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mercoledì 30 aprile 2014

Ucraina: la cortina di ferro, boomerang della nuova Guerra Fredda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/04/2014

E’ un mondo alla rovescia. La Russia accusa l’Occidente di creare una cortina di ferro di sanzioni, con il pretesto della crisi in Ucraina: l’immagine simbolo della Guerra Fredda, uscita da un discorso di Winston Churchill, migliaia di chilometri di fili spinati, reticolati, un muro, viene rilanciata come  se fosse un boomerang.

Un quarto di secolo dopo che quella ferita dal Nord al Sud dell’Europa pareva suturata, lo scontro tra Mosca e Kiev ripropone linguaggi e atteggiamenti che credevamo consegnati alla storia. E affiora quasi una nostalgia di cortina di ferro reciproca: perché se Mosca denuncia un tentativo dell’Occidente di cingerla dentro la camicia di forza della Nato e dell’Ue, la stessa Mosca vorrebbe cingersi d’una fascia di protezione a Ovest, facendosi, appunto, scudo di Ucraina e Bielorussia.

La diplomazia russa definisce una "vergogna" le sanzioni appena inasprite da Usa ed Ue, che vanno “oltre il limite del buon senso” e sono "assolutamente controproducenti", perché spingono la crisi "in un vicolo cieco". Il Cremlino lascia persino intendere che le sanzioni potrebbero ritorcersi contro gli astronauti della Nasa che soggiornano nella Stazione spaziale internazionale.

L’Ue ha oggi imposto il gelo dei beni e il divieto di movimento sul proprio territorio ad altre 15 personalità russe e ucraine: nella lista nera, politici, militari e leader separatisti. Il Giappone ha invece negato il visto a 23 russi, senza però svelarne i nomi.

Le sanzioni europee sono più caute di quelle varate lunedì dagli Usa, che colpiscono 17 aziende e loro responsabili –l’Ue, invece, sempre timorosa di una ‘guerra dell’energia’, li ha ‘risparmiati’-. Washington intende pure rivedere le condizioni d’autorizzazione dell’export verso la Russia di strumenti ad alta tecnologia suscettibili d’impiego militare: una misura, questa, che ha irritato Mosca più delle punture di spillo finora attuate.

Sul terreno, la situazione resta tesissima. A Slavyansk, la cittadina nell’Est dell’Ucraina nelle mani dei separatisti filo-russi, gli osservatori Osce catturati non sono stati liberati, nonostante l’intervento del segretario generale dell’Organizzazione, il diplomatico italiano Lamberto Zannier e le proteste Usa e Onu. E a Lugansk, capoluogo dell'omonima regione orientale ucraina, oltre 3.000 filo-russi hanno assaltato la sede governativa.

Invece, il flusso di gas verso l’Ue attraverso l'Ucraina resta stabile, dice il colosso dell'energia Gazprom, anche se il disaccordo con Kiev sui prezzi potrebbe creare problemi all’export verso l’Ovest. Colloqui in merito tra Ue, Russia e Ucraina si terranno venerdì a Varsavia.

In Germania, intanto, esplode il caso Schroeder, dopo le foto dell'ex cancelliere abbracciato a Putin, mentre quattro osservatori militari tedeschi sono prigionieri dei miliziani filo-russi a Slavyansk. Schroeder guida attualmente il consorzio North Stream, che fa capo a Gazprom.

martedì 29 aprile 2014

Italia/Ue: Commissione, Mr B l'uomo nero del dibattito presidenziale

Scritto per il blog de Il Fatto ed EurActiv.it il 29/04/2014 

Se c’è un po’ d’Italia nel dibattito europeo, è merito, anzi demerito, di Silvio Berlusconi: con la sua campagna anti-tedesca e anti-Schulz, diventa l’ ‘uomo nero’ del primo confronto in diretta tv fra i candidati alla presidenza della Commissione europea. Tutti lo evocano e lo criticano, tranne Schulz che può permettersi d’ignorarlo.

E Juncker tradisce l’imbarazzo dei popolari per quell’alleato scomodo e invadente –“le sue dichiarazioni mi hanno fatto stare male”, dice-, che però non cacciano perché, senza Forza Italia, non potrebbero più confermarsi la prima forza del Parlamento europeo. Verhofdtadt stana le contraddizioni del Ppe, che si tiene in seno gli “estremismi” di FI e del partito del premier ungherese Viktor Orban.

Protagonisti del dibattito, Martin Schulz, socialista, tedesco; Jean-Claude Juncker, popolare, lussemburghese; Guy Verhofstadt, liberale, belga; e Ska Keller, verde, tedesca. L’assenza di Alexis Tsipras, greco, sinistra radicale ed ‘euro-critica’, priva il confronto dell’unica vera voce alternativa. La Keller, tutta di rosso vestita, è dinamica, giovane, simpatica, ma non fa il peso di fronte agli altri tre vecchi marpioni. Le cui posizioni, spesso, coincidono.

La formula vuole essere quella dei dibattiti presidenziali negli Stati Uniti. Ma i giornalisti d’EuroNews che gestiscono il confronto impongono un ritmo troppo frenetico -30 secondi d’intervento a testa-, che non riescono a fare rispettare, né rispettano la successione degli interventi.

I 90’ paiono un po’ confusi e molto lunghi. Anche se la platea studentesca di Maastricht, città simbolo dell’integrazione europea, alleggerisce il clima. E i tweet fioccano, a conferma d’una audience tendenzialmente giovane. Che siamo lontani anni luce dalla retorica positiva dei dibattiti americani, lo dimostra poi la battuta d’esordio di Junker: “Non voglio un’Europa che sogna” –sarà pure una dimostrazione d’onestà, ma è anche un tarparsi le ali a priori-.

Verhofstadt, un federalista, è quello che ne esce meglio, da un punto di vista europeo: vuole una Commissione che diriga l’Europa e non la segua, che non dia retta solo a Berlino e a Parigi. Juncker e Schulz fanno molta fatica a fare dimenticare le loro responsabilità –il primo, in quanto premier per 18 anni e presidente dell’Eurogruppo per sette; il secondo in quanto eurodeputato da 20 anni e presidente dell’Assemblea di Strasburgo- nella gestione dell’Unione e nelle scelte anti-crisi dell’ultimo lustro.

Quando entrambi s’arrendono “per realismo” al no agli eurobond, la maschera viene giù –mentre Verhofstadt ammette che non si uscirà dalla crisi senza-. E il cerone si scioglie a Juncker quando mette un freno alla solidarietà dell’Europa nei confronti dei migranti “(Non possiamo farci carico delle miserie del Mondo”), anche se tutti condividono la necessità di una politica europea “dell’immigrazione legale”.

Su crescita e occupazione, sull’agenda digitale, su Usa ed Ucraina, sul contrasto al populismo, sull’Unione più dei cittadini che delle banche, difficile distinguere i ritornelli dei candidati. Le elezioni europee? “Un referendum sull’Unione”, che si gioca soprattutto sul tasso di partecipazione, per un recupero europeo della sovranità perduta a livello nazionale.

Stop qui: si replica a Firenze il 9 e poi di nuovo il 15: Tsipras dovrebbe esserci e, magari, il dibattito sarà più vero, più polemiche e meno melassa.

domenica 27 aprile 2014

Ucraina: G7 verso inasprimento sanzioni, Kiev taglia acqua a Crimea

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/04/2014 

Nella guerra dei nervi tra l’Occidente e la Russia sulla crisi ucraina, il G7 dà un colpo d’acceleratore: lunedì, scatteranno nuove sanzioni contro Mosca, perché la tregua di Ginevra, sottoscritta il 17 aprile, non è mai stata così labile e perché l’ingigantirsi delle tensioni nell’Est dell’Ucraina, a meno d’un mese dalle elezioni, rende sempre più immanente il rischio d’invasione.

Il potere di Kiev, dalla dubbia legittimità, soffia sul fuoco della paura. Il premier Iatseniuk denuncia ripetute violazioni –sette- dello spazio aereo ucraino da parte di aerei militari russi “al solo scopo –dice- di spingere l’Ucraina a scatenare un conflitto” e di fare scoppiare “la terza guerra mondiale”.

Per drammatizzare la situazione, Iatseniuk abbrevia una visita a Roma decisa per la canonizzazione dei due Papi e torna a casa, dopo un incontro con papa Francesco e uno “molto cordiale” –e poteva essere altrimenti?- con Matteo Renzi. Il Pentagono avalla la versione ucraina, anzi la foraggia con i dati dei satelliti. Il Cremlino la smentisce.

La Russia chiede all’Ucraina di cessare subito l’offensiva militare contro i ribelli filo-russi. Kiev non cancella l’ ‘operazione anti-terrorismo’. E se Mosca ha nella manica l’asso dell’energia, che può giocare contro Kiev, ma pure contro l’Ue, l’Ucraina interrompe, dopo averli già fortemente ridotti, i rifornimenti di acqua alla Crimea dal fiume Dnieper: rappresentano l’85% dell’approvvigionamento della penisola, le cui autorità denunciano “un atto di sabotaggio”. L’impatto è drammatico sulle attività produttive, marginale sull’acqua potabile.

