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giovedì 4 agosto 2011

Usa: debito, l'accordo e legge, ora crescita e lavoro

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 03/08/2011

L’ultimo atto di questo tormentone è stata, inevitabilmente, la firma del presidente Barack Obama, che ha tramutato il compromesso sull’innalzamento del tetto del debito in legge. Prima, c’erano stati il voto della Camera (269 sì, 161 no) e quello del Senato (74 sì, 26 no, tutti presenti): maggioranze larghe e sostanzialmente bipartisan, che, però mascherano la mancanza di entusiasmo per l’intesa.

L’accordo che scongiura la bancarotta ‘per legge’ degli Stati Uniti, dove il tetto del debito è fissato con un provvedimento legislativo, non convince, in realtà, né i politici né gli economisti. Le agenzie di rating potrebbero lo stesso declassare i titoli americani innescando, se non incoraggiando, i giochi della speculazione.

I mercati, d’altronde, restano sul chi vive, di qui e di là dell’Atlantico. E le fibrillazioni pesano sull’euro e sugli anelli deboli della moneta unica, Italia inclusa. Le dichiarazioni di voto dei leader del Congresso non potevano certo galvanizzare gli operatori. Il capo dell’opposizione repubblicana al Senato, Mitch McConnell, ha detto: “Non è il piano di riduzione del deficit che io avrei scritto”, perché lui avrebbe tagliato di più la spesa pubblica. E il leader dei senatori democratici Harry Reid, uno degli artefici del compromesso, ha riconosciuto che si tratta di “un compromesso” e ha notato: “La maggioranza dei democratici, degli indipendenti e dei repubblicani pensano che il pacchetto è ingiusto perché i più ricchi non sono chiamati a contribuire” allo sforzo di riequilibrio del bilancio:

Se c’è, questa maggioranza di saggi e giusti non s’è manifestata, in questo frangente, nel Congresso di Washington. E l’inquilino della Casa Bianca, il primo presidente nero Usa, l’uomo dello “Yes, we can”, non ha saputo imporre la sua linea con il suo carisma; anzi, non ci ha neppure provato troppo, condizionato, come i suoi interlocutori, dai calcoli elettorali per le presidenziali 2012.

L’intesa non comporta aumenti delle tasse: un punto qualificante dell’Amministrazione democratica cui Obama ha totalmente rinunciato, forse calcolando che, fra un anno, i cittadini contribuenti ed elettori avrebbero potuto rimproverarglielo. Anche se è escluso che il presidente ottenga il rinnovo del mandato con i voti dei paperoni d’America, che, con qualche eccezione fra i ‘ricchi e famosi’ liberal hollywoodiani, scelgono repubblicano a scatola chiusa. E un sondaggio indica che il 60% degli americani vedeva di buon occhio una ‘stangata’ sui redditi più alti.

Il provvedimento ora varato, dopo settimane di scontro fra i due maggiori partiti Usa, autorizza l’aumento del debito americano, che aveva raggiunto il suo massimo il 16 maggio, a 14.294 miliardi di dollari -2.100 miliardi di dollari in più-, a fronte di tagli alle spese fino a 2.500 miliardi di dollari da attuare in due tappe. La misura non affronta nessuno dei nodi dell’economia statunitense, che ha una crescita debole (1,3%) e un tasso di disoccupazione elevato (9,2%). Gli ultimi indicatori confermano gli elementi d’inquietudine: i consumi delle famiglie sono in lieve calo, il che non fa bene presagire della crescita in un’economia trainata dai consumi interni.

Il segretario al tesoro Timothy Geithner, uno che potrebbe presto lasciare l’incarico, non si mostra ottimista: il braccio di ferro politico ha fatto “molti danni”, ha detto alla Abc, e ha eroso la fiducia degli investitori nell’economia americana. Fatta la frittata, Geithner, un po’ fantozzianamente, ha poi provato a metterci una pezza, esprimendo fiducia nella capacità di crescita “a lungo termine” degli Stati Uniti.

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