’insediamento del
nuovo presidente -, gli altri giorni da appuntare sono soprattutto europei.
Va però ricordato che le crisi del Mondo, di cui Papa
Francesco ha fatto un’agghiacciante sintesi, benedicendo l’umanità a Natale,
restano aperte, senza una data di scadenza: Siria e Iraq, Yemen e Afghanistan,
le ricorrenti tensioni mediorientali tra israeliani e palestinesi, la Libia e l’arco
dell’integralismo a sud del Sahara, la Corea del Nord; e, ovunque e sempre,
l’Idra dalle cento teste della minaccia terroristica. Tutte ombre con cui
dovremo convivere ancora nel Nuovo Anno.
La
carrellata di elezioni nell’Ue
La carrellata d’appuntamenti elettorali è eccezionale:
il 2017 dell’Ue appare un percorso a ostacoli. A gennaio, il 22 e 29, ci sono
le primarie della sinistra francese in vista delle elezioni presidenziali; il
15 marzo, si vota in Olanda; il 26 marzo nella Saar in Germania; il 23 aprile,
c’è il primo turno delle presidenziali francesi; il 7 maggio, il ballottaggio
francese e si vota nello Schleswig-Holstein ancora in Germania; il 14 maggio,
si vota nella Renania del Nord – Westfalia, sempre in Germania; e, infine, il
24 settembre ci sono le politiche tedesche.
A questi appuntamenti, potrebbero ancora aggiungersi
le politiche italiane. E restano da definire tempi d’avvio e ritmi del
negoziato sulla Brexit, che, a oltre sei mesi dal referendum britannico, rimane
un’incognita: una spada di Damocle sul capo dell’Unione e della Gran Bretagna.
Di come “costruire l’Europa federale nell'era dei
populismi” si discute a Bruxelles e nelle capitali dei 28. Le famiglie politiche
tradizionali europee cercano soprattutto di stornare l’insidia populista e,
talora, avvertono la tentazione di rincorrere gli antagonisti sul loro terreno.
Dal dibattito fra europeisti, invece, emerge che chi
ancora ci crede deve unire le energie per salvare e rilanciare il progetto
d’integrazione, che, nato oltre settant'anni or sono nelle tenebre più profonde
della Seconda Guerra Mondiale, celebrerà a Roma il 25 marzo 2017 il 60°
anniversario della firma dei Trattati istitutivi delle tre iniziali Comunità
europee, la economica (Cee), quella del carbone e dell’acciaio (Ceca) e quella
dell’energia atomica (Euratom).
L’attuale processo ha perso slancio politico e ha pure
perso l’appoggio dei cittadini, che, prostrati dalla crisi del 2008 e delusi
dalle risposte dell’Ue, rimproverano all’Unione di non rappresentare, come
sperato, un frangiflutti della globalizzazione e di non gestire il flusso dei
migranti, garantendo la sicurezza.
Un modo, forse l’unico, per riscattare e fare
ripartire l’integrazione è di rinnovarla, dando maggiore legittimità
democratica all'azione politica europea e innestandovi una concreta prospettiva
federale, nella convinzione che il vero ‘sovranismo’ non è la restituzione di
sovranità ai singoli Stati, progressivamente irrilevanti, ma il conferimento di
maggiore sovranità all’Unione europea, che può avere voce in capitolo nei
consessi e nei processi internazionali.
La trasparenza e la democratizzazione sono una
priorità della Commissione europea: il presidente Jean-Claude Juncker persegue,
a tal fine, “una speciale partnership con il Parlamento europeo” e
“un’accresciuta trasparenza” quando si tratta di contatti con gli stakeholders
e i lobbisti.
I
viottoli della speranza
C’è poco da sperare che i leader dei Grandi
dell’Unione abbiano colpi d’ala europei in un contesto di sfide nazionali
incerte e aperte com'è quello del 2017. Tanto più che le presidenze di turno
del Consiglio dell’Ue sono sulla carta deboli: Malta nel primo semestre e
l’Estonia nel secondo, due piccoli Paesi, entrambi esordienti nel ruolo.
Eppure, sarebbe l’ora d’aprire viottoli di speranza e ambizione
tra le rovine di un’Unione sbriciolata nei suoi valori fondamentali - lo Stato
di diritto e la solidarietà - e marginale nelle crisi mondiali, anche
sull’uscio di casa, come la vicenda siriana dimostra.
Bisogna ridare ai cittadini il senso d’utilità di un
progetto e l’orgoglio di appartenervi. E bisogna rispondere alle domande dei
cittadini con azioni federali: gestire il flusso dei migranti e la riforma del
diritto d’asilo che diventi europeo; concedere ai migranti che ne hanno diritto
la cittadinanza europea piuttosto che quelle nazionali; e, ancora, affidare il
controllo delle frontiere esterne all’Unione, neutralizzando le reciproche
diffidenze; accelerare la promozione e la creazione d’una difesa europea,
sfruttando come opportunità le sfide lanciate da Trump ancor prima
d’insediarsi.
Infine, dare all’Europa una voce unica e forte nei
consessi internazionali, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Fondo monetario
internazionale, dal G8 al G20. E migliorare la conoscenza di quanto esiste,
estendendo la pratica dell’Erasmus a licei e realtà professionali – un ‘Erasmus
dei giornalisti’ contribuirebbe, ad esempio, a un’informazione senza frontiere
e senza pregiudizi -.
L’Italia in prima fila sulla scena internazionale
Il Governo italiano del dopo Referendum e del dopo Renzi ha l’agenda zeppa di questioni politiche, a partire dalla legge elettorale, e di problemi economico-finanziari, a partire dalle angustie di MPS. Ma il premier Gentiloni e i suoi ministri dovranno subito confrontarsi con scadenze internazionali che fanno dell’Italia una protagonista del 2017.
Con Bruxelles, Roma deve affrontare il negoziato sulla legge finanziaria, senza potersi aspettare, nella fase attuale, e dopo una stagione di pugni sul tavolo e toni guasconi, particolare bonomia, nonostante che la trattativa sia affidata a un ministro, Pier Carlo Padoan, che gode di credito presso i suoi interlocutori e la cui competenza è riconosciuta.
Il fronte europeo è, però, solo uno di quelli che vedranno l’Italia impegnata: il 2017 è molto denso di responsabilità internazionali. Dal 1° gennaio, l’Italia assume la presidenza del G7, che culminerà il 26 e 27 maggio nel Vertice di Taormina – dove almeno quattro leader saranno esordienti -, senza contare le riunioni settoriali nel nostro Paese; e sempre dal 1° gennaio l’Italia ritorna nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu sia pure solo per un anno, avendo spartito il biennio con l’Olanda; e, ancora, deve preparare le celebrazioni a Roma il 25 Marzo per il 60o anniversario della Cee.
Alla guida del G7, l’Italia dovrà coordinarsi con la presidenza di turno tedesca del G20 –il Vertice sarà ad Amburgo il 7 e 8 luglio -. Nel 2018, poi, l’Italia avrà la presidenza dell’Osce, raccogliendo l’impegnativa eredità di Germania e Austria.
L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza né esperienza né vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce la conoscenza dei dossier necessaria per agire in tempi brevi.
Il Governo italiano del dopo Referendum e del dopo Renzi ha l’agenda zeppa di questioni politiche, a partire dalla legge elettorale, e di problemi economico-finanziari, a partire dalle angustie di MPS. Ma il premier Gentiloni e i suoi ministri dovranno subito confrontarsi con scadenze internazionali che fanno dell’Italia una protagonista del 2017.
Con Bruxelles, Roma deve affrontare il negoziato sulla legge finanziaria, senza potersi aspettare, nella fase attuale, e dopo una stagione di pugni sul tavolo e toni guasconi, particolare bonomia, nonostante che la trattativa sia affidata a un ministro, Pier Carlo Padoan, che gode di credito presso i suoi interlocutori e la cui competenza è riconosciuta.
