Scritto per Il Fatto Quotidiano del 31/12/2010
Settant’anni dopo, va in scena a Londra una tragedia di guerra italiana misconosciuta: l’affondamento, il 30 giugno 1940 –la dichiarazione di guerra italiana era del 10 giugno-, dell’Arandora Star, una nave passeggeri britannica salpata da Liverpool e diretta in Canada. C’erano, a bordo 1.600 persone: ebrei in fuga dall’Europa, ma soprattutto centinaia di tedeschi e italiani deportati perché considerati ‘stranieri nemici’. La Arandora Star fu silurata da un U-boat nazista al largo delle coste irlandesi: ando giù in 20’. Circa la metà delle persone a bordo perirono e, delle vittime, 450 erano italiani. L’incidente di guerra ebbe, all’epoca, scarsa pubblicità dalle autorità fasciste: il fatto che a causare la morte di tanti italiani fosse stato l’alleato tedesco imbarazzava il regime. Ma gli italiani di Gran Bretagna commemorano ogni anno il tragico evento e, quindi, non stupisce che a portare la vicenda in scena sia un italiano, Alfio Bernabei, romanziere e commediografo, da almeno 40 anni nel Regno Unito. E la notizia della sua opera, The Tailor at the Bottom of the Sea, il Sarto in fondo al mare, sta sul Telegraph, proprio il giornale che, nel 1940, fu il primo a riferire dell’affondamento della Arandora Star. Fra i protagonisti, un personaggio storico, Decio Anzani, rinchiuso in un campo di concentramento sull’Isola di Man, prima di essere imbarcato sulla nave fatale, nonostante fosse un noto anti-fascista: sarto a Soho, attivista politico ed intellettuale amico di George Orwell e della suffragetta Sylvia Pankhurst. Dopo una prima a Jesi nelle Marche, il lavoro teatrale cerca ora affermazione a Londra.
venerdì 31 dicembre 2010
giovedì 30 dicembre 2010
SPIGOLI: l'oro dei biondi capelli russi fa ricchi gli italiani
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/12/2010
L’oro (dei capelli bondi) è russo, ma a farci i soldi negli Usa sono gli italiani. Great Lenghts, un’azienda italiana dal nome allusivo (grandi lunghezze), è la principale fornitrice di ‘extensions’ sul mercato nord-americano: il giro d’affari negli Stati Uniti vale 250 milioni di dollari l’anno, circa il 3% dell’intero comparto dei prodotti per la cura dei capelli. Attenzione!, non stiamo parlando delle parrucche, quelle che appartengono alla tradizione letteraria strappacuore e natalizia del racconto di William Sydney Porter intitolato ‘Il dono dei Re Magi’, ma delle ‘extensions’ che vanno per la maggior in America e che stanno pure affermandosi in Europa: il prezzo medio è calcolato a 439 dollari, ma la procedura in un salone di bellezza d’èlite qui da noi può costare migliaia di euro. E la materia prima bionda viene oggi soprattutto dalla Russia, che ha soppiantato Polonia e Ucraina (Cina e soprattutto India hanno invece il primato dei capelli scuri). Andrew E. Kramer, per conto del New York Times, ha recentemente visitato Mosalsk, nella Russia centrale, dove i biondi capelli delle solide ragazze sono l’unica ricchezza sfuggita alla povertà post-comunista, per molti versi più disperata (e più iniqua) di quella comunista: una chioma di 40 cm vale, al borsino dei mercanti di ciocche, 50 dollari. Penserà poi l’industria di trasformazione italiana a decuplicarne il valore, sui mercati più ricchi.
L’oro (dei capelli bondi) è russo, ma a farci i soldi negli Usa sono gli italiani. Great Lenghts, un’azienda italiana dal nome allusivo (grandi lunghezze), è la principale fornitrice di ‘extensions’ sul mercato nord-americano: il giro d’affari negli Stati Uniti vale 250 milioni di dollari l’anno, circa il 3% dell’intero comparto dei prodotti per la cura dei capelli. Attenzione!, non stiamo parlando delle parrucche, quelle che appartengono alla tradizione letteraria strappacuore e natalizia del racconto di William Sydney Porter intitolato ‘Il dono dei Re Magi’, ma delle ‘extensions’ che vanno per la maggior in America e che stanno pure affermandosi in Europa: il prezzo medio è calcolato a 439 dollari, ma la procedura in un salone di bellezza d’èlite qui da noi può costare migliaia di euro. E la materia prima bionda viene oggi soprattutto dalla Russia, che ha soppiantato Polonia e Ucraina (Cina e soprattutto India hanno invece il primato dei capelli scuri). Andrew E. Kramer, per conto del New York Times, ha recentemente visitato Mosalsk, nella Russia centrale, dove i biondi capelli delle solide ragazze sono l’unica ricchezza sfuggita alla povertà post-comunista, per molti versi più disperata (e più iniqua) di quella comunista: una chioma di 40 cm vale, al borsino dei mercanti di ciocche, 50 dollari. Penserà poi l’industria di trasformazione italiana a decuplicarne il valore, sui mercati più ricchi.
mercoledì 29 dicembre 2010
Spigoli: il tempo della pasta scotta e lo spazio dello stereotipo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 29/12/2010, non pubblicato
Puoi pure andartene nello spazio per mesi e fare uno dei mestieri più avventurosi dell’Universo, ma agli stereotipi non sfuggi mai. E, così, Paolo Nespoli, astronauta italiano, veterano dello spazio, offre, suo malgrado, la prova che gli italiani restano agli occhi del Mondo un popolo di mammoni e di mangiatori di pasta, oltre che, naturalmente, di poeti e di inventori… Beh, ci sarebbero pure i navigatori, che, all’epoca degli esploratori, valevano gli astronauti d’oggi, ma di quelli non si ricorda mai nessuno… Il titolo che The Telegraph dedica alla missione del veterano azzurro, che fu, nel 1997, il primo cittadino dell’Unione europea a porre piede sulla Stazione spaziale internazionale, recita: “L’astronauta italiano si lamenta della pasta kazaka scotta prima del lancio della Soyuz”, la navetta russa con cui Nespoli, un cosmonauto russo e un’astronauta americana hanno raggiunto il laboratorio orbitante. I tre resteranno in orbita fino a metà giugno e celebreranno lassù in aprile i 50 anni della prima missione spaziale umana, il volo di Yuri Gagarin. La lamentela di Nespoli era, ovviamente, scherzosa ed era contenuta in un messaggio destinato ai suoi followers su twitter, poco prima del lancio, a metà dicembre. L’astronauta italiano, che nel frattempo ci ha già fatto gli auguri dallo spazio, non ce l’aveva con i kazaki di Baikonur: era conscio che la pasta sarebbe stata scotta anche se il lancio fosse avvenuto dal Kennedy Space Center in Florida, perché – e questo non è uno stereotipo -, quando si tratta di pasta, americani e russi sono zero, solo gli italiani ci sanno fare.
Puoi pure andartene nello spazio per mesi e fare uno dei mestieri più avventurosi dell’Universo, ma agli stereotipi non sfuggi mai. E, così, Paolo Nespoli, astronauta italiano, veterano dello spazio, offre, suo malgrado, la prova che gli italiani restano agli occhi del Mondo un popolo di mammoni e di mangiatori di pasta, oltre che, naturalmente, di poeti e di inventori… Beh, ci sarebbero pure i navigatori, che, all’epoca degli esploratori, valevano gli astronauti d’oggi, ma di quelli non si ricorda mai nessuno… Il titolo che The Telegraph dedica alla missione del veterano azzurro, che fu, nel 1997, il primo cittadino dell’Unione europea a porre piede sulla Stazione spaziale internazionale, recita: “L’astronauta italiano si lamenta della pasta kazaka scotta prima del lancio della Soyuz”, la navetta russa con cui Nespoli, un cosmonauto russo e un’astronauta americana hanno raggiunto il laboratorio orbitante. I tre resteranno in orbita fino a metà giugno e celebreranno lassù in aprile i 50 anni della prima missione spaziale umana, il volo di Yuri Gagarin. La lamentela di Nespoli era, ovviamente, scherzosa ed era contenuta in un messaggio destinato ai suoi followers su twitter, poco prima del lancio, a metà dicembre. L’astronauta italiano, che nel frattempo ci ha già fatto gli auguri dallo spazio, non ce l’aveva con i kazaki di Baikonur: era conscio che la pasta sarebbe stata scotta anche se il lancio fosse avvenuto dal Kennedy Space Center in Florida, perché – e questo non è uno stereotipo -, quando si tratta di pasta, americani e russi sono zero, solo gli italiani ci sanno fare.
martedì 28 dicembre 2010
Wikileaks: Assange, libro e film per macchina mangia-soldi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/12/2010
Wikileaks è una macchina mangia-soldi: al suo creatore, Julian Assange, procura guai e querele, in misura proporzionale a quanti guai e fastidi provocano le rivelazioni del sito. E Assange, che ha già sborsato 200 mila euro in spese legali, per difendersi dalle accuse di molestie sessuali mossegli in Svezia, s’ingegna a tirare su i soldi che la sua creatura gli costa, in attesa e nel timore che dagli Stati Uniti arrivi una bordata di accuse di furto, spionaggio, collusione con il terrorismo e chissà che cos’altro ancora,.
Il biondino d’Australia, l’hacker più famoso del momento, eroe per alcuni, criminale per altri, non manca di risorse. Lasciamo da parte le interviste: quelle, ad Assange, non fruttano soldi, ma servono per lanciare messaggi e per preparare il terreno a nuove bordate di segreti svelati (oltre che ad accrescere la sua aurea di vittima e perseguitato: vi descrive le sue prigioni –durate appena nove giorni- come un’epopea che, al confronto, quelle di Silvio Pellico erano una villeggiatura).
Sul fronte degli attivi, ci sono, anzi c’erano, conferenze e partecipazioni a convegni. Ma questa storia della libertà vigilata limita, non si sa ancora per quanto, la possibilità di movimento di Assange. Sotto, allora, con un libro di memorie, una biografia che sarà pure solo “dei suoi primi quarant’anni”, ma che è già ricca di storie e avventure: Assange l’ha venduta per un milione di sterline. Ad occhio, uno sarebbe tentato di dire che poteva spuntare di più, visti i milioni di dollari elargiti a Bill e Hillary Clinton e persino a George W. Bush per le loro memorie: ma, a ben pensarci, otto anni alla Casa Bianca valgono di più di otto mesi da divulgatore di segreti americani sull’Iraq, sull’Afghanistan, sull’universo mondo.
Lui, Julian, anche stavolta la mette giù dura: “Non mi va proprio di scriverlo” . Però, i soldi li ha presi e presto gli serviranno; e deve pure darci dentro, perché il libro deve uscire in primavera: bisogna battere il ferro finchè è caldo, perché, se passa il tempo, e se Wikileaks non fa più notizia, allora il libro resterà sugli scaffali. Tanto più che le memorie di Assange non saranno le prime: arriveranno dopo quelle, non necessariamente benevole, del suo ex numero due Daniel Domscheit-Berg, il cui 'Inside Wikileaks’ dovrebbe uscire in Germania il 27 gennaio.
L'autobiografia dell’australiano sarà edita da Canongate in Gran Bretagna e Knopf negli Usa. Julian potrà mettere a profitto per scrivere la libertà su cauzione in una villa del Suffolk, in attesa che si dirima la faccenda dell’estradizione chiesta dalla Svezia.
Dopo il libro, o insieme al libro, naturalmente un film: i siti già s’interrogano su quale, tra le star di Hollywood, possa essere il volto giusto. Certo, la scelta sarà diversa a seconda che l’Assange del film sia un eroe e un perseguitato oppure un gaglioffo e un profittatore. Per il blogger Rick Poter, Paul Bettany, attualmente nelle sale con il film The Tourist, sarebbe un buon eroe, mentre Russel Crowe, australiano come il modello, sarebbe un eroe cattivo. Per l’Assange ‘anti-eroe’ c’è in corsa, invece, Daniel Radcliffe, un Harry Potter cresciuto abbastanza da recitare il biondino slavato. C’è infine l’ipotesi di un ‘wikileaks movie’ brillante, al modo degli Ocean’s di Steven Soderbergh: ma rendere Assange simpatico appare impresa disperata anche per Hollywood.
Wikileaks è una macchina mangia-soldi: al suo creatore, Julian Assange, procura guai e querele, in misura proporzionale a quanti guai e fastidi provocano le rivelazioni del sito. E Assange, che ha già sborsato 200 mila euro in spese legali, per difendersi dalle accuse di molestie sessuali mossegli in Svezia, s’ingegna a tirare su i soldi che la sua creatura gli costa, in attesa e nel timore che dagli Stati Uniti arrivi una bordata di accuse di furto, spionaggio, collusione con il terrorismo e chissà che cos’altro ancora,.
Il biondino d’Australia, l’hacker più famoso del momento, eroe per alcuni, criminale per altri, non manca di risorse. Lasciamo da parte le interviste: quelle, ad Assange, non fruttano soldi, ma servono per lanciare messaggi e per preparare il terreno a nuove bordate di segreti svelati (oltre che ad accrescere la sua aurea di vittima e perseguitato: vi descrive le sue prigioni –durate appena nove giorni- come un’epopea che, al confronto, quelle di Silvio Pellico erano una villeggiatura).
Sul fronte degli attivi, ci sono, anzi c’erano, conferenze e partecipazioni a convegni. Ma questa storia della libertà vigilata limita, non si sa ancora per quanto, la possibilità di movimento di Assange. Sotto, allora, con un libro di memorie, una biografia che sarà pure solo “dei suoi primi quarant’anni”, ma che è già ricca di storie e avventure: Assange l’ha venduta per un milione di sterline. Ad occhio, uno sarebbe tentato di dire che poteva spuntare di più, visti i milioni di dollari elargiti a Bill e Hillary Clinton e persino a George W. Bush per le loro memorie: ma, a ben pensarci, otto anni alla Casa Bianca valgono di più di otto mesi da divulgatore di segreti americani sull’Iraq, sull’Afghanistan, sull’universo mondo.
Lui, Julian, anche stavolta la mette giù dura: “Non mi va proprio di scriverlo” . Però, i soldi li ha presi e presto gli serviranno; e deve pure darci dentro, perché il libro deve uscire in primavera: bisogna battere il ferro finchè è caldo, perché, se passa il tempo, e se Wikileaks non fa più notizia, allora il libro resterà sugli scaffali. Tanto più che le memorie di Assange non saranno le prime: arriveranno dopo quelle, non necessariamente benevole, del suo ex numero due Daniel Domscheit-Berg, il cui 'Inside Wikileaks’ dovrebbe uscire in Germania il 27 gennaio.
L'autobiografia dell’australiano sarà edita da Canongate in Gran Bretagna e Knopf negli Usa. Julian potrà mettere a profitto per scrivere la libertà su cauzione in una villa del Suffolk, in attesa che si dirima la faccenda dell’estradizione chiesta dalla Svezia.
Dopo il libro, o insieme al libro, naturalmente un film: i siti già s’interrogano su quale, tra le star di Hollywood, possa essere il volto giusto. Certo, la scelta sarà diversa a seconda che l’Assange del film sia un eroe e un perseguitato oppure un gaglioffo e un profittatore. Per il blogger Rick Poter, Paul Bettany, attualmente nelle sale con il film The Tourist, sarebbe un buon eroe, mentre Russel Crowe, australiano come il modello, sarebbe un eroe cattivo. Per l’Assange ‘anti-eroe’ c’è in corsa, invece, Daniel Radcliffe, un Harry Potter cresciuto abbastanza da recitare il biondino slavato. C’è infine l’ipotesi di un ‘wikileaks movie’ brillante, al modo degli Ocean’s di Steven Soderbergh: ma rendere Assange simpatico appare impresa disperata anche per Hollywood.
Russia: l'oligarca anti-Putin di nuovo condannato
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 28/12/2010
Giustizia è (forse?) fatta, perché un uomo d’affari disinvolto è stato smascherato e riconosciuto colpevole. Ma ingiustizia è certamente fatta, perché la condanna s’abbatte su un personaggio inviso al potere oligarchico di Vladimir Putin e dei suoi boiardi, mentre molti altri ‘neo-ricchi’ russi sospettabili di comportamenti analoghi, o peggiori, la fanno bellamente franca. Il verdetto colpisce l’oppositore più che il gaglioffo.
Un tribunale russo ha dichiarato ieri l’ex magnate del petrolio Mikhail Khodorkovski e il suo socio Platon Lebedev colpevoli di riciclaggio di 23,5 miliardi di dollari e di furto di milioni di tonnellate di petrolio, al termine di un processo caricato di significati politici. Per il giudice Viktor Danilkin, i due imputati hanno agito fraudolentemente “nel quadro d’un gruppo organizzato”.
Ci vorranno giorni perché la pena relativa alla condanna sia pronunciata. Ma la sentenza sembra sancire l’eliminazione, da parte di Putin, di tutto un gruppo di uomini d’affari cresciuti, nel caos del post-comunismo, in potere e in ricchezza al punto da tentare di organizzargli un’opposizione credibile e forte. Khodorkovski e Lebedev sono in carcere e ci resteranno, Roman Abramovic ha portato altrove i suoi soldi e le sue ambizioni.
Rinchiusi in cella dal 2003 e condannati nel 2005 a otto anni di prigione per frode su larga scala ed evasione fiscale, Khodorkovski e Lebedev rischiano, ora, una pena di 14 anni di lavori forzati, come richiesto dall’accusa. La difesa ha già annunciato appello: “E’ una decisione ingiusta, è il verdetto d’un tribunale asservito” al potere politico, afferma l’avvocato di Khodorkovsky Vadim Kliuvgant.
Un parere condiviso da centinaia di persone che, fuori dal tribunale, manifestavano il loro sostegno ai due imputati, guardate a vista da poliziotti in numero forse superiore. Una ventina di sostenitori di Khodorkovski sono stati fermati: scandivano slogan come “Liberate i prigionieri politici” e “Russia senza Putin”.
Il secondo processo a Khodorkovski e Lebedev era iniziato nel marzo 2009: i due erano accusati d’avere rubato milioni di tonnellate di petrolio, un’accusa che i ministri del governo dell’epoca, chiamati come testimoni alla sbarra, hanno però messo in dubbio. Da tempo, però, il premier russo ed ex presidente Putin tratta le vicende giudiziarie di Khodorkovski come una questione personale. Il 16 dicembre, il premier aveva detto: “Tutti i ladri devono andare in prigione”, dichiarando, ben prima della sentenza, che “i reati” attribuiti ai due imputati erano stati “provati dalla giustizia”. Nella sortita, la difesa, non a torto, aveva visto un’ingerenza: pareva suggerire, più che anticipare, un verdetto non ancora pronunciato.
A Mosca, e altrove, molti considerano che l’affare Iukos, dal nome dell’azienda di Khondorkovski, sia stato orchestrato dal potere russo per colpire un uomo d’affari troppo indipendente, che finanziava l’opposizione e la stampa non allineata con il regime e che non esitava a contraddire Putin. La Yukos, il gruppo di Khondorkovski, è stata smantellata, col primo processo, a vantaggio di aziende vicine al potere russo.
La sentenza era vista come un test per le promesse di un clima più liberale portate avanti dall’attuale presidente Dmitri Medvedev. Commenti e reazioni, raccolti dall’Afp, vanno nel senso della delusione, ma non della sorpresa: Boris Nemtsov, un liberale, afferma che il verdetto “mette una croce sulle attese d’ammodernamento” del sistema; Ludmilla Alexeeva, presidente del gruppo di Helsinki di Mosca, dice che il giudice, per pronunciare una sentenza d’assoluzione, avrebbe dovuto essere un eroe”.
Un ex imprenditore, oggi consigliere di Medvedev, Igor Iurguens, è deluso: “E’ un verdetto che non infonde speranza nella riforma della giustizia”. Alla vigilia della sentenza, l’ambasciatore tedesco Ulrich Brandenburg aveva manifestato l’inquietudine degli ambienti d’affari occidentali: il verdetto sarebbe stato “un test per lo stato di diritto in Russia”, un test che non superato. Da Bruxelles, lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo, leva una flebile voce: “Vigileremo sul rispetto dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto in Russia”. Ma un barile di petrolio può intorpidire le coscienze.
Giustizia è (forse?) fatta, perché un uomo d’affari disinvolto è stato smascherato e riconosciuto colpevole. Ma ingiustizia è certamente fatta, perché la condanna s’abbatte su un personaggio inviso al potere oligarchico di Vladimir Putin e dei suoi boiardi, mentre molti altri ‘neo-ricchi’ russi sospettabili di comportamenti analoghi, o peggiori, la fanno bellamente franca. Il verdetto colpisce l’oppositore più che il gaglioffo.
Un tribunale russo ha dichiarato ieri l’ex magnate del petrolio Mikhail Khodorkovski e il suo socio Platon Lebedev colpevoli di riciclaggio di 23,5 miliardi di dollari e di furto di milioni di tonnellate di petrolio, al termine di un processo caricato di significati politici. Per il giudice Viktor Danilkin, i due imputati hanno agito fraudolentemente “nel quadro d’un gruppo organizzato”.
Ci vorranno giorni perché la pena relativa alla condanna sia pronunciata. Ma la sentenza sembra sancire l’eliminazione, da parte di Putin, di tutto un gruppo di uomini d’affari cresciuti, nel caos del post-comunismo, in potere e in ricchezza al punto da tentare di organizzargli un’opposizione credibile e forte. Khodorkovski e Lebedev sono in carcere e ci resteranno, Roman Abramovic ha portato altrove i suoi soldi e le sue ambizioni.
Rinchiusi in cella dal 2003 e condannati nel 2005 a otto anni di prigione per frode su larga scala ed evasione fiscale, Khodorkovski e Lebedev rischiano, ora, una pena di 14 anni di lavori forzati, come richiesto dall’accusa. La difesa ha già annunciato appello: “E’ una decisione ingiusta, è il verdetto d’un tribunale asservito” al potere politico, afferma l’avvocato di Khodorkovsky Vadim Kliuvgant.
Un parere condiviso da centinaia di persone che, fuori dal tribunale, manifestavano il loro sostegno ai due imputati, guardate a vista da poliziotti in numero forse superiore. Una ventina di sostenitori di Khodorkovski sono stati fermati: scandivano slogan come “Liberate i prigionieri politici” e “Russia senza Putin”.
Il secondo processo a Khodorkovski e Lebedev era iniziato nel marzo 2009: i due erano accusati d’avere rubato milioni di tonnellate di petrolio, un’accusa che i ministri del governo dell’epoca, chiamati come testimoni alla sbarra, hanno però messo in dubbio. Da tempo, però, il premier russo ed ex presidente Putin tratta le vicende giudiziarie di Khodorkovski come una questione personale. Il 16 dicembre, il premier aveva detto: “Tutti i ladri devono andare in prigione”, dichiarando, ben prima della sentenza, che “i reati” attribuiti ai due imputati erano stati “provati dalla giustizia”. Nella sortita, la difesa, non a torto, aveva visto un’ingerenza: pareva suggerire, più che anticipare, un verdetto non ancora pronunciato.
A Mosca, e altrove, molti considerano che l’affare Iukos, dal nome dell’azienda di Khondorkovski, sia stato orchestrato dal potere russo per colpire un uomo d’affari troppo indipendente, che finanziava l’opposizione e la stampa non allineata con il regime e che non esitava a contraddire Putin. La Yukos, il gruppo di Khondorkovski, è stata smantellata, col primo processo, a vantaggio di aziende vicine al potere russo.
La sentenza era vista come un test per le promesse di un clima più liberale portate avanti dall’attuale presidente Dmitri Medvedev. Commenti e reazioni, raccolti dall’Afp, vanno nel senso della delusione, ma non della sorpresa: Boris Nemtsov, un liberale, afferma che il verdetto “mette una croce sulle attese d’ammodernamento” del sistema; Ludmilla Alexeeva, presidente del gruppo di Helsinki di Mosca, dice che il giudice, per pronunciare una sentenza d’assoluzione, avrebbe dovuto essere un eroe”.
Un ex imprenditore, oggi consigliere di Medvedev, Igor Iurguens, è deluso: “E’ un verdetto che non infonde speranza nella riforma della giustizia”. Alla vigilia della sentenza, l’ambasciatore tedesco Ulrich Brandenburg aveva manifestato l’inquietudine degli ambienti d’affari occidentali: il verdetto sarebbe stato “un test per lo stato di diritto in Russia”, un test che non superato. Da Bruxelles, lady Ashton, ‘ministro degli esteri’ europeo, leva una flebile voce: “Vigileremo sul rispetto dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto in Russia”. Ma un barile di petrolio può intorpidire le coscienze.
lunedì 27 dicembre 2010
Il cervello di Mussolini batte il pene di Napoleone (Time)
Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano del 26/12/2010
Come italiano, non sai bene se sentirti orgoglioso, perché il cervello del tuo campione batte d'un'incollatura, sul traguardo dei furti macabri, il pene di Napoleone; o depresso, perché viene dietro il teschio di Geronimo e il cuore di Anna Bolena. Ma, se ci pensi, ti prende l'ansia: come sarà mai venuto in mente a Time di pubblicare, la vigilia di Natale, la classifica (invero tetra) dei furti più famosi di reperti umani –sì, avete proprio capito bene: furti di parti del corpo d’una persona-: roba da Halloween, più' che da Notte Santa. A meno che il legame non sia proprio Santa Claus, che è sì San Nicola, quello di Bari, ma è pure Babbo Natale, le cui ossa rubate stanno al secondo posto nell’orrio elenco -già che c'erano, i colleghi di Time potevano metterle al primo, al posto di quelle 16 teste di maori sottratte dai francesi per collezionismo cimiteriale e solo da poco restituite ai legittimi discendenti. In realtà, lo spunto di cronaca per questa classifica da fumetto di Dylan Dog è il recentissimo recupero in Francia della testa di Enrico IV sottratta al suo cadavere negli eccessi della Rivoluzione francese. La storia del cervello di Mussolini non è inedita: salto' fuori nel 1966, quando, 21 anni dopo l’uccisione del dittatore, gli americani restituirono alla vedova il cervello del Duce: non tutto, però; se ne tennero una metà perché volevano studiare che cosa s’annida di storto nella mente d’un dittatore. Se anche l’hanno scoperto, non hanno certo trovato l’antidoto, visto che la genia alligna ancora nel Mondo, dalla Libia alla Bielorussia, dallo Zimbabwe al Kazakhstan alla Corea del Nord. E l'anno scorso saltò fuori che qualcuno offriva su eBay fiale di vetro con dentro frammenti del cervello del Duce.
