Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/04/2014
I precedenti
storici più inquietantì di quanto si teme possa avvenire nell’Ucraina orientale
sono le annessioni naziste dei Sudeti nel settembre 1938, i territori tedeschi
dell’allora Cecoslovacchia, e l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo
Reich nel marzo 1938. Il parallelo con quegli episodi ha meritato a Vladimir
Putin l’appellativo di Hitler, affibbiatogli dai dirigenti ucraini, ma anche da
una virulenta Hillary Clinton.
La pavidità
delle potenze europee, Gran Bretagna e Francia, di fronte alla tracotanza di
Hitler, permisero che quelle avvenissero quasi senza colpo ferire, nel tripudio
delle popolazioni locali, che manifestarono un entusiasmo analogo a quello dei
russi di Crimea nel celebrare il ritorno alla loro patria.
L’annessione
della Crimea, le attenzioni sui territori dell’Est dell’Ucraina abitati da
russofoni, le mire indipendentiste della Transdinstria –territorio russofono
della Moldavia confinante con l’Ucraina- sono segnali della ritrovata forza del
magnete della Grande Russia, dopo gli anni dell’umiliazione successivi alla
disgregazione dell’Urss. Per anni, la
Mosca di Ieltsin e anche quella di Putin e di Medvedev ha
trangugiato atteggiamenti vessatori di Paesi dell’ex Urss nei confronti dei
cittadini russi: Stati dell’Ue, come la Lettonia , sono giunti al punto di negare il
diritto di voto alla forte minoranza russofona.
Sintomi di un
passaggio dalla forza centrifuga della disgregazione dell’Urss a una nuova
attrazione centripeta della Russia putiniana s’erano già intravisti con la
guerra in Georgia nell’estate del 20008, che portò di fatto alla indipendenza
da Tbilisi della Ossezia e della Abkhazia, riconosciute magari solo da Mosca,
ma di fatto ormai autonome.
Dopo un
ventennio di frammentazione, segnata anche da umiliazioni internazionali, la Russia di Putin ha
ritrovato una posizione di primo piano sulla scena mondiale, con la mediazione
decisiva sulle armi chimiche in Siria e con l’influenza manifestata nel
riportare l’Iran al tavolo negoziale sui programmi nucleari.
Che fosse
difficile sfuggire all’influenza dell’Impero Sovietico, quand’esso contendeva
all’Occidente il primato mondiale, Mosca l’aveva fatto capire nel 1956,
reprimendo nel sangue l’insurrezione di Budapest, e di nuovo nel 1968,
schiacciando con i carri la
Primavera di Praga.
In entrambi i
casi, l’Europa rimase sostanzialmente inerte, come lo aveva fatto nel 1938 di
fronte alle mire di Hitler. Quasi per assurdo, il leader europeo più ostile
all’Anchluss era parso, per qualche settimana almeno, il Duce Mussolini.
La relativa
passività della comunità internazionale si vide anche nella guerra in Georgia.
E oggi, nessun all’Ovest pensa a morire di freddo per Donetsk perché una guerra
dell’energia sarebbe forse il prezzo da pagare a una contrapposizione troppo
frontale con la
Russia. Rispetto agli Anni Trenta, c’è una presenza più
incisiva in questi conflitti degli Stati Uniti, ma anche loro paiono escluder,
per il momento, interventi armati che, invece, Putin, dice solo di “sperare” di
non dovere attuare.
Le mire espansionistiche
dell’Unione Sovietica si tradussero, a Natale del 1979, nell'invasione
dell’Afghanistan, destinato a rivelarsi una sorta di Vietnam: dopo dieci anni
di guerriglia mai vinta, i soldati di un’Urss ormai in declino lasciarono il
Paese nelle mani dei Talebani che ne avrebbero fatto un santuario del
terrorismo internazionale e la base operativa degli attacchi all’America
dell’11 settembre 2001. Ma se la
Russia degli Zar, l’Urss del Pcus e la Russia di Putin hanno in
comune l’obiettivo di portare sotto una stessa bandiera tutte le popolazioni di
cultura e di lingua russa, sono molto rigide nel consentire a comunità nei loro
confini di acquisire autonomia o indipendenza. Lo dimostra quanto avvenuto in
Inguscezia e, soprattutto, in Cecenia, la cui decennale lotta per
l’indipendenza finì, dopo il 2001, nel tritacarne della lotta al terrorismo, con l’avallo dell’America di Bush.
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