Intanto, a Slaviansk, la località dell’Est sotto il pieno controllo degli insorti filo-russi, i ribelli sfidano gli appelli internazionali a liberare i 13 membri della missione Osce arrestati venerdì. L’invito della Germania alla Russia a fare pressione sugli insorti perché li rilascino è finora rimasto inascoltato, nonostante il ministro degli esteri russo Lavrov prometta di fare “tutto il possibile”. 

“Sono uomini della Nato, sono spie”, è la tesi dei ribelli: “Sono entrati nel nostro territorio senza autorizzazione”. E c’è il progetto di scambiarli con insorti fatti prigionieri dagli ucraini. A Donetsk, si organizza un referendum indipendentista per domenica 11 maggio, due settimane prima delle presidenziali nazionali, che vedono i filo-europei in vantaggio nelle previsioni. 

Esclusa fino a qualche giorno or sono, l’ipotesi di un intervento militare russo nell’Ucraina orientale non è più giudicata impossibile dalle diplomazie occidentali. Per Mosca, Kiev e l’Occidente fomentare le tensioni. Ma la Russia mantiene decine di migliaia di uomini in arme lungo la frontiera, dove sono in corso “esercitazioni”.

L’inasprimento delle sanzioni è stato intrapreso dal G7, il Gruppo dei Grandi da cui la Russia è stata esclusa il mese scorso, nella convinzione che Mosca ”continui a esacerbare le tensioni, inasprendo i toni e compiendo manovre militari minacciose”. I Sette intendono agire con urgenza e intensificare le sanzioni mirate già adottate, che restano, però, ‘à la carte’, perché molti europei sono preoccupati di scatenare una guerra dell’energia con la Russia.

Le nuove sanzioni dovrebbero diventare operative domani, quando a Bruxelles è stata convocata una riunione straordinaria dei 28 per decidere ulteriori congelamenti di beni di russi e limitazioni delle libertà di movimento di notabili russi. Gli Stati Uniti accettano che ogni Paese decida se e quali misure applicare: “le sanzioni saranno coordinate e complementari, non necessariamente identiche”. Il segretario al Tesoro Jacob Lew ammette il rischio di contraccolpi e dice che “l’intento è colpire l’economia russa causando il minore danno possibile all’economia americana e mondiale”.

A Mosca, la prospettiva dell’inasprimento non pare suscitare preoccupazioni eccessive. Le sanzioni diplomatiche e finanziarie americane ed europee sono state, finora, punture di spillo, ma l’economia, già indebolita dalla crisi, può soffrire della fuga di capitali in atto per paura del peggio. Standard & Poor, che non è neutra nelle sue valutazioni,  ha appena abbassato il rating russo a BBB-, un meno peggio dell’Italia.

Elezioni: Berlusconi di nuovo contro Schulz, "è odio e invidia"

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 27/04/2014 

"Berlusconi è sinonimo di odio, d’invidia e di litigio": la reazione di Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo e candidato socialista alla presidenza della Commissione europea, si fa attendere alcune ore, ma quando arriva è durissima verso il leader di FI, morbida verso l’Italia. E’  "scandaloso" –dice Schulz- che "simili stupidaggini" siano dette per trarne vantaggio elettorale: un comportamento che "contrasta con quello che l'Italia è: un Paese meraviglioso, un grande popolo".

Tra Schulz e Berlusconi, il conto è aperto dal 2013, cioè da quando l’allora premier italiano, e presidente di turno del Consiglio europeo, gli diede del kapò nell’aula di Strasburgo, reagendo, irritato, alle critiche dell’allora capogruppo socialista.

Quella fu una sortita immotivata, ma spontanea. Adesso, c’è l’obiettivo di qualificare la campagna elettorale europea di FI in senso anti-tedesco. E, così, Berlusconi non si mette contro solo Schulz, che gli è già nemico, ma anche il governo e l’opinione pubblica tedeschi: Manuela Schwesig, numero due dell’Spd, ministro della famiglia, giudica gli attacchi dell’ex premier diretti “contro tutti i tedeschi”; e Die Zeit denuncia “lo squallore” delle parole del leader pregiudicato.

La notizia delle frasi di Berlusconi arriva mentre Schulz, ieri in Italia, per partecipare, da presidente del Parlamento, alle celebrazioni del 25 aprile, come ha già fatto altre volte, prosegue la campagna in Romania e poi in Bulgaria. Il vice-presidente del Parlamento europeo Gianni Pittella, che lo raggiunge, lo trova “sereno, ma sconcertato” per “il patetico declino” dell’ex premier italiano.

Schulz ha la tentazione di non rispondere. Così, le prime repliche sono del presidente del Partito socialista europeo, Sergei Stanishev, che chiede ad Angela Merkel e a Jean Claude Juncker, candidato dei popolari alla presidenza della Commissione, l' "immediata condanna" delle "spregevoli dichiarazioni" di Berlusconi.

Il capogruppo S&D al Parlamento europeo Hannes Swoboda aggiunge che "Forza Italia non può più stare nel Ppe", perché il suo leader  "non rispetta gli standard minimi europei di educazione e comunicazione". "Il Ppe –intima Swoboda- deve decidere se è di centro o se accetta estremisti".

Insomma, i socialisti usano le frasi di Berlusconi per mettere in difficoltà e ‘stanare’ i popolari, che, se cacciassero FI, perderebbero la speranza di essere ancora il gruppo più numeroso nell’Assemblea di Strasburgo, dopo il voto del 25 maggio. Del premier pregiudicato, nessuno si cura davvero.

sabato 26 aprile 2014

Elezioni: Commissione, Verhofstadt contro i don Abbondio dell'Unione

Scritto per EurActiv.it il 26/04/2014 

La chiave dei rilancio dell’Unione è il coraggio, che chi non ce l’ha –si sa- non se lo può dare. E José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea per due mandati, politico portoghese di lungo corso, fra le sue tante qualità il coraggio proprio non l’ha: un don Abbondio dell’integrazione.

Allora, Guy Verhofstadt, candidato dei liberali alla presidenza della Commissione, il più federalista, anzi l’unico federalista fra i personaggi in lizza, denuncia il ‘metodo Barroso’ e propugna un ritorno al ‘metodo Delors’, che valse l'Atto unico, il Trattato di Maastricht, la nascita dell'Unione e le basi dell'euro. E Verhofstadt sfida i suoi principali antagonisti, che sono il socialista Martin Schulz e il popolare Jean Claude Juncker, a non seguire l’esempio di Barroso.

Per l'ex premier belga, la Commissione deve tornare ad essere "l'istituzione principale" dell’Unione europea e governare di nuovo l'Europa. Presentando il suo programma, Verhofstadt ha spiegato: "Ho detto a Barroso: è incredibile, hai la possibilità di prendere l'iniziativa, ma non la usi e chiami prima Parigi e Berlino, o Berlino e Parigi, e se non ti danno via libera non fai niente".

La campagna lib-dem di Verhofstadt, capogruppo dell’Alde al Parlamento europeo, ufficialmente lanciata il 25 aprile, a un mese dal voto, è all'insegna di una maggiore integrazione europea e, al contempo, di snellimento di procedure e strutture, che dovrebbero convergere su una sola sede dalle attuali tre (Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo).

Sulla carta, Verhofstadt il leader federalista ha pochissime possibilità di successo: oggi terzo gruppo nell’Assemblea comunitaria, i liberali potrebbero retrocedere al quarto posto dopo il voto di maggio. Ma, in caso di sostanziale equilibrio tra socialisti e popolari, l’ex premier belga potrebbe avere una chance come scelta di compromesso. Gli altri candidati alla presidenza della Commissione europea sono il greco Alexis Tsipras (sinistra radicale) e il ticket verde José Bové (francese) e Ska Keller (tedesca).

Il programma Verhofstadt parte dal presupposto che l'enorme debito pubblico europeo, cresciuto di circa il 40% tra il 2008 ed il 2013, è la causa della crisi dell’Unione, l’unica ‘regione’ al Mondo che non cresce economicamente. La ricetta del leader liberale vuole stimolare la crescita senza passare per un aumento del debito.

Quindì, da una parte rispetto delle regole di controllo dei conti; e dall'altra forte rilancio economico dell'Europa in sette punti, che l’ANSA così sintetizzava: accelerazione dell'Unione bancaria per arrestare il "drammatico" credit crunch (in sei anni, il credito all’impresa s’è ridotto del 10,5%); unificazione del mercato dei capitali; lancio di 'Future Bond’, emessi per finanziare gli investimenti nelle grandi infrastrutture per trasporti, energia e mercato digitale; creazione della comunità dell'energia per ridurre la dipendenza dall'import e ottimizzare le risorse; realizzazione del mercato unico digitale; promozione della mobilità con la creazione di un fondo che permetta di cercare lavoro all'estero; revisione degli obiettivi e della struttura della Commissione, con meno laccioli burocratici e più politiche comuni.