Come italiano, non sai bene se sentirti orgoglioso, perché il cervello del tuo campione batte d'un'incollatura, sul traguardo dei furti macabri, il pene di Napoleone; o depresso, perché viene dietro il teschio di Geronimo e il cuore di Anna Bolena. Ma, se ci pensi, ti prende l'ansia: come sarà mai venuto in mente a Time di pubblicare, la vigilia di Natale, la classifica (invero tetra) dei furti più famosi di reperti umani –sì, avete proprio capito bene: furti di parti del corpo d’una persona-: roba da Halloween, più' che da Notte Santa. A meno che il legame non sia proprio Santa Claus, che è sì San Nicola, quello di Bari, ma è pure Babbo Natale, le cui ossa rubate stanno al secondo posto nell’orrio elenco -già che c'erano, i colleghi di Time potevano metterle al primo, al posto di quelle 16 teste di maori sottratte dai francesi per collezionismo cimiteriale e solo da poco restituite ai legittimi discendenti. In realtà, lo spunto di cronaca per questa classifica da fumetto di Dylan Dog è il recentissimo recupero in Francia della testa di Enrico IV sottratta al suo cadavere negli eccessi della Rivoluzione francese. La storia del cervello di Mussolini non è inedita: salto' fuori nel 1966, quando, 21 anni dopo l’uccisione del dittatore, gli americani restituirono alla vedova il cervello del Duce: non tutto, però; se ne tennero una metà perché volevano studiare che cosa s’annida di storto nella mente d’un dittatore. Se anche l’hanno scoperto, non hanno certo trovato l’antidoto, visto che la genia alligna ancora nel Mondo, dalla Libia alla Bielorussia, dallo Zimbabwe al Kazakhstan alla Corea del Nord. E l'anno scorso saltò fuori che qualcuno offriva su eBay fiale di vetro con dentro frammenti del cervello del Duce.
venerdì 24 dicembre 2010
SPIGOLI: una riforma che non piace unico risultato di Mr B & C
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/12/2010
Il 15 dicembre, le violenze a Roma, dopo il voto di fiducia della Camera al governo Berlusconi, avevano conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: i due volti dell’Italia peggiore, quello degli scontri fra Black Block, o chi per loro, e forze dell’ordine e quello della politica del Mercante in Fiera, fatta di comprati e venduti. Ora, la nuova giornata di proteste studentesche, questa volta senza (grossi) incidenti, è seguita quasi con simpatia dalla stampa internazionale. FT scrive che “le difficoltà del premier aumentano, mentre le proteste prendono slancio”, anche se la riforma universitaria contestata diventa legge. Le cronache delle manifestazioni sono ovunque: dalla Bbb all’Independent, da Le Monde (‘Berretti rossi e falsi regali contro la riforma dell’Università’) a Nouvel Obs, da El Pais al Mundo, da Newsweek al super blog Huffington Post, che dedica ai cortei un’antologia d’immagini. Il NYT accompagna la cronaca (‘Studenti protestano contro la riforma’) con l’analisi: il quotidiano newyorchese considera il piano, che ora è passato, il solo risultato legislativo significativo del governo Berlusconi, da quando s’è insediato nella primavera 2008. Per essere il governo del fare, il bilancio è magro: al confronto, l’Amministrazione Obama, che tutti dicono non combina nulla, è una fucina di risultati.
Il 15 dicembre, le violenze a Roma, dopo il voto di fiducia della Camera al governo Berlusconi, avevano conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: i due volti dell’Italia peggiore, quello degli scontri fra Black Block, o chi per loro, e forze dell’ordine e quello della politica del Mercante in Fiera, fatta di comprati e venduti. Ora, la nuova giornata di proteste studentesche, questa volta senza (grossi) incidenti, è seguita quasi con simpatia dalla stampa internazionale. FT scrive che “le difficoltà del premier aumentano, mentre le proteste prendono slancio”, anche se la riforma universitaria contestata diventa legge. Le cronache delle manifestazioni sono ovunque: dalla Bbb all’Independent, da Le Monde (‘Berretti rossi e falsi regali contro la riforma dell’Università’) a Nouvel Obs, da El Pais al Mundo, da Newsweek al super blog Huffington Post, che dedica ai cortei un’antologia d’immagini. Il NYT accompagna la cronaca (‘Studenti protestano contro la riforma’) con l’analisi: il quotidiano newyorchese considera il piano, che ora è passato, il solo risultato legislativo significativo del governo Berlusconi, da quando s’è insediato nella primavera 2008. Per essere il governo del fare, il bilancio è magro: al confronto, l’Amministrazione Obama, che tutti dicono non combina nulla, è una fucina di risultati.
giovedì 23 dicembre 2010
SPIGOLI: quando Mr B sonnecchia, si sveglia Barbara
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/12/2010
C’è sempre un Berlusconi nei titoli della stampa estera. Quando, raramente, non è Silvio, ecco saltare fuori Paolo, il fratello, magari con un rinvio a giudizio, com’è accaduto di recente; o, più spesso, Veronica, la moglie, che pero’ figura come Lario e non vale (più) un Berlusconi a parte intera; oppure un figlio o una figlia. Questa volta, l’intervista di Barbara a Vanity Fair solleva onde in Gran Bretagna e in Spagna. Il Guardian, il Telegraph e persino il più velenosetto Daily Mail mettono in rilievo la difesa del padre fatta dalla figlia (“Non credo che mio padre meriti il trattamento che riceve”), l’intreccio tra privato e pubblico (“Credo che la vita privata di mio padre abbia influenzato la vita pubblica”) e i riflessi degli scandali su di lei (“Mi hanno lasciato amarezza). El Pais, invece, cita si’ la difesa del padre, ma punta sull’attacco di Barbara a Mara Carfagna, passata direttamente –dice- dai TeleGatti al ministero della pari opportunità e poi senza vergogna al punto di lagnarsi e di accusare il premier di machismo: "Vedere certe signorine girare in auto blu non fa bene all'immagine del Paese, perché davvero si fatica a coglierne i meriti" (pero’, il primo a coglierli è stato il padre, che l’ha messa in lista e nel governo). La sortita di Barbara consente al babbo di dormire un sonno (quasi) tranquillo al Quirinale, mentre parla il presidente della Repubblica: quasi, perchè una foto del premier che sonnecchia finisce su Abc. Ma il Cavaliere ne ha viste di peggio: a questa, puo’ dormirci su.
C’è sempre un Berlusconi nei titoli della stampa estera. Quando, raramente, non è Silvio, ecco saltare fuori Paolo, il fratello, magari con un rinvio a giudizio, com’è accaduto di recente; o, più spesso, Veronica, la moglie, che pero’ figura come Lario e non vale (più) un Berlusconi a parte intera; oppure un figlio o una figlia. Questa volta, l’intervista di Barbara a Vanity Fair solleva onde in Gran Bretagna e in Spagna. Il Guardian, il Telegraph e persino il più velenosetto Daily Mail mettono in rilievo la difesa del padre fatta dalla figlia (“Non credo che mio padre meriti il trattamento che riceve”), l’intreccio tra privato e pubblico (“Credo che la vita privata di mio padre abbia influenzato la vita pubblica”) e i riflessi degli scandali su di lei (“Mi hanno lasciato amarezza). El Pais, invece, cita si’ la difesa del padre, ma punta sull’attacco di Barbara a Mara Carfagna, passata direttamente –dice- dai TeleGatti al ministero della pari opportunità e poi senza vergogna al punto di lagnarsi e di accusare il premier di machismo: "Vedere certe signorine girare in auto blu non fa bene all'immagine del Paese, perché davvero si fatica a coglierne i meriti" (pero’, il primo a coglierli è stato il padre, che l’ha messa in lista e nel governo). La sortita di Barbara consente al babbo di dormire un sonno (quasi) tranquillo al Quirinale, mentre parla il presidente della Repubblica: quasi, perchè una foto del premier che sonnecchia finisce su Abc. Ma il Cavaliere ne ha viste di peggio: a questa, puo’ dormirci su.
mercoledì 22 dicembre 2010
Italia-Usa: il prezzo di una stretta di mano del presidente
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/10/2010
Cinquanta e più governi, ma, in politica estera, una continuità assoluta, saldamente poggiata su due pilastri : l’alleanza atlantica, cioè l’amicizia con gli Stati Uniti, e l’ancoraggio al processo d’integrazione europea. L’Italia repubblicana non ha mai perso la bussola delle relazioni internazionali : i cambi di campo bruschi sono memoria del passato, l’imminenza dell’ingresso nella Grande Guerra e l’8 Settembre.
La costruzione europea ha contribuito alla crescita economica, ha offerto modelli sociali virtuosi. In cambio, ha richiesto rigore e sacrifici e ha preteso, ma non sempre ha ottenuto, il rispetto delle regole. L’amicizia americana ha garantito una sicurezza efficace a buon prezzo –pagava lo Zio Tom- nel lungo inverno della Guerra Fredda. In cambio, ci è costata qualche boccone amaro trangugiato, ad esempio in termini di rinuncia alla sovranità, e qualche silenzio su vicende scomode. Se ce lo fossimo mai scordati, le rivelazioni di questi giorni, via Wikileaks, sulla vicenda Calipari ce lo vengono a ricordare.
Adesso, in realtà, il rapporto potrebbe essere più paritario, meno succube: non perchè l’Italia possa mettersi alla pari degli Stati Uniti in termini di potenza economica o militare, ma perchè i mai da combattere insieme –la povertà, il riscaldamento globale, l’integralismo e il terrorismo- sono universali e non richiedono l’ala protettrice di una super-potenza. Ma, anche adesso, la storia va avanti. E, per assurdo, la ricerca della prova di amicizia con l’America è spesso stata più forte da parte dei governi di sinistra (ma quando mai?, di centro-sinistra), che dovevano cancellare il peccato originale dei comunisti al potere.
Una stretta di mano del presidente degli Stati Uniti, chiunque egli fosse, e un caffè alla Casa Bianca quasi non hanno prezzo, al borsino della diplomazia italiana. Cosi’, dalla strage del Cermis –20 morti per la bravata di un pilota cowboy americano, il 3 febbraio 1988- alla vicenda Calipari, dalle storie della Maddalena e della ‘Dal Molin’ al sequestro di Abu Omar, tutte storie di giustizie negate o parziali, di decisioni subite più che partecipate: vicende che iniziano con i Governi Prodi del 1996/’98 e attraversano i governi D’Alema, Amato, Berlusconi, ancora Prodi, ancora Berlusconi.
Per non parlare delle scelte più pesanti: il coinvolgimento d’alemiano –era il 1999- nella guerra contro la Serbia per il Kosovo e quelli berlusconiani nelle guerre di Bush, specie l’invasione dell’Iraq. Una sola cosa, forse, la sinistra ce l’avrebbe evitata, che Mr B ci ha propinato: la partecipazione all’avventura irachena, perchè li’, a fare da scudo, c’erano i no di Francia e Germania (e della Spagna di Zapatero, appena arrivo’ al potere dopo le stragi sui treni a Madrid dell’11 marzo 2004). Un’Italia di Prodi, c’è da scommetterci, sarebbe rimasta nel campo della Vecchia Europa di Chirac e Schroeder, invece di ritrovarsi con l’Europa ‘neo-con’ di Tony Blair e José Maria Aznar.
Adesso, dalla clessidra di Wikileaks, esce il granello delle pressioni esercitate dall’Amministrazione statunitense sul governo Prodi perché facesse "sapere"
ai giudici che le azioni sul campo di guerra "esulano" dalla loro "giurisdizione" (obiettivo, evitare l’incriminazione del marine Lozano, che uccise Calipari): un cablo racconta l'incontro del marzo 2007 tra l'ambasciatore d’Italia a Washington Castellaneta e l’allora vicesegretario di Stato John Negroponte. L’ambasciatore s’impegna a trasmettere il messaggio, ma non dà molte speranze che «il governo rallenti o blocchi il processo». Pochi mesi dopo, la Corte d'assise di Roma dichiarò non potersi procedere contro Lozano "per carenza di giurisdizione": decisione poi avallata in via definitiva dalla Cassazione. Codice alla mano, forse era giusto cosi’.
Cinquanta e più governi, ma, in politica estera, una continuità assoluta, saldamente poggiata su due pilastri : l’alleanza atlantica, cioè l’amicizia con gli Stati Uniti, e l’ancoraggio al processo d’integrazione europea. L’Italia repubblicana non ha mai perso la bussola delle relazioni internazionali : i cambi di campo bruschi sono memoria del passato, l’imminenza dell’ingresso nella Grande Guerra e l’8 Settembre.
La costruzione europea ha contribuito alla crescita economica, ha offerto modelli sociali virtuosi. In cambio, ha richiesto rigore e sacrifici e ha preteso, ma non sempre ha ottenuto, il rispetto delle regole. L’amicizia americana ha garantito una sicurezza efficace a buon prezzo –pagava lo Zio Tom- nel lungo inverno della Guerra Fredda. In cambio, ci è costata qualche boccone amaro trangugiato, ad esempio in termini di rinuncia alla sovranità, e qualche silenzio su vicende scomode. Se ce lo fossimo mai scordati, le rivelazioni di questi giorni, via Wikileaks, sulla vicenda Calipari ce lo vengono a ricordare.
Adesso, in realtà, il rapporto potrebbe essere più paritario, meno succube: non perchè l’Italia possa mettersi alla pari degli Stati Uniti in termini di potenza economica o militare, ma perchè i mai da combattere insieme –la povertà, il riscaldamento globale, l’integralismo e il terrorismo- sono universali e non richiedono l’ala protettrice di una super-potenza. Ma, anche adesso, la storia va avanti. E, per assurdo, la ricerca della prova di amicizia con l’America è spesso stata più forte da parte dei governi di sinistra (ma quando mai?, di centro-sinistra), che dovevano cancellare il peccato originale dei comunisti al potere.
Una stretta di mano del presidente degli Stati Uniti, chiunque egli fosse, e un caffè alla Casa Bianca quasi non hanno prezzo, al borsino della diplomazia italiana. Cosi’, dalla strage del Cermis –20 morti per la bravata di un pilota cowboy americano, il 3 febbraio 1988- alla vicenda Calipari, dalle storie della Maddalena e della ‘Dal Molin’ al sequestro di Abu Omar, tutte storie di giustizie negate o parziali, di decisioni subite più che partecipate: vicende che iniziano con i Governi Prodi del 1996/’98 e attraversano i governi D’Alema, Amato, Berlusconi, ancora Prodi, ancora Berlusconi.
Per non parlare delle scelte più pesanti: il coinvolgimento d’alemiano –era il 1999- nella guerra contro la Serbia per il Kosovo e quelli berlusconiani nelle guerre di Bush, specie l’invasione dell’Iraq. Una sola cosa, forse, la sinistra ce l’avrebbe evitata, che Mr B ci ha propinato: la partecipazione all’avventura irachena, perchè li’, a fare da scudo, c’erano i no di Francia e Germania (e della Spagna di Zapatero, appena arrivo’ al potere dopo le stragi sui treni a Madrid dell’11 marzo 2004). Un’Italia di Prodi, c’è da scommetterci, sarebbe rimasta nel campo della Vecchia Europa di Chirac e Schroeder, invece di ritrovarsi con l’Europa ‘neo-con’ di Tony Blair e José Maria Aznar.
Adesso, dalla clessidra di Wikileaks, esce il granello delle pressioni esercitate dall’Amministrazione statunitense sul governo Prodi perché facesse "sapere"
ai giudici che le azioni sul campo di guerra "esulano" dalla loro "giurisdizione" (obiettivo, evitare l’incriminazione del marine Lozano, che uccise Calipari): un cablo racconta l'incontro del marzo 2007 tra l'ambasciatore d’Italia a Washington Castellaneta e l’allora vicesegretario di Stato John Negroponte. L’ambasciatore s’impegna a trasmettere il messaggio, ma non dà molte speranze che «il governo rallenti o blocchi il processo». Pochi mesi dopo, la Corte d'assise di Roma dichiarò non potersi procedere contro Lozano "per carenza di giurisdizione": decisione poi avallata in via definitiva dalla Cassazione. Codice alla mano, forse era giusto cosi’.
SPIGOLI: preservativi e abusi, cosi' questo Papa fa notizia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/12/2010
C’era una volta un Papa che, ovunque parlasse, e qualsiasi cosa dicesse, la stampa internazionale gli dedicava titoli e gli prestava attenzione. Altri tempi. Adesso, c’è Benedetto XVI e, perchè la stampa internazionale noti quello che dice, deve parlare o di preservativi o di abusi – oppure, creare imbarazzi con gli ebrei (cosa che gli viene piuttosto naturale) -. Lasciamo stare la stampa italiana, che quello che dice il Papa è vangelo ad ogni Angelus e ad ogni visita a Piazza di Spagna nel giorno dell’Immacolata. La stampa internazionale si mostra avara col Pontefice tedesco, forse anche perchè la Chiesa, di questi tempi, non ha più muri da abbattere all’Est, ma piuttosto lastre di marmo da sollevare su silenzi e reticenze del suo passato recente. Cosi’, il discorso di lunedi’ di Papa Ratzinger sugli abusi di religiosi su minori attira l’interesse della stampa britannica (il Telegraph) e soprattutto americana (WSJ, NYT): “La Chiesa deve riflettere su che cosa c'è di sbagliato nel suo messaggio, che ha permesso lo scandalo degli abusi”, dalle “dimensioni inimmaginabili”. Ma, nel giorno in cui i giornali americani ne testimoniano l’ansia di riforma, Benedetto XVI incassa una correzione dal Sant’Uffizio, che ci spiega che il Papa non ha mai detto si’ al preservativo. I giornalisti hanno capito male il suo libro: la dottrina pastorale non muta, Papa Ratzinger parlava di prostituzione, è tutta un’altra cosa. E’ la solita storia: un passo avanti e due passettini indietro.
C’era una volta un Papa che, ovunque parlasse, e qualsiasi cosa dicesse, la stampa internazionale gli dedicava titoli e gli prestava attenzione. Altri tempi. Adesso, c’è Benedetto XVI e, perchè la stampa internazionale noti quello che dice, deve parlare o di preservativi o di abusi – oppure, creare imbarazzi con gli ebrei (cosa che gli viene piuttosto naturale) -. Lasciamo stare la stampa italiana, che quello che dice il Papa è vangelo ad ogni Angelus e ad ogni visita a Piazza di Spagna nel giorno dell’Immacolata. La stampa internazionale si mostra avara col Pontefice tedesco, forse anche perchè la Chiesa, di questi tempi, non ha più muri da abbattere all’Est, ma piuttosto lastre di marmo da sollevare su silenzi e reticenze del suo passato recente. Cosi’, il discorso di lunedi’ di Papa Ratzinger sugli abusi di religiosi su minori attira l’interesse della stampa britannica (il Telegraph) e soprattutto americana (WSJ, NYT): “La Chiesa deve riflettere su che cosa c'è di sbagliato nel suo messaggio, che ha permesso lo scandalo degli abusi”, dalle “dimensioni inimmaginabili”. Ma, nel giorno in cui i giornali americani ne testimoniano l’ansia di riforma, Benedetto XVI incassa una correzione dal Sant’Uffizio, che ci spiega che il Papa non ha mai detto si’ al preservativo. I giornalisti hanno capito male il suo libro: la dottrina pastorale non muta, Papa Ratzinger parlava di prostituzione, è tutta un’altra cosa. E’ la solita storia: un passo avanti e due passettini indietro.
martedì 21 dicembre 2010
Wikileaks: Assange il lamentoso, "terrorista è l'America"
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/12/2010
Come una clessidra, Wikileaks continua a fare cadere, l’uno dopo l’altro, i granelli delle sue verità scomode. E intanto Julian Assange, da quando è in libertà, seppure vigilata, non lesina interviste e dichiarazioni. Anzi, a El Pais, uno dei cinque giornali della sua corte mediatica di prima istanza, racconta che lui avrebbe voluto parlare molto di più ai cronisti che, la scorsa settimana, lo aspettavano fuori dal carcere ; invece, poté fermarsi poco perchè la polizia temeva potesse essere ucciso. Un timore non peregrino, sia perchè non sono in pochi ad avercela con l’ ‘untore della verità’ e sia perchè lui stesso racconta di ricevere «continue minacce di morte», specie da parte di militari americani.
Ora, i giornalisti, per intervistarlo, devono andarlo a trovare nel Suffolk, in campagna, dove ha trovato ospitalità e complicità. Ma chi fa il viaggio non torna a mani vuote, perchè Assange non nega una dichiarazione a nessuno e regala a El Pais un’intervista di sassolini appena usciti dalle scarpe. Se il vice-presidente Usa Joe Biden lo definisce «un terrorista ad alta tecnologia», lui rinvia al mittente l’accusa : «Terrorismo è usare la violenza a fini politici. E l’Amministrazione statunitense continua a offendere Wikileaks e la stampa in modo violento con un obiettivo politico. Allora, chi è terrorista?».
El Pais ‘compensa’ l’hacker più famoso al mondo degli scoop e dell’intervista asserendo che, se fosse sottoposto a giudizio in Spagna per le molestie sessuali contestategli in Svezia, e dettagliate sabato dal Guardian, Assange «sarebbe assolto» (e certamente non solo in Spagna: anche in Italia, ci s’immagina male una condanna per quelle accuse ‘a scoppio ritardato’). E, invece, la procura di Stoccolma chiede l’estradizione dell’australiano al Regno Unito, i cui giudici ne hanno prima disposto l’arresto e poi la libertà vigilata.
Secondo El Pais , la giurisprudenza del tribunale supremo spagnolo manderebbe assolto il fondatore di Wikileaks: «Il politicamente corretto in materia sessuale –scrive il quotidiano - ha condotto a tali estremi che, come ha detto con ironia un procuratore donna, ‘speriamo che in futuro le donne possano continuare a simulare l’orgasmo senza essere accusate di falso’». Delle accuse mossegli, Assange afferma: «Non c’è nulla di cui una persona ragionevole potrebbe dire trattarsi di stupro»; e aggiunge: « non ho mai fatto sesso con qualcuno che non fosse consenziente».
Più che l’estradizione in Svezia, che pure puo’ costargli una condanna e il carcere, Julian teme, pero’, un’estrazione negli Stati Uniti, se e quando la magistratura Usa riuscirà a formulare un capo d’accusa contro di lui. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ieri spezzato una lancia per la diplomazia ‘messa alla berlina’ da Wikileaks ; Al Corpo Diplomatico accreditato in Italia e ricevuto al Quirinale, il presidente ha detto :«Per svolgere il vostro compito, avete diritto alla necessaria riservatezza», che va «meglio protetta»; e ha aggiunto: «Non lasciate che l’occasionale quanto infelice violazione della confidenzialità vi distolga dalla vostra missione».
Nell’intervista a El Pais, Assange racconta che le condizioni di detenzione nel carcere di Wandsworth, dove ha trascorso alcuni giorni, erano «molto dure»: è stato in cella di isolamento «per il pericolo che qualcuno mi attaccasse o mi uccidesse»: nella sua ala, c’era « gente condannata per delitti sessuali, assassini di bambini » e c’erano «pedofili impazziti che gridavano tutta la notte i loro crimini».
Il carcere era «molto soviet», nella definizione di Assange, che non ci fa la figura del ‘duro’: per fare una telefonata, si lamenta, bisognava fare una trafila che non finiva più. E poi c’è la storia del dente perso mangiando un piatto di riso con i fagioli dove c’era qualcosa di metallico: «Non so se l’abbiano messo apposta o se sia stato solo un incidente». Fatto sta che il dente, che lui voleva conservare, è poi scomparso : magari, Wikileaks un giorno ci racconterà che macchinazione c’era dietro.
Come una clessidra, Wikileaks continua a fare cadere, l’uno dopo l’altro, i granelli delle sue verità scomode. E intanto Julian Assange, da quando è in libertà, seppure vigilata, non lesina interviste e dichiarazioni. Anzi, a El Pais, uno dei cinque giornali della sua corte mediatica di prima istanza, racconta che lui avrebbe voluto parlare molto di più ai cronisti che, la scorsa settimana, lo aspettavano fuori dal carcere ; invece, poté fermarsi poco perchè la polizia temeva potesse essere ucciso. Un timore non peregrino, sia perchè non sono in pochi ad avercela con l’ ‘untore della verità’ e sia perchè lui stesso racconta di ricevere «continue minacce di morte», specie da parte di militari americani.
Ora, i giornalisti, per intervistarlo, devono andarlo a trovare nel Suffolk, in campagna, dove ha trovato ospitalità e complicità. Ma chi fa il viaggio non torna a mani vuote, perchè Assange non nega una dichiarazione a nessuno e regala a El Pais un’intervista di sassolini appena usciti dalle scarpe. Se il vice-presidente Usa Joe Biden lo definisce «un terrorista ad alta tecnologia», lui rinvia al mittente l’accusa : «Terrorismo è usare la violenza a fini politici. E l’Amministrazione statunitense continua a offendere Wikileaks e la stampa in modo violento con un obiettivo politico. Allora, chi è terrorista?».
