Scritto per il blog de Il Fatto ed EurActiv.it il 29/04/2014
Se c’è un po’
d’Italia nel dibattito europeo, è merito, anzi demerito, di Silvio Berlusconi: con
la sua campagna anti-tedesca e anti-Schulz, diventa l’ ‘uomo nero’ del primo
confronto in diretta tv fra i candidati alla presidenza della Commissione
europea. Tutti lo evocano e lo criticano, tranne Schulz che può permettersi
d’ignorarlo.
E Juncker
tradisce l’imbarazzo dei popolari per quell’alleato scomodo e invadente –“le
sue dichiarazioni mi hanno fatto stare male”, dice-, che però non cacciano perché,
senza Forza Italia, non potrebbero più confermarsi la prima forza del Parlamento
europeo. Verhofdtadt stana le contraddizioni del Ppe, che si tiene in seno gli
“estremismi” di FI e del partito del premier ungherese Viktor Orban.
Protagonisti del
dibattito, Martin Schulz, socialista, tedesco; Jean-Claude Juncker, popolare,
lussemburghese; Guy Verhofstadt, liberale, belga; e Ska Keller, verde, tedesca.
L’assenza di Alexis Tsipras, greco, sinistra radicale ed ‘euro-critica’, priva
il confronto dell’unica vera voce alternativa. La Keller, tutta di rosso
vestita, è dinamica, giovane, simpatica, ma non fa il peso di fronte agli altri
tre vecchi marpioni. Le cui posizioni, spesso, coincidono.
La formula vuole
essere quella dei dibattiti presidenziali negli Stati Uniti. Ma i giornalisti d’EuroNews
che gestiscono il confronto impongono un ritmo troppo frenetico -30 secondi
d’intervento a testa-, che non riescono a fare rispettare, né rispettano la
successione degli interventi.
I 90’ paiono un
po’ confusi e molto lunghi. Anche se la platea studentesca di Maastricht, città
simbolo dell’integrazione europea, alleggerisce il clima. E i tweet fioccano, a
conferma d’una audience tendenzialmente giovane. Che siamo
lontani anni luce dalla retorica positiva dei dibattiti americani, lo dimostra poi
la battuta d’esordio di Junker: “Non voglio un’Europa che sogna” –sarà pure una
dimostrazione d’onestà, ma è anche un tarparsi le ali a priori-.
Verhofstadt, un
federalista, è quello che ne esce meglio, da un punto di vista europeo: vuole
una Commissione che diriga l’Europa e non la segua, che non dia retta solo a
Berlino e a Parigi. Juncker e Schulz fanno molta fatica a fare dimenticare le
loro responsabilità –il primo, in quanto premier per 18 anni e presidente
dell’Eurogruppo per sette; il secondo in quanto eurodeputato da 20 anni e
presidente dell’Assemblea di Strasburgo- nella gestione dell’Unione e nelle
scelte anti-crisi dell’ultimo lustro.
Quando entrambi
s’arrendono “per realismo” al no agli eurobond, la maschera viene giù –mentre
Verhofstadt ammette che non si uscirà dalla crisi senza-. E il cerone si
scioglie a Juncker quando mette un freno alla solidarietà dell’Europa nei
confronti dei migranti “(Non possiamo farci carico delle miserie del Mondo”),
anche se tutti condividono la necessità di una politica europea
“dell’immigrazione legale”.
Su crescita e
occupazione, sull’agenda digitale, su Usa ed Ucraina, sul contrasto al
populismo, sull’Unione più dei cittadini che delle banche, difficile
distinguere i ritornelli dei candidati. Le elezioni europee? “Un referendum
sull’Unione”, che si gioca soprattutto sul tasso di partecipazione, per un
recupero europeo della sovranità perduta a livello nazionale.
Stop qui: si
replica a Firenze il 9 e poi di nuovo il 15: Tsipras dovrebbe esserci e,
magari, il dibattito sarà più vero, più polemiche e meno melassa.
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