Nel programma di Verhofstadt, c’è pure un rilancio politico della Ue, in cinque punti: protezione della privacy; lotta alle discriminazioni senza compromessi; politica comune dell'immigrazione legale definendo quote di accessi sul modello di Usa, Canada e Australia; creazione di una procura europea per i reati transfrontalieri; e, infine, sviluppo della Comunità di difesa europea.

Polemico con gli ‘euro-Abbondio’ alla Barroso, Verhofstadt lo è di più con gli ‘euro-scettici’ alla Beppe Grillo: Tornare alla lira "come vuole Grillo" sarebbe –dice- "veramente un disastro per l'Italia e per gli italiani". L'uscita dall'euro "significa tornare alle svalutazioni competitive, ma chi ne pagherebbe il costo se non i cittadini che perderebbero potere d'acquisto?".

venerdì 25 aprile 2014

Visti dagli Altri: l’Italia di Matteo è trasparente

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano il 24/04/2014 

L’Italia di Renzi è trasparente. Ma, attenzione!, la desecretazione di documenti sui misteri d’Italia accumulati nella Prima Repubblica non c’entra niente. Il fatto è che l’attenzione dei media esteri s’è molto rarefatta, in questi giorni, per il nostro Paese e, in particolare, per la nostra politica: sarà forse la Pasqua, sarà anche la storia dei due Papi Santi che suscita tante curiosità, d’Italia si parla poco (e neppure male). Insomma, non ci badano.
La sia può leggere in positivo, come un segno di normalità.  Persino le vicende giudiziarie, diluite nel tempo all’infinito, di Silvio Berlusconi coagulano meno attenzione che in passato: percepito come un ex, Mr B è sulla soglia del dimenticatoio (ma c’è da scommettere che il suo esordio ai servizi sociali a Cesano Boscone la prossima settimana sarà una foto-notizia mondiale).

Dopo la fiammata d’interesse per le nomine ai vertici di Eni, Finmeccanica e colossi vari, la stampa estera lascia lavorare Matteo Renzi e i suoi ministri, senza punture di spillo. Le drammatizzazioni rituali di casa nostra, sulla riforma del Senato, o sul ‘job act’, o sugli 80 euro in busta paga, e persino sulla ‘partita del cuore’, passano praticamente inosservate, forse perché nessuno le capisce – nemmeno noi pienamente, a dire il vero -.

L’atteggiamento nei confronti di Renzi resta d’attesa, senza (troppi) pregiudizi negativi. Anzi, oggi, le Nouvel Observateur assicura che tutti vogliono essere come Matteo, mica solo in Italia, ma addirittura in Europa: il giovane premier “è già il nuovo punto di riferimento delle sinistre europee”, che di aghi della bussola hanno proprio bisogno.

E The Economist, fustigatore per antonomasia degli italici costumi, dedica un passaggio a Renzi, dentro un impegnativo servizio sulle guerre del Vecchio Mondo: "I suoi colleghi di partito lo hanno presumibilmente scelto pure per la sua immagine presentabile … Fedele praticante che ha trascorso la gioventù nel movimento cattolico degli scout, ma ha idee liberali sui diritti civili delle copie dello stesso sesso".

Chi resta più sulle sue è la stampa economica, che aspetta di vedere i conti, le coperture e i giudizi di Bruxelles. Già la scorsa settimana, il Financial Times avvertiva che “il tempo non è dalla parte del premier per riformare l’economia italiana”. Per il quotidiano britannico, la richiesta di rinviare gli obiettivi di bilancio europei “sgomenta” l’Unione, mentre Les Echos, francese, s’interroga se “l’esempio italiano è buono”, dopo quella che presenta come “la decisione di “voltare le spalle al rigore”.

Ma, a parole, Matteo lascia tutti confusi, incerti se credergli o meno. E nessuno, per il momento, chiama il bluff.

mercoledì 23 aprile 2014

Elezioni: Ue chiusa per ferie o quasi, aspettando il voto

Scritto per EurActiv il 23/04/2014

L’Unione europea non è (proprio) “chiusa per ferie”. Ma, di fatto, è un po’ come se lo fosse. Consumatasi, prima di Pasqua, l’ultima sessione plenaria della VII legislatura del Parlamento eletto a suffragio universale; messisi in congedo elettorale sette commissari dell’Esecutivo Barroso II – uno su quattro –, che hanno scelto di candidarsi e di puntare su Strasburgo; fatta la Pasqua, in attesa del Primo Maggio e poi dell’8 Maggio, che, nel cuore del Continente, vale il nostro 25 aprile, e poi del 9 Maggio, che è la Festa dell’Europa; le attività comunitarie hanno messo la sordina. E non danno segno di volerla levare.

Certo, l’Unione ha sempre subito la tregua di Pasqua e l’addensarsi di festività a inizio maggio. E nessuna presidenza di turno  del Consiglio dell’Ue convoca volentieri riunioni dei ministri ad aprile –e neppure a giugno-, perché i riti dell’Ue prevedono che, in quei mesi, ci s’incontri a Lussemburgo (ed è scomodo per tutti).

Ma quest’anno è un po’ diverso: la pausa è più marcata e, soprattutto, si protrarrà per tutto il mese di maggio, cioè almeno fino alle elezioni del 22 e 25 maggio – in alcuni dei 28, non si vota domenica -. E, dopo, non sarà molto diverso, perché, se i neo-eletti euro-deputati avranno magari voglia di darsi da fare, la Commissione sarà a fine corsa –il suo mandato s’esaurisce in autunno- e non sfornerà praticamente più proposte. E i leader dei 28 saranno assorbiti dal rinnovo dei Vertici dell’Ue: il presidente della Commissione, che deve poi ottenere l’investitura del Parlamento, oltre che i singoli commissari; il presidente del Consiglio europeo; l’alto rappresentante per le politiche estera e di sicurezza comuni.

Insomma, a produrre carte e notizie resteranno le DG della Commissione dotate d’una autonomia gestionale e decisionale –la concorrenza, l’agricoltura, l’economico-finanziaria, oltre che, fronte statistiche, Eurostat- e le istituzioni ‘satelliti’ dell’Unione, il Tribunale e la Corte di Giustizia a Lussemburgo, la Banca centrale europea a Francoforte, meno toccate dalla paralisi istituzionale.

A meno che una crisi, che nessuno auspica, economica – no, basta!, abbiamo già dato e, in Italia, non ne siamo ancora fuori - o internazionale – l’Ucraina?, speriamo di no, ché ci sarebbe clangore di armi - non risvegli di colpo la Bella Addormentata nel bosco di rovi dell’eurocrazia: non col bacio di un principe, ma con una telefonata a Bruxelles di Draghi (o di Putin).

martedì 22 aprile 2014

Elezioni: euro-scettici ed europeisti impenitenti

Scritto per EurActiv il 22/04/2014

A un mese o poco più dal voto europeo, il vento della campagna è cambiato: pareva la volta buona che si parlasse d’Unione e di politiche europee; invece, il tono ha già virato alle polemiche interne, cui l’integrazione offre solo pretesti. E ciò nonostante o, forse, a causa delle previsioni di ascesa, unanimi e costanti, dei partiti euro-scettici: l’ultimo studio ad analizzarne l’impatto è dell’Ecfr, The eurosceptic surge’.

A parte formule generiche e di per sé insignificanti –un’Europa diversa, l’altra Europa, la svolta e via dicendo- e gli appelli radicali ‘contro’ degli euro-scettici di varia estrazione, il dibattito europeo si riduce al pro o contro l’euro, o al pro o contro il rispetto degli impegni, mentre anche temi carichi di tragedia umana, come quello dell’immigrazione, vengono rozzamente utilizzati a fini polemici (l’Europa ci lascia soli, l’Europa non ci aiuta, etc). Come se l’Italia fosse l’unico dei 28 investito dal fenomeno –e non è neppure il più colpito- e come se l’Italia fosse estranea alle amnesie del Consiglio dei Ministri dell’Ue quando decide sulle politiche dell’immigrazione.

Se i partiti euro-scettici usano a loro profitto le magagne dell’Unione, i partiti filo europei si mascherano dietro formule alternative generiche e cercano conforto in specchietti per allodole elettorali ‘extra-europei’, a partire dagli sbandieratissimi 80 euro al mese in busta paga –che chi li paga non è ancora chiaro-.

Se questa è la realtà italiana, lo sfondo europeo, analizzato dall’Ecfr, vede gli euro-scettici ottenere ampio consenso in tre grandi Paesi dell’Unione, la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia; diventare una delle principali forze politiche in Grecia, Olanda e Repubblica Ceca; avanzare altrove, e specie in Finlandia, Danimarca, Austria, Ungheria, Lituania, ma anche in Svezia e Germania.

Secondo il centro studi, i partiti euro-scettici, “ottenendo maggiore forza transnazionale all'interno di un sempre più potente Parlamento europeo, potrebbero essere in grado d’invertire il processo d’integrazione europea e mettere a repentaglio lo stesso progetto europeo”. La loro avanzata potrebbe essere più devastante dell’avanzata del Tea Party negli Stati Uniti  e potrebbe allargare lo spartiacque fra Nord e Sud, creditori e debitori.