El Pais ‘compensa’ l’hacker più famoso al mondo degli scoop e dell’intervista asserendo che, se fosse sottoposto a giudizio in Spagna per le molestie sessuali contestategli in Svezia, e dettagliate sabato dal Guardian, Assange «sarebbe assolto» (e certamente non solo in Spagna: anche in Italia, ci s’immagina male una condanna per quelle accuse ‘a scoppio ritardato’). E, invece, la procura di Stoccolma chiede l’estradizione dell’australiano al Regno Unito, i cui giudici ne hanno prima disposto l’arresto e poi la libertà vigilata.
Secondo El Pais , la giurisprudenza del tribunale supremo spagnolo manderebbe assolto il fondatore di Wikileaks: «Il politicamente corretto in materia sessuale –scrive il quotidiano - ha condotto a tali estremi che, come ha detto con ironia un procuratore donna, ‘speriamo che in futuro le donne possano continuare a simulare l’orgasmo senza essere accusate di falso’». Delle accuse mossegli, Assange afferma: «Non c’è nulla di cui una persona ragionevole potrebbe dire trattarsi di stupro»; e aggiunge: « non ho mai fatto sesso con qualcuno che non fosse consenziente».
Più che l’estradizione in Svezia, che pure puo’ costargli una condanna e il carcere, Julian teme, pero’, un’estrazione negli Stati Uniti, se e quando la magistratura Usa riuscirà a formulare un capo d’accusa contro di lui. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ieri spezzato una lancia per la diplomazia ‘messa alla berlina’ da Wikileaks ; Al Corpo Diplomatico accreditato in Italia e ricevuto al Quirinale, il presidente ha detto :«Per svolgere il vostro compito, avete diritto alla necessaria riservatezza», che va «meglio protetta»; e ha aggiunto: «Non lasciate che l’occasionale quanto infelice violazione della confidenzialità vi distolga dalla vostra missione».
Nell’intervista a El Pais, Assange racconta che le condizioni di detenzione nel carcere di Wandsworth, dove ha trascorso alcuni giorni, erano «molto dure»: è stato in cella di isolamento «per il pericolo che qualcuno mi attaccasse o mi uccidesse»: nella sua ala, c’era « gente condannata per delitti sessuali, assassini di bambini » e c’erano «pedofili impazziti che gridavano tutta la notte i loro crimini».
Il carcere era «molto soviet», nella definizione di Assange, che non ci fa la figura del ‘duro’: per fare una telefonata, si lamenta, bisognava fare una trafila che non finiva più. E poi c’è la storia del dente perso mangiando un piatto di riso con i fagioli dove c’era qualcosa di metallico: «Non so se l’abbiano messo apposta o se sia stato solo un incidente». Fatto sta che il dente, che lui voleva conservare, è poi scomparso : magari, Wikileaks un giorno ci racconterà che macchinazione c’era dietro.
SPIGOLI: Papi Natale e gli anelli alle parlamentari
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/12/2010
Quando Papi Silvio si veste da Babbo Natale, la stampa s’attizza. Specie se riserva i suoi doni, preziosi e costosi, solo alle donne deputate (24) e senatrici (13) del suo partito, spendendo del suo una piccola fortuna: 50 mila euro più o meno, per una serie di anelli ideati apposta per le ‘sue‘ parlamentari e forgiati da un gioielliere di Valenza, nell’Alessandrino, Recarlo. La consegna dell’anello, anzi degli anelli, tre cerchi d’oro ‘tricolori’, bianco, giallo e rosa, incrostati di piccoli smeraldi, è avvenuta la scorsa settimana; e le fedeli di Mr B, dice Alessandra Mussolini, ancora ringraziano. Il Daily Mail salta sulla storia: prova a intervistare, senza successo, il titolare della casa orafa, Carlo Re, 40 anni d’artigianato di qualità; ricorda che “Berlusconi è noto per la sua generosità”, non solo verso i politici italiani (a Tony Blair, regalo’ non meno di nove orologi, uno dei quali è poi finito in vendita su e-bay); e cita, già che c’è, i 7.000 euro e la collana di diamanti dati alla danzatrice del ventre minorenne Karima El Mahroug per la partecipazione a una festa. Maliziosamente, il giornale collega la generosità del Cavaliere all’accusa d’avere comprato, proprio la scorsa settimana, voti cruciali, per riuscire a ottenere la fiducia della Camera. E cita, pure, l’ultimo ‘exploit’ lessicale di Mr B, con l’anagramma del suo nome in ‘unico boss virile’. Che pero’, ci ha appena rivelato Wikileaks, ripreso dal Sunday Times, “temeva la furia di Bono”, il leader degli U2 capaci di farsi sentire, non solo musicalmente, dai Grandi del Mondo.
Quando Papi Silvio si veste da Babbo Natale, la stampa s’attizza. Specie se riserva i suoi doni, preziosi e costosi, solo alle donne deputate (24) e senatrici (13) del suo partito, spendendo del suo una piccola fortuna: 50 mila euro più o meno, per una serie di anelli ideati apposta per le ‘sue‘ parlamentari e forgiati da un gioielliere di Valenza, nell’Alessandrino, Recarlo. La consegna dell’anello, anzi degli anelli, tre cerchi d’oro ‘tricolori’, bianco, giallo e rosa, incrostati di piccoli smeraldi, è avvenuta la scorsa settimana; e le fedeli di Mr B, dice Alessandra Mussolini, ancora ringraziano. Il Daily Mail salta sulla storia: prova a intervistare, senza successo, il titolare della casa orafa, Carlo Re, 40 anni d’artigianato di qualità; ricorda che “Berlusconi è noto per la sua generosità”, non solo verso i politici italiani (a Tony Blair, regalo’ non meno di nove orologi, uno dei quali è poi finito in vendita su e-bay); e cita, già che c’è, i 7.000 euro e la collana di diamanti dati alla danzatrice del ventre minorenne Karima El Mahroug per la partecipazione a una festa. Maliziosamente, il giornale collega la generosità del Cavaliere all’accusa d’avere comprato, proprio la scorsa settimana, voti cruciali, per riuscire a ottenere la fiducia della Camera. E cita, pure, l’ultimo ‘exploit’ lessicale di Mr B, con l’anagramma del suo nome in ‘unico boss virile’. Che pero’, ci ha appena rivelato Wikileaks, ripreso dal Sunday Times, “temeva la furia di Bono”, il leader degli U2 capaci di farsi sentire, non solo musicalmente, dai Grandi del Mondo.
domenica 19 dicembre 2010
Wikileaks: i giorni (un po') 'torridi' di Julian il caldo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/12/2010
Sarà anche libero, benché vigilato, dopo nove giorni trascorsi in una guardina britannica, ma non è certo tranquillo, Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, l’uomo che pubblicando quasi 300mila documenti del Dipartimento di Stato americano ha messo a soqquadro la diplomazia internazionale. Dopo che lui ha promesso nuove rilevazioni, con le banche nel mirino, questa volta, Bank of America s’aggiunge alla lista delle organizzazioni finanziarie che tengono a secco Wikileaks, mentre trapelano stralci di verbali della polizia svedese che dipingono il biondino australiano, l’ ‘hacker degli hackers’, come sessualmente "violento" –vedremo fino a che punto-. Ma Assange non ci sta a subire; e a parole contrattacca, accusando gli Stati Uniti di “maccartismo finanziario”, in interviste ai media che l’incontrano nella campagna del Suffolk, dove è ospite, o sul piazzale della stazione di Diss.
Il Guardian, che in questa storia è all’avanguardia su tutti i fronti, essendo stato fra i cinque giornali depositari in anteprima dei documenti carpiti al Dipartimento di Stato, pubblica verbali della polizia di Stoccolma, che illustrano in dettaglio le accuse di stupro e di violenza mosse ad Assange da due donne svedesi. Il rapporto racconta per filo e per segno, in base alle testimonianze, dieci giorni 'caldi' trascorsi tra seduzione, ammiccamenti e rapporti sessuali più o meno consensuali.
I legali del fondatore di Wikileaks provano a disinnescare lo ‘scoop’, dicendo, sempre al Guardian, che le accusatrici avrebbero agito “per gelosia”, o “per vendetta”, ma soprattutto “per soldi”. Prima, a dire il vero, avevano sostenuto che le denunce erano una macchinazione della Cia. Adesso, fanno un passo indietro: "Non è la Cia ad avere mandato un agente in minigonna”. Certo, la storia non è proprio limpida: vediamo insieme i dieci giorni che non avranno “sconvolto il mondo”, come quelli di John Reed, ma che potrebbero sconvolgere la vita di Assange.
L'11 agosto 2010, Miss A (il Guardian non fa i nomi ma A è Anna Ardin e W è Sofia Wilen) dà le chiavi di casa al fondatore di Wikileaks, "perché sarebbe rimasta fuori per un po' di tempo". Il 13, però, torna e i due escono insieme a cena. Al rientro, Assange fa qualche avances: lei prima rifiuta, poi acconsente, ma pretende che l’uomo si metta un preservativo, che risulta bucato. Ma Julian non si ferma più e va fino in fondo. Nei sette giorni successivi, l'australiano continuerà a dormire a casa di Miss A.
Il 14, entra in scena Miss W. Dopo un convegno organizzato da Miss A., le due donne pranzano con l'australiano e con altre persone del suo staff. Assange e Miss W simpatizzano, vanno al cinema (e lui non fa come Renato, che guardava il film), si ritrovano la sera ad una festa a casa di Miss A (che continua a essere pure quella di Julian). Il 16, Miss W invita il fondatore di Wikileaks a una cena ‘tete-a-tete’ a casa sua: scena analoga a quella del 13, avances, lei ci sta ma gli chiede di mettersi il preservativo, lui rifiuta, poi accetta “a malincuore”; seguono sesso, sonno, poi di nuovo sesso (ma questa volta ‘rubato’, senza protezione e senza consenso).
Il 20, Miss A e Miss W s’incontrano, si raccontano le reciproche esperienze, insistono con Assange perché faccia il test dell’Hiv (lui accetta, ma poi non lo fa perché la clinica è chiusa) e infine vanno a denunciarlo alla polizia. Subito dopo, raccontano tutto all’Expressen, che esce con la storia il 21. L'avvocato svedese di Assange, Bjorn Hurtig, dice che le due donne volevano soprattutto "fare qualche soldo con un’intervista" e "si volevano vendicare" del biondino che le aveva ‘giocate’. Obiettivi falliti entrambi, perché i soldi –ammesso che ne abbiano intascati- e la vendetta li stanno pagando un sacco cari, in termini di intrusioni nella loro privacy e ‘sputtanamento’ globale, visto che gli amici di Assange non ci vanno giù leggeri per metterle in cattiva luce.
Fin qui, il rapporto della polizia. Che non dona di certo all’immagine di Assange, ma neppure ne fa uno stupratore seriale. Però, la vicenda giudiziaria cresciuta intorno alla denuncia di Miss A e Miss W impedisce al fondatore di Wikileaks di ‘sparire’, mentre la giustizia americana cerca di montare contro di lui accuse più pregnanti di quelle un po’ labili delle due donne. E i guai, lo abbiamo visto, non vengono solo da giudici e poliziotti: l’attacco di Bank of America, dopo quelli di MasterCard, Visa, PayPal a altri, rischia di costringere Wikileaks all’apnea finanziaria. E la replica via Twitter non pare destinata a lasciare il segno: i titolari di conti correnti della Bank of America sono stati invitati a ritirare i loro soldi. Una mossa che il colosso finanziario teme meno delle carte di Wikileaks che lo riguardano e che potrebbero uscire presto; o, magari, a questo punto, non uscire mai.
Sarà anche libero, benché vigilato, dopo nove giorni trascorsi in una guardina britannica, ma non è certo tranquillo, Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, l’uomo che pubblicando quasi 300mila documenti del Dipartimento di Stato americano ha messo a soqquadro la diplomazia internazionale. Dopo che lui ha promesso nuove rilevazioni, con le banche nel mirino, questa volta, Bank of America s’aggiunge alla lista delle organizzazioni finanziarie che tengono a secco Wikileaks, mentre trapelano stralci di verbali della polizia svedese che dipingono il biondino australiano, l’ ‘hacker degli hackers’, come sessualmente "violento" –vedremo fino a che punto-. Ma Assange non ci sta a subire; e a parole contrattacca, accusando gli Stati Uniti di “maccartismo finanziario”, in interviste ai media che l’incontrano nella campagna del Suffolk, dove è ospite, o sul piazzale della stazione di Diss.
Il Guardian, che in questa storia è all’avanguardia su tutti i fronti, essendo stato fra i cinque giornali depositari in anteprima dei documenti carpiti al Dipartimento di Stato, pubblica verbali della polizia di Stoccolma, che illustrano in dettaglio le accuse di stupro e di violenza mosse ad Assange da due donne svedesi. Il rapporto racconta per filo e per segno, in base alle testimonianze, dieci giorni 'caldi' trascorsi tra seduzione, ammiccamenti e rapporti sessuali più o meno consensuali.
I legali del fondatore di Wikileaks provano a disinnescare lo ‘scoop’, dicendo, sempre al Guardian, che le accusatrici avrebbero agito “per gelosia”, o “per vendetta”, ma soprattutto “per soldi”. Prima, a dire il vero, avevano sostenuto che le denunce erano una macchinazione della Cia. Adesso, fanno un passo indietro: "Non è la Cia ad avere mandato un agente in minigonna”. Certo, la storia non è proprio limpida: vediamo insieme i dieci giorni che non avranno “sconvolto il mondo”, come quelli di John Reed, ma che potrebbero sconvolgere la vita di Assange.
L'11 agosto 2010, Miss A (il Guardian non fa i nomi ma A è Anna Ardin e W è Sofia Wilen) dà le chiavi di casa al fondatore di Wikileaks, "perché sarebbe rimasta fuori per un po' di tempo". Il 13, però, torna e i due escono insieme a cena. Al rientro, Assange fa qualche avances: lei prima rifiuta, poi acconsente, ma pretende che l’uomo si metta un preservativo, che risulta bucato. Ma Julian non si ferma più e va fino in fondo. Nei sette giorni successivi, l'australiano continuerà a dormire a casa di Miss A.
Il 14, entra in scena Miss W. Dopo un convegno organizzato da Miss A., le due donne pranzano con l'australiano e con altre persone del suo staff. Assange e Miss W simpatizzano, vanno al cinema (e lui non fa come Renato, che guardava il film), si ritrovano la sera ad una festa a casa di Miss A (che continua a essere pure quella di Julian). Il 16, Miss W invita il fondatore di Wikileaks a una cena ‘tete-a-tete’ a casa sua: scena analoga a quella del 13, avances, lei ci sta ma gli chiede di mettersi il preservativo, lui rifiuta, poi accetta “a malincuore”; seguono sesso, sonno, poi di nuovo sesso (ma questa volta ‘rubato’, senza protezione e senza consenso).
Il 20, Miss A e Miss W s’incontrano, si raccontano le reciproche esperienze, insistono con Assange perché faccia il test dell’Hiv (lui accetta, ma poi non lo fa perché la clinica è chiusa) e infine vanno a denunciarlo alla polizia. Subito dopo, raccontano tutto all’Expressen, che esce con la storia il 21. L'avvocato svedese di Assange, Bjorn Hurtig, dice che le due donne volevano soprattutto "fare qualche soldo con un’intervista" e "si volevano vendicare" del biondino che le aveva ‘giocate’. Obiettivi falliti entrambi, perché i soldi –ammesso che ne abbiano intascati- e la vendetta li stanno pagando un sacco cari, in termini di intrusioni nella loro privacy e ‘sputtanamento’ globale, visto che gli amici di Assange non ci vanno giù leggeri per metterle in cattiva luce.
Fin qui, il rapporto della polizia. Che non dona di certo all’immagine di Assange, ma neppure ne fa uno stupratore seriale. Però, la vicenda giudiziaria cresciuta intorno alla denuncia di Miss A e Miss W impedisce al fondatore di Wikileaks di ‘sparire’, mentre la giustizia americana cerca di montare contro di lui accuse più pregnanti di quelle un po’ labili delle due donne. E i guai, lo abbiamo visto, non vengono solo da giudici e poliziotti: l’attacco di Bank of America, dopo quelli di MasterCard, Visa, PayPal a altri, rischia di costringere Wikileaks all’apnea finanziaria. E la replica via Twitter non pare destinata a lasciare il segno: i titolari di conti correnti della Bank of America sono stati invitati a ritirare i loro soldi. Una mossa che il colosso finanziario teme meno delle carte di Wikileaks che lo riguardano e che potrebbero uscire presto; o, magari, a questo punto, non uscire mai.
sabato 18 dicembre 2010
SPIGOLI: un Ercolino sempre-in-piedi e tante sirene
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/12/2010
Alla fine, ne spunta fuori uno che difende la stabilità alla Berlusconi. Les Echos, giornale economico francese, sostiene che “il salvataggio del governo è una buona notizia” per l’economia italiana, perchè allontana il voto e garantisce continuità. A conferma della sua tesi, Les Echos pubblica una ‘photo-gallery’ berlusconiana, nel segno della “inaffondabilità” del Cavaliere, vero e proprio ‘Ercolino sempre-in-piedi’ della politica nostrana. Scorrendo le immagini, pero’, al lettore viene l’ansia: crisi evitate con la ‘compra-vendita’, processi, scandali, showbiz ed escort, roba che al confronto Sarkozy è un dilettante. E infatti Les Echos resta solo. The Economist, settimanale economico britannico che a Mr B non ne perdona mai una, lo descrive “aggrapato” al potere e, in un servizio su Mediaset, rileva che “l’azienda sta meglio del suo fondatore”. The Economist crede che, nonostante la fiducia, dietro l’angolo della primavera “potrebbero ancora esserci elezioni”. Qui, pero’, rischia d’aprirsi un altro tormentone: la stampa estera indulge spesso alle sirene della politica italiana, crede a Fini e persino ai finiani, pensa quasi sempre che uno faccia quel che dice. E, adesso, Le Monde come El Pais (e persino Le Figaro) imboccano la pista della Terza Via, Fini, Casini, Rutelli e chissà chi ancora. E dire che manco c’è la seconda di via, con la sinistra che non sapendo dove andare dritta fa i girotondi.
Alla fine, ne spunta fuori uno che difende la stabilità alla Berlusconi. Les Echos, giornale economico francese, sostiene che “il salvataggio del governo è una buona notizia” per l’economia italiana, perchè allontana il voto e garantisce continuità. A conferma della sua tesi, Les Echos pubblica una ‘photo-gallery’ berlusconiana, nel segno della “inaffondabilità” del Cavaliere, vero e proprio ‘Ercolino sempre-in-piedi’ della politica nostrana. Scorrendo le immagini, pero’, al lettore viene l’ansia: crisi evitate con la ‘compra-vendita’, processi, scandali, showbiz ed escort, roba che al confronto Sarkozy è un dilettante. E infatti Les Echos resta solo. The Economist, settimanale economico britannico che a Mr B non ne perdona mai una, lo descrive “aggrapato” al potere e, in un servizio su Mediaset, rileva che “l’azienda sta meglio del suo fondatore”. The Economist crede che, nonostante la fiducia, dietro l’angolo della primavera “potrebbero ancora esserci elezioni”. Qui, pero’, rischia d’aprirsi un altro tormentone: la stampa estera indulge spesso alle sirene della politica italiana, crede a Fini e persino ai finiani, pensa quasi sempre che uno faccia quel che dice. E, adesso, Le Monde come El Pais (e persino Le Figaro) imboccano la pista della Terza Via, Fini, Casini, Rutelli e chissà chi ancora. E dire che manco c’è la seconda di via, con la sinistra che non sapendo dove andare dritta fa i girotondi.
venerdì 17 dicembre 2010
UE: verso salva-Stati permanente, ma resta vincolo rigore
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/12/2010
Bruxelles – I leader dei 27 hanno trovato una rapida intesa sulle modifiche “limitate” da apportare al Trattato di Lisbona, necessarie per creare un meccanismo salva-Stati permanente, che metta l’euro e I Paesi dell’eurozona al riparo da crisi e da attacchi della speculazione come quelli che hanno colpito nei mesi scorsi la Grecia e l’Irlanda.
La decisione è maturate nelle prime battute del Consiglio europeo di Bruxelles. Ma l’intesa era nell’aria. Il grosso del lavoro, pero’, resta da fare: toccherà ai ministri delle finanze mettere a punto i contenuti e le procedure del meccanismo permanente.
Alla vigilia del Vertice, la presidenza di turno belga aveva avuto un pensiero gentile: un alberello di Natale accanto a ogni tavolo di lavoro dei giornalisti, in sala stampa. Ma, sotto l’albero, non c’erano regali per l’Italia: Silvio Berlusconi torna a casa solo con nuovi presagi di rigore e severità, perchè –è la linea dell’Unione- «i Paesi dell’eurozona devono continuare a consolidare le finanze pubbliche», cioè a contenere i deficit e a ridurre il debito.
Il Vertice s’era aperto in un clima conciliante : quasi tutte le dichiarazioni, prima dell’inizio delle discussioni, erano state improntate a un cauto ottimismo. E il presidente della riunione, il belga Herman Van Rompuy, s’era concesso una battuta benaugurante: «Spero che avremo un bianco Natale, ma che non passeremo una notte bianca».
Bianca, in realtà, l’è stata, perchè su Bruxelles è caduta per molte ore una fitta nevicata. Ma il Vertice s’è risolto davvero in fretta, in un’Unione avvezza alle estenuanti maratone. Van Rompuy è stato facile profeta: neppure tre ore dopo l’inizio dei lavori, sul suo twitter poteva già annunciare: “Abbiamo un accordo sull’emendamento al Trattato”. Il testo concordato è brevissimo: “I Paesi che partecipano all’euro possono definire un meccanismo si stabilità che sarà attivato se indispensabile a salvaguardare la stabilità dell’eurozona nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria richiesta in base a tale meccanismo sarà soggetta a una stretta condizionalità ».
Il semestre di presidenza belga si chiude, dunque, con un franco successo. Ora, pero’, toccherà all’Ungheria, all’esordio nel ruolo, riempire di contenuti l’intesa. Di per sè, in concreto, la modifica da apportare al Trattato non significa nulla : se va tutto bene, essa sarà formalmente approvata, dopo il si’ delle altre istituzioni dell’Ue, entro marzo e, superate le ratifiche nazionali, entrerà in vigore il 1.o gennaio 2013.
Il problema sono le modamità del meccanismo permanente, che dovranno essere messe a punto dai ministri delle Finanze e su cui il confronto è aperto: si discute,
ad esempio, sul ruolo del sistema private e sull’introduzione degli Eurobonds. Problemi che non erano all’ordine del giorno del Vertice ieri, anche se il Parlamento di Strasburgo ha fatto un affondo per le obbligazioni europee, sentendosi rispondere che non è il momento di parlarne –Germania e Francia restano contrarie-.
Rispetto alla scadenza del 1.o gennaio 2013, se sarà rispettata, i ministri avranno un po’ più di tempo per perfezionare l’intesa, perché il meccanismo salva-Stati provvisorio, quello creato nella scia della crisi greca, scadrà a giugno 2013. Ma la trattativa s’annuncia delicata, per l’Italia delicatissima: le proposte sul tavolo continuano a prevedere un rapido rientro dei deficit di bilancio e dei debiti in eccesso, rispetto ai tetti fissati (rispettivamente 3% e 60%, mentre noi stiamo al 120%).
La riunione del Consiglio europeo ha coinciso con la decisione della Banca centrale europea di varare un aumento di capitale di 5 miliardi di euro, a copertura dei rischi di credito, tassi e cambi. Il capitale di BankItalia salirà di 624,8 milioni di euro, rispetto ai 720 attuali –quasi un raddoppio-. La mossa della Bce, che il governatore Jean-Claude Trichet ha illustrato ai leader dei 27, ha subito ottenuto la benedizione dell’Fmi, il cui presidente, Dominique Strauss-Kahn, ha invece liquidato la portata delle conclusioni del Vertice : l’Ue « non otterrà molto » fin quandonon supererà l’approccio « frammentario » sciorinato nelle vicende greca e irlandese.
A Bruxelles, fino al conseguimento dell’accordo, s’era visto un Berlusconi scuro e taciturno : non aveva neppure voluto replicare alle previsioni di Confindustria, negative per l’economia italiana. Loquaci e quasi imprevedilmnete europeisti, invece, altri leader. Il cancelliere tedersco Angela Merkel ha detto che il meccanismo anti-crisi è « un atto di solidarietà che va nel senso di un euro stabile in un’Europa stabile ». E persino il premier britannico David Cameron ha giudicato « importante » il passo fatto, pur aggiungendo che « dobbiamo stare attenti a che Londra non debba spenderci soldi ». Quanto al premier irlandese Brian Cowen, ha rassicurato i partner : Dublino non sottoporrà a referendum la modifica al Trattato. Generale il sospiro di sollievo: un referendum in Irlanda è sempre una grana per l’Unione.
Bruxelles – I leader dei 27 hanno trovato una rapida intesa sulle modifiche “limitate” da apportare al Trattato di Lisbona, necessarie per creare un meccanismo salva-Stati permanente, che metta l’euro e I Paesi dell’eurozona al riparo da crisi e da attacchi della speculazione come quelli che hanno colpito nei mesi scorsi la Grecia e l’Irlanda.
La decisione è maturate nelle prime battute del Consiglio europeo di Bruxelles. Ma l’intesa era nell’aria. Il grosso del lavoro, pero’, resta da fare: toccherà ai ministri delle finanze mettere a punto i contenuti e le procedure del meccanismo permanente.
Alla vigilia del Vertice, la presidenza di turno belga aveva avuto un pensiero gentile: un alberello di Natale accanto a ogni tavolo di lavoro dei giornalisti, in sala stampa. Ma, sotto l’albero, non c’erano regali per l’Italia: Silvio Berlusconi torna a casa solo con nuovi presagi di rigore e severità, perchè –è la linea dell’Unione- «i Paesi dell’eurozona devono continuare a consolidare le finanze pubbliche», cioè a contenere i deficit e a ridurre il debito.
