Scritto per il blog de Il Fatto l'11/07/2013
Uno dopo l’altro, i ‘re’ del Benelux saranno tutti
usciti di scena del giro di poche settimane: il 30 aprile, Beatrice d’Olanda ha
lasciato il trono al figlio Guglielmo-Alessandro, primo maschio degli Orange-Nassau
a regnare dopo 123 anni (prima di lui la madre, la nonna Giuliana e la bisnonna
Guglielmina); il 3 luglio, Alberto II del Belgio ha annunciato che il 21
luglio, festa nazionale, lascerà il trono, dopo quasi vent'anni di regno, al figlio Filippo; e, infine, ieri,
Jean-Claude Juncker, che del Lussemburgo è stato premier ininterrottamente per
18 anni, il più longevo premier democratico al mondo in carica, ha deciso le
proprie dimissioni.
Sì, lo so che il capo dello Stato del Granducato del
Lussemburgo è, appunto, il Granduca Henri e che, quindi, il giochino dei re che
se ne vanno è zoppo. Ma è singolare che tre figure di riferimento della
politica e della società del Benelux, nocciolo duro dell’integrazione europea e
laboratorio dell’Unione, si facciano da parte quasi contemporaneamente.
Per scelta, e con la scusa dell’età, i due monarchi,
che mica sono vegliardi -75 anni Beatrice, 80 Alberto-. Perché costretto,
invece, Juncker, che, a conti fatti, sarà così stato l’unico leader politico su
scala mondiale ad avere pagato per il Datagate. Chissà se la notizia ha
allietato, o intristito, Edward Snowden, la talpa dello scandalo, tuttora
confinato nell'ultima tule dell’area transiti dell’aeroporto Sheremetyevo di
Mosca.
Juncker ha gettato la spugna dopo avere constatato
che non solo l’opposizione, ma pure i socialisti, suoi alleati nella coalizione
governativa, volevano lo scioglimento del Parlamento e l’indizione d’elezioni
anticipate.
La decisione formale in queste ore: un Consiglio dei Ministri in
mattinata, poi la formalizzazione delle dimissioni al Granduca Henri. C’è la
prospettiva di andare al voto il 20 ottobre.
Quello di Juncker potrebbe, però, essere un
arrivederci e non un addio: il premier cristiano-sociale, che, prima come
ministro, poi come capo dell’esecutivo, è da trent'anni filati al governo -meglio,
o peggio, degli andreotti nostrani-, è infatti abbastanza giovane –58 anni- per
riprovarci in autunno. Eppure, quando divenne premier, c’erano ancora al potere
François Mitterrand ed Helmut Kohl –ma in Italia c’era già Silvio Berlusconi-,
l’ex Jugoslavia era un focolaio di conflitti, l’euro non era ancora nato e
l’Unione era a 15 (lui sarebbe poi stato il primo e unico presidente permanente
dell’Eurogruppo dal gennaio 2005 al gennaio 2013).
Europeista convinto, definito “il leader
cristiano-democratico più socialista che ci sia”, capace d’ironia e pure di
auto-ironia, Juncker ama dire di se stesso: “Quando voglio parlare in francese,
penso in tedesco; e quando voglio parlare in tedesco, penso in francese. Così,
non mi capiscono mai”. I lussemburghesi, la cui lingua nazionale è un impasto
di francese e tedesco, però l’hanno sempre capito bene e gli hanno
ripetutamente dato fiducia, anche se, negli ultimi anni, gli hanno spesso
rimproverato di badare più all'Europa che al Granducato. Il suo nome, del
resto, era circolato sia per la presidenza della Commissione europea che per
quella del Consiglio europeo.
Gli sono stati fatali non la crisi, né i cedimenti
sul segreto bancario, ma la mancata vigilanza sull’intelligence lussemburghese,
che lo avrebbe persino intercettato –per conto terzi?-. Se Snowden mirava ad
abbattere l’aquila Obama, deve accontentarsi di Juncker. Un piccione. O un
tordo.
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