Il fronte europeo è, però, solo uno di quelli che vedranno l’Italia impegnata: il 2017 è molto denso di responsabilità internazionali. Dal 1° gennaio, l’Italia assume la presidenza del G7, che culminerà il 26 e 27 maggio nel Vertice di Taormina – dove almeno quattro leader saranno esordienti -, senza contare le riunioni settoriali nel nostro Paese; e sempre dal 1° gennaio l’Italia ritorna nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu sia pure solo per un anno, avendo spartito il biennio con l’Olanda; e, ancora, deve preparare le celebrazioni a Roma il 25 Marzo per il 60o anniversario della Cee.
Alla guida del G7, l’Italia dovrà coordinarsi con la presidenza di turno tedesca del G20 –il Vertice sarà ad Amburgo il 7 e 8 luglio -. Nel 2018, poi, l’Italia avrà la presidenza dell’Osce, raccogliendo l’impegnativa eredità di Germania e Austria.
L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza né esperienza né vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce la conoscenza dei dossier necessaria per agire in tempi brevi.
lunedì 26 dicembre 2016
Usa: la squadra di Trump, l'analisi delle scelte nome per nome
Pubblicato sul sito dell'Istituto Affari Internazionali il 26/12/2016: un video di Isabella Ciotti con anche Stefano Silvestri e Riccardo Alcaro
https: //www. youtube. com/watch?v= d1rhPgf9IG8
https:
venerdì 23 dicembre 2016
Terrorismo: Italia da stazione di transito a stazione di fine corsa
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 23/12/2016
L’Italia era una stazione di transito del terrorismo integralista. Ora, con l’uccisione di Anis Amri, è la stazione di fine corsa per l’autore della strage di Berlino. Il conflitto a fuoco della scorsa notte, davanti allo scalo di Sesto San Giovanni, hinterland milanese, un tempo rosso operaio, fa aumentare il tasso di pericolo di attentati in Italia?
La domanda fa correre un brivido lungo la schiena, dopo che Amaq, l’agenzia d’informazioni vicina al sedicente Stato islamico, ha diffuso un video in cui il terrorista tunisino ucciso annunciava "Veniamo a sgozzarvi come maiali"; e chiamava all’azione "Tutti i fratelli, ovunque essi siano. Amri diceva: "State in allerta e combattete sulla via di Dio. Ogni essere umano in grado di battersi vada a uccidere in tutta l’Europa i crociati maiali!".
La risposta è ovvia: “Sì”, il rischio aumenta, perché in qualche aspirante martire, per imitazione o per convinzione, s’accenderà di sicuro la scintilla della ritorsione.
Ma la domanda è oziosa, o almeno mal posta: ammesso che l’intercettazione di Amri sia stata casuale e non preordinata, che cosa avrebbero dovuto fare l’agente Christian Movio, 36 anni, rimasto ferito nella sparatoria, e il suo collega ancora in prova, Luca Scatà, che ha risposto al fuoco del killer di Berlino?, avrebbero dovuto ‘non impicciarsi’?, voltarsi dall’altra parte, quando quell’uomo li ha insospettiti?
In altri tempi, Anni Settanta e giù di lì, l’Italia era usa a imbarazzanti compromessi (e, forse, ne è talora tentata pure oggi): cercava d’acquisire la benigna neutralità del terrorismo internazionale – che, allora, ruotava intorno alla questione palestinese – chiudendo un occhio in situazioni discutibili e lasciando magari partire personaggi pericolosi, ma potenzialmente scomodi da tenere in carcere o processare.
Se adesso non succede, che sia merito di un apparato di sicurezza più efficiente e consapevole o dell’intuizione e solerzia professionale di singoli elementi, meglio così. C’è da esserne orgogliosi, senza ignorare il pericolo e adottando tutte le misure precauzionali opportune. Una circolare, ora emanata dal capo della Polizia Franco Gabrielli, invita tutto il personale alla "massima attenzione", proprio perché "non si possono escludere azioni ritorsive".
Piuttosto, la presenza di Amri in Italia suona di per sé allarmante: se, in fuga da Berlino, il terrorista del mercatino di Natale, l’assassino, fra gli altri, di Fabrizia Di Lorenzo, è arrivato con il treno, via la Francia, a Torino e a Milano, vuol dire che qui da noi pensava di potere trovare accoglienza o almeno copertura per continuare la fuga o per restare latitante fino alla prossima sortita.
L’uomo che, nel suo video-messaggio di appena due minuti, recita in arabo le tradizionali preghiere e giura fedeltà “al principe dei fedeli Abu Bakr al Baghdadi al al Huseini al Qurayshi", l’autoproclamato Califfo, stava forse scappando, sentendosi braccato; oppure attuava un piano ben preordinato, avendo punti d’appoggio sul territorio.
Nel primo caso, ci sarebbe comunque l’ipotesi che qualcuno voglia emularlo. Nel secondo caso, ci sarebbe operativa in Italia una rete di simpatizzanti jihadisti pronti a sostenere i sodati del Califfo. L’uccisione di Amri è un fattore di rischio; ma anche la sua presenza in Italia di per sé lo era. L’acquiescenza sta al terrorismo come l’omertà alla mafia: entrambe figlie della paura e dell’ignavia, conducono alla sconfitta.
Christian Movio e Luca Scatà hanno fatto la loro parte. Noi cittadini facciamo la nostra: senza odio e con solidarietà; senza accanimento, ma con fermezza.
L’Italia era una stazione di transito del terrorismo integralista. Ora, con l’uccisione di Anis Amri, è la stazione di fine corsa per l’autore della strage di Berlino. Il conflitto a fuoco della scorsa notte, davanti allo scalo di Sesto San Giovanni, hinterland milanese, un tempo rosso operaio, fa aumentare il tasso di pericolo di attentati in Italia?
La domanda fa correre un brivido lungo la schiena, dopo che Amaq, l’agenzia d’informazioni vicina al sedicente Stato islamico, ha diffuso un video in cui il terrorista tunisino ucciso annunciava "Veniamo a sgozzarvi come maiali"; e chiamava all’azione "Tutti i fratelli, ovunque essi siano. Amri diceva: "State in allerta e combattete sulla via di Dio. Ogni essere umano in grado di battersi vada a uccidere in tutta l’Europa i crociati maiali!".
La risposta è ovvia: “Sì”, il rischio aumenta, perché in qualche aspirante martire, per imitazione o per convinzione, s’accenderà di sicuro la scintilla della ritorsione.
Ma la domanda è oziosa, o almeno mal posta: ammesso che l’intercettazione di Amri sia stata casuale e non preordinata, che cosa avrebbero dovuto fare l’agente Christian Movio, 36 anni, rimasto ferito nella sparatoria, e il suo collega ancora in prova, Luca Scatà, che ha risposto al fuoco del killer di Berlino?, avrebbero dovuto ‘non impicciarsi’?, voltarsi dall’altra parte, quando quell’uomo li ha insospettiti?
In altri tempi, Anni Settanta e giù di lì, l’Italia era usa a imbarazzanti compromessi (e, forse, ne è talora tentata pure oggi): cercava d’acquisire la benigna neutralità del terrorismo internazionale – che, allora, ruotava intorno alla questione palestinese – chiudendo un occhio in situazioni discutibili e lasciando magari partire personaggi pericolosi, ma potenzialmente scomodi da tenere in carcere o processare.
Se adesso non succede, che sia merito di un apparato di sicurezza più efficiente e consapevole o dell’intuizione e solerzia professionale di singoli elementi, meglio così. C’è da esserne orgogliosi, senza ignorare il pericolo e adottando tutte le misure precauzionali opportune. Una circolare, ora emanata dal capo della Polizia Franco Gabrielli, invita tutto il personale alla "massima attenzione", proprio perché "non si possono escludere azioni ritorsive".
Piuttosto, la presenza di Amri in Italia suona di per sé allarmante: se, in fuga da Berlino, il terrorista del mercatino di Natale, l’assassino, fra gli altri, di Fabrizia Di Lorenzo, è arrivato con il treno, via la Francia, a Torino e a Milano, vuol dire che qui da noi pensava di potere trovare accoglienza o almeno copertura per continuare la fuga o per restare latitante fino alla prossima sortita.