Il Vertice s’era aperto in un clima conciliante : quasi tutte le dichiarazioni, prima dell’inizio delle discussioni, erano state improntate a un cauto ottimismo. E il presidente della riunione, il belga Herman Van Rompuy, s’era concesso una battuta benaugurante: «Spero che avremo un bianco Natale, ma che non passeremo una notte bianca».
Bianca, in realtà, l’è stata, perchè su Bruxelles è caduta per molte ore una fitta nevicata. Ma il Vertice s’è risolto davvero in fretta, in un’Unione avvezza alle estenuanti maratone. Van Rompuy è stato facile profeta: neppure tre ore dopo l’inizio dei lavori, sul suo twitter poteva già annunciare: “Abbiamo un accordo sull’emendamento al Trattato”. Il testo concordato è brevissimo: “I Paesi che partecipano all’euro possono definire un meccanismo si stabilità che sarà attivato se indispensabile a salvaguardare la stabilità dell’eurozona nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria richiesta in base a tale meccanismo sarà soggetta a una stretta condizionalità ».
Il semestre di presidenza belga si chiude, dunque, con un franco successo. Ora, pero’, toccherà all’Ungheria, all’esordio nel ruolo, riempire di contenuti l’intesa. Di per sè, in concreto, la modifica da apportare al Trattato non significa nulla : se va tutto bene, essa sarà formalmente approvata, dopo il si’ delle altre istituzioni dell’Ue, entro marzo e, superate le ratifiche nazionali, entrerà in vigore il 1.o gennaio 2013.
Il problema sono le modamità del meccanismo permanente, che dovranno essere messe a punto dai ministri delle Finanze e su cui il confronto è aperto: si discute,
ad esempio, sul ruolo del sistema private e sull’introduzione degli Eurobonds. Problemi che non erano all’ordine del giorno del Vertice ieri, anche se il Parlamento di Strasburgo ha fatto un affondo per le obbligazioni europee, sentendosi rispondere che non è il momento di parlarne –Germania e Francia restano contrarie-.
Rispetto alla scadenza del 1.o gennaio 2013, se sarà rispettata, i ministri avranno un po’ più di tempo per perfezionare l’intesa, perché il meccanismo salva-Stati provvisorio, quello creato nella scia della crisi greca, scadrà a giugno 2013. Ma la trattativa s’annuncia delicata, per l’Italia delicatissima: le proposte sul tavolo continuano a prevedere un rapido rientro dei deficit di bilancio e dei debiti in eccesso, rispetto ai tetti fissati (rispettivamente 3% e 60%, mentre noi stiamo al 120%).
La riunione del Consiglio europeo ha coinciso con la decisione della Banca centrale europea di varare un aumento di capitale di 5 miliardi di euro, a copertura dei rischi di credito, tassi e cambi. Il capitale di BankItalia salirà di 624,8 milioni di euro, rispetto ai 720 attuali –quasi un raddoppio-. La mossa della Bce, che il governatore Jean-Claude Trichet ha illustrato ai leader dei 27, ha subito ottenuto la benedizione dell’Fmi, il cui presidente, Dominique Strauss-Kahn, ha invece liquidato la portata delle conclusioni del Vertice : l’Ue « non otterrà molto » fin quandonon supererà l’approccio « frammentario » sciorinato nelle vicende greca e irlandese.
A Bruxelles, fino al conseguimento dell’accordo, s’era visto un Berlusconi scuro e taciturno : non aveva neppure voluto replicare alle previsioni di Confindustria, negative per l’economia italiana. Loquaci e quasi imprevedilmnete europeisti, invece, altri leader. Il cancelliere tedersco Angela Merkel ha detto che il meccanismo anti-crisi è « un atto di solidarietà che va nel senso di un euro stabile in un’Europa stabile ». E persino il premier britannico David Cameron ha giudicato « importante » il passo fatto, pur aggiungendo che « dobbiamo stare attenti a che Londra non debba spenderci soldi ». Quanto al premier irlandese Brian Cowen, ha rassicurato i partner : Dublino non sottoporrà a referendum la modifica al Trattato. Generale il sospiro di sollievo: un referendum in Irlanda è sempre una grana per l’Unione.
SPIGOLI: Mr B e bunga bunga emblemi dell'Italia peggiore
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/12/2010
Il giorno dopo le cronache dell’Italia peggiore, per la stampa estera è l’ora di analisi e commenti. NYT e IHT dedicano un editoriale alla “crisi di fiducia dell'Italia”, che ha “bisogno di un governo abbastanza coraggioso e credibile per disfare i danni dell’ ‘era Berlusconi’...: “C'è bisogno urgente –scrive il più prestigioso quotidiano statunitense- di nuovi leader, di nuove elezioni e di un approccio al governo più onesto”. Pero’, si sa, il NYT e la sua versione internazionale sono irriducibili ‘liberal’, che qualcuno, a casa nostra, potrebbe persino spingersi a chiamare “comunisti”. Magari, il resto della stampa Usa la vede diversamente...
E, invece, il panorama è fitto d’interventi e quasi uniforme nelle valutazioni. Newsweek scrive "Non si può governare così" e annuncia “una nuova crisi all'orizzonte”; Time titola “Berlusconi sopravvive, ma la rabbia italiana monta” e inserisce –aihnoi!- ‘bunga bunga’ tra le dieci parole tormentone 2010. e il LAT afferma che “la misura risicata” della fiducia berlusconiana indica che “sarà dura per il premier fare passare le leggi in agenda”, con l’effetto di prolungare “il senso di paralisi politica”. Solo il commento del WSJ è di segno un po’ diverso: dopo la fiducia al governo, “i politici di Roma non potrebbero farsi un favore migliore che approvare le riforme pro-crescita”. Ma anche il quotidiano economica dubita che Mr B e i suoi sodali sapranno cogliere “l’ultima chance”.
La stampa europea è, invece, più aderente agli sviluppi di giornata, tra le chiacchiere sul terzo polo e le polemiche sui disordini di Roma. Ma il Times di Londra vede nero nel suo commento: “Berlusconi il pagliaccio ha suggellato il complesso di inferiorità degli italiani, E chiunque verrà dopo potrebbe essere peggio”. FT definisce Berlusconi “il grande sopravvissuto”, la Bbc ed Economist gli preconizzano “un futuro incerto”; e l’Independent sa già che “il governo cadrà per Pasqua”, perchè gliel’ha detto Calderoli.
I giornali francesi s’affidano alle interviste. Su Nouvel Obs, Martine Aubry, leader socialista, giudica che Berlusconi, come Sarkozy, manca “di serenità e di dignità”. Secondo Le Monde, gli ultimi eventi confermano “la debolezza” del premier. Anche Le Figaro, di solito benevolo verso Mr B, scrive: “La vittoria ottenuta ha poco peso”. Infine, El Pais, nemico acerrimo dell’attuale assetto di potere italiano: l’editoriale parla di “proroga natalizia”, perchè “la confusione regna in Italia dopo la fiducia minima a Berlusconi”. E ora “il Vaticano in soccorso –è la tesi pure di Abc-: Berlusconi cerca nuovi alleati per la sua fragile maggioranza”. Ma davvero ne troverà oltre Tevere?
Il giorno dopo le cronache dell’Italia peggiore, per la stampa estera è l’ora di analisi e commenti. NYT e IHT dedicano un editoriale alla “crisi di fiducia dell'Italia”, che ha “bisogno di un governo abbastanza coraggioso e credibile per disfare i danni dell’ ‘era Berlusconi’...: “C'è bisogno urgente –scrive il più prestigioso quotidiano statunitense- di nuovi leader, di nuove elezioni e di un approccio al governo più onesto”. Pero’, si sa, il NYT e la sua versione internazionale sono irriducibili ‘liberal’, che qualcuno, a casa nostra, potrebbe persino spingersi a chiamare “comunisti”. Magari, il resto della stampa Usa la vede diversamente...
E, invece, il panorama è fitto d’interventi e quasi uniforme nelle valutazioni. Newsweek scrive "Non si può governare così" e annuncia “una nuova crisi all'orizzonte”; Time titola “Berlusconi sopravvive, ma la rabbia italiana monta” e inserisce –aihnoi!- ‘bunga bunga’ tra le dieci parole tormentone 2010. e il LAT afferma che “la misura risicata” della fiducia berlusconiana indica che “sarà dura per il premier fare passare le leggi in agenda”, con l’effetto di prolungare “il senso di paralisi politica”. Solo il commento del WSJ è di segno un po’ diverso: dopo la fiducia al governo, “i politici di Roma non potrebbero farsi un favore migliore che approvare le riforme pro-crescita”. Ma anche il quotidiano economica dubita che Mr B e i suoi sodali sapranno cogliere “l’ultima chance”.
La stampa europea è, invece, più aderente agli sviluppi di giornata, tra le chiacchiere sul terzo polo e le polemiche sui disordini di Roma. Ma il Times di Londra vede nero nel suo commento: “Berlusconi il pagliaccio ha suggellato il complesso di inferiorità degli italiani, E chiunque verrà dopo potrebbe essere peggio”. FT definisce Berlusconi “il grande sopravvissuto”, la Bbc ed Economist gli preconizzano “un futuro incerto”; e l’Independent sa già che “il governo cadrà per Pasqua”, perchè gliel’ha detto Calderoli.
I giornali francesi s’affidano alle interviste. Su Nouvel Obs, Martine Aubry, leader socialista, giudica che Berlusconi, come Sarkozy, manca “di serenità e di dignità”. Secondo Le Monde, gli ultimi eventi confermano “la debolezza” del premier. Anche Le Figaro, di solito benevolo verso Mr B, scrive: “La vittoria ottenuta ha poco peso”. Infine, El Pais, nemico acerrimo dell’attuale assetto di potere italiano: l’editoriale parla di “proroga natalizia”, perchè “la confusione regna in Italia dopo la fiducia minima a Berlusconi”. E ora “il Vaticano in soccorso –è la tesi pure di Abc-: Berlusconi cerca nuovi alleati per la sua fragile maggioranza”. Ma davvero ne troverà oltre Tevere?
giovedì 16 dicembre 2010
SPIGOLI: sbatti in prima l'Italia peggiore a colori forti
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 16/12/2010
L'Italia peggiore conquista le prime pagine della stampa internazionale: è l'Italia delle sprangate e della violenza nelle strade di Roma; ed è l'Italia della politica del baratto, senza ideali e senza idee, con l'ago della bussola puntato su conservazione del potere e preservazione del privilegio. I media più popolari danno molto più spazio alla cronaca che alla politica: De Morgen, un quotidiano fiammingo, apre a tutta prima pagina con un'immagine a grandangolo di piazza del Popolo devastata. E una scelta analoga, con un’immagine meno panoramica, ma più violenta, fa The International Herald Tribune, che apre il giornale con un titolo a doppia chiave: ‘Berlusconi tiene, ma la protesta traversa Roma’. I quotidiani più attenti alla politica e all’economia, come El Pais, o The Financial Times, danno più spazio all’esito del voto di fiducia, giudicato spesso «di giustezza», «in extremis», «per il rotto della cuffia», perche' molti corrispondenti s’aspettavano che il governo Berlusconi cadesse e devono ora giustificare, agli occhi dei lettori, il ‘colpo di scena’ : El Pais accusa i ‘transfughi’ d’avere ‘salvato d’un pelo’ Berlusconi; ma sarebbero pur sempre stati dei ‘transfughi’ a condannarlo. Ma anche dove il commento prevale sulla cronaca, in prima ci sono le foto dei disordini: quella del finanziere che, malmenato, piegato a terra, impugna la pistola, è dovunque, brutale fin nei tratti e nei colori caravaggeschi.
L'Italia peggiore conquista le prime pagine della stampa internazionale: è l'Italia delle sprangate e della violenza nelle strade di Roma; ed è l'Italia della politica del baratto, senza ideali e senza idee, con l'ago della bussola puntato su conservazione del potere e preservazione del privilegio. I media più popolari danno molto più spazio alla cronaca che alla politica: De Morgen, un quotidiano fiammingo, apre a tutta prima pagina con un'immagine a grandangolo di piazza del Popolo devastata. E una scelta analoga, con un’immagine meno panoramica, ma più violenta, fa The International Herald Tribune, che apre il giornale con un titolo a doppia chiave: ‘Berlusconi tiene, ma la protesta traversa Roma’. I quotidiani più attenti alla politica e all’economia, come El Pais, o The Financial Times, danno più spazio all’esito del voto di fiducia, giudicato spesso «di giustezza», «in extremis», «per il rotto della cuffia», perche' molti corrispondenti s’aspettavano che il governo Berlusconi cadesse e devono ora giustificare, agli occhi dei lettori, il ‘colpo di scena’ : El Pais accusa i ‘transfughi’ d’avere ‘salvato d’un pelo’ Berlusconi; ma sarebbero pur sempre stati dei ‘transfughi’ a condannarlo. Ma anche dove il commento prevale sulla cronaca, in prima ci sono le foto dei disordini: quella del finanziere che, malmenato, piegato a terra, impugna la pistola, è dovunque, brutale fin nei tratti e nei colori caravaggeschi.
mercoledì 15 dicembre 2010
UE: l'Italia batte un colpo, Kessler contro corruzione
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 15/12/2010
Per l’Italia in Europa, è certo la nomina più significativa da parecchio tempo a questa parte: Giovanni Kessler, trentino, magistrato, è il nuovo direttore dell’Ufficio europeo anti-frode (Olaf). Lo ha deciso la Commissione europea, dopo che la candidatura dell’esponente Pd aveva ricevuto riscontri positivi sia nel Parlamento europeo che nel Consiglio dei Ministri dell’Ue.
Nella corsa all’incarico, prima tenuto da un tedesco, Kessler ha avuto, come avversari, un austriaco, una svedese, un britannico –l’attuale direttore ad interim-, ma soprattutto il belga Johan Denolf ed il francese Thierry Cretin, per il quale Parigi s’è mossa molto.
Credibilità personale e ampio sostegno nell’Assemblea di Strasburgo, Kessler ha dovuto sormontare l’handicap di essere italiano in una fase in cui l’immagine dell’Italia, in Europa e pure sul fronte anti-corruzione, non è forte . Nella ragnatela di interessi che gli si sono mossi contro, riferiscono fonti direttamente coinvolte nella ‘battaglia’, anche pezzi del ministero dell’Economia italiano e, in particolare, la Guardia di Finanza, che può vedere nell’Olaf una sorta d’antagonista alla propria autonomia e al proprio potere.
Nelle nuove funzioni, che assumerà all’inizio del 2011, Kessler potrà condurre condurre inchieste amministrative indipendenti; assistere e coordinare le attività dei Paesi dell’Ue contro le frodi a danno del bilancio comunitario; contribuire alla definizione della strategia antifrode europea. L’Olaf dispone di circa 500 persone e può contare su un bilancio di circa 50 milioni di euro l’anno.
La scelta di Kessler “é una grande soddisfazione e un successo per l’Italia", dice David Sassoli, presidente della delegazione del Pd nell’Assemblea di Strasburgo, sottolineando che l’Olaf ha voce in capitolo nella lotta contro la criminalità organizzata transnazionale. "La nomina - aggiunge Sassoli - dimostra che l’Italia, quando si concentra sugli obiettivi e riesce a fare sistema, ha enormi potenzialità …". Oltre che Sassoli, la scelta di Kessler galvanizza il vice-presidente del Parlamento Gianni Pittella (Pd), il presidente della commissione per il controllo dei bilanci Luigi De Magistris (Idv) e altri euro-deputati italiani di tutti gli schieramenti politici.
Presidente del Consiglio della Provincia di Trento dal dicembre 2008, incarico che intende ora lasciare, Kessler fu protagonista delle inchieste di Mani Pulite negli Anni Novanta e fu poi alla direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta. Come osservatore internazionale, ha compiuto missioni in vari Paesi dell'Est Europa per verificare lo stato dell'amministrazione della giustizia, della corruzione e della criminalità organizzata. Dal 2006 al 2008, fu alto commissario per la lotta alla contraffazione.
Per l’Italia in Europa, è certo la nomina più significativa da parecchio tempo a questa parte: Giovanni Kessler, trentino, magistrato, è il nuovo direttore dell’Ufficio europeo anti-frode (Olaf). Lo ha deciso la Commissione europea, dopo che la candidatura dell’esponente Pd aveva ricevuto riscontri positivi sia nel Parlamento europeo che nel Consiglio dei Ministri dell’Ue.
Nella corsa all’incarico, prima tenuto da un tedesco, Kessler ha avuto, come avversari, un austriaco, una svedese, un britannico –l’attuale direttore ad interim-, ma soprattutto il belga Johan Denolf ed il francese Thierry Cretin, per il quale Parigi s’è mossa molto.
Credibilità personale e ampio sostegno nell’Assemblea di Strasburgo, Kessler ha dovuto sormontare l’handicap di essere italiano in una fase in cui l’immagine dell’Italia, in Europa e pure sul fronte anti-corruzione, non è forte . Nella ragnatela di interessi che gli si sono mossi contro, riferiscono fonti direttamente coinvolte nella ‘battaglia’, anche pezzi del ministero dell’Economia italiano e, in particolare, la Guardia di Finanza, che può vedere nell’Olaf una sorta d’antagonista alla propria autonomia e al proprio potere.
Nelle nuove funzioni, che assumerà all’inizio del 2011, Kessler potrà condurre condurre inchieste amministrative indipendenti; assistere e coordinare le attività dei Paesi dell’Ue contro le frodi a danno del bilancio comunitario; contribuire alla definizione della strategia antifrode europea. L’Olaf dispone di circa 500 persone e può contare su un bilancio di circa 50 milioni di euro l’anno.
La scelta di Kessler “é una grande soddisfazione e un successo per l’Italia", dice David Sassoli, presidente della delegazione del Pd nell’Assemblea di Strasburgo, sottolineando che l’Olaf ha voce in capitolo nella lotta contro la criminalità organizzata transnazionale. "La nomina - aggiunge Sassoli - dimostra che l’Italia, quando si concentra sugli obiettivi e riesce a fare sistema, ha enormi potenzialità …". Oltre che Sassoli, la scelta di Kessler galvanizza il vice-presidente del Parlamento Gianni Pittella (Pd), il presidente della commissione per il controllo dei bilanci Luigi De Magistris (Idv) e altri euro-deputati italiani di tutti gli schieramenti politici.
Presidente del Consiglio della Provincia di Trento dal dicembre 2008, incarico che intende ora lasciare, Kessler fu protagonista delle inchieste di Mani Pulite negli Anni Novanta e fu poi alla direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta. Come osservatore internazionale, ha compiuto missioni in vari Paesi dell'Est Europa per verificare lo stato dell'amministrazione della giustizia, della corruzione e della criminalità organizzata. Dal 2006 al 2008, fu alto commissario per la lotta alla contraffazione.
martedì 14 dicembre 2010
SPIGOLI: un terno per il 'post Mr B', Giulio, Luca, Nichi
Scritto per Il fatto Quotidiano del 14/12/2010
L’ora della verità e compagnia bella: la stampa estera ha titoli un po’ scontati sulla politica italiana, Berlusconi, Fini, Casini e i soliti noti. Ma c’è chi, in attesa della crisi, se ci sarà, e delle elezioni, se ci saranno, guarda comunque alle alternative del presente o agli outsiders del futuro. Per un ‘dopo Berlusconi’ che non sia, però, un Berlusconi bis, il candidato quasi unico è Giulio Tremonti, ministro dell’Economia dalla pagella europea modesta –stando, almeno, al recente giudizio del Financial Times-, ma ugualmente un gigante rispetto ai suoi colleghi. Stranamente, i media internazionali tendono a ignorare l’ipotesi Letta, forse perché lo ‘zio Gianni’ di Mr B ha una visibilità circoscritta all’orizzonte nazionale. Se, invece, il dopo passasse attraverso le elezioni, ecco alternative di sinistra, ma non Bersani, e di centro, ma non Casini e tanto meno Rutelli. La Bbc individua l’Obama italiano in Nichi Vendola, governatore della Puglia ai blocchi di partenza delle primarie, mentre altri citano, o meglio citavano, a sinistra, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, un po’ screditato dopo l’omaggio al premier a Macherio. Al centro, piace, o almeno riesce a fare parlare di sé, Luca di Montezemolo “pronto a lasciare la Ferrari – scriveva recentemente The Times- e a sfidare Berlusconi”. Una ‘candidatura’ sostenuta anche da The Telegraph e dal Dayly Mail, oltre che da Parismatch.
L’ora della verità e compagnia bella: la stampa estera ha titoli un po’ scontati sulla politica italiana, Berlusconi, Fini, Casini e i soliti noti. Ma c’è chi, in attesa della crisi, se ci sarà, e delle elezioni, se ci saranno, guarda comunque alle alternative del presente o agli outsiders del futuro. Per un ‘dopo Berlusconi’ che non sia, però, un Berlusconi bis, il candidato quasi unico è Giulio Tremonti, ministro dell’Economia dalla pagella europea modesta –stando, almeno, al recente giudizio del Financial Times-, ma ugualmente un gigante rispetto ai suoi colleghi. Stranamente, i media internazionali tendono a ignorare l’ipotesi Letta, forse perché lo ‘zio Gianni’ di Mr B ha una visibilità circoscritta all’orizzonte nazionale. Se, invece, il dopo passasse attraverso le elezioni, ecco alternative di sinistra, ma non Bersani, e di centro, ma non Casini e tanto meno Rutelli. La Bbc individua l’Obama italiano in Nichi Vendola, governatore della Puglia ai blocchi di partenza delle primarie, mentre altri citano, o meglio citavano, a sinistra, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, un po’ screditato dopo l’omaggio al premier a Macherio. Al centro, piace, o almeno riesce a fare parlare di sé, Luca di Montezemolo “pronto a lasciare la Ferrari – scriveva recentemente The Times- e a sfidare Berlusconi”. Una ‘candidatura’ sostenuta anche da The Telegraph e dal Dayly Mail, oltre che da Parismatch.
Wikileaks: Assange, un eroe o un gaglioffo
Postato wul sito di Media Duemila il 13/12/2010
Vai su http://www.mediaduemila.it/?p=4316
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domenica 12 dicembre 2010
SPIGOLI: l’Obama di Bari contro Mr B, il web e le tv
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/12/2010, non pubblicato
Tutti cercano un Obama (e quelli che ce l’hanno, poi, non ne sono contenti e, dopo averlo eletto, lo criticano e lo bastonano). La Bbc ne ha trovato uno italiano. E mica è Matteo Renzi: quello, l’ha scoperto Mr B e se l’è ‘imbobinato’ lassù nella villa di Macherio. Così, il servizio pubblico televisivo britannico riempie i giorni italiani dell’attesa (per il voto sulla fiducia di martedì) e della protesta (con i cortei del Pd a Roma) raccontando, con il beneficio del dubbio, perché il governatore della Puglia potrebbe/dovrebbe essere l’Obama nostro. In realtà, Rosie Goldsmith, autrice del servizio, non pare proprio acquisita alla causa di Nicki. Anzi, inizia raccontando come e perché le pare un altro ‘berlusca’: oratori carismatici entrambi, ‘rock stars’ entrambi; e l’uno e l’altro –la stoccata!-‘bassotti’. Ma poi comincia a descrivere in che cosa i due sono diversi e l’elenco delle differenze è molto più lungo: tanto per cominciare, Silvio ha le tv, Nichi usa il web. E Vendola ha pure una misura che al Cavaliere difetta: “E’ lei l’Obama italiano?”, gli chiede Rosie, come se fossero al gioco delle identità. “Il confronto mi onora e mi fa piacere. Ma ho il senso delle proporzioni: non c’è paragone, lui è l’uomo più potente sulla faccia della terra e io sono il governatore di una regione con quattro milioni di abitanti” e un sacco di problemi. Ma l’Arkansas da dove veniva Bill Clinton, Obama bianco Anni Novanta, di abitanti ne ha meno della metà della Puglia.
Tutti cercano un Obama (e quelli che ce l’hanno, poi, non ne sono contenti e, dopo averlo eletto, lo criticano e lo bastonano). La Bbc ne ha trovato uno italiano. E mica è Matteo Renzi: quello, l’ha scoperto Mr B e se l’è ‘imbobinato’ lassù nella villa di Macherio. Così, il servizio pubblico televisivo britannico riempie i giorni italiani dell’attesa (per il voto sulla fiducia di martedì) e della protesta (con i cortei del Pd a Roma) raccontando, con il beneficio del dubbio, perché il governatore della Puglia potrebbe/dovrebbe essere l’Obama nostro. In realtà, Rosie Goldsmith, autrice del servizio, non pare proprio acquisita alla causa di Nicki. Anzi, inizia raccontando come e perché le pare un altro ‘berlusca’: oratori carismatici entrambi, ‘rock stars’ entrambi; e l’uno e l’altro –la stoccata!-‘bassotti’. Ma poi comincia a descrivere in che cosa i due sono diversi e l’elenco delle differenze è molto più lungo: tanto per cominciare, Silvio ha le tv, Nichi usa il web. E Vendola ha pure una misura che al Cavaliere difetta: “E’ lei l’Obama italiano?”, gli chiede Rosie, come se fossero al gioco delle identità. “Il confronto mi onora e mi fa piacere. Ma ho il senso delle proporzioni: non c’è paragone, lui è l’uomo più potente sulla faccia della terra e io sono il governatore di una regione con quattro milioni di abitanti” e un sacco di problemi. Ma l’Arkansas da dove veniva Bill Clinton, Obama bianco Anni Novanta, di abitanti ne ha meno della metà della Puglia.
sabato 11 dicembre 2010
Sakineh: crudele farsa la liberazione, l'Iran beffa il mondo
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell' 11/12/2010
"Una macchinazione gravissima": il ministro degli esteri Franco Frattini e' in prima fila a denunciare l'ennesima beffa del regime iraniano alla comunita' internazionale. L'illusione e' stata certo voluta: un esercizio di disinformazione in stile sovietico, o forse un gioco crudele tra illusione e realta'. La speranza della liberazione della donna condannata per complicita' nell'omicidio del marito e adulterio e che rischia l'esecuzione e' durata poche ore. Poi, la smentita ufficiale: Sakineh era stata portata a casa sua solo per riproporre in un programma tv la sua confessione.