Una prospettiva forse eccessiva, verso la frammentazione dei movimenti euro-scettici. Però, l’Ecfr avverte che “l’impatto maggiore di una vittoria euro-scettica si avrebbe sulle politiche nazionali (per esempio, l’immigrazione) e con la trasformazione del dibattito politico in una mera, e sterile, battaglia tra i più e i meno Europa”. L’Italia ne sta già fornendo un esempio.

La ricetta dell’Ecfr per contrare il fenomeno è tanto semplice quanto generica: gli europeisti, che non sono comunque un monolito, dovrebbero “fornire ai cittadini scelte concrete” e sapere “affrontare i problemi reali”, politicizzando il dibattito, cioè offrendo alternative tra destra e sinistra, su lavoro, crescita, immigrazione, ascesa della Cina, etc.

Inoltre i partiti europeisti a livello transnazionale, in particolare popolari, socialisti, liberali, dovrebbero togliersi di dosso l’etichetta d’essere una èlite che difende l’Ue a scapito dei cittadini e sottolineare, piuttosto, come i problemi europei, come l’inadeguatezza dell’euro senza un contesto d’Unione economica e politica e il deficit democratico richiedano una risposta costruttiva a livello europeo, invece che la fuga nel nazionalismo e il rifugio della xenofobia.

lunedì 21 aprile 2014

Italia/Ue: elezioni, la tentazione di scopare la polvere sotto il tappeto

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano e per EurActiv.it

In vista delle elezioni europee del 25 maggio, emerge, in Italia, e in Europa, la tentazione di scopare la polvere dell’euro-scetticismo sotto il tappeto delle Istituzioni: fare spallucce di fronte all'avanzata dei dubbi e delle ostilità verso l’Ue, perché, comunque, i due grandi partiti più o meno europeisti – popolari e socialisti - avranno, insieme, la maggioranza assoluta del Parlamento europeo (ed eccoci ri-servite le larghe intese); o, peggio ancora, perché i regolamenti dell’Assemblea di Strasburgo limiteranno di per sé l’impatto degli euro-scettici, che, divisi del loro, per ispirazione politica (estrema destra, destra, xenofobi, separatisti, di sinistra, di protesta), faranno fatica a coalizzarsi e, quindi, a contare.

Che questa tentazione esista lo testimonia l’analisi di Marco Incerti, del Ceps di Bruxelles, centro studi fra i più autorevoli in Europa, pubblicata sulla newsletter del Dipartimento della Presidenza del Consiglio per le politiche europee. L’analisi parte dal presupposto che uno degli elementi d’attesa delle europee è “il successo dei partiti variamente catalogati come euro-scettici, populisti o estremisti” e s’interroga su quale “sarà la loro influenza nel futuro Parlamento” dell’Unione.

Dato per “innegabile” che vari Paesi europei siano percorsi da tensioni e insoddisfazioni crescenti nei confronti dell’Ue, vista soprattutto come “portatrice di austerità”, Incerti fa una serie d’osservazioni “per inquadrare il fenomeno, valutarne la portata, soppesarne il possibile impatto”. E, qui, distingue fra “l’impatto in termini di messaggio politico e tornasole del sentire dei cittadini, e quello sulla capacità di operare del Parlamento europeo”.

Fra i due, osserva correttamente Incerti, “il messaggio politico il problema da tenere principalmente in considerazione”, mentre, per quanto riguarda il funzionamento delle istituzioni, l’impatto potrà essere “di limitata rilevanza”. Ma gli europeisti d’ogni colore e valenza commetterebbero un errore, se si sentissero rassicurati da questa prospettiva.

Che la tentazione sia un rischio, lo avvertono più i politici che gli eurocrati. A un recente convegno della sua fondazione Italianieuropei, Massimo D’Alema, dato come futuro commissario europeo, giudicava  “suicida chiudersi nella euro-fortezza”, ma valutava “fondamentale” il patto istituzionale Ppe-Pse (un patto che non sia “una gabbia” e che lasci spazio al dialogo con altre forze, come i verdi e la sinistra euro-critica).

Invece, Federica Mogherini, ministro degli Esteri, in un’intervista al Foglio, non guarda con favore a una grande coalizione nella prossima Assemblea di Strasburgo: "La possibilità esiste, ma non sarebbe un elemento positivo. L'Europa ha bisogno di essere cambiata, deve avere una maggioranza con un tratto politico. Una grande coalizione complicherebbe tutto, porterebbe alla conservazione dello statu quo e sarebbe per tutti, e non solo per noi progressisti, un modo, diciamo così, per evitare di fare cambiare rotta al nostro continente", strappandolo alla deriva –parole queste di D’Alema- “verso il trasferimento di risorse dai più poveri ai più ricchi e la vampirizzazione dei Paesi più indebitati”.

Se la tentazione di scopare la polvere sotto il tappeto prevarrà, politicamente e burocraticamente, lo si vedrà, subito dopo il voto, anche dall'andamento del match per la presidenza della Commissione di Bruxelles: i grandi partiti europei, popolari, socialisti, liberali, la sinistra, i verdi, hanno candidato i loro campioni e, in questo modo, si sono, in qualche misura e con varie eccezioni, compattati.

Ma solo dopo le elezioni si capirà se le candidature sono “un gioco” o una cosa seria. D’Alema vede una situazione “carica d’incertezze”: non è detto che i governi rispettino le indicazioni dei partiti e del voto, specie se i risultati non saranno netti –i sondaggi danno oggi popolari e socialisti molto vicini gli uni agli altri-. “L’equilibrio aprirebbe spazi a soluzioni di compromesso” e la sfida “potrebbe sfociare in conflitto istituzionale”: se è vero che “la democrazia europea nascerà il giorno in cui il Parlamento boccerà il presidente della Commissione proposto dal Consiglio europeo”, quel giorno potrebbe non essere lontano. Purché non si scopi la polvere sotto il tappeto.

venerdì 18 aprile 2014

Ucrina: dai Sudeti alla Crimea, i giochi dell'annessione

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/04/2014

I precedenti storici più inquietantì di quanto si teme possa avvenire nell’Ucraina orientale sono le annessioni naziste dei Sudeti nel settembre 1938, i territori tedeschi dell’allora Cecoslovacchia, e l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich nel marzo 1938. Il parallelo con quegli episodi ha meritato a Vladimir Putin l’appellativo di Hitler, affibbiatogli dai dirigenti ucraini, ma anche da una virulenta Hillary Clinton.

La pavidità delle potenze europee, Gran Bretagna e Francia, di fronte alla tracotanza di Hitler, permisero che quelle avvenissero quasi senza colpo ferire, nel tripudio delle popolazioni locali, che manifestarono un entusiasmo analogo a quello dei russi di Crimea nel celebrare il ritorno alla loro patria.

L’annessione della Crimea, le attenzioni sui territori dell’Est dell’Ucraina abitati da russofoni, le mire indipendentiste della Transdinstria –territorio russofono della Moldavia confinante con l’Ucraina- sono segnali della ritrovata forza del magnete della Grande Russia, dopo gli anni dell’umiliazione successivi alla disgregazione dell’Urss. Per anni, la Mosca di Ieltsin e anche quella di Putin e di Medvedev ha trangugiato atteggiamenti vessatori di Paesi dell’ex Urss nei confronti dei cittadini russi: Stati dell’Ue, come la Lettonia, sono giunti al punto di negare il diritto di voto alla forte minoranza russofona.

Sintomi di un passaggio dalla forza centrifuga della disgregazione dell’Urss a una nuova attrazione centripeta della Russia putiniana s’erano già intravisti con la guerra in Georgia nell’estate del 20008, che portò di fatto alla indipendenza da Tbilisi della Ossezia e della Abkhazia, riconosciute magari solo da Mosca, ma di fatto ormai autonome.

Dopo un ventennio di frammentazione, segnata anche da umiliazioni internazionali, la Russia di Putin ha ritrovato una posizione di primo piano sulla scena mondiale, con la mediazione decisiva sulle armi chimiche in Siria e con l’influenza manifestata nel riportare l’Iran al tavolo negoziale sui programmi nucleari.

Che fosse difficile sfuggire all’influenza dell’Impero Sovietico, quand’esso contendeva all’Occidente il primato mondiale, Mosca l’aveva fatto capire nel 1956, reprimendo nel sangue l’insurrezione di Budapest, e di nuovo nel 1968, schiacciando con i carri la Primavera di Praga.

In entrambi i casi, l’Europa rimase sostanzialmente inerte, come lo aveva fatto nel 1938 di fronte alle mire di Hitler. Quasi per assurdo, il leader europeo più ostile all’Anchluss era parso, per qualche settimana almeno, il Duce Mussolini.

