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martedì 22 marzo 2011

Libia: 48 ore di guerra, e la coalizione mostra le crepe

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/03/2011

Quarantott'ore di guerra guerreggiata nei cieli della Libia, raid aerei e gragnole di missili contro postazioni radar e antiaeree e mezzi al suolo, sperando che siano militari, ringalluzziscono un po’ gli insorti anti-Gheddafi, ma non sembrano scalfire la posizione di forza sul terreno del regime. Bastano, invece, a creare crepe nella coalizione dei volenterosi, che tanto volenterosi di combattere (e, magari, di morire per Tripoli) proprio non sono.

La Lega araba, che, con la richiesta di ‘no fly zone’ aprì la porta alla risoluzione dell’Onu che autorizza l’uso della forza per proteggere la popolazione civile, è la prima a tirarsi indietro: la coalizione ci mette troppa foga –dice-, così non va. E gli americani fanno sapere che intendono ridurre presto la loro partecipazione alle operazioni militari. Al presidente Barack Obama, l’opposizione repubblicana non lesina le critiche, in barba al consenso bipartisan in politica estera: lui ripete che il leader libico Muammar Gheddafi deve andarsene, dopo che il segretario alla difesa Robert Gates aveva definito un errore “porsi l’obiettivo d’eliminare” il colonnello dittatore: Gates è a Mosca, dove il clima è ostile ai raid: la Russia si offre di mediare, nonostante le tensioni palpabili fra il presidente Dmitri Medvedev e il premier Vladimir Putin.

Dopo la notte di fuoco tra sabato e domenica, la guerra s’è già ridotta a missioni di ricognizione, come quelle effettuate dai Tornado italiani, e di pattugliamento. Il premier Silvio Berlusconi è esplicito: “I nostri aerei non hanno sparato e non spareranno”. Contro Gheddafi, ma non troppo, insomma: in fondo, siamo stati tanto amici. Ma pure i bellicosi francesi dicono che, da sabato, loro non hanno più sparato un colpo.

Le beghe interne alla coalizione, e soprattutto allo schieramento europeo, si palesano a Bruxelles, dove i ministri degli esteri dei 27 rafforzano le sanzioni contro il regime di Gheddafi, preparano misure energetiche sono pronti a fornire aiuti umanitari alle popolazioni libiche. Quelli fuori dalla coalizione, come il premier bulgaro Boiko Borissov, denunciano un’ “avventura” militare motivata da interessi petroliferi. Ma dissensi ci sono anche fra i Paesi Ue nella coalizione, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Danimarca, Spagna e Grecia. E la Norvegia mette già fine al suo coinvolgimento.

Due i problemi. Uno, il ruolo della Nato, che l’Italia, ad esempio, vuole coinvolta e la Francia no, almeno per ora, per non irritare gli arabi, che, comunque, si sono già irritati (la Gran Bretagna, invece, è possibilista). Due, la quantità di forza da impiegare e l’obiettivo da perseguire: proteggere i civili e basta?, fare in modo che lo statu quo sul terreno non venga alterato?, o liquidare il regime di Gheddafi e favorire la nascita di una ‘nuova Libia’, che nessuno sa bene che cosa sarebbe e di chi sarebbe? Il britannico William Hague pensa che Gheddafi possa essere un obiettivo degli attacchi, ma la risoluzione dell’Onu non lo prevede, riconosce il francese Alain Juppé.

La Francia sostiene che le operazioni militari avvengono nel rispetto delle indicazioni dell’Onu, nega di avere fatto vittime civili e dice che i combattimenti sul terreno sono già diminuiti. Ma il ministro degli esteri italiano Franco Frattini avverte che, se il comando delle operazioni non passerà alla Nato, l’Italia potrebbe ritirare la disponibilità delle proprie basi. E il ministro della difesa Ignazio La Russa spiega in modo quasi utilitaristico la presenza dell’Italia nella coalizione: starci, dice, ci protegge dalle ritorsioni (uno, invece, poteva pensare che starci ci espone alle ritorsioni).

In ogni Paese le posizioni sono variegate, nel governo e fra maggioranza e opposizione. E la somma delle incertezze e dei distinguo nazionali creano una cacofonia internazionale. Ne gode la Germania astenutasi all’Onu e rimasta fuori dalla coalizione: il ministro Guido Wasterwelle trova conforto alle sue riserve sull’operazione militare, “Sfortunatamente –dice diplomaticamente-, constatiamo che avevamo ragione d’essere inquieti”.

L’Italia soffre il dissenso della Lega nella maggioranza. I leghisti sembrano solo preoccupati dell’impatto emigrazione della crisi libica e il ministro dell’interno Roberto Maroni agita di continuo il drappo rosso delle infiltrazioni terroristiche, fra i 15 mila disperati arrivati a Lampedusa da quando il domino della libertà è partito nel Nord Africa.

Ma c’è pure l’eterno rovello, tipicamente italiano, della guerra che non è guerra (vi ricordate che siamo in Afghanistan a combattere “una missione di pace”?). Il tormentone, oggettivamente giustificato dalle ambiguità della risoluzione dell’Onu, lo rilancia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, in questa crisi, assume, nota la stampa internazionale, la vera leadership del Paese: dice che “questa non è una guerra” e che l’Italia “partecipa a scelte internazionali”. Stefano Silvestri, presidente dello IAI, conferma che “l’uso della forza va esercitato entro i limiti stabiliti” dalla risoluzione approvata giovedì scorso: arbitro del rispetto o meno dei parametri è lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Comunque vada, una cosa è certa: da questa crisi, l’Italia uscirà perdente: Gheddafi ci considera traditori; e per la nuova Libia saremo stati troppi amici del Colonnello e inizialmente troppo reticenti a contribuire a rovesciarlo perché ci possano ancora toccare rapporti privilegiati, destinati invece a Londra e a Parigi.

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