Ma Frattini era stato in prima linea, primissima, anche giovedì, quando s'era affrettato a dire la sua gioia per l'avvenuta -falsa- liberazione: un modo per vantare il successo della mediazione dell'Italia, che - era il messaggio sottinteso - non sta nel 5 + 1 che negozia con l'Iran sul nucleare, ma sa come farsi ascoltare da Teheran. Deluso, e pure scornato, il ministro ora proclama: "Vogliamo vedere Sakineh libera"; e poi dice: «Conoscendo l'Iran, non mi stupisco». Ma se davvero lo conosce cosi' bene, poteva essere più cauto nel reagire all'annuncio, anche se ora sostiene d'avere agito con prudenza, d'avere "espresso un caveat"..
Certo, la beffa e' stata generale: ci sono cascati in pieno i media di mezzo mondo. Frattini ricostruisce i passaggi: «L'ambasciatore mi ha comunicato che i rappresentanti del comitato contro la lapidazione avevano visto Sakineh a casa sua e che erano stati diffusi foto e filmati di lei nella sua abitazione". E allora "si è pensato che fosse stata liberata». Al ministro, resta una speranza: «Dobbiamo capire se davvero era solo una ricognizione sulla scena del delitto o se si è trattato invece di una preparazione della liberazione, come noi auspichiamo. Chiediamo un gesto di clemenza, un gesto unilaterale delle autorità iraniane, che diano un segnale che il dialogo sui diritti umani è possibile». In realta', la preoccupazione di Teheran non sembra proprio essede il dialogo sui diritti umani, quanto magari i negoziati nucleari, ripresi lunedì a Ginevra e destinati a proseguire ad Ankara a gennaio.
E' stato il procuratore di Tabriz, la citta' nel nord-ovest dell’Iran epicentro della vicenda, a fare sapere che la notizia della liberazione di Sakineh Mohammdi-Ashtiani, di suo figlio Sajjad Qaderzadeh e dell’avvocato Javid Hutan Kian, era "un’assoluta menzogna", diffusa dai mezzi di stampa stranieri con "finalità politiche". Ma gli attivisti anti lapidazione sostengono che "Sakineh era libera da tre giorni" e parlano di "gioco sporco delle autorità iraniane": "La Repubblica Islamica, con questi trucchi, ha cercato di ingraziarsi le potenze internazionali" con cui negozia sul nucleare, dice alle agenzie di stampa Taher Djafarizad, attivista del Comitato. Sakineh sarebbe stata condotta fuori dal carcere proprio per dare l'illusione della liberazione. E' una tesi; ma, se fosse vera, l'inganno potrebbe tramutarsi in boomerang, togliendo ogni residua affidabilita' al regime iraniano, anche agli occhi dei 5 + 1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania)..
Certo, neppure la versione ufficiale convince molto: Sakineh riportata a casa sua per tre giorni, dal 6 all'8, proprio in coincidenza coi negoziati di Ginevra, per una ricostruzione televisiva del suo delitto: una cosa da Porta a Porta in salsa islamica. Frattini spera che sia il preludio della liberazione, una sorta di prova generale. Ma l'intento del programma pare, piuttosto, quello di ribadire la colpevolezza di Sakineh: magari non la lapidiamo, e forse neppure l'impicchiamo, ma il carcere le spetta.
"Una macchinazione gravissima": il ministro degli esteri Franco Frattini e' in prima fila a denunciare l'ennesima beffa del regime iraniano alla comunita' internazionale. L'illusione e' stata certo voluta: un esercizio di disinformazione in stile sovietico, o forse un gioco crudele tra illusione e realta'. La speranza della liberazione della donna condannata per complicita' nell'omicidio del marito e adulterio e che rischia l'esecuzione e' durata poche ore. Poi, la smentita ufficiale: Sakineh era stata portata a casa sua solo per riproporre in un programma tv la sua confessione.
Ma Frattini era stato in prima linea, primissima, anche giovedì, quando s'era affrettato a dire la sua gioia per l'avvenuta -falsa- liberazione: un modo per vantare il successo della mediazione dell'Italia, che - era il messaggio sottinteso - non sta nel 5 + 1 che negozia con l'Iran sul nucleare, ma sa come farsi ascoltare da Teheran. Deluso, e pure scornato, il ministro ora proclama: "Vogliamo vedere Sakineh libera"; e poi dice: «Conoscendo l'Iran, non mi stupisco». Ma se davvero lo conosce cosi' bene, poteva essere più cauto nel reagire all'annuncio, anche se ora sostiene d'avere agito con prudenza, d'avere "espresso un caveat"..
Certo, la beffa e' stata generale: ci sono cascati in pieno i media di mezzo mondo. Frattini ricostruisce i passaggi: «L'ambasciatore mi ha comunicato che i rappresentanti del comitato contro la lapidazione avevano visto Sakineh a casa sua e che erano stati diffusi foto e filmati di lei nella sua abitazione". E allora "si è pensato che fosse stata liberata». Al ministro, resta una speranza: «Dobbiamo capire se davvero era solo una ricognizione sulla scena del delitto o se si è trattato invece di una preparazione della liberazione, come noi auspichiamo. Chiediamo un gesto di clemenza, un gesto unilaterale delle autorità iraniane, che diano un segnale che il dialogo sui diritti umani è possibile». In realta', la preoccupazione di Teheran non sembra proprio essede il dialogo sui diritti umani, quanto magari i negoziati nucleari, ripresi lunedì a Ginevra e destinati a proseguire ad Ankara a gennaio.
E' stato il procuratore di Tabriz, la citta' nel nord-ovest dell’Iran epicentro della vicenda, a fare sapere che la notizia della liberazione di Sakineh Mohammdi-Ashtiani, di suo figlio Sajjad Qaderzadeh e dell’avvocato Javid Hutan Kian, era "un’assoluta menzogna", diffusa dai mezzi di stampa stranieri con "finalità politiche". Ma gli attivisti anti lapidazione sostengono che "Sakineh era libera da tre giorni" e parlano di "gioco sporco delle autorità iraniane": "La Repubblica Islamica, con questi trucchi, ha cercato di ingraziarsi le potenze internazionali" con cui negozia sul nucleare, dice alle agenzie di stampa Taher Djafarizad, attivista del Comitato. Sakineh sarebbe stata condotta fuori dal carcere proprio per dare l'illusione della liberazione. E' una tesi; ma, se fosse vera, l'inganno potrebbe tramutarsi in boomerang, togliendo ogni residua affidabilita' al regime iraniano, anche agli occhi dei 5 + 1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania)..
Certo, neppure la versione ufficiale convince molto: Sakineh riportata a casa sua per tre giorni, dal 6 all'8, proprio in coincidenza coi negoziati di Ginevra, per una ricostruzione televisiva del suo delitto: una cosa da Porta a Porta in salsa islamica. Frattini spera che sia il preludio della liberazione, una sorta di prova generale. Ma l'intento del programma pare, piuttosto, quello di ribadire la colpevolezza di Sakineh: magari non la lapidiamo, e forse neppure l'impicchiamo, ma il carcere le spetta.
SPIGOLI: la moka, genio (tradito) dell'Italia che lavora
Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/12/2010, non pubblicato
Se la politica resta in sordina, prima dei fuochi artificiali della prossima settimana, e se Wikileaks comincia a sapere di déjà vu, la stampa estera va in caccia dei segreti d’Italia. E talora ne scova che persino noi ignoriamo. Un esempio: alzi la mano chi sapeva che la moka della Bialetti è nata da una lavatrice. Lo racconta l’Independent, che ha una passione per la macchina da caffè tuttora più popolare in Italia, nonostante il trasferimento degli impianti e dell’omino con i baffi di uno dei caroselli più famosi dal Piemonte nell’Europa dell’Est. Alfonso Bialetti era un emigrato in Francia, che nel 1918 torno’ in Italia e apri’ una officina dove mettere a frutto quel che da aveva imparato in dieci anni da operaio nell’industria dell’alluminio. Osservando le donne del paese lavare i panni in una specie di pentola a vapore, con un tubo che portava su dal basso verso l’alto l’acqua insaponata calda, ebbe l’intuizione della moka che avrebbe trasformato il caffé da bevanda per soli uomini, da consumarsi nei caffé e nelle osterie, in bevanda familiare. L’invenzione risale al 1933 e fu subito popolare. Alfonso non l’ha mai abbandonata: l’omino con i baffi, che il figlio Renato introdusse come marchio sulle caffettiere, è ispirato alla sua figura. Segreti, ma anche banalità : James Grieson, un esperto, consiglia agli inglesi quello che tutti gli italiani sanno, « non togliete dal fondo e dalle pareti della vostra Moka la patina di caffé, cosi’ l’aroma del prossimo sarà migliore ».
Se la politica resta in sordina, prima dei fuochi artificiali della prossima settimana, e se Wikileaks comincia a sapere di déjà vu, la stampa estera va in caccia dei segreti d’Italia. E talora ne scova che persino noi ignoriamo. Un esempio: alzi la mano chi sapeva che la moka della Bialetti è nata da una lavatrice. Lo racconta l’Independent, che ha una passione per la macchina da caffè tuttora più popolare in Italia, nonostante il trasferimento degli impianti e dell’omino con i baffi di uno dei caroselli più famosi dal Piemonte nell’Europa dell’Est. Alfonso Bialetti era un emigrato in Francia, che nel 1918 torno’ in Italia e apri’ una officina dove mettere a frutto quel che da aveva imparato in dieci anni da operaio nell’industria dell’alluminio. Osservando le donne del paese lavare i panni in una specie di pentola a vapore, con un tubo che portava su dal basso verso l’alto l’acqua insaponata calda, ebbe l’intuizione della moka che avrebbe trasformato il caffé da bevanda per soli uomini, da consumarsi nei caffé e nelle osterie, in bevanda familiare. L’invenzione risale al 1933 e fu subito popolare. Alfonso non l’ha mai abbandonata: l’omino con i baffi, che il figlio Renato introdusse come marchio sulle caffettiere, è ispirato alla sua figura. Segreti, ma anche banalità : James Grieson, un esperto, consiglia agli inglesi quello che tutti gli italiani sanno, « non togliete dal fondo e dalle pareti della vostra Moka la patina di caffé, cosi’ l’aroma del prossimo sarà migliore ».
venerdì 10 dicembre 2010
Wkileaks: Julian e i suoi amici, Lula, ma anche Putin
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/12/2010
Dimmi con ci vai (sul web) e ti diro chi sei: se il veccho adagio, adattato all’era internet, ha qualche fondamento, Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, non
si ritrova in una compagnia proprio adamantina. L’ultimo a mettersi al suo fianco, dopo Muhammar Gheddafi, è Vladimir Putin (attenzione!: se tanto mi dà tanto, presto lo difenderà pure il Silvio nostro, che contro i suoi amici non si mette mai).
Dunque, il presidente russo, cui alcune delle rivelazioni di Wikileaks non devono essere andate a genio, sale in cattedra e dà lezione agli Stati Uniti: «E’ questa la democrazia?, perchè avete arrestato Assange?, da che pulpito viene la predica» sulla libertà di stampa. Putin risponde a una domanda in conferenza stalmpa e si scatena: cita pure lui un proverbio, ma russo («se la mucca di un vicino muggisce, è meglio che la tua stia zitta») e pizzica il Dipartimento di Stato («Voi credete davvero che la diplomazia americana sia una fonte d’informazione cristallina?»).
Cosi’, Putin balza in testa alla lista degli amici di Assange ‘potenti e famosi’ : c’è gente per bene, come il brasiliano Lula, ma ci sono pure leader poco presentabili. Alcuni, come Lula, ci stanno per amore della libertà; l’israeliano Netanyahu perchè, in fondo, le rivelazioni di Wikileaks gli hanno procurato più vantaggi che svantaggi; Putin perchè i cablo dei diplomatici lo hanno magari infastidito; Gheddafi, forse, per un antimericanismo di fondo. Con il fondatore di Wikileaks, si schierano pure i compagni di cella, che un po’ avanzi di galera devono pur esserlo.
Certo che l’Amministrazione statunitense ci s’è messa di buzzo buono per farsi nemici, in questa vicenda, e per procurare amici ad Assange. Andiamo oltre le dichiarazioni a gogo’ dei suoi diplomatici, che, esposte sul web, sono diventate una sorta di gogna informatica per i leader ‘sbertucciati’ e per il Dipartimento di Stato incapace di difendere i suoi segreti. A scompaginare le carte, è stato il clima di persecuzione creato -un po’ a disdoro della libertà d’espressione salvaguardata dalla Costituzione americana- intorno al ‘pirata’ australiano, che, all’inizio, era simpatico a pochi. Anche le femministe si dividono sul reato di stupro addebitato a Julian: una montatura? I dubbi ci sono e il profilo di almeno una delle vittime li avalla.
Con Assange, stanno, ovviamente; gli hacker di tutto il mondo, che conducono attacchi a tutto spiano contro chi, pubblico o privato che sia, boicotta Wikileaks. Il commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay se ne allarma e, anche lei, se la prende con gli Usa: “Si parla di pressioni esercitate su società private, banche, società di carte di credito, fornitori di siti, perchè chiudano le linee di credito per le donazioni a Wikileaks". "Se Wikileaks –aggiunge la Pillay - ha commesso atti riconosciuti come illegali, deve essere perseguito nel quadro della legislazione e non attraverso pressioni o intimidazioni, specie su terzi”.
Il concetto è semplice: se giustizia va fatta, va fatta nel rispetto della giustizia (e non sommariamente). Gli avvocati sono in campo. Assange martire e santo ? Speriamo non diventi martire e non crediamo che sia santo, ma intanto è già una statuetta nei presepi di Napoli.
Dimmi con ci vai (sul web) e ti diro chi sei: se il veccho adagio, adattato all’era internet, ha qualche fondamento, Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, non
si ritrova in una compagnia proprio adamantina. L’ultimo a mettersi al suo fianco, dopo Muhammar Gheddafi, è Vladimir Putin (attenzione!: se tanto mi dà tanto, presto lo difenderà pure il Silvio nostro, che contro i suoi amici non si mette mai).
Dunque, il presidente russo, cui alcune delle rivelazioni di Wikileaks non devono essere andate a genio, sale in cattedra e dà lezione agli Stati Uniti: «E’ questa la democrazia?, perchè avete arrestato Assange?, da che pulpito viene la predica» sulla libertà di stampa. Putin risponde a una domanda in conferenza stalmpa e si scatena: cita pure lui un proverbio, ma russo («se la mucca di un vicino muggisce, è meglio che la tua stia zitta») e pizzica il Dipartimento di Stato («Voi credete davvero che la diplomazia americana sia una fonte d’informazione cristallina?»).
Cosi’, Putin balza in testa alla lista degli amici di Assange ‘potenti e famosi’ : c’è gente per bene, come il brasiliano Lula, ma ci sono pure leader poco presentabili. Alcuni, come Lula, ci stanno per amore della libertà; l’israeliano Netanyahu perchè, in fondo, le rivelazioni di Wikileaks gli hanno procurato più vantaggi che svantaggi; Putin perchè i cablo dei diplomatici lo hanno magari infastidito; Gheddafi, forse, per un antimericanismo di fondo. Con il fondatore di Wikileaks, si schierano pure i compagni di cella, che un po’ avanzi di galera devono pur esserlo.
Certo che l’Amministrazione statunitense ci s’è messa di buzzo buono per farsi nemici, in questa vicenda, e per procurare amici ad Assange. Andiamo oltre le dichiarazioni a gogo’ dei suoi diplomatici, che, esposte sul web, sono diventate una sorta di gogna informatica per i leader ‘sbertucciati’ e per il Dipartimento di Stato incapace di difendere i suoi segreti. A scompaginare le carte, è stato il clima di persecuzione creato -un po’ a disdoro della libertà d’espressione salvaguardata dalla Costituzione americana- intorno al ‘pirata’ australiano, che, all’inizio, era simpatico a pochi. Anche le femministe si dividono sul reato di stupro addebitato a Julian: una montatura? I dubbi ci sono e il profilo di almeno una delle vittime li avalla.
Con Assange, stanno, ovviamente; gli hacker di tutto il mondo, che conducono attacchi a tutto spiano contro chi, pubblico o privato che sia, boicotta Wikileaks. Il commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay se ne allarma e, anche lei, se la prende con gli Usa: “Si parla di pressioni esercitate su società private, banche, società di carte di credito, fornitori di siti, perchè chiudano le linee di credito per le donazioni a Wikileaks". "Se Wikileaks –aggiunge la Pillay - ha commesso atti riconosciuti come illegali, deve essere perseguito nel quadro della legislazione e non attraverso pressioni o intimidazioni, specie su terzi”.
Il concetto è semplice: se giustizia va fatta, va fatta nel rispetto della giustizia (e non sommariamente). Gli avvocati sono in campo. Assange martire e santo ? Speriamo non diventi martire e non crediamo che sia santo, ma intanto è già una statuetta nei presepi di Napoli.
SPIGOLI: brevetto, anche Londra ci dà lezione d'Europa
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/12/2010
Chi di nazionalismo ferisce, di europeismo perisce. L’Italia, un tempo campione, almeno a parole, dell’integrazione, subisce ormai lezioni d’europeismo persino dalla Gran Bretagna, mentre la stampa di Bruxelles se la ride. Sono dieci anni che i Paesi Ue dicono di volere un brevetto europeo: un solo documento, valido per tutta l’Unione, che ridurrebbe il costo di un brevetto a misura Ue dagli attuali 20mila euro circa, di cui 14mila di traduzione, a 680, contro i 1850 euro che ci vogliono negli Usa. Resta l’ostacolo delle lingue: la proposta è che il brevetto europeo possa essere richiesto in inglese, in francese o in tedesco (la Germania è la maggiore fucina di brevetti europei). L’Italia e la Spagna non ci stanno: senza italiano e spagnolo, il brevetto non s’ha da fare. O, altrimenti, facciamo tutto solo in inglese (che non sarebbe una cattiva idea). Roma, più di Madrid, fa la voce grossa, punta i piedi, urla al ricatto, minaccia il veto. Risultato: Francia, Germania, Gran Bretagna, ma anche almeno altri otto Paesi, propongono, con l’avallo della Commissione, d’andare avanti, come prevede il Trattato di Lisbona, con la cooperazione rafforzata (lo fa chi vuole e gli altri restano al palo o, se vogliono, si aggregano). Berlusconi con Zapatero scrive ai suoi pari, Frattini fa proclami. Ma, oggi, a Bruxelles, il Consiglio dei Ministri puo’ decidere: ci sarà un brevetto europeo e non sarà nè in italiano nè italiano.
Chi di nazionalismo ferisce, di europeismo perisce. L’Italia, un tempo campione, almeno a parole, dell’integrazione, subisce ormai lezioni d’europeismo persino dalla Gran Bretagna, mentre la stampa di Bruxelles se la ride. Sono dieci anni che i Paesi Ue dicono di volere un brevetto europeo: un solo documento, valido per tutta l’Unione, che ridurrebbe il costo di un brevetto a misura Ue dagli attuali 20mila euro circa, di cui 14mila di traduzione, a 680, contro i 1850 euro che ci vogliono negli Usa. Resta l’ostacolo delle lingue: la proposta è che il brevetto europeo possa essere richiesto in inglese, in francese o in tedesco (la Germania è la maggiore fucina di brevetti europei). L’Italia e la Spagna non ci stanno: senza italiano e spagnolo, il brevetto non s’ha da fare. O, altrimenti, facciamo tutto solo in inglese (che non sarebbe una cattiva idea). Roma, più di Madrid, fa la voce grossa, punta i piedi, urla al ricatto, minaccia il veto. Risultato: Francia, Germania, Gran Bretagna, ma anche almeno altri otto Paesi, propongono, con l’avallo della Commissione, d’andare avanti, come prevede il Trattato di Lisbona, con la cooperazione rafforzata (lo fa chi vuole e gli altri restano al palo o, se vogliono, si aggregano). Berlusconi con Zapatero scrive ai suoi pari, Frattini fa proclami. Ma, oggi, a Bruxelles, il Consiglio dei Ministri puo’ decidere: ci sarà un brevetto europeo e non sarà nè in italiano nè italiano.
giovedì 9 dicembre 2010
Wikileaks: Ben Ali, altro amico di Mr B, nel frullatore
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 09/12/2010
Un altro ‘amichetto’ di Mr B, e un amico per eccellenza del suo mentore e protettore Bettino Craxi, finisce nel frullatore delle rivelazioni di Wikileaks, che, giorno dopo giorno, schizzano verità sporche sui potenti del mondo. L'ambasciatore Usa a Tunisi, in due dispacci, descrive un "regime sclerotico e corrotto", una corte della famiglia "quasi-mafiosa" del sempreverde presidente Ben Ali.
Intanto, il fondatore del sito ‘che tremare il mondo fa’, proprio come il Bologna degli Anni Trenta, resta in carcere a Londra: Julian Assange, quasi certamente, non uscirà di prigione almeno fino alla prossima settimana, mentre, nel suo nome, si scatena una cyberguerra contro le società che lo hanno boicottato, come MasterCard e PayPal, e contro la magistratura di Stoccolma che l’accusa di violenza sessuale. Ed è mistero sulle trattative, se vi sono, tra Washington e Stoccolma per l’estradizione di Assange, mentre l’Australia, paese natale dell’hacker un po’ spia e ladro e un po’ Robin Hood, accusa gli Stati Uniti : « La colpa delle fuga di notizie è vostra ». Che diamine !, proteggete meglio i vostri segreti e, se non ne siete capaci, mettete almeno il bavaglio ai vostri ambasciatori.
Ma torniamo alla Tunisia, protagonista delle ultime rivelazioni, insieme a gran parte del Medio Oriente, fino al regime saudita. I due telegrammi ‘avvelenati’, firmati da Robert F. Godec, risalgono al giugno 2008 –era Bush- e al luglio 2009 –era Obama-. Alla voce, democrazia e diritti umani, chiamano in causa anche l'Italia che, come la Francia, ex potenza coloniale, evita di fare "pressioni" su Tunisi a differenza di altri Paesi europei come la Gran Bretagna e la Germania : « Dovremmo impegnarci per fargliele fare », suggerisce Godec a Washington.
Si ignora se le pressioni vi siano mai state. Di certo, se vi sono state, non hanno sortito effetto alcuno. Ma ormai sappiamo che l’amicizia, per Mr. B e i suoi ministri, conta più di elezioni simulacro e libertà conculcate, dalla Libia alla Russia, dalla Bielorussia al Kazakhstan. Salvo poi farsi cantori in patria delle libertà da difendere dai comunisti (ma Lukashenko e Nazarbayev che cosa sono ?, o almeno che cosa erano ?, per non parlare di Putin).
L’ambasciatore Usa scrive che « gli eccessi della famiglia del presidente », la ‘Famiglia’ per antonomasia, « oltraggiano i tunisini » : « La corruzione qui è
l'elefante nella stanza ». Ma l’Italia si spinge fino all’elogio delle carceri tunisine (l’ambasciatore Antonio D’Andria stava pero’ cercando di evitare che due tunisini usciti dal carcere di Guantanamo finissero in Italia, come poi avvenne a fine 2009, cosi’ da evitare loro torture nelle patrie prigioni).
L'Italia ha sempre tenuuto rapporti molto stretti con la Tunisia di Ben Ali, salito
al potere nel 1987 con un colpo di stato incruento contro il vecchio Habib Bourghiba, artefice dell'indipendenza dalla Francia. Il Sismi – per conto del governo di allora Craxi / Andreotti – avrebbe "agevolato" il cambio della guardia a Tunisi. Vero o falso, Ben Ali, amicissimo di Craxi, ha rapporti molto stretti anche Silvio Berlusconi, che dal '94 è andato spesso a trovarlo; e non solo quando era premier.
Un altro ‘amichetto’ di Mr B, e un amico per eccellenza del suo mentore e protettore Bettino Craxi, finisce nel frullatore delle rivelazioni di Wikileaks, che, giorno dopo giorno, schizzano verità sporche sui potenti del mondo. L'ambasciatore Usa a Tunisi, in due dispacci, descrive un "regime sclerotico e corrotto", una corte della famiglia "quasi-mafiosa" del sempreverde presidente Ben Ali.
Intanto, il fondatore del sito ‘che tremare il mondo fa’, proprio come il Bologna degli Anni Trenta, resta in carcere a Londra: Julian Assange, quasi certamente, non uscirà di prigione almeno fino alla prossima settimana, mentre, nel suo nome, si scatena una cyberguerra contro le società che lo hanno boicottato, come MasterCard e PayPal, e contro la magistratura di Stoccolma che l’accusa di violenza sessuale. Ed è mistero sulle trattative, se vi sono, tra Washington e Stoccolma per l’estradizione di Assange, mentre l’Australia, paese natale dell’hacker un po’ spia e ladro e un po’ Robin Hood, accusa gli Stati Uniti : « La colpa delle fuga di notizie è vostra ». Che diamine !, proteggete meglio i vostri segreti e, se non ne siete capaci, mettete almeno il bavaglio ai vostri ambasciatori.