La relativa passività della comunità internazionale si vide anche nella guerra in Georgia. E oggi, nessun all’Ovest pensa a morire di freddo per Donetsk perché una guerra dell’energia sarebbe forse il prezzo da pagare a una contrapposizione troppo frontale con la Russia. Rispetto agli Anni Trenta, c’è una presenza più incisiva in questi conflitti degli Stati Uniti, ma anche loro paiono escluder, per il momento, interventi armati che, invece, Putin, dice solo di “sperare” di non dovere attuare.

Le mire espansionistiche dell’Unione Sovietica si tradussero, a Natale del 1979, nell'invasione dell’Afghanistan, destinato a rivelarsi una sorta di Vietnam: dopo dieci anni di guerriglia mai vinta, i soldati di un’Urss ormai in declino lasciarono il Paese nelle mani dei Talebani che ne avrebbero fatto un santuario del terrorismo internazionale e la base operativa degli attacchi all’America dell’11 settembre 2001. Ma se la Russia degli Zar, l’Urss del Pcus e la Russia di Putin hanno in comune l’obiettivo di portare sotto una stessa bandiera tutte le popolazioni di cultura e di lingua russa, sono molto rigide nel consentire a comunità nei loro confini di acquisire autonomia o indipendenza. Lo dimostra quanto avvenuto in Inguscezia e, soprattutto, in Cecenia, la cui decennale lotta per l’indipendenza finì, dopo il 2001, nel tritacarne della lotta al terrorismo, con l’avallo dell’America di Bush.

Ucraina: Ginevra, i quattro firmano una pace fredda

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/04/2014

Nessuno ci sperava davvero. Tutti c’erano arrivati facendo la voce grossa. E, invece, Usa, Ue, Russia e Ucraina hanno ieri raggiunto a Ginevra un accordo per raffreddare in tempi brevi l’intreccio delle tensioni. In pratica, la diplomazia si dà un po’ di spazio per disinnescare la crisi.

Fra i punti dell’intesa, il disarmo delle milizie armate illegali e l’evacuazione degli uffici pubblici occupati dai russofoni nell’Est del Paese. Ci sarà un’amnistia per chi starà ai patti, ad eccezione dei responsabili di delitti di sangue.

Una missione di controllo dell’Osce collaborerà con le autorità ucraine per attuare quanto convenuto. Ad annunciare l’intesa, è stato il ministero degli Esteri russo Lavrov, giunto a Ginevra preceduto da dichiarazioni ferme e quasi bellicose del presidente Putin, che lasciava aperta la possibilità d’un ricorso alla forza (“spero di non doverla usare”).

Il documento finale indica, inoltre, che tutte le strade, le piazze e gli altri luoghi pubblici nelle città ucraine devono essere liberati.

La questione del futuro assetto istituzionale ucraino è stata affrontata, ma l’alternativa tra federalizzazione e regionalizzazione non è stata sciolta: si prospetta un processo costituzionale “trasparente”, con l’avvio di un largo dialogo nazionale che includa tutte le regioni ucraine e tutti i gruppi politici. Come dire che nulla è deciso, ma che lo si vuole decidere con la trattativa e non con le armi.

Soddisfatti, nelle dichiarazioni a fine incontro, tutti i protagonisti. Lavrov ha sottolineato l’obiettivo di “garantire la sicurezza di tutti i cittadini ucraini”, cioè anche dei russofoni dell’Est, i cui diritti il potere di Kiev compromette. Il ministro russo ha ribadito che Mosca non vuole inviare truppe in Ucraina: “Sarebbe contro i nostri interessi fondamentali”.

Lady Ashton, per l’Ue, ha rilevato che America, Europa e Russia daranno osservatori all’Osce. E ha confermato il sostegno economico e finanziario all’Ucraina. L’americano Kerry ha fatto il muso duro: “Se non ci saranno progressi, dovremo imporre altre sanzioni”. Gli Stati Uniti non hanno neppure rinunciato al ritorno della Crimea all’Ucraina. Ma a Ginevra ieri non se n’è parlato.

giovedì 17 aprile 2014

Ucraina: incubo guerra civile, oggi si tenta la mediazione a Ginevra

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/04/2014

La prova di forza di Kiev contro i separatisti russofoni dell’Ucraina orientale si liquefa come neve al sole: una colonna di blindati viene intercettata e ‘dirottata’ dagli insorti, senza sparare un colpo. Ma il flop dell’operazione antiterrorismo delle autorità ucraine non allenta la tensione: sul terreno, la situazione resta incandescente, a poche ore da un appuntamento diplomatico cruciale, l’incontro, a Ginevra, fra i responsabili degli Esteri di Russia, Usa, Ue ed Ucraina.

Una certezza, alla vigilia, c’è: l’Europa non morirà di freddo per Donetsk, anche se già si parla d’una nuova fase di sanzioni economiche e diplomatiche. La Russia gioca sulle paure dell’Ue: parlando con Angela Merkel, Putin agita lo spettro di una “guerra civile” in Ucraina.

Mentre la Transdniestria, territorio separatista russofono della Moldavia, confinante con l’Ucraina, intima all’Unione di riconoscerne l’indipendenza, se tiene alla stabilità della Regione: il domino della Crimea rischia di ‘balcanizzare’ tutta una fetta di ex Urss.

La crisi più grave fra la Russia e l’Occidente dalla fine della Guerra Fredda continua a deteriorarsi. E la Nato annuncia un rafforzamento delle misure a difesa di Paesi baltici e Polonia, molto inquieti di fronte a quello che considerano l’intervenzionismo russo.

Dopo gli scontri con vittime di martedì, le forze regolari ucraine che dovevano ristabilire l’ordine nell’Est, dove i filorussi occupano palazzi del potere in diverse località, hanno ieri subito smacchi, specie nei pressi di Slaviansk, controllata da sabato dai separatisti.

Una colonna ucraina è stata bloccata dai filo-russi a Kramatorsk, poco a sud di Slaviansk. Uomini armati con uniformi senza simboli e passamontagna calati sul volto hanno preso sei blindati e li hanno portati in città, accolti come eroi da una parte della popolazione.

Ci sono stati negoziati. Poi, il resto della colonna -15 mezzi-, se n’è ripartita in senso inverso, dopo che i militari, in lacrime, riferisce un inviato dell’Afp sul posto, avevano deposto le armi.

A Donetsk, capitale dei russofoni dell’est, uomini armati e incappucciati hanno preso il municipio, per organizzare –si dice- un referendum sulla “federalizzazione” dell’Ucraina. Qui, i separatisti avevano già proclamato il 7 aprile una “repubblica sovrana”.

Kiev sostiene che gli insorti filo-russi, gli “uomini verdi”, sono soldati dei corpi scelti russi, che avrebbero già agito in Crimea prima del referendum per l’annessione alla Russia. Mosca nega d’avere agenti o soldati in territorio ucraino, ma mantiene 40mila uomini in arme lungo il confine.

I russi negano di destabilizzare l’Ucraina e accusano il potere ‘pro europeo’ di Kiev di esasperare gli ucraini russofoni: l’idea di una federalizzazione si intreccia con quella di una regionalizzazione. Se ne parlerà nell’incontro di Ginevra, preceduto da un fuoco di sbarramento di moniti contrapposti: Kiev accusa Mosca di volere “edificare un nuovo Muro e tornare alla Guerra Fredda”; Mosca dice che lo stato ucraino non funziona.

Se la riunione a quattro dovesse fallire, Washington pensa a nuove sanzioni, anche economiche. Bruxelles è molto più cauta, perché non vuole una ‘guerra del gas’.

Italia/Ue: Il Pd di Renzi cerca spazi in Europa, D'Alema e la sindrome Fassino

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 17/04/2014
Un’Italia più credibile in Europa. E nel Mondo. Se ne parla alla presentazione del rapporto dello IAI sulla politica estera italiana, ‘Scegliere per contare’. E ne parla gente che ha i titoli per farlo: tre ex ministri degli Esteri, Massimo D’Alema, Franco Frattini, Emma Bonino; con loro, il sottosegretario Benedetto Della Vedova.
L’Europa polarizza l’attenzione, in vista del voto di maggio e del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue. Lo spartiacque tra chi vuole più Europa, ma la vuole diversa, e chi nega l’euro e l’integrazione domina il dibattito elettorale
“Sarebbe suicida elettoralmente e politicamente cedere alla tentazione di considerare il populismo anti-europeo il nemico principale, che assedia la fortezza europea democratica, nella quale rinchiuderci con i conservatori”, afferma D’Alema. Mentre la Bonino non rinnega il federalismo, anche se brandirlo –ammette- non fa oggi guadagnare consensi.
Tutti denunciando le lacune dell’Europa, nella gestione della crisi, nel Mediterraneo e sul fronte dell’immigrazione, verso la Russia –anche nella crisi ucraina- e sulla questione energetica, verso Turchia e Balcani. Hanno i titoli per farlo: la Bonino e Frattini sono già stati commissari europei, D’Alema potrebbe diventarlo quest’autunno.
L’ex premier è oggi il favorito per il posto italiano nell’Esecutivo comunitario, anche se girano pure i nomi di Enrico Letta e di Piero Fassino, che nelle ultime settimane sarebbe divenuto lo spauracchio dell'ex ministro degli Esteri per via dei giochi di alleanze e convenienze condotti  fra le anime democratiche dal segretario - premier Renzi.

