Scritto per il blog di Media Duemila lo 09/04/2014
Nella partita tra sicurezza e diritti, un punto ai
diritti. Forse. Perché le interpretazioni della sentenza con cui la Corte di
Giustizia europea ha cancellato la direttiva del 2005 che avallò la
conservazione di tutti i dati telefonici per un minimo di sei mesi e un massimo
di due anni non sono univoche. E l’incertezza e la confusione possono andare a
detrimento della sicurezza senza garantire i diritti.
Quella direttiva nacque nel clima di ‘guerra al
terrorismo’ post 11 Settembre 2001, acuito in Europa dalla paura per gli
attentati di Madrid 2003 e Londra 2005, e –si ammette a Bruxelles- “risentiva
della fretta con cui era stata fatta”.
La vice-presidente della Commissione europea Viviane
Reding, responsabile della giustizia e autrice di una proposta di riforma della
protezione dei dati alla europea, osserva che la sentenza conferma che la sicurezza
"non è un super-diritto". Fonti vicine agli affari interni, invece,
esprimono preoccupazioni per l’impatto del verdetto, anche se la commissaria
Cecilia Maelmstrom ammette le criticità già rilevate nel 2011 sulla
"proporzionalità" tra sicurezza e privacy.
Nell'immediato, in realtà, non cambia nulla. Gli
inquirenti potranno continuare a utilizzare i dati telefonici raccolti: la
direttiva, infatti, è stata recepita e trasformata in leggi nazionali da 26 dei
28 paesi Ue (tutti tranne Germania e Belgio, che erano già finiti sotto
procedura di infrazione).
Le leggi nazionali non sono abrogate dalla sentenza
della Corte di Lussemburgo e "restano valide", anche se sono
evidentemente esposte al rischio di ricorsi, tanto da parte dei singoli
cittadini quanto da parte delle compagnie telefoniche, fondate sulla sentenza
emessa l’8 aprile.
Si profila un vuoto giuridico europeo, perché la
Corte cancella la direttiva “come se non fosse mai esistita”. Per armonizzare
il quadro europeo, la Commissione dovrà presentare una nuova proposta (il che
non avverrà prima dell’insediamento del nuovo Esecutivo, se va tutto bene a
novembre). E’ possibile che il Consiglio dei Ministri dell’Ue ne discuta presto
e che il problema vada a ispessire l’agenda del semestre di presidenza di turno
italiana del Consiglio dell’Ue.
Per i contenuti della sentenza, ci affidiamo ai documenti
della Corte e alle cronache dell’ANSA. Secondo i giudici europei, imporre la
conservazione dei dati comporta un'ingerenza di vasta portata e di particolare gravità
in due diritti fondamentali: il rispetto della privacy e la protezione dei
dati. E, inoltre, il fatto che l'utilizzo dei dati possa avvenire all'insaputa
degli utenti genera la sensazione di vite “oggetto di costante sorveglianza".
Quei dati, infatti, raccontano chi abbiamo chiamato e quando e da dove e per
quante volte e quanto tempo abbiamo parlato. Insomma, svelano la rete di tutti
i nostri rapporti.
La lotta al terrorismo e
alla criminalità fu la molla che, nel 2005, spinse a varare a tempo di record la
direttiva, sostenuta dalla presidenza di turno britannica dell'allora premier
Tony Blair. E la Corte ora rileva che sono stati varcati “i limiti imposti dal
rispetto del principio di proporzionalità". Tre, nello specifico, gli
errori: non aver indicato "alcuna differenziazione, limitazione o
eccezione" nell'individuare i "reati gravi" contro cui vale il
ricorso ai dati; non avere subordinato l'accesso ai dati all’autorizzazione o
al controllo di un giudice o di un ente amministrativo competente; e aver
indicato una durata della conservazione minima di sei mesi e massima di 24,
senza dare criteri con cui determinarle.
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