Ma torniamo alla Tunisia, protagonista delle ultime rivelazioni, insieme a gran parte del Medio Oriente, fino al regime saudita. I due telegrammi ‘avvelenati’, firmati da Robert F. Godec, risalgono al giugno 2008 –era Bush- e al luglio 2009 –era Obama-. Alla voce, democrazia e diritti umani, chiamano in causa anche l'Italia che, come la Francia, ex potenza coloniale, evita di fare "pressioni" su Tunisi a differenza di altri Paesi europei come la Gran Bretagna e la Germania : « Dovremmo impegnarci per fargliele fare », suggerisce Godec a Washington.
Si ignora se le pressioni vi siano mai state. Di certo, se vi sono state, non hanno sortito effetto alcuno. Ma ormai sappiamo che l’amicizia, per Mr. B e i suoi ministri, conta più di elezioni simulacro e libertà conculcate, dalla Libia alla Russia, dalla Bielorussia al Kazakhstan. Salvo poi farsi cantori in patria delle libertà da difendere dai comunisti (ma Lukashenko e Nazarbayev che cosa sono ?, o almeno che cosa erano ?, per non parlare di Putin).
L’ambasciatore Usa scrive che « gli eccessi della famiglia del presidente », la ‘Famiglia’ per antonomasia, « oltraggiano i tunisini » : « La corruzione qui è
l'elefante nella stanza ». Ma l’Italia si spinge fino all’elogio delle carceri tunisine (l’ambasciatore Antonio D’Andria stava pero’ cercando di evitare che due tunisini usciti dal carcere di Guantanamo finissero in Italia, come poi avvenne a fine 2009, cosi’ da evitare loro torture nelle patrie prigioni).
L'Italia ha sempre tenuuto rapporti molto stretti con la Tunisia di Ben Ali, salito
al potere nel 1987 con un colpo di stato incruento contro il vecchio Habib Bourghiba, artefice dell'indipendenza dalla Francia. Il Sismi – per conto del governo di allora Craxi / Andreotti – avrebbe "agevolato" il cambio della guardia a Tunisi. Vero o falso, Ben Ali, amicissimo di Craxi, ha rapporti molto stretti anche Silvio Berlusconi, che dal '94 è andato spesso a trovarlo; e non solo quando era premier.
martedì 7 dicembre 2010
Wikileaks: gli occhi degli Usa su siti e impianti italiani
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/12/2010
Gli Stati Uniti tenevano sotto controllo in Europa, “senza consultare i Paesi ospiti” –cioè, in pratica, spiavano e verosimilmente spiano tuttora - siti industriali giudicati possibili obiettivi di attacchi terroristici e ritenuti critici per la sicurezza nazionale. E’ l’ennesima rivelazione scaturita dai documenti di Wikileaks, che continuano a fornire sorprese e imbarazzi: sorprese all’opinione pubblica, imbarazzi alle diplomazie (quella americana, in primis).
In Italia, i siti nella lista sono due: una multinazionale farmaceutica, Glaxo Smith Kline SpA, con sede per l’Italia a Verona (ma gli Usa concentrano l’attenzione sullo stabilimento di San Polo di Torrile, Digibind, in provincia di Parma, che fa vaccini e liquidi e liofilizzati sterili su scala mondiale); e un gasdotto dall’Algeria, il Transmed, che, lungo oltre 2000 chilometri, porta il gas in Sicilia e poi fino alla Valle Padana (il punto d’arrivo è a Minerbio, vicino a Bologna).
La lista venne spedita nel febbraio 2009 –alla Casa Bianca, c’era già Barack Obama e al Dipartimento di Stato Hillary Clinton-: Washington invitava diplomatici americani in tutto il mondo a offrire aiuto ai siti in questione e a promuovere servizi e tecnologia ‘made in Usa’ per garantirne la sicurezza.
La cosiddetta ‘Critical Foreign Dependencies Initiative’ divide il globo in sei regioni e cita, fra centinaia di impianti, il cavo sottomarino Apollo tra Francia e Gran Bretagna –la stazione di approdo è in Cornovaglia-, stabilimenti farmaceutici in Germania, una fabbrica d’insulina in Danimarca, il gasdotto Nadym in Russia e ancora siti in Spagna, in Israele e un po’ in tutto il mondo (una miniera di cobalto in Congo, un’azienda per la produzione di siero contro il veleno dei serpenti in Australia).
Trattata dai media in modo diverso –El Pais l’ha pubblicata, il Guardian no, giudicandola lesiva della sicurezza nazionale- , la lista è fonte d’irritazione e preoccupazione: il governo britannico denuncia i rischi che la fuga di notizie puo’ comportare. E le industrie si trovano esposte non solo alla minaccia dei terroristi, ammesso che lo fossero, ma anche di qualche emulo.
Resta, pero’, il fatto che l’Amministrazione statunitense si procurava, e si procura, montagne di informazioni senza che i Paesi interessati, per alleati e partner fidati che possano essere, ne siano a conoscenza. E la pratica non è recente : le istruzioni del 2009, infatti, chiedevano di aggiornare una lista già esistente.
Il Transmed nasce da un contratto tra l’Eni e la Sonatrach, la compagnia petrolifera pubblica algerina. Ed ecco, dunque, comparire il gruppo italiano più temuto dagli Usa, abituato, probabilmente, a sentirsi addosso l’occhio diffidente degli Stati Uniti fin dall’epoca del suo fondatore Enrico Mattei. Preoccupano le attività dell’Eni, e pure quelle dell’Edison, in Iran, mentre lo sforzo del governo per indurle a rinunciare almeno a nuovi progetti appare « timido ». Il cablo è di inizio anno ed è firmato dall’ormai celebre, grazie a Wikileaks, Elizabeth Dibble: « L’Eni appare spesso dettare la politica energetica del governo italiano ».
E torna il tormentone dell’atteggiamento dell’Italia verso la Russia: “La politica energetica italiana riflette le priorità russe piuttosto che quelle europee”, nota la Dibble, alla vigilia di una missione a Washington del ministro Frattini; E fa esempi: “Il governo italiano è ambiguo sul sostegno al progetto Nabucco”, che piace all’Ue, “mentre l’Eni aiuta Gazprom a costruire gasdotti » che aumenteranno la dipendenza verso la Russia da parte dell’Ue.
Magari per strornare l’accusa di essere filo-russo, il premier Berlusconi avrebbe detto all’ambasciatore americano in Italia David Thorne, nel primo incontro –21 settembre 2009- che il suo amico Vladimir Putin “è il centro del potere in Russia”, mentre l’attuale presidente Dmitri Medvedev è “un mero apprendista”. Il giudizio attribuito crea ansia a Palazzo Chigi: Mr B nega di avere “mai pronunciato quelle frasi », d’avere «mai fatto paragoni” tra Putin e Medvedev. Eppure, per una volta, il Cavaliere ci aveva azzeccato: Putin è il maestro e Medvedev l’allievo. Anche se, strada facendo, l’allievo potrebbe non volere più dare ascolto al maestro.
Gli Stati Uniti tenevano sotto controllo in Europa, “senza consultare i Paesi ospiti” –cioè, in pratica, spiavano e verosimilmente spiano tuttora - siti industriali giudicati possibili obiettivi di attacchi terroristici e ritenuti critici per la sicurezza nazionale. E’ l’ennesima rivelazione scaturita dai documenti di Wikileaks, che continuano a fornire sorprese e imbarazzi: sorprese all’opinione pubblica, imbarazzi alle diplomazie (quella americana, in primis).
In Italia, i siti nella lista sono due: una multinazionale farmaceutica, Glaxo Smith Kline SpA, con sede per l’Italia a Verona (ma gli Usa concentrano l’attenzione sullo stabilimento di San Polo di Torrile, Digibind, in provincia di Parma, che fa vaccini e liquidi e liofilizzati sterili su scala mondiale); e un gasdotto dall’Algeria, il Transmed, che, lungo oltre 2000 chilometri, porta il gas in Sicilia e poi fino alla Valle Padana (il punto d’arrivo è a Minerbio, vicino a Bologna).
La lista venne spedita nel febbraio 2009 –alla Casa Bianca, c’era già Barack Obama e al Dipartimento di Stato Hillary Clinton-: Washington invitava diplomatici americani in tutto il mondo a offrire aiuto ai siti in questione e a promuovere servizi e tecnologia ‘made in Usa’ per garantirne la sicurezza.
La cosiddetta ‘Critical Foreign Dependencies Initiative’ divide il globo in sei regioni e cita, fra centinaia di impianti, il cavo sottomarino Apollo tra Francia e Gran Bretagna –la stazione di approdo è in Cornovaglia-, stabilimenti farmaceutici in Germania, una fabbrica d’insulina in Danimarca, il gasdotto Nadym in Russia e ancora siti in Spagna, in Israele e un po’ in tutto il mondo (una miniera di cobalto in Congo, un’azienda per la produzione di siero contro il veleno dei serpenti in Australia).
Trattata dai media in modo diverso –El Pais l’ha pubblicata, il Guardian no, giudicandola lesiva della sicurezza nazionale- , la lista è fonte d’irritazione e preoccupazione: il governo britannico denuncia i rischi che la fuga di notizie puo’ comportare. E le industrie si trovano esposte non solo alla minaccia dei terroristi, ammesso che lo fossero, ma anche di qualche emulo.
Resta, pero’, il fatto che l’Amministrazione statunitense si procurava, e si procura, montagne di informazioni senza che i Paesi interessati, per alleati e partner fidati che possano essere, ne siano a conoscenza. E la pratica non è recente : le istruzioni del 2009, infatti, chiedevano di aggiornare una lista già esistente.
Il Transmed nasce da un contratto tra l’Eni e la Sonatrach, la compagnia petrolifera pubblica algerina. Ed ecco, dunque, comparire il gruppo italiano più temuto dagli Usa, abituato, probabilmente, a sentirsi addosso l’occhio diffidente degli Stati Uniti fin dall’epoca del suo fondatore Enrico Mattei. Preoccupano le attività dell’Eni, e pure quelle dell’Edison, in Iran, mentre lo sforzo del governo per indurle a rinunciare almeno a nuovi progetti appare « timido ». Il cablo è di inizio anno ed è firmato dall’ormai celebre, grazie a Wikileaks, Elizabeth Dibble: « L’Eni appare spesso dettare la politica energetica del governo italiano ».
E torna il tormentone dell’atteggiamento dell’Italia verso la Russia: “La politica energetica italiana riflette le priorità russe piuttosto che quelle europee”, nota la Dibble, alla vigilia di una missione a Washington del ministro Frattini; E fa esempi: “Il governo italiano è ambiguo sul sostegno al progetto Nabucco”, che piace all’Ue, “mentre l’Eni aiuta Gazprom a costruire gasdotti » che aumenteranno la dipendenza verso la Russia da parte dell’Ue.
Magari per strornare l’accusa di essere filo-russo, il premier Berlusconi avrebbe detto all’ambasciatore americano in Italia David Thorne, nel primo incontro –21 settembre 2009- che il suo amico Vladimir Putin “è il centro del potere in Russia”, mentre l’attuale presidente Dmitri Medvedev è “un mero apprendista”. Il giudizio attribuito crea ansia a Palazzo Chigi: Mr B nega di avere “mai pronunciato quelle frasi », d’avere «mai fatto paragoni” tra Putin e Medvedev. Eppure, per una volta, il Cavaliere ci aveva azzeccato: Putin è il maestro e Medvedev l’allievo. Anche se, strada facendo, l’allievo potrebbe non volere più dare ascolto al maestro.
SPIGOLI: capitani d'industria sulla torre del potere
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/12/2010
Oggi, li fanno neri tutti: il premier che molti vorrebbero uscente, Silvio Berlusconi, e quelli che magari si preparano, anche solo in cuor loro, a subentragli, “i capitani d’industria pizzicati dal virus della politica”, come li definisce Les Echos. L’Independent, che domenica titolava “La scena è pronta per la caduta di Silvio”, ieri scriveva ‘gli ultimi giorni’ del Cavaliere, proprio come gli ultimi giorni di Pompei, e spiegava: “Fini pensa di avere abbastanza sostegno nel centrodestra per dichiararne finito il controverso regno da avanspettacolo”. Anche se, consci della volatilità politica italiana, i media stranieri, di solito, sono cauti nel fare pronostici. Les Echos, invece, constata che “la fine di Berlusconi non è senza paradossi”: il fatto è che, dopo 17 anni dalla ‘discesa in campo’ del patron di Fininvest, diversi altri imprenditori sono contagiati dalla politica. Il giornale economico francese cita Diego Della Valle, la cui proposta di restaurare il Colosseo potrebbe essere un “colpo calcolato”; o ancora Luca di Montezemolo, che con della Valle ha creato NTV (treni veloci). E afferma che, da quando hanno fondato Italia futura, Diego e Luca reclamano la testa di Silvio, come talora fa pure Emma (Marcegaglia). La deduzione è che “il Terzo Polo vuole fare cadere il Cavaliere con l’appoggio del mondo degli affari”.
Oggi, li fanno neri tutti: il premier che molti vorrebbero uscente, Silvio Berlusconi, e quelli che magari si preparano, anche solo in cuor loro, a subentragli, “i capitani d’industria pizzicati dal virus della politica”, come li definisce Les Echos. L’Independent, che domenica titolava “La scena è pronta per la caduta di Silvio”, ieri scriveva ‘gli ultimi giorni’ del Cavaliere, proprio come gli ultimi giorni di Pompei, e spiegava: “Fini pensa di avere abbastanza sostegno nel centrodestra per dichiararne finito il controverso regno da avanspettacolo”. Anche se, consci della volatilità politica italiana, i media stranieri, di solito, sono cauti nel fare pronostici. Les Echos, invece, constata che “la fine di Berlusconi non è senza paradossi”: il fatto è che, dopo 17 anni dalla ‘discesa in campo’ del patron di Fininvest, diversi altri imprenditori sono contagiati dalla politica. Il giornale economico francese cita Diego Della Valle, la cui proposta di restaurare il Colosseo potrebbe essere un “colpo calcolato”; o ancora Luca di Montezemolo, che con della Valle ha creato NTV (treni veloci). E afferma che, da quando hanno fondato Italia futura, Diego e Luca reclamano la testa di Silvio, come talora fa pure Emma (Marcegaglia). La deduzione è che “il Terzo Polo vuole fare cadere il Cavaliere con l’appoggio del mondo degli affari”.
domenica 5 dicembre 2010
Wikileaks: Italia-Russia, il prezzo degli affari, baratti e silenzi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/12/2010
Quando l’importante è fare affari, o stringere alleanze, non importa quale sia il partner, può capitare di dovere chiudere un occhio, e magari anche due, e pure tapparsi il naso e turarsi le orecchie. Lo fa l’Italia di Mr B con la Russia, e pure con il Kazakhstan, la Bielorussia, la Libia. E lo fanno molti altri Paesi, anche gli Stati Uniti: un po’ di cinismo, o di ‘realismo’, sulla democrazia e sul rispetto dei diritti dell’uomo barattato con elementi di sicurezza o di interesse nazionale.
All’Italia, può capitare di farlo in modo più plateale di altri: i silenzi e le connivenze del governo Berlusconi, ad esempio, sulla repressione in Cecenia così come sugli attentati alla libertà di stampa sono magari funzione dell’amicizia personale tra Silvio e l’uomo forte russo, Vladimir Putin, ma trovano un corrispettivo nei grossi affari russi di molte aziende italiane. E, qualche volta, il prezzo da pagare non è neppure né troppo elevato né troppo imbarazzante: basta offrire una pensione estiva alla famiglia Putin (che se poi è Villa Certosa, la residenza del premier in Sardegna, che male c’è?).
Certo, il pulpito americano non è proprio il più autorevole, per giocare alla trave e alla pagliuzza nell’occhio proprio e del vicino, dopo che per anni l’Amministrazione statunitense ha avallato, sotto l’insegna della lotta al terrorismo, tutto quello che Mosca faceva (adesso, però, il ministro Frattini s’è accorto che Bush e il suo vice Dick Cheney sbagliavano, mentre –aggiunge- c’è “piena sintonia” verso la Russia con l’Amministrazione Obama). Ma i cablo delle ambasciate degli Usa a Roma e a Mosca, pubblicati nel flusso delle rivelazioni di Wikileaks, snocciolano indicazioni inquietanti. Uno, datato 20 maggio 2009, afferma che “la relazione personale tra Berlusconi e Putin è un elemento chiave delle relazioni Italia-Russia” e ricorda, appunto, le vacanze della famigliola russa in Costa Smeralda:
Ma quel documento va al di là dell’aneddotica personale e afferma: ''Sebbene il Governo italiano abbia compreso le manchevolezze del Governo russo, non può permettersi di essere troppo duro nelle sue critiche", perché "l'interdipendenza economica ha un prezzo". Il cablo cita un funzionario dell’ambasciata d’Italia a Mosca, Lorenzo Fanara, che spiega come le relazioni economiche bilaterali siano "forti abbastanza da influenzare la posizione politica dell’Italia verso la Russia", che “è semplicemente un partner economico troppo importante per noi": "i leader, i politici e gli uomini d’affari italiani saranno sempre attenti nel trattare con la Russia dal momento che l’Italia vi esporta ogni anno beni del valore di oltre 10 miliardi di euro, per lo più prodotti da piccole e medie industrie".
Perché bisogna riconoscere che l’acquiescenza italiana è ben pagata: interscambio a parte, basta pensare all’affare da 16 miliardi della rete di gasdotti SouthStream e dell’intreccio d’interessi energetici e finanziari che ci stanno dietro, con una società svizzera costituita da Eni e Gazprom, gigante energetico russo: Per difendere SouthStream, l’Italia si mette contro l’America e l’Europa, che tengono, invece, al progetto Nabucco: il primo ‘esalta’ la dipendenza energetica balcanica ed europea dalla Russia, il secondo contribuisce a diversificare, andando a pescare l’energia nelle repubbliche post-sovietiche dell’Asia Centrale (per carità, dal punto di vista del chiudere un occhio sul rispetto dei valori non è che fare affari laggiù sia meglio che farli in Russia).
SouthStream è il pezzo grosso della complicità affaristica fra Italia e Russia. Ma c’è altro: venerdì, ad esempio, il Vertice di Soci s’è concluso con la firma di sette intese che spaziano dalla difesa all’energia –Eni, ma pure Enel-, dalla banche alle pmi alle poste (un accordo quadro). E, sul fronte militare, Mosca autorizza il transito ferroviario di armi e truppe italiane, oltre che di materiale logistico, verso l’Afghanistan –domanda: ma non è meglio spedircelo in aereo?- ed è interessata a produrre in joint venture 2500 Lince –i veicoli blindati usati, appunto, in Afghanistan-.
Quando l’importante è fare affari, o stringere alleanze, non importa quale sia il partner, può capitare di dovere chiudere un occhio, e magari anche due, e pure tapparsi il naso e turarsi le orecchie. Lo fa l’Italia di Mr B con la Russia, e pure con il Kazakhstan, la Bielorussia, la Libia. E lo fanno molti altri Paesi, anche gli Stati Uniti: un po’ di cinismo, o di ‘realismo’, sulla democrazia e sul rispetto dei diritti dell’uomo barattato con elementi di sicurezza o di interesse nazionale.
All’Italia, può capitare di farlo in modo più plateale di altri: i silenzi e le connivenze del governo Berlusconi, ad esempio, sulla repressione in Cecenia così come sugli attentati alla libertà di stampa sono magari funzione dell’amicizia personale tra Silvio e l’uomo forte russo, Vladimir Putin, ma trovano un corrispettivo nei grossi affari russi di molte aziende italiane. E, qualche volta, il prezzo da pagare non è neppure né troppo elevato né troppo imbarazzante: basta offrire una pensione estiva alla famiglia Putin (che se poi è Villa Certosa, la residenza del premier in Sardegna, che male c’è?).
Certo, il pulpito americano non è proprio il più autorevole, per giocare alla trave e alla pagliuzza nell’occhio proprio e del vicino, dopo che per anni l’Amministrazione statunitense ha avallato, sotto l’insegna della lotta al terrorismo, tutto quello che Mosca faceva (adesso, però, il ministro Frattini s’è accorto che Bush e il suo vice Dick Cheney sbagliavano, mentre –aggiunge- c’è “piena sintonia” verso la Russia con l’Amministrazione Obama). Ma i cablo delle ambasciate degli Usa a Roma e a Mosca, pubblicati nel flusso delle rivelazioni di Wikileaks, snocciolano indicazioni inquietanti. Uno, datato 20 maggio 2009, afferma che “la relazione personale tra Berlusconi e Putin è un elemento chiave delle relazioni Italia-Russia” e ricorda, appunto, le vacanze della famigliola russa in Costa Smeralda:
Ma quel documento va al di là dell’aneddotica personale e afferma: ''Sebbene il Governo italiano abbia compreso le manchevolezze del Governo russo, non può permettersi di essere troppo duro nelle sue critiche", perché "l'interdipendenza economica ha un prezzo". Il cablo cita un funzionario dell’ambasciata d’Italia a Mosca, Lorenzo Fanara, che spiega come le relazioni economiche bilaterali siano "forti abbastanza da influenzare la posizione politica dell’Italia verso la Russia", che “è semplicemente un partner economico troppo importante per noi": "i leader, i politici e gli uomini d’affari italiani saranno sempre attenti nel trattare con la Russia dal momento che l’Italia vi esporta ogni anno beni del valore di oltre 10 miliardi di euro, per lo più prodotti da piccole e medie industrie".
Perché bisogna riconoscere che l’acquiescenza italiana è ben pagata: interscambio a parte, basta pensare all’affare da 16 miliardi della rete di gasdotti SouthStream e dell’intreccio d’interessi energetici e finanziari che ci stanno dietro, con una società svizzera costituita da Eni e Gazprom, gigante energetico russo: Per difendere SouthStream, l’Italia si mette contro l’America e l’Europa, che tengono, invece, al progetto Nabucco: il primo ‘esalta’ la dipendenza energetica balcanica ed europea dalla Russia, il secondo contribuisce a diversificare, andando a pescare l’energia nelle repubbliche post-sovietiche dell’Asia Centrale (per carità, dal punto di vista del chiudere un occhio sul rispetto dei valori non è che fare affari laggiù sia meglio che farli in Russia).
SouthStream è il pezzo grosso della complicità affaristica fra Italia e Russia. Ma c’è altro: venerdì, ad esempio, il Vertice di Soci s’è concluso con la firma di sette intese che spaziano dalla difesa all’energia –Eni, ma pure Enel-, dalla banche alle pmi alle poste (un accordo quadro). E, sul fronte militare, Mosca autorizza il transito ferroviario di armi e truppe italiane, oltre che di materiale logistico, verso l’Afghanistan –domanda: ma non è meglio spedircelo in aereo?- ed è interessata a produrre in joint venture 2500 Lince –i veicoli blindati usati, appunto, in Afghanistan-.
sabato 4 dicembre 2010
Italia-Russia: amorosi sensi di Dmitri e Vladi per Silvio
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/12/2010, versione originale
“Noi non siamo paranoici e non leghiamo la qualità dei rapporti russo-italiani alla pubblicazione d’informazioni indiscrete”. Da un russo, mica ti puoi aspettare lo stesso calore verbale che sa metterci un’americana navigata. Ma il presidente Dmitri Medvedev, senza usare parole altisonanti come aveva fatto Hillary Clinton (“L’America non ha alleato migliore dell’Italia di Berlusconi”), tiene fuori dalla porta tutti gli spifferi di Wikileaks che potrebbero raffreddare le relazioni italo-russe. E ne approfitta per lanciare una frecciata all’America: “Questi files dimostrano il cinismo delle valutazioni che prevalgono nella politica statunitense”, che intanto s’affanna, senza riuscirsi del tutto, a oscurare Wikileaks con metodi da hacker.
Medvedev prosegue: “Loro, gli americani, hanno il diritto di fare certe considerazioni, che, però, quando diventano pubbliche possono nuocere ai legami in politica estera e avere effetti negativi”, anche se –preicsa poi- “difficilmente ci saranno contraccolpi” tra Mosca e Washington. “Per quanto riguarda noi e l’Italia, non c’è nulla di critico”. Berlusconi si associa: la fuga di documenti su Wikileaks è “un grave infortunio”, ma “non comporterà cambiamenti” nei rapporti fra i Paesi interessati”.
Anzi, da giovedì Italia e Russia sono legati da un nuovo pegno, perché –caso mai vi fosse sfuggito- l’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2018 alla Russia, di cui Medvedev è “entusiasta”, è pure “in piccola parte è merito nostro”, afferma, con la consueta modestia, il presidente del Consiglio, nella conferenza stampa congiunta che chiude il Vertice italo-russo. E i due presidenti a scherzare sull’ipotesi di una finale Russia-Italia, che, allo stato del calcio loro e nostro, pare fantascienza.
Per Mr B, è stato un trittico dei dittatori da stroncare un bue: la Sirte, Astana, Soci, con a corredo sbalzi termici terrificanti. E, invece, il Cavaliere ne torna combattivo e, ovviamente, sorridente: trovarsi fra amici, evidentemente, gli fa bene, mentre in Italia gli toccano le facce lunghe di Fini e Bocchino. In quattro giorni, ha incontrato il colonnello Gheddafi, che con l’avallo dell’Italia riprova a spillare cinque miliardi di euro all’Unione europea; ha abbracciato al vertice dell’Osce, conclusosi con un flop, il satrapo di casa Nursultan Nazarbayev e quello di Bielorussia Aleksandr Lukashenko; e ha fatto comunella con Dmitri e pure Vladi. Detto per inciso, pure gli Stati Uniti di Barack Obama stanno curando i rapporti con Nazarbayev, che ha il merito di assicurare la stabilità di quel enorme serbatoio energetico che è il Kazakhstan, e con Lukashenko, che fa passi verso il disarmo nucleare).