L’uomo che, nel suo video-messaggio di appena due minuti, recita in arabo le tradizionali preghiere e giura fedeltà “al principe dei fedeli Abu Bakr al Baghdadi al al Huseini al Qurayshi", l’autoproclamato Califfo, stava forse scappando, sentendosi braccato; oppure attuava un piano ben preordinato, avendo punti d’appoggio sul territorio.
Nel primo caso, ci sarebbe comunque l’ipotesi che qualcuno voglia emularlo. Nel secondo caso, ci sarebbe operativa in Italia una rete di simpatizzanti jihadisti pronti a sostenere i sodati del Califfo. L’uccisione di Amri è un fattore di rischio; ma anche la sua presenza in Italia di per sé lo era. L’acquiescenza sta al terrorismo come l’omertà alla mafia: entrambe figlie della paura e dell’ignavia, conducono alla sconfitta.
Christian Movio e Luca Scatà hanno fatto la loro parte. Noi cittadini facciamo la nostra: senza odio e con solidarietà; senza accanimento, ma con fermezza.
giovedì 22 dicembre 2016
Ue: 2017, le prove della democrazia e le sfide dei populismi
Scritto per gli Appunti di Media Duemila il 21/12/2016
Il sì alla Brexit nel referendum britannico del 23 giugno e
il successo di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca l’8 novembre, due
risultati appena attenuati dalla vittoria in Austria il 4 dicembre
dell’europeista verde Alexander van der Bellen, lasciano temere affermazioni
dei movimenti populisti e nazionalisti nella raffica di elezioni che attendono
i maggiori Paesi dell’Unione europea nei prossimi nove mesi.
Come “costruire l’Europa federale nell’era dei populismi” è
stato il tema di un dibattito organizzato a Roma dalla Gioventù federalista europea
e da UniMed: introdotto dal professor Franco Rizzi, docente e segretario
generale di Unimed, e moderato da Ugo Ferruta, segretario del Movimento federalista
europeo di Roma, l’incontro ha avuto come protagonista Sandro Gozi, già
sottosegretario agli Affari europei.
L’avanzata dei populismi dall’Ue agli Usa pone pure
interrogativi su un’eventuale ‘crisi strutturale’ della democrazia rappresentativa
in generale in Occidente: tema su cui il circolo di cultura politica Cassiodoro
organizzerà una riflessione il 18 gennaio, nella Sala della Lupa a
Montecitorio.
Dal dibattito di Roma, emerge che chi ancora ci crede deve unire
le energie per salvare e rilanciare il progetto d’integrazione europea, che, nato
oltre settant’anni or sono nelle tenebre della Seconda Guerra Mondiale,
celebrerà a Roma il 25 marzo 2017 il 60° anniversario della firma dei Trattati
istitutivi delle tre iniziali Comunità europee, la economica (Cee), quella del
carbone e dell’acciaio (Ceca) e quella dell’energia atomica (Euratom).
L’attuale processo ha perso slancio politico e ha pure perso
l’appoggio dei cittadini, che, prostrati dalla crisi del 2008 e delusi dalle
risposte dell’Ue, rimproverano inoltre all’Unione di non fare loro da frangiflutti
della globalizzazione e di non garantire loro sicurezza e tranquillità gestendo
il flusso di migranti.
Un modo, forse l’unico, per riscattare e fare ripartire
l’integrazione è di rinnovarla, dando maggiore legittimità democratica
all’azione politica europea e innestandovi una concreta prospettiva federale,
nella convinzione che il vero ‘sovranismo’ non sta oggi nella restituzione di
sovranità ai singoli Stati, progressivamente irrilevanti, ma nel conferimento
di maggiore sovranità all’Unione europea, che può avere voce in capitolo nei
consessi internazionali.
Quella della trasparenza e della democratizzazione è anche
una priorità della Commissione europea: il presidente Jean-Claude Juncker
persegue “una speciale partnership con il Parlamento europeo” e “un’accresciuta
trasparenza” quando si tratta di contatti con gli stakeholders e i lobbisti; e
vuole focalizzare l’attenzione del suo team “su quello che davvero conta”
invece che disperdere le energie in troppi rivoli – le iniziative legislative
sono così scese da 130 nel 2014 a 23 nel 2015 -.
Ma l’impressionante carrellata d’appuntamenti elettorali
trasforma il 2017 in un percorso a ostacoli: a gennaio, il 22 e 29, ci sono le
primarie della sinistra francese in vista delle elezioni presidenziali; il 15
marzo, si vota in Olanda; il 26 marzo nella Saar in Germania; il 23 aprile, c’è
il primo turno delle presidenziali francesi; il 7 maggio, il ballottaggio
francese e si vota nello Schleswig-Holstein in Germania; il 14 maggio, si vota
nella Renania del Nord – Westfalia, sempre in Germania; e, infine, il 24
settembre ci sono le politiche tedesche. A questi appuntamenti, potrebbero
ancora aggiungersi le politiche italiane.
C’è poco da sperare che i leader dei Grandi dell’Unione
abbiano colpi d’ala europei in un contesto di sfide nazionali incerte e aperte.
Ma è l’ora di aprire viottoli tra le rovine d’un’Unione sbriciolata nei suoi
valori fondamentali - lo Stato di diritto e la solidarietà - e marginale nelle
crisi mondiali, anche sull’uscio di casa, come la vicenda siriana dimostra.
Costruire l’Europa con chi?, come?; ma soprattutto perché?
Bisogna ridare ai cittadini il senso d’utilità di un progetto e l’orgoglio di
appartenervi, migliorare la comprensibilità di ciò che esiste, estendere
l’esperienza dell’Erasmus ai licei e a realtà professionali – un ‘Erasmus dei
giornalisti’, ad esempio, contribuirebbe a un’informazione senza frontiere e
senza pregiudizi -.
Ma ci vogliono pure iniziative che rispondano alle domande
dei cittadini andando in senso federale: la gestione del flusso dei migranti e la
riforma del diritto d’asilo che diventi europeo; la concessione ai migranti che
ne hanno diritto della cittadinanza europea e non di una cittadinanza
nazionale; e, ancora, la gestione delle frontiere esterne affidata all’Unione,
neutralizzando reciproche diffidenze sui controlli effettuati da altri; e,
sempre più ambiziosamente, l’accelerazione della promozione e della creazione
di una difesa europea, trasformando in opportunità le sfide lanciateci da Trump
ancora prima di insediarsi alla presidenza degli Stati Uniti. Infine, dare
all’Europa una voce unica e forte nei consessi internazionali, dal Consiglio di
Sicurezza dell’Onu al Fondo monetario internazionale, dal G8 al G20.
Impensabile e impossibile, nel 2017, realizzare tutto ciò.
Ma indispensabile e necessario cominciare a muoversi in queste direzioni e
renderlo percepibile ai cittadini: il fermento dell’Unione sarebbe, per tutti,
un segnale di risveglio e riscossa.
mercoledì 21 dicembre 2016
Ankara – Berlino: il terrore è un'Idra dalle cento teste
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 20/12/2016
Questa mattina, prendendo la metropolitano per andare
a lavorare, la presenza dei due militari in mimetica all'ingresso della
stazione m’ha colpito, come se fosse la prima volta che li vedevo. Ho notato
che erano due ragazzi particolarmente alti e robusti e pure sorridenti; e che
avevano la divisa perfettamente ben curata, come se fossero appena montati. Ma
ho soprattutto rimarcato che c’erano, con un misto di preoccupazione e
rassicurazione.
La minaccia terroristica, preferiamo tenerla in un
cantuccio della memoria, quasi dimenticarla, ignorandone anche i segnali
esteriori più evidenti – i militari nelle nostre città, a Roma come a Parigi e
altrove -. Salvo poi tirarne fuori di colpo la consapevolezza, con tutto il suo
corredo di ansia e di paura.
Ad ogni attacco, reagiamo come se fossimo presi di
sorpresa, come se non ce l’aspettassimo. In realtà, sappiamo sempre che può
succedere, ma - man mano che la memoria dell’ultima strage s’appanna - cominciamo a sperare prima e a illuderci poi
che non succeda più, che sia stata l’ultima volta, che le teste dell’Idra del
terrore siano state mozzate tutte e cento.