D’Alema appare in pole position, dopo ‘il patto del libro’ con Renzi, intervenuto a Roma alla presentazione del volume ‘Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza! Una nuova frontiera per l’Europa’, firmato come presidente della Fondazione di studi progressisti europei.
Il che non impedisce a D’Alema di essere caustico, rispetto al nuovo Pd. Per rispondere alla sfida del populismo, osservava di recente, a un seminario della sua Fondazione italianieuropei, i “partiti tradizionali iniettano dosi di populismo nella propria narrativa: noi siamo quasi all’avanguardia, abbiamo fatto una cura da cavalli. E ancora: “Chi pensa di risolvere i problemi da solo s’illude ... In Italia, ora, il governo si diverte a dire che taglierà i costi della politica”, ma, per recuperare quanto serve, l’unico modo sarebbe “assassinare tutti i politici: ci vuole un Pol Pot”.
L’ex premier è pure intervenuto a un altro convegno a Roma sulla politica industriale europea ispirato ad Altiero Spinelli, commissario all’industria negli Anni Settanta. Di qui, l’illazione che D’Alema a Bruxelles punti a quell’incarico, anche se è quasi impossibile che lo stesso portafoglio vada per due volte consecutive a un italiano –dal 2009, lo gestisce Antonio Tajani-. In realtà, Spinelli lo ereditò da un italiano, l’ambasciatore Guido Colonna di Paliano: altri tempi, però, eravamo negli Anni Settanta.
Le mire del Pd d’occupazione dei posti europei prevedono, inoltre, la candidatura di Gianni Pittella a presidente del Parlamento europeo, incarico mai ricoperto da un italiano da quando l’Assemblea di Strasburgo è eletta a suffragio universale, cioè dal 1979 –l’ultimo e unico fu Emilio Colombo, dal '76 al ’79-.
Nella corsa alla presidenza del Parlamento, Pittella potrebbe trovarsi contro un altro italiano, e cioè proprio Tajani, che –come altri 6 suoi colleghi- s’è messo ‘in sonno’ da commissario per candidarsi. Tajani, che lascia al suo successore un confronto difficile, sarà capolista di Forza Italia nel Centro. Può ambire a un ruolo di rilievo nell’Assemblea, cui fu già eletto a tre riprese (’94, ’99 e 2004): capo delegazione di FI, capogruppo Ppe, presidente di una commissione, magari vice-presidente o -perché no?- presidente.
Molto, se non tutto, dipenderà dai negoziati estivi sugli incarichi europei, fra governi e partiti. Eppure, c’è chi dà i giochi per (quasi) fatti: Juncker (Ppe) alla presidenza della Commissione e Schulz (Pse) alla politica estera e di sicurezza. Alla guida del Consiglio europeo, una donna dopo Van Rompuy: la presidente lituana Grybauskaite, una ex commissaria, o la premier danese Thorning-Schmidt.

domenica 13 aprile 2014

Elezioni europee: -42, Pd lancia Pittella a presidenza Parlamento

Scritto per EurActiv.it il 13/04/2014

Ufficialmente aperta la campagna elettorale per il voto europeo del 25 maggio, molti partiti vivono giorni di fibrillazione per la formazione delle liste, mentre il Pd, che ha già pubblicato le proprie, svela la sua strategia per ottenere la presidenza del Parlamento europeo: punta su Gianni Pittella, ricandidato con deroga.

Fra i partiti alle prese con il puzzle delle liste, c’è Forza Italia, dove s’ha notizia di varie defezioni, mentre Beppe Grillo scherza, dopo uno spettacolo a Firenze, sul prossimo voto: "Abbiamo fatto i sondaggi, ma quelli seri, non quelli della Rai. Siamo all'88%. Dobbiamo solo convincere quel 12% che è ancora titubante".

In attesa della definizione di tutte le liste, emerge con chiarezza che il Pd, ricandidando Pittella, punta a ottenere per la prima volta all’Italia la presidenza dell’Assemblea di Strasburgo, da quando è eletta a suffragio universale. Anche se, per riuscirci, il Pd dovrebbe, per assurdo, quasi sperare che il partito socialista europeo perda le elezioni, così che la presidenza della Commissione europea vada a un popolare. Difficile, infatti, immaginare che il presidente di Commissione e Parlamento appartengano allo stesso partito, anche se ciò è già accaduto in passato.

Lanciando a Torino la campagna, il premier, e leader del Pd, Matteo Renzi non ha però guardato agli incarichi nel Parlamento: ha affermato che il Pd e la sinistra vogliono cambiare l’Europa, puntando su meno regole e più lavoro.

In un’intervista all’ANSA, Gianni Pittella, vice-presidente vicario uscente del Parlamento europeo, e candidato nella circoscrizione sud, con una deroga speciale, avendo già fatto tre legislature come eurodeputato, ha detto: "E' ora che l'Italia torni a ricoprire la più alta carica nel Parlamento europeo. Sarebbe un grande riconoscimento in primis per il Paese, ma anche per il nuovo Partito democratico di Matteo Renzi. L'obiettivo è a portata di mano. Ci sono tutte le condizioni nazionali e comunitarie perché il governo italiano porti a casa il risultato. La svolta si è avuta con l'adesione del Pd al Pse. Finalmente s’è capito che per contare davvero in Europa occorre stare nelle istituzioni. E' finito il tempo in cui Bruxelles era considerata una sorta di dopo lavoro per politici in pensione. Il Pd e l'Italia di Renzi si candidano a cambiare l'Unione che, oggettivamente, così com'è rischia d’affondare".

sabato 12 aprile 2014

Elezioni europee: -43, una ricetta semplice contro il panico euro-scettico

Scritto per EurActiv.it il 12/04/2014

I politici europeisti devono fornire ai cittadini scelte concrete ed affrontare i problemi reali: questa la ricetta, così semplice da apparire semplicistica, che un centro studi europeo, l’Ecfr, suggerisce per evitare il panico da ‘ondata euro-scettica’ in vista delle elezioni europee. Ma, evidentemente, metterla in pratica non è facile come dirla.

In uno studio dal titolo ‘The Eurosceptic surge and how to respond to it’, lo European Council on Foreign Relations paventa la trasformazione del dibattito politico in una mera, e per di più sterile, battaglia tra ‘più’ e ‘meno’ Europa.

Mark Leonard, direttore del Council, e José Ignacio Torreblanca, direttore del progetto di ricerca, sostengono che gli europeisti non devono ridurre il dibattito a un confronto pro e contro l’integrazione, ma devono piuttosto sottolineare l’importanza delle idee politiche, quale che ne sia la tendenza, per rispondere alle sfide dell’Ue e degli Stati membri: lavoro, immigrazione, crescita, ascesa della Cina.

Secondo Leonard e Torreblanca, c’è il rischio che i partiti europeisti che formano grandi colazioni transnazionali, come il Ppe o il Pse, siano etichettati come una élite che difende l’Ue piuttosto che gli europei. Al contrario, proprio i partiti europeisti dovrebbero sottolineare come i problemi europei tipo l’inadeguatezza dell’euro e il deficit democratico dell’Ue richiedono una risposta costruttiva a livello europeo, piuttosto che il ricorso al nazionalismo e alla xenofobia.

I sondaggi avallano i timori dello studio Ecfr. L’ultimo pubblicato dal Parlamento europeo e realizzato in collaborazione con 'Tns Opinion', raccogliendo i dati disponibili paese per paese e facendone per partito, conferma la risalita del Ppe sul Pse: i popolari, secondo questo computo, hanno oggi sei seggi di vantaggio sui socialisti 214 a 208. Rispetto a una settimana fa, i popolari crescono di due seggi, i socialisti restano stabili.

Invariati a quota 66 i seggi attribuiti agli 'Altri', categoria in cui vengono collocati i 'nuovi partiti' che non hanno rappresentanti nell'attuale Parlamento, come il M5S. Fra i gruppi tradizionali, i liberal-democratici –Alde- avrebbero 60 seggi (+2 rispetto a una settimana fa), la Sinistra unitaria –Gue- 51 (-2), i Verdi 44 (+1), i conservatori dell'Ecr 41 (+1).

Al gruppo Efd, attualmente composto principalmente dai britannici dell'Ukip e dalla Lega Nord andrebbero 29 deputati (-3). La Lega ha però annunciato che farà gruppo col Front National di Marine Le Pen, ora tra i 'Non iscritti', con altri partiti come gli xenofobi olandesi del Pvv, i sepratisti fiamminghi belgi del Vlaams Belang, gli ungheresi neonazisti di Jobbik, gli estremisti di destra del British National Party.