Il Vertice italo-russo, presenti vari ministri delle due parti –per l’Italia, Frattini, La Russa, Romani e la Brambilla-, ha avuto diversi momenti: un incontro a quattrocchi tra i due presidenti, una plenaria, la conferenza stampa e poi una colazione di lavoro, con il premier Putin. Sull’agenda dell’incontro, i grandi dossier internazionali, a partire dal Vertice Ue-Russia della prossima settimana, e poi l’Afghanistan e l’Iran, il Medio Oriente e la lotta al terrorismo, e la definizione di numerosi accordi economici tra società russe e italiane, fra cui Finmeccanica e Poste Italiane, oltre che la messa a punto del programma del 2011 anno della cultura russa in Italia e italiana in Russia..
Per non farsi mancare un po’ del clima delle Olimpiadi della Neve, che proprio Soci organizzerà, nel 2014, i due leader russi hanno portato l’ospite italiano a pranzo in un rifugio fra le montagne di Krasnaya Polyana, alle spalle della località turistica sul Mar Nero: per raggiungere il rifugio, a 1900 metri d’altezza circa, i tre hanno usato una cabinovia. La colazione di lavoro, lassù, s’è svolta, poi, in un clima “di estrema cordialità e amicizia” (e poteva essere altrimenti?), con menù da abbuffata: anatra arrosto, insalata di salmone, soglia del Mar Nero e zuppa di agnello. Ma Dmitri e Vladi non si preoccupano: loro sono sportivi e bruciano le calorie, il premier nuota e fa judo, il presidente s’esibisce alla sbarra in maniche di camicia di fronte a una scolaresca.
“Noi non siamo paranoici e non leghiamo la qualità dei rapporti russo-italiani alla pubblicazione d’informazioni indiscrete”. Da un russo, mica ti puoi aspettare lo stesso calore verbale che sa metterci un’americana navigata. Ma il presidente Dmitri Medvedev, senza usare parole altisonanti come aveva fatto Hillary Clinton (“L’America non ha alleato migliore dell’Italia di Berlusconi”), tiene fuori dalla porta tutti gli spifferi di Wikileaks che potrebbero raffreddare le relazioni italo-russe. E ne approfitta per lanciare una frecciata all’America: “Questi files dimostrano il cinismo delle valutazioni che prevalgono nella politica statunitense”, che intanto s’affanna, senza riuscirsi del tutto, a oscurare Wikileaks con metodi da hacker.
Medvedev prosegue: “Loro, gli americani, hanno il diritto di fare certe considerazioni, che, però, quando diventano pubbliche possono nuocere ai legami in politica estera e avere effetti negativi”, anche se –preicsa poi- “difficilmente ci saranno contraccolpi” tra Mosca e Washington. “Per quanto riguarda noi e l’Italia, non c’è nulla di critico”. Berlusconi si associa: la fuga di documenti su Wikileaks è “un grave infortunio”, ma “non comporterà cambiamenti” nei rapporti fra i Paesi interessati”.
Anzi, da giovedì Italia e Russia sono legati da un nuovo pegno, perché –caso mai vi fosse sfuggito- l’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2018 alla Russia, di cui Medvedev è “entusiasta”, è pure “in piccola parte è merito nostro”, afferma, con la consueta modestia, il presidente del Consiglio, nella conferenza stampa congiunta che chiude il Vertice italo-russo. E i due presidenti a scherzare sull’ipotesi di una finale Russia-Italia, che, allo stato del calcio loro e nostro, pare fantascienza.
Per Mr B, è stato un trittico dei dittatori da stroncare un bue: la Sirte, Astana, Soci, con a corredo sbalzi termici terrificanti. E, invece, il Cavaliere ne torna combattivo e, ovviamente, sorridente: trovarsi fra amici, evidentemente, gli fa bene, mentre in Italia gli toccano le facce lunghe di Fini e Bocchino. In quattro giorni, ha incontrato il colonnello Gheddafi, che con l’avallo dell’Italia riprova a spillare cinque miliardi di euro all’Unione europea; ha abbracciato al vertice dell’Osce, conclusosi con un flop, il satrapo di casa Nursultan Nazarbayev e quello di Bielorussia Aleksandr Lukashenko; e ha fatto comunella con Dmitri e pure Vladi. Detto per inciso, pure gli Stati Uniti di Barack Obama stanno curando i rapporti con Nazarbayev, che ha il merito di assicurare la stabilità di quel enorme serbatoio energetico che è il Kazakhstan, e con Lukashenko, che fa passi verso il disarmo nucleare).
Il Vertice italo-russo, presenti vari ministri delle due parti –per l’Italia, Frattini, La Russa, Romani e la Brambilla-, ha avuto diversi momenti: un incontro a quattrocchi tra i due presidenti, una plenaria, la conferenza stampa e poi una colazione di lavoro, con il premier Putin. Sull’agenda dell’incontro, i grandi dossier internazionali, a partire dal Vertice Ue-Russia della prossima settimana, e poi l’Afghanistan e l’Iran, il Medio Oriente e la lotta al terrorismo, e la definizione di numerosi accordi economici tra società russe e italiane, fra cui Finmeccanica e Poste Italiane, oltre che la messa a punto del programma del 2011 anno della cultura russa in Italia e italiana in Russia..
Per non farsi mancare un po’ del clima delle Olimpiadi della Neve, che proprio Soci organizzerà, nel 2014, i due leader russi hanno portato l’ospite italiano a pranzo in un rifugio fra le montagne di Krasnaya Polyana, alle spalle della località turistica sul Mar Nero: per raggiungere il rifugio, a 1900 metri d’altezza circa, i tre hanno usato una cabinovia. La colazione di lavoro, lassù, s’è svolta, poi, in un clima “di estrema cordialità e amicizia” (e poteva essere altrimenti?), con menù da abbuffata: anatra arrosto, insalata di salmone, soglia del Mar Nero e zuppa di agnello. Ma Dmitri e Vladi non si preoccupano: loro sono sportivi e bruciano le calorie, il premier nuota e fa judo, il presidente s’esibisce alla sbarra in maniche di camicia di fronte a una scolaresca.
SPIGOLI: non solo Wikileaks, anche Dragomira e la crisi
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 04/12/2010
C’è così tanto Wikileaks italiano sulla stampa internazionale che quasi non resta più spazio per gli scandali ‘veraci’ di casa nostra e per le vicende della politica. I media corrono tutti dietro alla strana coppia Mr B – Putin o alla storia del premier ‘malato di feste’ e manco più badano alla crisi che incombe. E se non fosse per il Telegraph, che non se ne fa scappare una, neppure si accorgerebbero del pasticcio italo-bulgaro di Dragomira e del suo film che nessuno ha (ancora?) visto, ma che Bondi ha già premiato. La stampa francese, che è meno incline di quella britannica e americana agli input tra gossip e affari del dito di Assange è invece impressionata dalla ‘mozione dei cento’ (deputati italiani) contro il governo Berlusconi. E NouvelObs e Libération sottolineano il ruolo di Fini nell’affondo al Cavaliere. Invece, Le Monde e Les Echos battono di nuovo sul tasto della crisi dell’euro e di un contagio italiano, sullo sfondo della critica di tre premi nobel americani agli errori economici europei (da che pulpito la predica!, visto da dove ci viene la crisi). Mentre Les Echos nota che “le autorità italiane assicurano che il sistema è solido”, Le Monde scrive che “l’Italia teme d’essere la prossima vittima”. Un timore che la Bloomberg esporta oltre Atlantico: “I costi delle banche italiane salgono per la preoccupazione del contagio e del debito”.
C’è così tanto Wikileaks italiano sulla stampa internazionale che quasi non resta più spazio per gli scandali ‘veraci’ di casa nostra e per le vicende della politica. I media corrono tutti dietro alla strana coppia Mr B – Putin o alla storia del premier ‘malato di feste’ e manco più badano alla crisi che incombe. E se non fosse per il Telegraph, che non se ne fa scappare una, neppure si accorgerebbero del pasticcio italo-bulgaro di Dragomira e del suo film che nessuno ha (ancora?) visto, ma che Bondi ha già premiato. La stampa francese, che è meno incline di quella britannica e americana agli input tra gossip e affari del dito di Assange è invece impressionata dalla ‘mozione dei cento’ (deputati italiani) contro il governo Berlusconi. E NouvelObs e Libération sottolineano il ruolo di Fini nell’affondo al Cavaliere. Invece, Le Monde e Les Echos battono di nuovo sul tasto della crisi dell’euro e di un contagio italiano, sullo sfondo della critica di tre premi nobel americani agli errori economici europei (da che pulpito la predica!, visto da dove ci viene la crisi). Mentre Les Echos nota che “le autorità italiane assicurano che il sistema è solido”, Le Monde scrive che “l’Italia teme d’essere la prossima vittima”. Un timore che la Bloomberg esporta oltre Atlantico: “I costi delle banche italiane salgono per la preoccupazione del contagio e del debito”.
venerdì 3 dicembre 2010
Georgia: tra Usa e Tbilisi, i carri di Vladi e il dito di Mr B
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/12/2010
Tra Tbilisi e Washington, Mosca puo’ metterci i suoi carri armati, ma Berlusconi e l’Eni non possono metterci i loro gasdotti. O rischiano il cartellino giallo, e magari quello rosso, della diplomazia americana. C’è da sapere, ma lo sanno tutti, che l’attuale presidente georgiano Mikhail Saakashvili è più americano che georgiano : uno di quei ‘reduci’ dall’America che, con alterna fortuna, hanno popolato il panorama politico dell’Europa orientale, dando la scalata al potere in Polonia come nei Baltici e neil’ex Jugoslavia. Della Georgia di Saakashvili, l’America di Bush fu fervente avvocata dell’adesione all’Alleanza atlantica. E quando, nel 2005, Bush compi’ una visita a Tbilisi, la prima di sempre di un presidente degli Stati Uniti nel Paese di Stalin, vi venne accolto in modo trionfale: balli e danze per le strade, una festa popolare ‘di Stato’ a notte fonda e, poi, al mattino una marea di applausi in piazza. Partito l’ospite, Saakashvili creo’ pure il pathos del fallito attentato : sulla piazza, venne ritrovata una granata inesplosa. Bush fu grato e Saakashvili, probabilmente, ebbe lo spunto per liberarsi di qualche dissenziente.
Non è un caso che le critiche alla posizione di Berlusconi verso la Russia non vengono dai documenti di Wikileaks firmati da funzionari dell’Amministrazione Obama, ma risalgono a documenti firmati dall’ambasciatore Richard Spogli, uomo di fiducia di Bush in Italia, un imprenditore della California che di politica sapeva pôco, ma che di affari s’intendeva, e dai suoi collaboratori.
L’ironia della situazione è che le rivelazioni di Wikileaks, che mettono in discussione le amicizie particolari di Berlusconi con il premier russo Vlmaidimir Putin e il ditattore libico Muhammar Gheddafi, colgono il premier italiano impêgnato in un periplo di incontri che confermano, e aggravano, tutte le accuse : dalla Sirte, dove c’era il Vertice Ue-Africa, sotto la presidenza di Gheddafi -pochi leader europei hanno ritenuto opportuno farvisi vedere-, ad Astana, dove il Vertice dell’Osce s’è impantanato, fra l’altro, proprio sugli strascici del conflitto georgiano, al Vertice Russia-Italia di Soci. E ad Astana Mr B ha ripetuto con l’autocrate locale Nusultan Nazarbayev la gag già riuscitagli con il presidente bielorusso Alekasandr Lukashenko : una testimonianza di ammirazione, e quasi d’invidia, per avere « l’amore del 92% dei suoi cittadini », confondendo il plebiscito elettorale con il terrore dittatoriale.
Tra Tbilisi e Washington, Mosca puo’ metterci i suoi carri armati, ma Berlusconi e l’Eni non possono metterci i loro gasdotti. O rischiano il cartellino giallo, e magari quello rosso, della diplomazia americana, che capisce la logica della forza (e talora la pratica), ma diffida dell'inciucio.
C’è da sapere -ma lo sanno tutti: mica ci vuole la Cia per scoprirlo- che l’attuale presidente georgiano Mikhail Saakashvili, un uomo forte dall'impronta autoritaria, è quasi più americano che georgiano: e' uno di quei tanti ‘cavalli di ritorno’ dagli Usa che, con diversa fortuna, hanno caratterizzato il panorama politico dell’Europa orientale nell'era post-comunista, dando la scalata al potere in Polonia come nei Baltici e nell’ex Jugoslavia.
Della Georgia di Saakashvili, quasi omonimo, tra l'altro di un generale comandante in capo delle truppe della Nato, l’America di Bush fu un fervente avvocato, spingendo doprattutto per l’adesione all’Alleanza atlantica (una delle cause del 'colpo di freddo' preso dalle relazioni tra Washington e Mosca). E quando, nel 2005, Bush compi’ una visita a Tbilisi, la prima di sempre di un presidente degli Stati Uniti nel paese d'origine di Stalin, vi venne accolto in modo trionfale: balli e danze per le strade, una festa popolare ‘di Stato’ a notte fonda; e, poi, al mattino, una marea di folla che applaudiva in piazza. Partito l’ospite, Saakashvili, che aveva gia' fatto incetta di elogi, mise la ciliegina sulla torta: creo’ il caso del fallito attentato e divenne un eroe della sicurezza americana. Sulla piazza dell'adunata, venne ritrovata una granata inesplosa. Bush fu grato e Saakashvili, probabilmente, ne ebbe il modo di liberarsi di qualche dissenziente.
Forse, nei giorni del conflitto tra Russia e Georgia, nell'estate del 2007, Berlusconi non misuro' il fatto che, giocando con Putin, magari a fini di pace, si metteva contro Saakashvili. Non è un caso che le critiche alle posizioni dell'Italia verso la Russia non vengono tanto dai documenti di Wikileaks firmati da funzionari dell’Amministrazione Obama, ma soprattutto da documenti firmati dall’ambasciatore Richard Spogli e dai suoi collaboratori. Spogli era uomo di fiducia di Bush in Italia: un finaniere della California che di politica sapeva poco, ma che di affari ne capiva.
L’ironia della situazione è che lo stillicidio di rivelazioni di Wikileaks, che mettono a nudo le sconfessioni diplomatiche delle amicizie speciali di Berlusconi con il premier russo Vladimir Putin e il dittatore libico Muhammar Gheddafi, colgono il premier italiano impêgnato in un periplo di incontri che confermano, e aggravano, critiche e diffidenze. Prima la Sirte, dove c’era il Vertice Ue-Africa, sotto la presidenza di Gheddafi -pochi leader europei hanno ritenuto opportuno farvisi vedere, ma Mr B c'era-. Poi, Astana, dove il Vertice dell’Osce s’è impantanato, fra l’altro, proprio sugli strascichi del conflitto georgiano e dei tanti contrasti caucasici, lascito dello smembramento dell' 'impero' sovietico. Infine, Soci, con il Vertice Russia-Italia.
Ad Astana, Silvio ha ripetuto con il despota locale Nursultan Nazarbayev la gag già riuscitagli con il presidente bielorusso Alekasandr Lukashenko: una testimonianza di ammirazione, e quasi d’invidia, per avere «l’amore del 92% dei suoi cittadini», confondendo il plebiscito elettorale con il terrore dittatoriale.
Ha un bel dire il ministro Frattini che il rapporto tra Berlusconi e Putin, tra Italia e Russia, e' "oggetto di invidia". A scorrere i cablo di Spogli e colleghi, e' soprattutto oggetto di critiche e, magari, di illazioni: ci sono sospetti che Silvio abbia cercato in Vladi sponde elettorali e che dietro l'amicizia personale e le sintonie politiche ci stiano interessi d'affari personali o aziendali -leggi Eni- o magari anche nazionali. E ci sono le voci, che forse dispiacciono al Cavaliere ancora più delle critiche e dei giudizi: e' il caso della storia della salute minata da feste e stravizi. Per smentirlo, mr B mobilita la crema dei fedelissimi, da Letta a Ghedini.
Non c'e' dubbio che il Vertice di Soci servira' a confermare, magari pure platealmente, l'amicizia italo-russa, cosi' come quello di Astana e' stato l'occasione per un incontro di Mr B con Hillary Clinton, finito a tarallucci e vino. Ma, nell'epoca di Wikileaks, la diffidenza verso la diplomazia spettacolo, quella pubblica delle dichiarazioni a voce alta e degli abbracci ostentata, lascia il pubblico più interdetto che convinto.
Intanto, in Italia parlano tutti, praticando l'ammoina del polverone. E nel mondo del perbenismo s'e' scatenata la caccia ad Assange, che sara' pure un ladro di documenti, ma che ha dato una scossa alle iprocrisie politiche di mezzo mondo. E se poi il Dipartimento di Stato lo bolla come anarchico, quasi fosse un delitto e un'onta, speriamo che la sua Lugano non sia tremebonda.
Tra Tbilisi e Washington, Mosca puo’ metterci i suoi carri armati, ma Berlusconi e l’Eni non possono metterci i loro gasdotti. O rischiano il cartellino giallo, e magari quello rosso, della diplomazia americana. C’è da sapere, ma lo sanno tutti, che l’attuale presidente georgiano Mikhail Saakashvili è più americano che georgiano : uno di quei ‘reduci’ dall’America che, con alterna fortuna, hanno popolato il panorama politico dell’Europa orientale, dando la scalata al potere in Polonia come nei Baltici e neil’ex Jugoslavia. Della Georgia di Saakashvili, l’America di Bush fu fervente avvocata dell’adesione all’Alleanza atlantica. E quando, nel 2005, Bush compi’ una visita a Tbilisi, la prima di sempre di un presidente degli Stati Uniti nel Paese di Stalin, vi venne accolto in modo trionfale: balli e danze per le strade, una festa popolare ‘di Stato’ a notte fonda e, poi, al mattino una marea di applausi in piazza. Partito l’ospite, Saakashvili creo’ pure il pathos del fallito attentato : sulla piazza, venne ritrovata una granata inesplosa. Bush fu grato e Saakashvili, probabilmente, ebbe lo spunto per liberarsi di qualche dissenziente.
Non è un caso che le critiche alla posizione di Berlusconi verso la Russia non vengono dai documenti di Wikileaks firmati da funzionari dell’Amministrazione Obama, ma risalgono a documenti firmati dall’ambasciatore Richard Spogli, uomo di fiducia di Bush in Italia, un imprenditore della California che di politica sapeva pôco, ma che di affari s’intendeva, e dai suoi collaboratori.
L’ironia della situazione è che le rivelazioni di Wikileaks, che mettono in discussione le amicizie particolari di Berlusconi con il premier russo Vlmaidimir Putin e il ditattore libico Muhammar Gheddafi, colgono il premier italiano impêgnato in un periplo di incontri che confermano, e aggravano, tutte le accuse : dalla Sirte, dove c’era il Vertice Ue-Africa, sotto la presidenza di Gheddafi -pochi leader europei hanno ritenuto opportuno farvisi vedere-, ad Astana, dove il Vertice dell’Osce s’è impantanato, fra l’altro, proprio sugli strascici del conflitto georgiano, al Vertice Russia-Italia di Soci. E ad Astana Mr B ha ripetuto con l’autocrate locale Nusultan Nazarbayev la gag già riuscitagli con il presidente bielorusso Alekasandr Lukashenko : una testimonianza di ammirazione, e quasi d’invidia, per avere « l’amore del 92% dei suoi cittadini », confondendo il plebiscito elettorale con il terrore dittatoriale.
Tra Tbilisi e Washington, Mosca puo’ metterci i suoi carri armati, ma Berlusconi e l’Eni non possono metterci i loro gasdotti. O rischiano il cartellino giallo, e magari quello rosso, della diplomazia americana, che capisce la logica della forza (e talora la pratica), ma diffida dell'inciucio.
C’è da sapere -ma lo sanno tutti: mica ci vuole la Cia per scoprirlo- che l’attuale presidente georgiano Mikhail Saakashvili, un uomo forte dall'impronta autoritaria, è quasi più americano che georgiano: e' uno di quei tanti ‘cavalli di ritorno’ dagli Usa che, con diversa fortuna, hanno caratterizzato il panorama politico dell’Europa orientale nell'era post-comunista, dando la scalata al potere in Polonia come nei Baltici e nell’ex Jugoslavia.
Della Georgia di Saakashvili, quasi omonimo, tra l'altro di un generale comandante in capo delle truppe della Nato, l’America di Bush fu un fervente avvocato, spingendo doprattutto per l’adesione all’Alleanza atlantica (una delle cause del 'colpo di freddo' preso dalle relazioni tra Washington e Mosca). E quando, nel 2005, Bush compi’ una visita a Tbilisi, la prima di sempre di un presidente degli Stati Uniti nel paese d'origine di Stalin, vi venne accolto in modo trionfale: balli e danze per le strade, una festa popolare ‘di Stato’ a notte fonda; e, poi, al mattino, una marea di folla che applaudiva in piazza. Partito l’ospite, Saakashvili, che aveva gia' fatto incetta di elogi, mise la ciliegina sulla torta: creo’ il caso del fallito attentato e divenne un eroe della sicurezza americana. Sulla piazza dell'adunata, venne ritrovata una granata inesplosa. Bush fu grato e Saakashvili, probabilmente, ne ebbe il modo di liberarsi di qualche dissenziente.
Forse, nei giorni del conflitto tra Russia e Georgia, nell'estate del 2007, Berlusconi non misuro' il fatto che, giocando con Putin, magari a fini di pace, si metteva contro Saakashvili. Non è un caso che le critiche alle posizioni dell'Italia verso la Russia non vengono tanto dai documenti di Wikileaks firmati da funzionari dell’Amministrazione Obama, ma soprattutto da documenti firmati dall’ambasciatore Richard Spogli e dai suoi collaboratori. Spogli era uomo di fiducia di Bush in Italia: un finaniere della California che di politica sapeva poco, ma che di affari ne capiva.
L’ironia della situazione è che lo stillicidio di rivelazioni di Wikileaks, che mettono a nudo le sconfessioni diplomatiche delle amicizie speciali di Berlusconi con il premier russo Vladimir Putin e il dittatore libico Muhammar Gheddafi, colgono il premier italiano impêgnato in un periplo di incontri che confermano, e aggravano, critiche e diffidenze. Prima la Sirte, dove c’era il Vertice Ue-Africa, sotto la presidenza di Gheddafi -pochi leader europei hanno ritenuto opportuno farvisi vedere, ma Mr B c'era-. Poi, Astana, dove il Vertice dell’Osce s’è impantanato, fra l’altro, proprio sugli strascichi del conflitto georgiano e dei tanti contrasti caucasici, lascito dello smembramento dell' 'impero' sovietico. Infine, Soci, con il Vertice Russia-Italia.
Ad Astana, Silvio ha ripetuto con il despota locale Nursultan Nazarbayev la gag già riuscitagli con il presidente bielorusso Alekasandr Lukashenko: una testimonianza di ammirazione, e quasi d’invidia, per avere «l’amore del 92% dei suoi cittadini», confondendo il plebiscito elettorale con il terrore dittatoriale.
Ha un bel dire il ministro Frattini che il rapporto tra Berlusconi e Putin, tra Italia e Russia, e' "oggetto di invidia". A scorrere i cablo di Spogli e colleghi, e' soprattutto oggetto di critiche e, magari, di illazioni: ci sono sospetti che Silvio abbia cercato in Vladi sponde elettorali e che dietro l'amicizia personale e le sintonie politiche ci stiano interessi d'affari personali o aziendali -leggi Eni- o magari anche nazionali. E ci sono le voci, che forse dispiacciono al Cavaliere ancora più delle critiche e dei giudizi: e' il caso della storia della salute minata da feste e stravizi. Per smentirlo, mr B mobilita la crema dei fedelissimi, da Letta a Ghedini.
Non c'e' dubbio che il Vertice di Soci servira' a confermare, magari pure platealmente, l'amicizia italo-russa, cosi' come quello di Astana e' stato l'occasione per un incontro di Mr B con Hillary Clinton, finito a tarallucci e vino. Ma, nell'epoca di Wikileaks, la diffidenza verso la diplomazia spettacolo, quella pubblica delle dichiarazioni a voce alta e degli abbracci ostentata, lascia il pubblico più interdetto che convinto.
Intanto, in Italia parlano tutti, praticando l'ammoina del polverone. E nel mondo del perbenismo s'e' scatenata la caccia ad Assange, che sara' pure un ladro di documenti, ma che ha dato una scossa alle iprocrisie politiche di mezzo mondo. E se poi il Dipartimento di Stato lo bolla come anarchico, quasi fosse un delitto e un'onta, speriamo che la sua Lugano non sia tremebonda.
SPIGOLI: il volo del condor dei media su euro e Italia
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/12/2010
Paiono i giri del condor sull’animale che agonizza, sua prossima preda: larghi e lenti all’inizio, poi più stretti, fino a che il rapace puo’ scendere a consumare il suo pasto. La stampa economica internazionale, specie quella Usa e quella britannica, che con l’euro ha un conto aperto, continuano ad agitare foschi presagi sulla moneta europea e, soprattutto, sull’Italia. Il WSJ apre il suo sito affermando che il futuro dell’euro è nelle mani della Bce, che ieri s’è riunita senza fare sconquassi: «Spagna e Italia –scrive il giornale- vogliono che la Bce agisca con maggiore decisione». Da un lato, il loro è un riflesso europeista. Dall’altro, «l’aspetto più positivo nasconde la verità più nera», cioè la paura del contagio dopo la Grecia e l’Irlanda. Il NYT è in sintonia con il WSJ, ma aggiunge il Belgio alla lista dei Paesi a rischio (e c’è sempre il Portogallo in bilico), mentre il WP vede, nella crisi, un test dell’attaccamento della Germania all’euro. Le Monde s’interroga: L’Italia, terza economia della zona euro, è il prossimo bersaglio dei mercati finanziari?».Il Daily Mail (L’Italia trascinata nella crisi: il nervosismo degli investitori per il suo debito fa crollare l’euro) e L’Independent (Timori contagio si allargano a Italia) si accodano. Ma, in realtà, il bersaglio lo centra Les Echos: «Il Governo Berlusconi fa la crisi dell’eur », cioè l’Italia sconta, e fa scontare al resto dell’eurozona, le proprie fibrillazioni politiche e istituzionali, ancor più e ancor prima della situazione economica e finanziaria, che pure non è allegra.
