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domenica 17 febbraio 2013

Italia 2013: endorsement, la benedizione dell'amico americano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/02/2013

Il primo fu Alcide De Gasperi, agli albori della Repubblica: ci si preparava alle prime elezioni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, quelle famose e decisive per i successivi quaranta e più anni del 18 aprile 1948. Ma, da allora, il rito s’è ripetuto ad ogni legislatura e, nella prima Repubblica segnata dai tanti governi brevi, a ogni governo. Appena insediato, il capo dell’Esecutivo, specie se esordiente, si premurava d’andare a Washington a ricevere l’investitura della Super-Potenza amica e del Grande Alleato. E, magari, già che c’era, a ricevere ‘istruzioni’ sul da farsi. E non cambia che il premier fosse dc o laico, ché sia Spadolini che Craxi rispettarono il rito. Alla vigilia delle elezioni, c’è pure stata la smania di correre a Washington a ricevere una benedizione. Ma la Casa Bianca è spesso stata cauta, su questo.

Non certo, però, la prima volta, quando de Gasperi, che godeva negli Usa d’un notevole sostegno, era l’alfiere della libertà contro l’avanzata del comunismo. Il premier trentino andò a Washington nel gennaio 1947. Resto dieci giorni negli Stati Uniti, in un viaggio orchestrato da Henry Luce, padrone del Time, e da sua moglie  Clare Boothe, futura ambasciatrice a Roma, ricevette un’accoglienza di stampa “trionfale” e tornò con un assegno di 100 milioni di dollari. Quattro mesi dopo scoppiava la Guerra Fredda e De Gasperi lasciava comunisti e socialisti fuori dal governo.

L’anno dopo, De Gasperi non ebbe bisogno di tornare in America prima del voto: Time gli dedicò una copertina; Frank Sinatra ed altri italo-americani illustri scesero in campo; l’Amministrazione statunitense, e la Cia, erano mobilitate. La Democrazia Cristiana vinse; e, per 15 anni, l’unico uomo ‘di sinistra’ ammesso nelle ‘stanze dei bottoni’ italiane fu Giuseppe Saragat, un social-democratico, anti-fascista, ma protagonista della scissione socialista e, poi, da presidente della Repubblica, talora più incline ad ascoltare la Cia che i servizi d’intelligence italiani.

Ad amplificare le attenzioni americane per la politica italiana, ci abbiamo pure pensato noi: politici e giornalisti. C’è sempre piaciuto immaginare che la Casa Bianca mettesse il dito negli ingranaggi delle beghe nostrane. Negli Anni Ottanta, un grande quotidiano, in un’intervista a Ronald Reagan, gli chiese se le scelte mediorientali degli Stati Uniti fossero dettate dall’intento di schierarsi in Italia a favore di Andreotti, o di Craxi, i leader di allora. Reagan non scoppiò a ridere solo perché l’intervista era scritta: probabilmente, il presidente non vide mai né le domande né le risposte.

Non che le ingerenze americane siano fantasie. Ci sono fatti di cronaca a ricordarlo, anche recenti, e fior di libri a documentarlo. Un classico è Mission to Italy dell’ambasciatore degli Usa in Italia Richard Gardner, che racconta una fetta degli Anni di Piombo (dal 1977 all’ ’81). Un periodo anche al centro dell’attenzione di Governo Ombra di Maurizio Molinari, uscito di recente, che riproduce e analizza i documenti segreti degli Usa sull’Italia all’epoca del terrorismo. Prima, Ennio Caretto e Bruno Marolo avevano studiato in Made in Usa quelle che avevano definito “le origini americane della Repubblica italiana”.

Sotto questo punto di vista, e non solo, la seconda Repubblica non è stata molto diversa dalla prima. Il primo Berlusconi non aveva un feeling speciale con Bill Clinton, nonostante l’idillio del Vertice del G8 di Napoli nel 1994, tre mesi dopo la nomina a premier. Il Berlusconi II, invece, stabilì subito con George W. Bush un rapporto privilegiato: fu uno dei primi alleati a mettere a segno il ‘triplete’, cioè a essere ricevuto sia alla Casa Bianca –normale- che a Camp David, la residenza dei week-end –lì, solo gli amici- che nel ranch di Crawford in Texas, la residenza di vacanza e personale –lì, solo gli amici più amici-.

Però, quasi letteralmente il giorno dopo la vittoria di Prodi nel 2006, alla Casa Bianca c’era già Giuliano Amato, uno che ha l’inglese, l’intelligenza e l’esperienza per esservi ben accolto: incontrò Steve Hadley, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e tutto il suo staff.

Il Berlusconi III andò liscio con Bush, ormai a fine corsa, ma non trovò mai la sintonia con Obama, che, dopo la gaffe dell’abbronzato, le traversie del Vertice del G8 all’Aquila, le attenzioni persino smaccate alla scollatura di Michelle a un G20, promosse, fuor di ogni protocollo, a suo interlocutore il presidente Napolitano e lasciò il premier fuori dalla Casa Bianca. Fino all’arrivo di Monti. Ma questa non è storia, è cronaca.

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