Eppure, i presupposti per una recrudescenza del
terrorismo c’erano tutti: in Medio Oriente, la situazione ad Aleppo e
l’andamento del conflitto in Siria e in Iraq – quando il sedicente Stato
islamico arretra sul terreno, cerca spesso di colpire altrove -; in Europa, la
prossimità del Natale, che da una parte abbassa, istintivamente, i nostri livelli
di guardia individuali e, dall'altra, può esacerbare sentimenti anti-cristiani;
e tutto ciò senza addentrarci nel ginepraio turco, dove i possibili moventi e i
potenziali sospetti sono sempre più d’uno, gli integralisti, i curdi,
l’opposizione militare e laica al regime islamista che rinnega la tradizione
d’Ataturk.
Non c’è difesa da una minaccia che può colpire ovunque
e chiunque, senza preavviso e con gesti anche individuali. La linea del terrore
va ora da Ankara a Berlino. Ma la domenica era stata rosso sangue ad Aden nello
Yemen e al castello di Karak, in Giordania, un residuo delle Crociate. L’Idra è
sempre viva. Ed i tweet del presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump,
che sono denunce all’Islam senza distinguo, minacciano, in prospettiva, di
nutrirla di nuovo odio.
martedì 20 dicembre 2016
Turchia-Russia: l'assassino dell'ambasciatore mirava a Erdogan e Putin
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 20/12/2016
Le pallottole letali che hanno ucciso Andrei Karlov
erano idealmente destinate ai presidenti Putin e Erdogan per il loro ruolo
nella vicenda siriana: il giovane poliziotto delle unità anti-sommossa che ha
ucciso l’ambasciatore russo ad Ankara intendeva punire la Russia e la Turchia
che, con l’Iran, hanno un ruolo di punta nella vicenda di Aleppo e nei fragili
accordi degli ultimi giorni per l’esodo dei civili dai quartieri orientali della
seconda città siriana.
Non è un’illazione. L’attentatore stesso l’ha urlato,
dopo avere sparato: “Questo è per Aleppo”, roccaforte della resistenza siriana
tornata sotto il controllo del regime del presidente Assad, grazie al sostegno
delle truppe di Mosca e con la collaborazione diplomatica – e non solo – di
Teheran.
L’uccisione dell’ambasciatore coincide con la
pubblicazione, da parte del sedicente Stato islamico, di un elenco di sedi
diplomatiche russe individuate come obiettivi; e cade alla vigilia d’un
incontro a Mosca fra i capi delle diplomazie russa, turca e iraniana, proprio
sulla crisi siriana. Non sono certo solo coincidenze.
“L’attacco giova a quanti non vogliono che Mosca ed
Ankara migliorino le loro relazioni”, dice Viktor Ozerov, un responsabile della
difesa e sicurezza della Federazione russa, citato da Interfax. “Questa è una
seria minaccuia a tutto lo spettro delle relazioni russo-turche: economiche,
politiche e per quanto riguarda gli sforzi congiunti di risolvere la crisi in
Siria. Quanto avvenuto va a vantaggio di chi non vuole che i nostri rapporti migliorino”.
A caldo, l’interpretazione di Ozerov è condivisa dal Cremlino e dal Ministero
degli Esteri russi. Putin ha sollecitato all'intelligence un rapporto.
Certo, fa specie che la qualità delle relazioni fra
Russia e Turchia diventi bersaglio d’attentato, quando, appena un anno fa, i
due Paesi erano sull'orlo della rottura, dopo l’abbattimento di un caccia russo
ad opera della difesa aerea turca. Ma Putin ed Erdogan sono leader dalle
decisioni, e dalle svolte rapide, che non fanno della coerenza il punto focale delle
loro azioni. Si sono riavvicinati dopo il presunto golpe turco e hanno entrambi
profittato della labile presenza diplomatica americana in questa fase per avere
più voce in capitolo in Siria e nel Medio Oriente, l’uno a sostegno del regime
di Assad e l’altro a contenimento dei curdi.
Fra i due presidenti, che s’erano già parlati al
mattino, discutendo proprio la situazione di Aleppo, c’è stata una telefonata,
dopo l’assassinio dell’ambasciatore. L’attentato danneggia l’immagine d’Erdogan,
che non riesce a garantire la sicurezza nel proprio Paese: la repressione
dell’opposizione politica ed etnica – curda – e della libertà d’espressione,
usando la leva del colpo di Stato forse tentato e sicuramente fallito, non
impedisce alla Turchia d’essere teatro, quasi quotidianamente, d’attacchi
sanguinosi di varia matrice, integralista o curda. Il profilo dell’attentatore
di Ankara evoca pure figure che appartengono alla storia turca, come i lupi
grigi.
mercoledì 14 dicembre 2016
Usa: petroliere, miliardario, amico di Putin, Trump dà gli Esteri a Tillerson
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/12/2016
La squadra
è (quasi) al completo: a sua immagine e somiglianza. Miliardari e generali
accomunati dalla fascinazione per l’uomo forte, che sia Donald Trump o Vladimir
Putin, e generosi benefattori del partito repubblicano, tutti paiono scelti con
la tecnica ‘della persona giusta al posto sbagliato’. Le ultime nomine
confermano questa tendenza: Rex Tillerson, 64 anni, petroliere a tempo pieno,
ceo della ExxonMobil, sarà il segretario di Stato; Rick Perry, 66 anni, ex
governatore del Texas, andrà all'Energia.
C’è un responsabile dell’Ambiente, Scott Pruitt, 48 anni, procuratore
generale dell’Oklahoma, scettico sui cambiamenti climatici e vicino
all'industria del carbone. C’è un segretario alla Sanità, Tom Price, 62 anni,
fra i critici più aspri dell’Obamacare, contrario alla libertà di scelta delle
donne sull'aborto. E c’è una responsabile dell’Istruzione, Betsy DeVos, 58 anni, che vuole
usare i soldi delle tasse perché le famiglie possano mandare i loro figli alle
scuole private.
Sul carro
di Tespi della nuova Amministrazione, sono pure saliti due ex rivali di Trump
nella corsa alla nomination repubblicana: Ben Carson, 65 anni, un ex grande
neurochirurgo, divenuto un guru dell’ovvio, all’Edilizia popolare – ne avversa
i programmi, ma lì sta –; e l’ultimo arrivato Perry, quello che nei dibattiti
non ricordava le tre priorità del suo programma, all’Energia – è texano, quindi
di petrolio ne capisce -.
Se poi a
Perry servisse un aiutino, lo può sempre chiedere al neo-segretario di Stato
Tillerson. L’annuncio ‘ufficiale’ della nomina dell’ex ceo di un colosso
petrolifero l’ha dato con un tweet – e come?, se no - lo stesso Trump,
ufficializzando le indiscrezioni che circolavano da giorni, subito dopo avere
informato Mitt Romney, il candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, che
abbozza (“E’ stato un onore essere preso in considerazione”), e altri esclusi
eccellenti.
Giù dal
carro restano, per il momento, tre dei compagni di strada di Trump più fedeli,
che parevano tutti destinati a essere ricompensati: sono il governatore del New
Jersey Chris Christie, l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani e l’ex speaker
della Camera Newt Gingrich. Christie paga, forse, l’inimicizia del genero di
Trump Jared Kushner; Giuliani sconta gli attacchi dei media per conflitti
d’interesse presunti; e Gingrich s’è fatto da parte da solo, magari sentendo
odore di bruciato.
La scelta
di Tillerson ripropone gli interrogativi e le inquietudini sull'orientamento
filo-russo, ma soprattutto filo-Putin, del team Trump, proprio mentre infuria
la polemica sull'aiuto del Cremlino, via hacker, alla vittoria elettorale del
magnate e showman.