L'europarlamento attribuisce i seggi in base all'attuale composizione dei gruppi. Con questa logica i 'Non iscritti' avrebbero 38 eletti (-1). L'area dell'euro-scetticismo, sommando gli 'Altri', i 'non iscritti' e l’Efd, raccoglierebbe 133 seggi sul totale di 751 (-4). Aggiungendo i conservatori salirebbe a 174 e con la Gue arriverebbe a 225.

giovedì 10 aprile 2014

Usa-Italia: i giudizi (benevoli) dei giovani americani

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano e, in altra versione, per EurActiv.it il 10/04/2014

Lo sguardo, benevolo, dei giovani americani sull’Italia e l’Europa: benevolo e pure anormalmente informato. Perché i protagonisti dell’annuale sondaggio –ormai, una tradizione- sull’Italia vista dagli universitari americani, realizzato dalla Fondazione Italia-Usa in collaborazione con la Loyola University di Chicago, sono ragazzi che hanno l’Italia, ed anche l’Europa nel cuore: vogliono venirci a viaggiare, studiare, magari a viverci (nove su dieci accetterebbero un lavoro nell’Unione, dopo la laurea).

La condanna di Amanda Knox un po’ li frena – quasi tutti ne sono turbati, il che inquieta pure noi: come se quasi tutti si sentissero potenzialmente coinvolti in un omicidio -. E, invece, il naufragio della Concordia non condiziona minimamente i loro programmi di viaggio per turismo o per studio –del resto, sette su 10 non ne hanno mai sentito parlare-.

“Il sondaggio –osserva Lucio D’Ubaldo, presidente della Fondazione- mette in risalto molti luci, ma qualche ombra”. Quelli intervistati –vale la pena sottolinearlo- non sono giovani americani medi: studenti universitari, tre su cinque sono già stati all’estero, addirittura due su cinque in Italia e tutti quelli che non ci sono stati desiderano venirci; uno su quattro guarda film italiani, uno su cinque ascolta musica italiana.

E solo le difficoltà economiche contingenti (56%) e la forza dell’euro sul dollaro (26%) impediscono loro di viaggiare di più in Italia e in Europa. Tutti considerano l’economia europea importante nel contesto globale e quasi tutti pensano che l’Unione europea abbia un’influenza “significativa” –o almeno “qualche influenza” sulla politica internazionale. Però meno di uno su 15 pensa che l’Ue contrasti al meglio la crisi, un terzo ignora l’esistenza del Parlamento europeo e due terzi quella della Commissione europea.

Dell’Italia, loro sanno molto, quasi tutto: che il calcio è il nostro sport nazionale, che pasta e pizza sono i nostri cibi preferiti, che il gelato è una nostra specialità e che tutti a fine pranzo ordiniamo l’espresso. Ma non sfuggono ai luoghi comuni: 7 su 10 ci giudicano a priori, o quasi, gente cordiale, nella serie ‘Italiani, brava gente’;  vogliono venire in Italia per la qualità del cibo (quasi un terzo) o per il gusto nel vestire (il 15%).

Generosi nelle valutazioni –Milano è la capitale mondiale della moda, davanti a Parigi, e il vino italiano è di gran lunga meglio di quello francese-, quando i discorsi si fanno seri mettono da parte la condiscendenza e ritrovano venature d’orgoglio da Super-Potenza. Così, la fusione tra Fiat e Chrysler è una buona cosa per l’economia statunitense (55%), ma lo è soprattutto per l’economia italiana (76%) e rafforzerà le relazioni tra Usa e Italia (79%). E i giovani americani non hanno dubbi: la sede della Fca deve stare negli Stati Uniti (96%), non in Italia. Forse, non sanno che Marchionne ha già scelto di metterla tra Gran Bretagna e Olanda. Ah, ‘sti canadesi!, valli a capire…

mercoledì 9 aprile 2014

Dati: privacy vs sicurezza, Corte Ue cancella direttiva su conservazione

Scritto per il blog di Media Duemila lo 09/04/2014

Nella partita tra sicurezza e diritti, un punto ai diritti. Forse. Perché le interpretazioni della sentenza con cui la Corte di Giustizia europea ha cancellato la direttiva del 2005 che avallò la conservazione di tutti i dati telefonici per un minimo di sei mesi e un massimo di due anni non sono univoche. E l’incertezza e la confusione possono andare a detrimento della sicurezza senza garantire i diritti.

Quella direttiva nacque nel clima di ‘guerra al terrorismo’ post 11 Settembre 2001, acuito in Europa dalla paura per gli attentati di Madrid 2003 e Londra 2005, e –si ammette a Bruxelles- “risentiva della fretta con cui era stata fatta”.

La vice-presidente della Commissione europea Viviane Reding, responsabile della giustizia e autrice di una proposta di riforma della protezione dei dati alla europea, osserva che la sentenza conferma che la sicurezza "non è un super-diritto". Fonti vicine agli affari interni, invece, esprimono preoccupazioni per l’impatto del verdetto, anche se la commissaria Cecilia Maelmstrom ammette le criticità già rilevate nel 2011 sulla "proporzionalità" tra sicurezza e privacy.

Nell'immediato, in realtà, non cambia nulla. Gli inquirenti potranno continuare a utilizzare i dati telefonici raccolti: la direttiva, infatti, è stata recepita e trasformata in leggi nazionali da 26 dei 28 paesi Ue (tutti tranne Germania e Belgio, che erano già finiti sotto procedura di infrazione).

Le leggi nazionali non sono abrogate dalla sentenza della Corte di Lussemburgo e "restano valide", anche se sono evidentemente esposte al rischio di ricorsi, tanto da parte dei singoli cittadini quanto da parte delle compagnie telefoniche, fondate sulla sentenza emessa l’8 aprile.

Si profila un vuoto giuridico europeo, perché la Corte cancella la direttiva “come se non fosse mai esistita”. Per armonizzare il quadro europeo, la Commissione dovrà presentare una nuova proposta (il che non avverrà prima dell’insediamento del nuovo Esecutivo, se va tutto bene a novembre). E’ possibile che il Consiglio dei Ministri dell’Ue ne discuta presto e che il problema vada a ispessire l’agenda del semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue.

Per i contenuti della sentenza, ci affidiamo ai documenti della Corte e alle cronache dell’ANSA. Secondo i giudici europei, imporre la conservazione dei dati comporta un'ingerenza di vasta portata e di particolare gravità in due diritti fondamentali: il rispetto della privacy e la protezione dei dati. E, inoltre, il fatto che l'utilizzo dei dati possa avvenire all'insaputa degli utenti genera la sensazione di vite “oggetto di costante sorveglianza". Quei dati, infatti, raccontano chi abbiamo chiamato e quando e da dove e per quante volte e quanto tempo abbiamo parlato. Insomma, svelano la rete di tutti i nostri rapporti.

La lotta al terrorismo e alla criminalità fu la molla che, nel 2005, spinse a varare a tempo di record la direttiva, sostenuta dalla presidenza di turno britannica dell'allora premier Tony Blair. E la Corte ora rileva che sono stati varcati “i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità". Tre, nello specifico, gli errori: non aver indicato "alcuna differenziazione, limitazione o eccezione" nell'individuare i "reati gravi" contro cui vale il ricorso ai dati; non avere subordinato l'accesso ai dati all’autorizzazione o al controllo di un giudice o di un ente amministrativo competente; e aver indicato una durata della conservazione minima di sei mesi e massima di 24, senza dare criteri con cui determinarle.

Usa-Cuba: Zunzuneo, 50 anni dopo, è sempre Baia dei Porci

Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 09/04/2014

Cinquant'anni dopo, è sempre Baia dei Porci. Quando c’è di mezzo Cuba, gli Stati Uniti sono ancora tentati di lanciare il sasso e nascondere la mano. Anche perché il sasso finisce in acqua, sollevando solo spruzzi che li lasciano fradici. E ciò nonostante la stretta di mano ai funerali di Mandela, tra il presidente Obama e il Castro minore –era il 10 dicembre-.

L’ultimo esempio è Zunzuneo, un social network lanciato a Cuba dagli Usa di soppiatto nel 2010 e chiuso nel 2012, ma rimasto in realtà in qualche misura attivo.

Ad esso si collega la notizia che Alan Gross, cittadino statunitense arrestato sull’isola nel 2009, sta facendo lo sciopero della fame per protestare contro il trattamento ricevuto dai governi sia cubano che americano. L’avvocato di Gross, Scott Gilbert, dice che lo sciopero va avanti da giovedì: non si sa se il detenuto beva e se le autorità progettino di alimentarlo a forza. Gross, condannato a 15 anni, ha perso 45 chilogrammi in carcere.

La vicenda di Zunzuneo "è un’ulteriore dimostrazione che Washington non rinuncia ai suoi piani sovversivi contro Cuba, spendendoci milioni di dollari ogni anno". Il governo dell'Avana aveva così commentato a caldo la notizia della Ap di un'iniziativa dell'Usaid, l’Agenzia per l'aiuto umanitario degli Stati Uniti, per diffondere una sorta di 'twitter clandestino' via sms, aggirando le restrizioni ad internet in vigore sull’isola. Obiettivo, fomentare la dissidenza fra i giovani e incoraggiare un cambio di regime.