Paiono i giri del condor sull’animale che agonizza, sua prossima preda: larghi e lenti all’inizio, poi più stretti, fino a che il rapace puo’ scendere a consumare il suo pasto. La stampa economica internazionale, specie quella Usa e quella britannica, che con l’euro ha un conto aperto, continuano ad agitare foschi presagi sulla moneta europea e, soprattutto, sull’Italia. Il WSJ apre il suo sito affermando che il futuro dell’euro è nelle mani della Bce, che ieri s’è riunita senza fare sconquassi: «Spagna e Italia –scrive il giornale- vogliono che la Bce agisca con maggiore decisione». Da un lato, il loro è un riflesso europeista. Dall’altro, «l’aspetto più positivo nasconde la verità più nera», cioè la paura del contagio dopo la Grecia e l’Irlanda. Il NYT è in sintonia con il WSJ, ma aggiunge il Belgio alla lista dei Paesi a rischio (e c’è sempre il Portogallo in bilico), mentre il WP vede, nella crisi, un test dell’attaccamento della Germania all’euro. Le Monde s’interroga: L’Italia, terza economia della zona euro, è il prossimo bersaglio dei mercati finanziari?».Il Daily Mail (L’Italia trascinata nella crisi: il nervosismo degli investitori per il suo debito fa crollare l’euro) e L’Independent (Timori contagio si allargano a Italia) si accodano. Ma, in realtà, il bersaglio lo centra Les Echos: «Il Governo Berlusconi fa la crisi dell’eur », cioè l’Italia sconta, e fa scontare al resto dell’eurozona, le proprie fibrillazioni politiche e istituzionali, ancor più e ancor prima della situazione economica e finanziaria, che pure non è allegra.
giovedì 2 dicembre 2010
Osce: Mr B fa girotondo coi dittatori, poi abbraccia Hillary
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/12/2010
In una capitale venuta su dal nulla in quattro e quattr’otto, che la gente confonde con una squadra di ciclisti (per altro, dopati), in una landa cosi’ desolata che al confronto il deserto del tenendo Drogo era una località di villeggiatura, la diplomazia mondiale, o quasi, si dà uno degli appuntamenti più inutili e meno seguiti, il Vertice dell’Osce, che, se mai uno non lo sapesse, è l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea, erede di quella Csce dell’Atto di Helsinki ‘testimonial’ della distensione.
Cosi’, i leader che ci vanno –mica tutti quelli dei 56 paesi membri, pochi dei Grandi, ma Mr B c’è- si ritrovano ospiti di Nursultan Nazarbayev e della sua famiglia, simboli per antonomasia di quella che è una ‘democrazia’ (pardon, dittatura) post-sovietica. Berlusconi ha l’occasione di arricchire la sua raccolta di strette di mano ad autocrati autoritari e pochissimo rispettosi dei diritti umani, una galleria nella quale figurano già gli abbracci fraterni al presidente Putin, poi declassato a premier, ma rimasto ‘zar’, al bielorusso Lukashenko, cui invidia i tassi di preferenza alle elezioni, e al colonnello Gheddafi.
Del resto, il Kazakhstan è paese ben presente sulla mappa della diplomazia italiana (e non solo, perchè l’Occidente non dimentica mai il ‘pecunia non olet’). In questo caso, a non avere odore sono il petrolio e il gas, di cui lo Stato dell’Asia centrale, 9 volte l’Italia per 15 milioni di abitanti, è ricchissimo (ed è, per questo, corteggiatissimo, anche dall’Eni). Nazarbayev, l’ospite, la fa da padrone: riceve i leader nel Palazzo dell’Indipendenza, fa il discorso d’apertura, parla di «rinascita dell’Osce», propone di ospitare un’agenzia per la sicurezza. Forse, i leader che l’applaudono non sanno che la caricatura di quel signore senza imbarazzi diventa sulle strisce di Doonesbury la figura di un satrapo becero e rozzo, impresentabile in società.
Qui, non c’è Barack Obama –e ci mancherebbe!-, ma è venuta Hillary Clinton, segretario di Stato americano, con la cenere in capo a chiedere scusa a tutti gli alleati e i partner offesi dai contenuti dei documenti di Wikileaks. L’operazione ‘unguento sulle piaghe’, come la battezza l’inviato dell’Afp Christophe Schmidt, s’è sviluppata attraverso tutti gli incontri bilaterali dell’emissario statunitense: «Quando gli interlocutori non evocavano la vicenda, era lei a sollevarla », racconta una fonte del Dipartimento di Stato.
L’uno dopo l’altro, la Clinton ne ha parlato con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il vice-premier britannico Nick Clegg, con il ministro degli esteri russo Serguiei Lavrov e il presidente georgiano Mikhail Saakashvili; e, naturalmente, con il presidente del Consiglio italiano.
A tutti, Hillary ha detto il suo «rammarico» e ha ripetuto che i contenuti dei cablogrammi non rappresenta il punto di vista dell’Amministrazione. Mr B, il più personalmente toccato, fra i leader qui presenti, ha posto lui la questione: ha raccontato delle polemiche in Italia e della sua inquietudine. A fine colloquio, davanti ai giornalisti, la Clinton gli ha fatto un bel regalo: «Non abbiamo amico migliore –ha detto-: nessuno sostiene le politiche americana con costanza pari » a quella del Cavaliere, quale che sia il presidente, da Bush a Obama, e quale che sia la linea, la guerra o il dialogo. «Sappiamo che possiamo contare su di lui per realizzare i valori che condividiamo».
Con la stampa, Hillary s’è mostrata fiduciosa di avere ottenuto la comprensione degli alleati, che hanno anch’essi i loro cablogrammi negli armadi, da sperare che nessuno li tiri fuori. Un interlocutore con senso dell’umorismo le ha detto: «Non si dia troppa pena, Signora, per quello che i suoi diplomatici dicono di noi. Sapesse che cosa i nostri dicono di voi!».
E cosi’ tutti o quasi sono d’accordo sul ‘dalli a Wikileaks’ e ‘Assange boia’: l’hacker australiano è braccato, colpito da un mandato di cattura internazionale per l’accusa di stupro in Svezia, anche se lui, parlando da una località segreta, proprio come fa Osama bin Laden nei suoi messaggi, promette nuovi ‘scoop’, minaccia le banche e chiede le dimissioni della Clinton (« Ridicolo e assurdo », replica la Casa Bianca). E se il ministro Frattini spera, come molti, che sia catturato presto, altri, sicuramente esagerando, arrivano ad augurarsi che sia ucciso : dai microfoni della Fox, lo fa Mike Huckabee, ex candidato alla nomination repubblicana. E’ la storia delle vignette di Maometto, ma l’intolleranza e l’integralismo, stavolta, stanno nel nostro campo.
In una capitale venuta su dal nulla in quattro e quattr’otto, che la gente confonde con una squadra di ciclisti (per altro, dopati), in una landa cosi’ desolata che al confronto il deserto del tenendo Drogo era una località di villeggiatura, la diplomazia mondiale, o quasi, si dà uno degli appuntamenti più inutili e meno seguiti, il Vertice dell’Osce, che, se mai uno non lo sapesse, è l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea, erede di quella Csce dell’Atto di Helsinki ‘testimonial’ della distensione.
Cosi’, i leader che ci vanno –mica tutti quelli dei 56 paesi membri, pochi dei Grandi, ma Mr B c’è- si ritrovano ospiti di Nursultan Nazarbayev e della sua famiglia, simboli per antonomasia di quella che è una ‘democrazia’ (pardon, dittatura) post-sovietica. Berlusconi ha l’occasione di arricchire la sua raccolta di strette di mano ad autocrati autoritari e pochissimo rispettosi dei diritti umani, una galleria nella quale figurano già gli abbracci fraterni al presidente Putin, poi declassato a premier, ma rimasto ‘zar’, al bielorusso Lukashenko, cui invidia i tassi di preferenza alle elezioni, e al colonnello Gheddafi.
Del resto, il Kazakhstan è paese ben presente sulla mappa della diplomazia italiana (e non solo, perchè l’Occidente non dimentica mai il ‘pecunia non olet’). In questo caso, a non avere odore sono il petrolio e il gas, di cui lo Stato dell’Asia centrale, 9 volte l’Italia per 15 milioni di abitanti, è ricchissimo (ed è, per questo, corteggiatissimo, anche dall’Eni). Nazarbayev, l’ospite, la fa da padrone: riceve i leader nel Palazzo dell’Indipendenza, fa il discorso d’apertura, parla di «rinascita dell’Osce», propone di ospitare un’agenzia per la sicurezza. Forse, i leader che l’applaudono non sanno che la caricatura di quel signore senza imbarazzi diventa sulle strisce di Doonesbury la figura di un satrapo becero e rozzo, impresentabile in società.
Qui, non c’è Barack Obama –e ci mancherebbe!-, ma è venuta Hillary Clinton, segretario di Stato americano, con la cenere in capo a chiedere scusa a tutti gli alleati e i partner offesi dai contenuti dei documenti di Wikileaks. L’operazione ‘unguento sulle piaghe’, come la battezza l’inviato dell’Afp Christophe Schmidt, s’è sviluppata attraverso tutti gli incontri bilaterali dell’emissario statunitense: «Quando gli interlocutori non evocavano la vicenda, era lei a sollevarla », racconta una fonte del Dipartimento di Stato.
L’uno dopo l’altro, la Clinton ne ha parlato con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il vice-premier britannico Nick Clegg, con il ministro degli esteri russo Serguiei Lavrov e il presidente georgiano Mikhail Saakashvili; e, naturalmente, con il presidente del Consiglio italiano.
A tutti, Hillary ha detto il suo «rammarico» e ha ripetuto che i contenuti dei cablogrammi non rappresenta il punto di vista dell’Amministrazione. Mr B, il più personalmente toccato, fra i leader qui presenti, ha posto lui la questione: ha raccontato delle polemiche in Italia e della sua inquietudine. A fine colloquio, davanti ai giornalisti, la Clinton gli ha fatto un bel regalo: «Non abbiamo amico migliore –ha detto-: nessuno sostiene le politiche americana con costanza pari » a quella del Cavaliere, quale che sia il presidente, da Bush a Obama, e quale che sia la linea, la guerra o il dialogo. «Sappiamo che possiamo contare su di lui per realizzare i valori che condividiamo».
Con la stampa, Hillary s’è mostrata fiduciosa di avere ottenuto la comprensione degli alleati, che hanno anch’essi i loro cablogrammi negli armadi, da sperare che nessuno li tiri fuori. Un interlocutore con senso dell’umorismo le ha detto: «Non si dia troppa pena, Signora, per quello che i suoi diplomatici dicono di noi. Sapesse che cosa i nostri dicono di voi!».
E cosi’ tutti o quasi sono d’accordo sul ‘dalli a Wikileaks’ e ‘Assange boia’: l’hacker australiano è braccato, colpito da un mandato di cattura internazionale per l’accusa di stupro in Svezia, anche se lui, parlando da una località segreta, proprio come fa Osama bin Laden nei suoi messaggi, promette nuovi ‘scoop’, minaccia le banche e chiede le dimissioni della Clinton (« Ridicolo e assurdo », replica la Casa Bianca). E se il ministro Frattini spera, come molti, che sia catturato presto, altri, sicuramente esagerando, arrivano ad augurarsi che sia ucciso : dai microfoni della Fox, lo fa Mike Huckabee, ex candidato alla nomination repubblicana. E’ la storia delle vignette di Maometto, ma l’intolleranza e l’integralismo, stavolta, stanno nel nostro campo.
SPIGOLI: altro che Wikileaks, i mali d'Italia sono altri
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/12/2010, non pubblicato
Dalli a Wikileaks e ‘Assange boia’ a sentire (certi) commenti e a leggere (certa) stampa di casa nostra, uno potrebbe immaginare che, se non ci fossero stati quei velenosi malevoli commenti « di funzionari di quart’ordine » -Mr B dixit- sulla statura etico-politica dei nostri leader, l’Italia sarebbe un Paese felice. E, invece, una rassegna dei media di tutto il mondo, dal WSJ a El Pais, passando per i giornali economici del Vecchio Continente, ci convince che le cose non vanno mica bene. Lasciamo stare la spazzatura che ingombra Napoli (tanto, ‘è solo questione di giorni’) e i muri che crollano a Pompei (tanto, ‘non sono quelli affrescati’, ci rasserena il ministro Bondi). Ma l’Italia è attraversata da proteste contro la riforma dell’Università che vedono concordi docenti e studenti. E poi c’è il rischio più serio, messo in evidenza da FT: il timore di contagio della malattia finanziaria che ha già colpito nell’eurozona Grecia e Irlanda. Secondo FT, la speculazione potrebbe attaccare l’Italia proprio perchè essa è già dentro una crisi politica e di sistema. La stampa britannica, che va sempre a nozze quando puo’ predire la fine dell’euro, batte sul tasto : mentre Bloomberg e Guardian notano che i costi del debito italiano sono più alti dopo il salvataggio dell’Irlanda, sul Telegraph Ambrose Evans-Pritchard scrive che «il contagio colpisce l’Italia, mentre il salvataggio dell’Irlanda non calma i mercati». Les Echos e Expansion s’allineano: «I mercati non hanno finito di malmenare l’Europa, Italia e Belgio nel mirino”.
Dalli a Wikileaks e ‘Assange boia’ a sentire (certi) commenti e a leggere (certa) stampa di casa nostra, uno potrebbe immaginare che, se non ci fossero stati quei velenosi malevoli commenti « di funzionari di quart’ordine » -Mr B dixit- sulla statura etico-politica dei nostri leader, l’Italia sarebbe un Paese felice. E, invece, una rassegna dei media di tutto il mondo, dal WSJ a El Pais, passando per i giornali economici del Vecchio Continente, ci convince che le cose non vanno mica bene. Lasciamo stare la spazzatura che ingombra Napoli (tanto, ‘è solo questione di giorni’) e i muri che crollano a Pompei (tanto, ‘non sono quelli affrescati’, ci rasserena il ministro Bondi). Ma l’Italia è attraversata da proteste contro la riforma dell’Università che vedono concordi docenti e studenti. E poi c’è il rischio più serio, messo in evidenza da FT: il timore di contagio della malattia finanziaria che ha già colpito nell’eurozona Grecia e Irlanda. Secondo FT, la speculazione potrebbe attaccare l’Italia proprio perchè essa è già dentro una crisi politica e di sistema. La stampa britannica, che va sempre a nozze quando puo’ predire la fine dell’euro, batte sul tasto : mentre Bloomberg e Guardian notano che i costi del debito italiano sono più alti dopo il salvataggio dell’Irlanda, sul Telegraph Ambrose Evans-Pritchard scrive che «il contagio colpisce l’Italia, mentre il salvataggio dell’Irlanda non calma i mercati». Les Echos e Expansion s’allineano: «I mercati non hanno finito di malmenare l’Europa, Italia e Belgio nel mirino”.
mercoledì 1 dicembre 2010
Mr B - Obama, 22 mesi di gaffes e punture di spillo
Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/12/2010
E’ disseminato di sassolini, il cammino americano di Silvio Berlusconi, da quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Ma non è una storia alla Pollicino: i sassolini, cioè, non servono a Mr B per (ri)trovare la strada del potere, ma gli finiscono dentro le scarpe e le rallentano. Prima, con George W. Bush, tutto filava liscio : i due, a dire il vero, non avevano (quasi) nulla in comune -vocazione da farmer l’americano, spirito gaudente l’italiano-, ma se la intendevano alla grande. Non c’era casa di George che Silvio non avesse visitato: la residenza ufficiale, al 1600 di Pennsylvania Avenue, a Washington, ovviamente ; e poi Camp David, la dimora fra le montagne del Maryland, dove erano ammessi solo gli amici ; e il ranch di Crawford in Texas, dove venivano accolti solo gli amici più amici.
I 22 mesi di Obama presidente sono stati, invece, una successione di incidenti di percorso, talora piccoli, talora sfortunati, talora politicamente insignificanti, specie rispetto ai grandi eventi (come il G8 dell’Aquila, per esempio). Ma le punture di spillo ripetute, alla lunga, non sono mai solo casuali. E Mr B, sinceramente, era proprio partito male, con quell’ ‘abbronzato’ dedicato al primo presidente nero americano. Che, dal canto suo, aveva fatto aspettare qualche giorno la prima telefonata dopo l’insediamento alla Casa Bianca, facendo passare l’Italia non solo dietro Cina e Russia o Gran Bretagna e Germania o India e Francia, ma anche la Corea e l’Egitto.
Oltre alle punture di spillo, ci sono pure stati segnali politici che non possono mica essere trascurati. Quando Obama ha voluto prendere un tè alla Casa Bianca con un personaggio italiano ed europeo autorevole e attendibile, ha invitato il presidente Giorgio Napolitano, non il premier (e non è che a Washington non sappiano che l’Italia non è una Repubblica presidenziale) –accadde il 25 maggio-.
E quando David Thorne, l’attuale ambasciatore degli Stati Uniti, arrivo’ a Roma, dopo l’interregno abbastanza lungo dell’incaricata d’affari Elizabeth Dibble, seguito alla partenza dell’ambasciatore di Bush Ronlad Spogli, il primo politico italiano che incontro’ fu Gianfranco Fini, nonMr B : puo’ non significare nulla, tanto più che allora –era l’11 settembre 2009- le cose tra Berlusconi e Fini andavano ancora benissimo (o, almeno, cosi’ pareva: non c’era segno di frizione).
E poi, sempre politicamente parlando, c’è stata l’accoglienza molto positiva riservata allo stesso Fini il 3 febbraio, quando a Washington venne ricevuto alla Casa Bianca dal vice di Obama Joe Biden e in Campidoglio dall’allora potentissima speaker della Camera Nancy Pelosi, una democratica della California di origini italiane.
Poi, ci sono gli episodi minori, che messi l’uno accanto all’altro fanno statistica (e una somma d’indizi puo’ diventare una prova). Un primo neo al Vertice del G20 negli Usa a Pittsburgh, nel settembre 2009 –erano passati appena due mesi dal Vertice dell’Aquila-: Mr B dimostra in modo plateale la propria ammirazione per Michelle e quasi infila il naso nella scollatura della first lady, sorprendendo lei e lasciando un po’ interdetto il marito.
Ad aprile, poi, Berlusconi resta ad attendere per un lasso di tempo indeterminato (40’, forse un’ora, a seconda delle fonti) sul marciapiede del Washington Convention Center, dopo una cena offerta dal presidente americano ai 46 capi di Stato e di governo che avevano partecipato al vertice sulla sicurezza nucleare. Per un disguido, l’auto di Mr B non arriva puntuale e il Secret Service impedisce al premier italiano di tornare a piedi il suo hotel: Silvio, abituato a farsi attendere più che ad attendere, è irritato, ma abbozza.
In maggio, Lanny Breuer, vice-segretario alla Giustizia degli Stati Uniti, con delega per la lotta alla criminalità organizzata, mette il dito nelle polemiche, che in Italia infuriano, contro la cosiddetta ‘legge bavaglio’ e fa l’elogio delle intercettazioni, che il governo italiano vuole limitare e che l’amministrazione statunitense –dice- giudica utilissime: «Non vogliamo che succeda niente che impedisca ai magistrati italiani di continuare a fare l’ottimo lavoro che hanno fatto finora» nella lotta contro la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra. Breuer, poi, tenta una marcia indietro imbarazzata e imbarazzante, ma il guaio l’ha fatto.
Certo, si poteva attribuire la gaffe di Breuer alla sua mancanza di esperienza diplomatica. Ma, adesso che Wikileaks ci ha fatto leggere alcuni messaggi sull’Italia ed il suo leader di diplomatici di professione, come la Dibble, o acquisiti, come Thorne, sappiamo che, quando si parla di Mr B, il linguaggio è sempre senza fronzoli e disinvolto: Thorne si lamenta, fra l’altro, dei ritardi nel bloccare la vendita all’Iran di 12 motovedette; e la Dibble descrive un premier vanitoso e festaiolo, tiratardi e, quindi, il giorno dopo, inefficiente.
Stati Uniti e Italia, la loro amicizia, la loro alleanza, non sono mica in discussione. E’ Mr B che l’America di Obama non capisce. O, forse, lo capisce proprio bene.
E’ disseminato di sassolini, il cammino americano di Silvio Berlusconi, da quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Ma non è una storia alla Pollicino: i sassolini, cioè, non servono a Mr B per (ri)trovare la strada del potere, ma gli finiscono dentro le scarpe e le rallentano. Prima, con George W. Bush, tutto filava liscio : i due, a dire il vero, non avevano (quasi) nulla in comune -vocazione da farmer l’americano, spirito gaudente l’italiano-, ma se la intendevano alla grande. Non c’era casa di George che Silvio non avesse visitato: la residenza ufficiale, al 1600 di Pennsylvania Avenue, a Washington, ovviamente ; e poi Camp David, la dimora fra le montagne del Maryland, dove erano ammessi solo gli amici ; e il ranch di Crawford in Texas, dove venivano accolti solo gli amici più amici.
I 22 mesi di Obama presidente sono stati, invece, una successione di incidenti di percorso, talora piccoli, talora sfortunati, talora politicamente insignificanti, specie rispetto ai grandi eventi (come il G8 dell’Aquila, per esempio). Ma le punture di spillo ripetute, alla lunga, non sono mai solo casuali. E Mr B, sinceramente, era proprio partito male, con quell’ ‘abbronzato’ dedicato al primo presidente nero americano. Che, dal canto suo, aveva fatto aspettare qualche giorno la prima telefonata dopo l’insediamento alla Casa Bianca, facendo passare l’Italia non solo dietro Cina e Russia o Gran Bretagna e Germania o India e Francia, ma anche la Corea e l’Egitto.
Oltre alle punture di spillo, ci sono pure stati segnali politici che non possono mica essere trascurati. Quando Obama ha voluto prendere un tè alla Casa Bianca con un personaggio italiano ed europeo autorevole e attendibile, ha invitato il presidente Giorgio Napolitano, non il premier (e non è che a Washington non sappiano che l’Italia non è una Repubblica presidenziale) –accadde il 25 maggio-.
E quando David Thorne, l’attuale ambasciatore degli Stati Uniti, arrivo’ a Roma, dopo l’interregno abbastanza lungo dell’incaricata d’affari Elizabeth Dibble, seguito alla partenza dell’ambasciatore di Bush Ronlad Spogli, il primo politico italiano che incontro’ fu Gianfranco Fini, nonMr B : puo’ non significare nulla, tanto più che allora –era l’11 settembre 2009- le cose tra Berlusconi e Fini andavano ancora benissimo (o, almeno, cosi’ pareva: non c’era segno di frizione).
E poi, sempre politicamente parlando, c’è stata l’accoglienza molto positiva riservata allo stesso Fini il 3 febbraio, quando a Washington venne ricevuto alla Casa Bianca dal vice di Obama Joe Biden e in Campidoglio dall’allora potentissima speaker della Camera Nancy Pelosi, una democratica della California di origini italiane.
Poi, ci sono gli episodi minori, che messi l’uno accanto all’altro fanno statistica (e una somma d’indizi puo’ diventare una prova). Un primo neo al Vertice del G20 negli Usa a Pittsburgh, nel settembre 2009 –erano passati appena due mesi dal Vertice dell’Aquila-: Mr B dimostra in modo plateale la propria ammirazione per Michelle e quasi infila il naso nella scollatura della first lady, sorprendendo lei e lasciando un po’ interdetto il marito.
Ad aprile, poi, Berlusconi resta ad attendere per un lasso di tempo indeterminato (40’, forse un’ora, a seconda delle fonti) sul marciapiede del Washington Convention Center, dopo una cena offerta dal presidente americano ai 46 capi di Stato e di governo che avevano partecipato al vertice sulla sicurezza nucleare. Per un disguido, l’auto di Mr B non arriva puntuale e il Secret Service impedisce al premier italiano di tornare a piedi il suo hotel: Silvio, abituato a farsi attendere più che ad attendere, è irritato, ma abbozza.
In maggio, Lanny Breuer, vice-segretario alla Giustizia degli Stati Uniti, con delega per la lotta alla criminalità organizzata, mette il dito nelle polemiche, che in Italia infuriano, contro la cosiddetta ‘legge bavaglio’ e fa l’elogio delle intercettazioni, che il governo italiano vuole limitare e che l’amministrazione statunitense –dice- giudica utilissime: «Non vogliamo che succeda niente che impedisca ai magistrati italiani di continuare a fare l’ottimo lavoro che hanno fatto finora» nella lotta contro la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra. Breuer, poi, tenta una marcia indietro imbarazzata e imbarazzante, ma il guaio l’ha fatto.
Certo, si poteva attribuire la gaffe di Breuer alla sua mancanza di esperienza diplomatica. Ma, adesso che Wikileaks ci ha fatto leggere alcuni messaggi sull’Italia ed il suo leader di diplomatici di professione, come la Dibble, o acquisiti, come Thorne, sappiamo che, quando si parla di Mr B, il linguaggio è sempre senza fronzoli e disinvolto: Thorne si lamenta, fra l’altro, dei ritardi nel bloccare la vendita all’Iran di 12 motovedette; e la Dibble descrive un premier vanitoso e festaiolo, tiratardi e, quindi, il giorno dopo, inefficiente.
Stati Uniti e Italia, la loro amicizia, la loro alleanza, non sono mica in discussione. E’ Mr B che l’America di Obama non capisce. O, forse, lo capisce proprio bene.
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