Tillerson,
texano, ingegnere, per circa 40 anni alla ExxonMobil, salendone tutti i
possibili gradini, è già, secondo Forbes, 25° nella classifica degli uomini più
potenti al Mondo e potrebbe ora guadagnare posizioni. Considerato uno degli
americani più vicini a Putin, con cui ha avuto rapporti d’affari fin dagli Anni
Novanta, s’iscrive di diritto al club dei fans di Vlady del team Trump, come il
generale Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale, e il segretario
per il commercio Wilbur Ross, 79 anni, ovviamente miliardario, che frequenta da
tempo uomini d’affari russi formatisi nel Kgb – proprio come Putin -.
Che
Tillersone sia un buon manager, non c’è dubbio. Che questo ne faccia un
segretario di Stato adeguato, resta da vedere. Contro la sua nomina, hanno
preso pubblica posizione diversi leader repubblicani, tra cui i senatori Marc
Rubio e John McCain. Ci sarà battaglia al Senato, quando si tratterà di
confermarlo nell'incarico.
Ma il
petroliere ha anche avuto attestati di stima da James A. Baker III, segretario
di Stato ai tempi di Bush padre, oltre che dall'ex vice-presidente Dick Cheney,
da Condoleezza Rice, che fu consigliere per la sicurezza nazionale e segretario
di Stato, e da Bob Gates, ex capo del Pentagono. Nessuno di questi esponenti
repubblicani è iscritto al club dei fans di Putin.
martedì 13 dicembre 2016
Italia: Dopo Renzi, i test di politica estera del nuovo Governo
Scritto per AffarItaliani il 13/12/2016
Il Governo italiano del
dopo Referendum e del dopo Renzi ha l’agenda zeppa di questioni politiche, a
partire dalla legge elettorale, e di problemi economico-finanziari, a partire
dalle angustie di MPS. Ma il premier Gentiloni e i suoi ministri dovranno subito
confrontarsi con impegni internazionali d’interesse italiano o che,
addirittura, vedono l’Italia protagonista.
Già alla fine di questa
settimana, al Vertice di Bruxelles del 14 e 15, dove l’Unione europea cercherà
di mettere insieme i cocci d’una integrazione claudicante e d’una solidarietà
appannata, l’Italia dovrà provare a fare valere le sue posizioni su un dossier
per lei importante come l’immigrazione, oltre che sulla politica di difesa e
sicurezza comune.
E’ la nuova frontiera
Ue, cui l’imminente insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump dà slancio e
urgenza: la prospettiva di un ‘impoverimento’ della Nato e di un allentamento
dei rapporti d’alleanza accresce l’attrazione e le tentazioni d’una difesa
comune.
All'incontro fra i capi
di Stato e di governo dei 28, l’Unione arriva avendo recuperato l’insperato
consenso austriaco, con le presidenziali del 4 dicembre vinte dall'europeista
Van der Bellen sull’euro-scettico - e xenofobo - Hoefer, ma con addosso il peso
di un’Italia uscita stordita, divisa ed incerta, dal referendum costituzionale.
Con Bruxelles, Roma
deve affrontare il negoziato sulla legge finanziaria, senza potersi aspettare,
nella fase attuale, e dopo una stagione di pugni sul tavolo e toni guasconi,
particolare bonomia. Qui, però, la trattativa è affidata a un ministro che gode
di credito presso i suoi interlocutori e la cui competenza è da tutti
riconosciuta: Pier Carlo Padoan.
Il fronte europeo è,
però, solo uno di quelli che vedranno l’Italia impegnata: il 2017 è molto denso
di responsabilità internazionali. Dal 1° gennaio, l’Italia assume la presidenza
del G7, che culminerà nel Vertice di Taormina – dove almeno quattro leader
saranno esordienti -; e sempre dal 1° gennaio l’Italia torna nel Consiglio di
Sicurezza dell'Onu; e, ancora, deve preparare le celebrazioni a Roma per il 60o
anniversario dei Trattati istitutivi delle Comunità europee, il 25 marzo.
L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce fin da subito l’esperienza e la conoscenza dei dossier che sarebbero state auspicabili per agire in tempi brevi.
L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce fin da subito l’esperienza e la conoscenza dei dossier che sarebbero state auspicabili per agire in tempi brevi.
domenica 11 dicembre 2016
Usa: Cia/Fbi, quando l'intelligence ci mette il dito (e il naso)
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/12/2016
Chi di Fbi ferisce, di Cia perisce; o, almeno, rischia di farlo. Nelle ultime battute della campagna per Usa 2016, James Comey, il direttore della polizia federale, aveva giocato sporco a due riprese a favore di Donald Trump, riaprendo e richiudendo a comando l’inchiesta sull’emailgate contro Hillary Clinton. E adesso la Cia del direttore uscente John Brennan, di osservanza democratica, semina di trappole la strada verso la Casa Bianca del presidente eletto.
Per l’intelligence americana, hacker russi “aiutarono Trump a vincere” le elezioni: alla Casa Bianca starebbe per andare un uomo votato più da Putin che dai cittadini americani (che, in effetti, hanno dato più suffragi popolari alla sua rivale).
Il magnate replica via twitter: “E’ l’ora di guardare avanti”, che richiamerebbe il pre-machiavellico ‘cosa fatta capo ha’, se non fosse integrato dall’inevitabile “e di rifare grande l’America”. il suo staff, invece, segna un autogol: “La Cia sono quelli che dissero che Saddam aveva armi da sterminio”: certo, ma a dare loro retta all’epoca fu un’Amministrazione repubblicana, alle cui direttive gli 007 americani s’adeguavano.
In questa transizione eccezionalmente stridente, fra Barack Obama e il suo successore, lo scontro fra il vecchio e il nuovo si combatte su più terreni, mentre le speranze democratiche e progressiste di bloccare Trump sulla soglia della Casa Bianca sono ridotte al lumicino, dopo che un giudice ha detto stop alla riconta dei voti nel Michigan. Salvo l’inedita ribellione di decine di Grandi Elettori, il 19 dicembre, quando si riunirà il Collegio Elettorale, Trump sarà ufficialmente confermato presidente.
A quel punto, le punture di spillo fra chi lascia e chi subentra saranno solo testimonianza dello iato fra le due Amministrazioni. La Cia di Obama, ad esempio, è timorosa che si rimetta in discussione l’accordo sul nucleare con l’Iran e che si torni, nella lotta contro il terrorismo, a torture ammesse dall’Amministrazione Bush e poi bandite, come il ‘waterboarding’, di cui Trump ha più volte fatto l’elogio.
Brennan avverte che denunciare l’intesa con Teheran sarebbe “disastroso”. Ma il suo successore designato Mike Pompeo, deputato del Kansas, Tea Party, origini italiane, considera “una priorità” cancellare l’accordo “con lo Stato che è il principale sostenitore del terrorismo nel Mondo”.
La squadra di Trump non è concorde, sul tema. Il nuovo segretario alla Difesa, James N. Mattis, un ex generale che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, ha diffidenze verso Teheran, ma non intende stracciare il patto sul nucleare. Per contro, il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael T. Flynn, altro ex generale, è ossessionato dall’Iran, un po’ come Pompeo.
La crociata degli hacker dalla Russia per Trump (e contro Hillary) non è un tema inedito. Il WP lo ritira fuori mentre il presidente eletto prosegue nello Iowa il giro di ringraziamento degli elettori, spesso giocato su slogan protezionistici:“Comprate americano, assumete americani”.
Il Washington Post cita una valutazione segreta della Cia, secondo cui Mosca sarebbe intervenuta, con i suoi hackers, nelle elezioni statunitensi non per minare la fiducia dei cittadini nel sistema e nella democrazia, ma proprio per favorire Trump. Gli 007 statunitensi avrebbero individuato personaggi legati al governo russo che avrebbero fornito a Wikileaks migliaia di email hackerate ai danni del partito democratico e di altre organizzazioni collaterali alla campagna Clinton.
Le conclusioni della Cia sarebbero già state presentate a senatori statunitensi. Il presidente Obama ha appena disposto una verifica "completa" delle attività di hackeraggio collegabili a Usa 2016, chiedendo un rapporto esaustivo prima che lasci la Casa Bianca il 20 gennaio. Trump, però, pare più attento a quel che si dice di lui e del suo show ‘The Apprentice’ che ai dati dell’intelligence.