S’è poi saputo che anche la blogger dissidente Yoani Sanchez avrebbe utilizzato Zunzuneo, alias il 'twitter cubano': lo riferisce, almeno, il sito web Cubadebate, vicino al regime, parlando pure di un incontro a Washington tra la Sanchez e il vicepresidente Usa Joe Biden. La notizia getta un’ombra di discredito sulla blogger, rendendola complice di una manovra contro il suo Paese.

Secondo Glenn Greenwald, l’ex giornalista di The Guardian che oggi cura il sito The Intercept,  anche i servizi di altri paesi occidentali utilizzano reti sociali per incidere via web in alcuni Paesi ostici o difficili. In questo contesto, Zunzuneo sarebbe solo "una goccia della propaganda sporca" su internet.

Washington non nega Zunzuneo, ma sostiene di averlo creato per aumentare l'accesso dei cubani all'informazione agendo in maniera "discreta", ma non “segreta”. Per il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, Usaid, sigla umanitaria già immischiata in vicende poco chiare del passato, voleva mettere su un programma di "assistenza allo sviluppo" per i cubani, che per informarsi hanno solo media ufficiali. Carney afferma che il programma rispetta le leggi Usa e non è affatto segreto, né sotto copertura, visto che fu oggetto di un dibattito al Congresso. Ma il portavoce ammette che non veniva neppure sbandierato ai quattro venti, per ragioni di sicurezza.

Non è chiaro se Gross vi stava lavorando, quando fu arrestato dopo avere compiuto diversi viaggi sotto copertura a Cuba come subcontractor per una missione clandestina di Usaid, per estendere l’accesso a internet dei cubani. Non sarà stato Zunzuneo, ma molto ci assomiglia. "È sconcertante che, dopo l’arresto di Alan, Usaid ne abbia ulteriormente messo in pericolo la sicurezza gestendo un’operazione sotto copertura a Cuba", scrive l’avvocato di Gross in una nota. 

Il detenuto lancia un appello diretto al presidente Obama: "Ancora una volta, la  invito a impegnarsi in prima persona, in modo che io possa tornare a casa da mia moglie e dalle mie figlie". La sorte di Gross è un tassello del puzzle del miglioramento dei rapporti fra Washington e l’Avana, che non hanno dal 1961 relazioni diplomatiche. Già in dicembre, a quattro anni dal suo arresto, Gross s’era rivolto al presidente Obama, esprimendo il timore di essere stato "abbandonato" dal suo Paese.

Due i punti sui cui il Congresso Usa vuole ora fare luce. Tentare di capire se Zunzuneo abbia messo in pericolo utenti ignari che dietro ci fosse il governo statunitense. E, inoltre, cercare di determinare se il ‘twitter cubano’ avrebbe dovuto essere considerato un programma "sotto copertura", il che richiede l’autorizzazione del presidente e un’informativa alle commissioni intelligence. 

martedì 8 aprile 2014

Parlamento europeo: deputati al voto come un branco di lemming

Scritto per il blog de Il Fatto Quotidiano lo 08/04/2014

Parlamento europeo, sessione plenaria di fine legislatura, giovedì 3 aprile: volti stanchi e menti altrove, chi a casuccia sua dove sta per tornare, chi alla campagna per il voto di maggio. L’ordine del giorno, non molto stimolante, a dire il vero, prevede la votazione sugli emendamenti a un regolamento per ridurre le commissioni interbancarie sulle carte di credito e di debito: il tema è estremamente tecnico e, per di più, il parere è poco incisivo, perché l’esame del regolamento passerà, comunque, al prossimo Paramento. Però, l’argomento interessa centinaia di milioni di consumatori europei e pure banche, imprese, artigiani, esercenti, commercianti.

Il Parlamento uscente vuole dire la sua, testimoniare il lavoro fatto nella commissione affari economici e monetari. Uno specifico emendamento equipara le cosiddette "commercial cards" a quelle per i consumatori ai fini della riduzione delle commissioni interbancarie. Difficile che passi in plenaria, perché il gruppo del Ppe, il più numeroso, è contrario.

E, invece, a sorpresa, l’emendamento viene approvato, con il sì massiccio dei deputati popolari, italiani di varie sigle inclusi. Che cos’è successo?, una crisi di coscienza?, un ammutinamento nel Ppe pro consumatori?

Nulla di tutto questo: un errore nella guida al voto che indica ai deputati del gruppo come esprimersi. E loro come un branco di lemming della Disney tutti giù nel burrone: tutti a votare a favore di una cosa cui dovevano risultare contrari. Ovviamente, senza saperlo: né per cosa votavano, né come la pensavano, né perché la pensavano in un modo invece che nell’altro.

Ora, non bisogna generalizzare: ci sarà pure stato qualcuno che ha votato informato e in coscienza. E, poi, diciamocelo con franchezza, l’errore ci stava: se un emendamento propone di abbassare le commissioni interbancarie e suona palesemente favorevole ai cittadini, ti viene naturale votare sì. E se ti dicessero di votare no, potresti faticare a capire il perché.

Ma due cose restano. Una, è l’esito del voto, che non cambia ed è agli atti, anche se il nuovo Parlamento riprenderà tutta la materia e potrà rimescolare le carte in tavola.  L’altra è la sensazione di centinaia di deputati che votano senza sapere che cosa e perché, obbedendo al pollice su o giù del loro capogruppo. Succede anche nei parlamenti nazionali, non c’è dubbio; e, magari, a Strasburgo, era già successo altre volte ad altri gruppi. Ma né l’una né l’altra considerazione ci consolano. Anzi, a ben pensarci l’una e l’altra ci deprimono ancora di più.

lunedì 7 aprile 2014

Elezioni europee: D'Alema, suicida chiudersi nella euro-fortezza

Scritto per EurActiv.it lo 07/04/2014

“Sarebbe suicida elettoralmente e politicamente cedere alla tentazione di considerare il populismo anti-europeo il nemico principale, che assedia la fortezza europea democratica, nella quale rinchiuderci con i conservatori”: lo afferma Massimo D’Alema.

Il presidente della Fondazione Italianieuropei (Ie) e della Feps ha concluso, oggi, a Roma, un seminario su ‘euro-partiti’ ed ‘euro-scetticismo’ nella prospettiva delle elezioni europee. Il dibattito, organizzato da Ie, dalla Feps e da altri centri studi del progressismo europeo, ha offerto un’analisi delle diverse forme che assume il populismo anti-europeo.

Nelle sue conclusioni, D’Alema ha invitato a distinguere "tra ostilità e critica, tra destra e sinistra … La destra si caratterizza per una visione sovranista e per l’attenzione a temi come l’emigrazione e tende a frenare processo d’integrazione… La sinistra è più attenta ai contenuti delle politiche europee”.

Per D’Alema, i socialisti europei dovrebbero presentarsi come “la principale forza critica dell’attuale corso europeo, l’unica forza critica in grado di cambiare le cose”, perché “gli altri non ne hanno la forza”.

Il populismo –dice D’Alema- è l’espressione di una crisi democratica che non tocca solo l’integrazione europea, anche se si polarizza intorno al tema europeo, e che contiene in sé “una domanda di partecipazione”: la spinta “ha già dato risultati”, con un abbassamento dell’età media della leadership di almeno 15 anni, “il che non è di per sè sinonimo di miglioramento”.

E proprio per rispondere alla sfida del populismo, osserva D’Alema, i “partiti tradizionali iniettano dosi di populismo nella propria narrativa: noi siamo quasi all’avanguardia, abbiamo fatto una cura da cavalli”. Però, “non si affronta il populismo senza ricostruire un rapporto con la gente, con gli strati più bassi, dove il populismo di destra raccoglie consensi”.

E bisogna riconoscere che l’Unione europea così com’è non funziona: “E’ incapace di dare risposta alla crisi”. Ci deve essere, si deve vedere un nesso tra i possibili risultati elettorali e “un diverso assetto del governo dell’Europa”, anche se mettere la questione istituzionale avanti –avverte D’Alema- “non premia in termini di comunicazione”.

Gli attuali meccanismi decisionali non sono sostenibili e il funzionamento delle istituzioni “incide sulla vita delle persone”: bisogna rafforzare l’asse Parlamento – Commissione e rovesciare il dibattito sulla sovranità. “Il problema non è cederla, ma recuperarla. E l’integrazione è l’unico modo per recuperare la sovranità perduta dagli Stati nazionali”…

Chi pensa di risolvere i problemi da solo s’illude. In Italia, ora il governo “si diverte a dire che taglierà i costi della politica”, ma per recuperare le somme necessaria l’unico modo, dice D’Alema con una battuta, sarebbe “assassinare tutti i politici: ci vuole un Pol Pot”.

Non si tratta di fare “una campagna demagogica contro i vincoli dei trattati”, ma di “avere la forza di cambiarli”. E molto si può già fare a trattati vigenti: raggiungendo gli obiettivi d’aggiustamento fissati, ma impiegandoci quattro anni di più si produrrebbero, secondo uno studio della Feps, nove milioni di occupati in più. Un gioco che vale la candela.