La Cnn riferisce che il presidente magnate snobba i briefing delle agenzie d’informazione – ne ascolta uno la settimana e delega gli altri al suo vice Mike Pence, mentre Obama vi partecipa sei giorni su sette -.
Trump è invece solerte nello smentire le voci di un impegno attivo nel suo show anche dalla Casa Bianca: ''Non ho nulla a che fare con The Apprentice, tranne il fatto che l'ho ideato e che vi ho una grossa partecipazione azionaria. Non vi dedicherò neanche un minuto'', puntualizza, senza però negare conflitti d’interesse potenziali.
Chi di Fbi ferisce, di Cia perisce; o, almeno, rischia di farlo. Nelle ultime battute della campagna per Usa 2016, James Comey, il direttore della polizia federale, aveva giocato sporco a due riprese a favore di Donald Trump, riaprendo e richiudendo a comando l’inchiesta sull’emailgate contro Hillary Clinton. E adesso la Cia del direttore uscente John Brennan, di osservanza democratica, semina di trappole la strada verso la Casa Bianca del presidente eletto.
Per l’intelligence americana, hacker russi “aiutarono Trump a vincere” le elezioni: alla Casa Bianca starebbe per andare un uomo votato più da Putin che dai cittadini americani (che, in effetti, hanno dato più suffragi popolari alla sua rivale).
Il magnate replica via twitter: “E’ l’ora di guardare avanti”, che richiamerebbe il pre-machiavellico ‘cosa fatta capo ha’, se non fosse integrato dall’inevitabile “e di rifare grande l’America”. il suo staff, invece, segna un autogol: “La Cia sono quelli che dissero che Saddam aveva armi da sterminio”: certo, ma a dare loro retta all’epoca fu un’Amministrazione repubblicana, alle cui direttive gli 007 americani s’adeguavano.
In questa transizione eccezionalmente stridente, fra Barack Obama e il suo successore, lo scontro fra il vecchio e il nuovo si combatte su più terreni, mentre le speranze democratiche e progressiste di bloccare Trump sulla soglia della Casa Bianca sono ridotte al lumicino, dopo che un giudice ha detto stop alla riconta dei voti nel Michigan. Salvo l’inedita ribellione di decine di Grandi Elettori, il 19 dicembre, quando si riunirà il Collegio Elettorale, Trump sarà ufficialmente confermato presidente.
A quel punto, le punture di spillo fra chi lascia e chi subentra saranno solo testimonianza dello iato fra le due Amministrazioni. La Cia di Obama, ad esempio, è timorosa che si rimetta in discussione l’accordo sul nucleare con l’Iran e che si torni, nella lotta contro il terrorismo, a torture ammesse dall’Amministrazione Bush e poi bandite, come il ‘waterboarding’, di cui Trump ha più volte fatto l’elogio.
Brennan avverte che denunciare l’intesa con Teheran sarebbe “disastroso”. Ma il suo successore designato Mike Pompeo, deputato del Kansas, Tea Party, origini italiane, considera “una priorità” cancellare l’accordo “con lo Stato che è il principale sostenitore del terrorismo nel Mondo”.
La squadra di Trump non è concorde, sul tema. Il nuovo segretario alla Difesa, James N. Mattis, un ex generale che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, ha diffidenze verso Teheran, ma non intende stracciare il patto sul nucleare. Per contro, il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael T. Flynn, altro ex generale, è ossessionato dall’Iran, un po’ come Pompeo.
La crociata degli hacker dalla Russia per Trump (e contro Hillary) non è un tema inedito. Il WP lo ritira fuori mentre il presidente eletto prosegue nello Iowa il giro di ringraziamento degli elettori, spesso giocato su slogan protezionistici:“Comprate americano, assumete americani”.
Il Washington Post cita una valutazione segreta della Cia, secondo cui Mosca sarebbe intervenuta, con i suoi hackers, nelle elezioni statunitensi non per minare la fiducia dei cittadini nel sistema e nella democrazia, ma proprio per favorire Trump. Gli 007 statunitensi avrebbero individuato personaggi legati al governo russo che avrebbero fornito a Wikileaks migliaia di email hackerate ai danni del partito democratico e di altre organizzazioni collaterali alla campagna Clinton.
Le conclusioni della Cia sarebbero già state presentate a senatori statunitensi. Il presidente Obama ha appena disposto una verifica "completa" delle attività di hackeraggio collegabili a Usa 2016, chiedendo un rapporto esaustivo prima che lasci la Casa Bianca il 20 gennaio. Trump, però, pare più attento a quel che si dice di lui e del suo show ‘The Apprentice’ che ai dati dell’intelligence.
La Cnn riferisce che il presidente magnate snobba i briefing delle agenzie d’informazione – ne ascolta uno la settimana e delega gli altri al suo vice Mike Pence, mentre Obama vi partecipa sei giorni su sette -.
Trump è invece solerte nello smentire le voci di un impegno attivo nel suo show anche dalla Casa Bianca: ''Non ho nulla a che fare con The Apprentice, tranne il fatto che l'ho ideato e che vi ho una grossa partecipazione azionaria. Non vi dedicherò neanche un minuto'', puntualizza, senza però negare conflitti d’interesse potenziali.
giovedì 8 dicembre 2016
Usa: Trump/Obama, frizione continua, persona dell'anno che divide
Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 08/12/2016
Time lo ha scelto come persona dell’anno – ed
era quasi scontato -. Ma la motivazione non è proprio lusinghiera. Per il
settimanale, Donald Trump è il "presidente degli Stati divisi
d'America": batte Hillary Clinton, ormai insignita del titolo di ‘eterna seconda’,
e una terna di personaggi discussi e discutibili, il russo Putin, il turco
Erdogan – due suoi amichetti prossimi venturi – e pure l’ideatore di Facebook
Zuckerberg, uno che è tutto meno che simpatico.
E’ la 90° volta che Time assegna la prestigiosa copertina. La galleria dei vincitori comprende i satana del XX Secolo: Adolf Hitler fu uomo dell’anno nel ‘38, Josif Stalin lo fu due volte in tempo di guerra.
Time segnala che è difficile misurare l’intensità del terremoto Trump sulla politica e l’economia americana e mondiale: "Davanti a questo barone dell'immobiliare e proprietario di casinò diventato star di un reality e provocatore senza mai aver passato un giorno da uomo pubblico e senza avere mai gestito altro interesse che il suo, ci sono le rovine fumanti di un vasto edificio politico che ospitava partiti, politologi, donatori, sondaggisti, tutti quelli che non lo avevano preso sul serio e non avevano previsto il suo arrivo” alla Casa Bianca.
L’avvicinamento di Trump all’inaugurazione del suo mandato, il 20 gennaio, è tutt’altro che discreto: ogni giorno che passa, il fossato tra il presidente eletto e quello uscente s’allarga. Trump, che pensa d’arrivare sul Campidoglio in elicottero, piccona il lascito di Barack Obama: i grandi disegni internazionali, Cuba, l’Iran, gli accordi commerciali multilaterali; e le riforme interne, cominciando da quella sanitaria; ed anche le decisioni spicciole e politicamente insignificanti, com’è la commessa alla Boeing per il nuovo AirForceOne. Dallo Studio Ovale, Obama replica: “L’elezione di Trump non cancellerà le conquiste fatte”; ma non ci crede neppure lui.
Capita che le impuntature del magnate, spesso affidate ai suoi micidiali tweet ad ore impossibile, roba da mattutino dei monaci di clausura, siano frutto di disinformazione o di malanimo – con l’aereo della Boeing se l’è presa subito dopo che l’azienda di Seattle aveva contestato la sua volontà di aprire contenziosi economici con mezzo Mondo, citando cifre assolutamente sballate -. Ma capita pure che si rivelino meno ingenue di quanto lui stesso non le voglia fare apparire.
Un esempio: la criticatissima telefonata con la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen non sarebbe stata affatto casuale – “Ho risposto a una telefonata ricevuta: che male c’è?” -, ma sarebbe anzi stata frutto di mesi di lavorio preparatorio di Bob Dole, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 1996 e una sorta di curatore degli interessi dell’isola tra Usa e Cina.
Per riparare un po’ i danni, il presidente magnato ha scelto come ambasciatore a Pechino un vecchio amico del presidente Xi, il governatore dello Iowa Terry Branstad: una decisione bene accolta, ma che non basta certo a sciogliere tutti i nodi del contenzioso Usa-Cina.
Trump ha proseguito il suo giro di ringraziamento degli elettori americani in North Carolina e ha ieri aggiunto un tassello alla sua squadra, scegliendo come responsabile della Sicurezza interna l’ennesimo generale, John Kelly, un marines proprio come James ‘cane pazzo’ Mattis, il nuovo capo della Difesa Usa. Nomine che richiedono una deroga del Congresso alle attuali norme: “Se non ci stanno – ha detto Trump in North Carolina, con Mattis accanto -, saranno in molti ad arrabbiarsi”.
Kelly, 66 anni, non è un patito di Trump: ufficiale duro e rigoroso, un figlio caduto in Afghanistan nel 2010, ha collaborato in fasi diverse con l’Amministrazione Obama e dovrà gestire dossier delicati e prioritari come il controllo dell’immigrazione e la gestione degli ‘irregolari’. Per il segretario di Stato, la casella più importante rimasta vuota, bisogna ancora attendere.
Un altro generale, Michael T. Flynn, che sarà consigliere per la Sicurezza nazionale, ha invece perso qualche punto: suo figlio, Michael G., che era nel ‘transition team’ del presidente eletto, ne è stato cacciato perché diffondeva sui social notizie false e diffamanti su collaboratori di Hillary Clinton, accusati senza prova di pedofilia e altre nefandezze.
E’ la 90° volta che Time assegna la prestigiosa copertina. La galleria dei vincitori comprende i satana del XX Secolo: Adolf Hitler fu uomo dell’anno nel ‘38, Josif Stalin lo fu due volte in tempo di guerra.
Time segnala che è difficile misurare l’intensità del terremoto Trump sulla politica e l’economia americana e mondiale: "Davanti a questo barone dell'immobiliare e proprietario di casinò diventato star di un reality e provocatore senza mai aver passato un giorno da uomo pubblico e senza avere mai gestito altro interesse che il suo, ci sono le rovine fumanti di un vasto edificio politico che ospitava partiti, politologi, donatori, sondaggisti, tutti quelli che non lo avevano preso sul serio e non avevano previsto il suo arrivo” alla Casa Bianca.
L’avvicinamento di Trump all’inaugurazione del suo mandato, il 20 gennaio, è tutt’altro che discreto: ogni giorno che passa, il fossato tra il presidente eletto e quello uscente s’allarga. Trump, che pensa d’arrivare sul Campidoglio in elicottero, piccona il lascito di Barack Obama: i grandi disegni internazionali, Cuba, l’Iran, gli accordi commerciali multilaterali; e le riforme interne, cominciando da quella sanitaria; ed anche le decisioni spicciole e politicamente insignificanti, com’è la commessa alla Boeing per il nuovo AirForceOne. Dallo Studio Ovale, Obama replica: “L’elezione di Trump non cancellerà le conquiste fatte”; ma non ci crede neppure lui.
Capita che le impuntature del magnate, spesso affidate ai suoi micidiali tweet ad ore impossibile, roba da mattutino dei monaci di clausura, siano frutto di disinformazione o di malanimo – con l’aereo della Boeing se l’è presa subito dopo che l’azienda di Seattle aveva contestato la sua volontà di aprire contenziosi economici con mezzo Mondo, citando cifre assolutamente sballate -. Ma capita pure che si rivelino meno ingenue di quanto lui stesso non le voglia fare apparire.
Un esempio: la criticatissima telefonata con la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen non sarebbe stata affatto casuale – “Ho risposto a una telefonata ricevuta: che male c’è?” -, ma sarebbe anzi stata frutto di mesi di lavorio preparatorio di Bob Dole, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 1996 e una sorta di curatore degli interessi dell’isola tra Usa e Cina.
Per riparare un po’ i danni, il presidente magnato ha scelto come ambasciatore a Pechino un vecchio amico del presidente Xi, il governatore dello Iowa Terry Branstad: una decisione bene accolta, ma che non basta certo a sciogliere tutti i nodi del contenzioso Usa-Cina.
Trump ha proseguito il suo giro di ringraziamento degli elettori americani in North Carolina e ha ieri aggiunto un tassello alla sua squadra, scegliendo come responsabile della Sicurezza interna l’ennesimo generale, John Kelly, un marines proprio come James ‘cane pazzo’ Mattis, il nuovo capo della Difesa Usa. Nomine che richiedono una deroga del Congresso alle attuali norme: “Se non ci stanno – ha detto Trump in North Carolina, con Mattis accanto -, saranno in molti ad arrabbiarsi”.
Kelly, 66 anni, non è un patito di Trump: ufficiale duro e rigoroso, un figlio caduto in Afghanistan nel 2010, ha collaborato in fasi diverse con l’Amministrazione Obama e dovrà gestire dossier delicati e prioritari come il controllo dell’immigrazione e la gestione degli ‘irregolari’. Per il segretario di Stato, la casella più importante rimasta vuota, bisogna ancora attendere.
Un altro generale, Michael T. Flynn, che sarà consigliere per la Sicurezza nazionale, ha invece perso qualche punto: suo figlio, Michael G., che era nel ‘transition team’ del presidente eletto, ne è stato cacciato perché diffondeva sui social notizie false e diffamanti su collaboratori di Hillary Clinton, accusati senza prova di pedofilia e altre nefandezze.
mercoledì 7 dicembre 2016
Usa: Trump presidente, una squadra di generali, razzisti, miliardari
Pubblicato da www.AffarInternazionali.it lo 07/12/2016 e, in altra versione, da la Voce e il Tempo
Dal giorno che Donald Trump ha conquistato la Casa
Bianca, pur avendo ottenuto oltre due milioni di voti popolari in meno di
Hillary Clinton, l’1,5% dei suffragi espressi, il tam-tam dei media batte lo
stesso annuncio: “Il presidente sarà diverso dal candidato”. Ora, a parte che
non si capisce come un uomo di 70 anni possa cambiare la sua indole da un
giorno all'altro, specie dopo essere stato premiato per i suoi atteggiamenti
aggressivi, sessisti, grossolani, è un fatto che tutte le scelte finora fatte inducono
a pensare esattamente l’opposto.
Prendiamo la composizione della squadra di governo, le
cui caselle Trump riempie più celermente di tutti i suoi predecessori, almeno a
partire da Ronald Reagan. Il magnate e showman snocciola nomine, che vanno
(quasi) tutte nello stesso senso: pare di stare in uno di quei film sul
razzismo dell’aristocrazia del denaro del Profondo Sud, l’Alabama di ‘A spasso
con Daisy’, o il Mississippi di ‘The Help’. Ma Steve Bannon, il
super-consigliere, megafono mediatico dei suprematisti bianchi, sarebbe a suo
agio nel Texas de ‘La Caccia’.
Le scelte cadono su ex generali e miliardari in
servizio permanente effettivo. Pochi invece i politici.
La
ricerca del segretario di Stato: ridda di nomi
Trump è ancora alla ricerca di un segretario di Stato
potabile, che gli dia credibilità internazionale e che accetti d’entrare nella
sua Amministrazione. Nelle quotazioni della stampa, i favoriti sono tre: Mitt
Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, mai in sintonia con
la campagna del magnate; Rudolph Giuliani, sindaco di New York l’11 Settembre
2001, il leader repubblicano più vicino a Trump; e David Petraeus, generale in
congedo ed ex direttore della Cia. Nessuno dei tre ha un profilo ideale: Romney
è l’anti-Trump per antonomasia fra i repubblicani; Giuliani è stato indebolito
da rivelazioni dei media su rapporti d’affari con Paesi terzi, che configurano
conflitti d’interesse; Petraeus uscì di scena nel 2012 per uno scandalo che ne
offuscò l’immagine (e l’affidabilità).
Così, la rosa dei nomi s’allarga. Il New York Times
rimette in pista l’ex ambasciatore degli Usa all’Onu John R. Bolton, un
diplomatico competente, ma rigido e scostante nell’approccio: e cita pure Jon
M. Huntsman, ex governatore dello Utah, ex ambasciatore in Cina e candidato nel
2012 alla nomination repubblicana; Joe Manchin III, un senatore democratico
della West Virginia; e, infine, Rex W. Timmerson il presidente e ceo di Exxon
Mobil. Il presidente eletto ha anche sondato il senatore del Tennessee Bob
Corker e il generale dei marines John Kelly – il figlio maggiore cadde in
Afghanistan nel 2010 -, nomi apparentemente deboli per quel ruolo.
L’eterogeneità delle ipotesi indica che la ricerca del
segretario di Stato è complessa: non è facile trovare un candidato preparato e
affidabile che accetti di lavorare al fianco di un presidente capace di creare,
in ogni momento, più o meno consapevolmente, un incidente diplomatico. Trump
rimette in discussione la distensione con Cuba, al momento stesso della morte
di Fidel Castro; intende ripristinare l’uso della tortura nella lotta contro il
terrorismo, nonostante le reticenze delle agenzie di sicurezza che ci sono già
passate; infiamma le relazioni con la Cina, rispondendo alla telefonata della
presidente di Taiwan Tsai Ing-wen (“Che male c’è?, mi ha chiamato lei”).
La
sicurezza in mano ai militari: il nodo dell’Iran
Il segretario alla Difesa è James N. Mattis, 66 anni,
generale in congedo che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione
dell’Iraq nel 2003: avido lettore di storia militare, ha nomignoli come ‘il
monaco guerriero’, per il suo carattere ascetico – non è mai stato sposato -,
oppure ‘cane pazzo’. Ai suoi soldati, impone di studiare usi e costumi delle
terre dove sono mandati in missione.
Mattis guarda con preoccupazione all’Iran, ma non è
favorevole a stracciare l’accordo nucleare definito con Teheran. In merito, John
Brennan, direttore della Cia uscente, ha lanciato un monito alla futura
Amministrazione: denunciare l’intesa sarebbe “disastroso” e potrebbe aprire una
corsa agli armamenti in Medio Oriente. Ma il successore di Brennan sarà Mike Pompeo,
59 anni, deputato del Kansas, origini italiane, un Tea Party vicino al
vice-presidente Mike Pence: per lui, la priorità è l’abolizione dell’accordo
con l’Iran, perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al
Mondo”.
Il consigliere per la Sicurezza nazionale sarà il
generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall’Amministrazione
Obama ed entrato nelle fila repubblicane in campagna elettorale. Come
ambasciatrice all’Onu, altra figura importante della politica estera e di
sicurezza, Trump ha scelto Nikki Haley, 44 anni, governatrice della South
Carolina, origini indiane, che non lo aveva sostenuto nella campagna. Mentre il
capo dello staff alla Casa Bianca sarà un repubblicano ‘doc’, fra i pochi ad
essergli stato vicino: Reince Priebus, 44 anni.
Tesoro,
Giustizia e altre nomine
Alcune delle nomine finora fatte vanno esattamente in senso
opposto alle promesse più improbabili del Trump candidato, a dimostrazione che
la coerenza non è una caratteristica del presidente eletto: s’era presentato
come l’incubo di Wall Street e della finanza protetta da Hillary Clinton e
sceglie due finanzieri miliardari, Steven Mnuchin e Wilbur L. Ross, al Tesoro e
al Commercio. Mnuchin, 54 anni, ha gestito gli aspetti finanziari della
campagna presidenziale, ha legami con
Hollywood e con Wall Street, ma non ha esperienza di gestione della cosa
pubblica. Ross, 79 anni, fa l’investitore ed entra in squadra, come molti altri,
perché è un grande finanziatore del partito repubblicano – suo vice è Todd
Ricketts, 46 anni, proprietario dei Chicago Cubs che hanno appena vinto il
campionato di baseball e figlio del fondatore di Ameritrade: nessuno di questi
appare in sintonia con i minatori degli Appalachi e il metallurgici della
Pennsylvania che hanno consegnato a Trump la Casa Bianca con i loro voti.
Il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, 69 anni, sarà
segretario alla Giustizia: è favorevole all’espulsione degli immigrati irregolari
ed è contrario all’aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Nel suo cv, venature
razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux
Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.
Trump ha pure nominato uno dei suoi rivali per la
nomination repubblicana, Ben Carson, 65 anni, neurochirurgo nero, all’Edilizia
pubblica – va già bene che un creazionista come lui non sia finito altrove -;
Tom Price, 62 anni, deputato della Georgia, fra i critici più radicali
dell’Obamacare, andrà alla Sanità; Elaine Chao, 63 anni, origini asiatiche, già
ministro con George W. Bush, ai Trasporti; e Betsy DeVos, 58 anni, altra
miliardaria, donatrice repubblicana, all’Istruzione - vuole dare i soldi dei
contribuenti alle famiglie perché possano mandare i loro figli alle scuole
private -.
domenica 27 novembre 2016
Usa 2016: Trump, il precedente di Reagan?, un parallelo azzardato
Scritto per Il Fatto Quotidiano dopo l'Election Day di Usa 2016 e non utilizzato
Un presidente che viene da un altro mondo?, estraneo
alla politica e all’Amministrazione? Sai che novità! Gli Stati Uniti lo hanno
già avuto. Ed è pure stato un grande presidente: Ronald Reagan, che fu alla Casa
Bianca dal 1981 al 1989, aveva un passato da attore di film western di serie B.
Fu capace di sconfiggere, in rapida successione, il capo indiano Tecumseh, la
cui maledizione datata prima metà del XIX Secolo lo condannava a morte – lui,
invece, schivò la pallottola dell’attentatore quel tanto che bastava per
sopravvivere all’agguato – e la stagnazione dell’economia liberando l’energia
del liberismo – con l’aiuto della sua grande amica Margaret Thacher, premier
britannico – e di vincere, d’un colpo solo, la Guerra Fredda e l’Unione
Sovietica, dopo averla sfidata sulla soglia di casa con gli euromissili ed
avere poi fatto comunella a Reykjavik con Mikahil Gorbaciov.
Magari, fra qualche anno qualcuno occuperà questa stessa
colonnina di giornale per raccontare come Donald Trump sarà stato un grande
presidente, avrà sconfitto il terrorismo internazionale, ridotto a compagno di
bisboccia Vladimir Putin e restituito l’America alla sua grandezza – termine di
riferimento?, l’America di Reagan, ovvio -.
Ma a una qualsiasi analisi il parallelo tra Reagan e
Trump appare per il momento azzardato. Perché Reagan, quando arrivò alla Casa
Bianca, aveva abbandonato da parecchi anni, da quando cioè aveva appena
superato i cinquanta, la colt e gli speroni da set ed aveva già esercitato un
doppio mandato di governatore della California, il più popoloso Stato
dell’Unione e allora la 7° economia mondiale. Eletto nel 1966, rieletto nel
1970, nel 1974 non si era più presentato perché voleva già prepararsi alla Casa
Bianca: aveva fatto un tentativo da indipendente fallito, si mise in corsa nel
1976 per la nomination repubblicana, la ottenne nell’ ’80 e vinse.
Trump, che entra alla Casa Bianca più anziano di un anno di quando vi entrò Reagan la prima volta, non ha nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica e, fino a questa campagna, non aveva mai manifestato l’interesse a farsela. Chissà se, per selezionare i ministri, userà i sistemi del boss del suo show tv The Apprentice.
Trump, che entra alla Casa Bianca più anziano di un anno di quando vi entrò Reagan la prima volta, non ha nessuna esperienza di gestione della cosa pubblica e, fino a questa campagna, non aveva mai manifestato l’interesse a farsela. Chissà se, per selezionare i ministri, userà i sistemi del boss del suo show tv The Apprentice.
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