Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/07/2013
Basta davvero raggiungere le semi-finali del Campionato
del Mondo di calcio ‘under 20’ per “ridare la fierezza” al proprio Paese?
L’affermazione può suonare eccessiva. E, se il Paese è l’Iraq, può persino apparire
macabra, con una teoria di cadaveri nelle strade ogni giorno. Eppure, è vera:
chi sta a Baghdad testimonia di centinaia di persone che, sfidando la paura
degli attentati, si radunavano nei bar per seguire gli incontri o scendevano in
strada per festeggiare le vittorie.
Nel Paese attraversato da un terrorismo ormai
endemico, che l’inizio del Ramadan non ha arrestato, i ‘Leoni di Babilonia’ fanno,
ancora una volta, meglio dei politici, unendo nel tifo e nell'entusiasmo
sciiti, sunniti e curdi.
Eppure, il bollettino degli attentati, dai primi di
luglio, cioè da quando è iniziato il torno mondiale ‘under 20’ in Turchia, è
impressionante: secondo l’Onu, la violenza inter-confessionale ha fatto, solo
negli ultimi tre mesi, in tutto l’Iraq, 2500 morti, in stragrande maggioranza civili,
pure donne e bambini. Il bilancio più grave dai tempi dell’invasione americana.
Dall’1 al 3 luglio, raffiche di esplosioni,
soprattutto nella capitale, hanno fatto oltre 120 vittime; il 5, un attacco contro
una moschea sciita ha provocato 15 morti; il 6, autobombe nel Nord hanno ucciso
una decina di persone; l’8 luglio, si sono contati una trentina di morti, fra
cui 6 bambini; e l’11, una dozzina.
E il calcio è spesso occasione di violenze letali:
una cinquantina le vittime quest’anno, in una decina d’attacchi legati ad eventi
sportivi. L’allenatore dell’Erbil, un croato, Rodion Gacanin, se n’è andato,
spaventato. E la Fifa impedisce incontri internazionali ufficiali sul
territorio iracheno.
Eppure, questo calvario, per gli iracheni, che ci
sono abituati, è contato meno della marcia trionfale, fino alle semifinali, dei
loro giovani. E l’altra sera, contro l’Uruguay, solo un rigore s’è frapposto
tra l’Iraq e la finale, dove i Leoni avrebbero incontrato la Francia dello
juventino Pogba. L’Iraq, anzi, era in vantaggio fino a 2’ dal termine dei 90
regolamentari, quando è stato raggiunto sull’1 a 1. E i rigori sono stati una lunga
litania: è finita 6 a 5 per la ‘Celeste’.
Domenica scorsa, l’eliminazione della Corea del
Nord, 3 a 3 dopo i tempi supplementari, 5 a 4 ancora ai rigori, era stata
salutata da manifestazioni di gioia nella capitale e altrove nel Paese, stile
Italia 2006.
Non è la prima volta che il calcio rende all’Iraq, 98°
nel ranking mondiale, un’effimera fierezza. Era già accaduto –quasi un
miracolo, allora- alle Olimpiadi di Atene del 2004, quando l’Iraq raggiunse le semifinali
battendo Portogallo, Costarica ed Australia e perse la finale per il bronzo
proprio contro l’Italia (1 a 0, gol di Gilardino), nonostante il Paese fosse letteralmente
in macerie. Nel 2007, poi, l’Iraq divenne campione d’Asia (battendo in finale 1
a 0 l’Arabia Saudita). Ai Mondiali, invece, quelli maggiori, l’Iraq è riuscito a
qualificarsi una sola volta, nel 1986: in Messico, però, perse tutte le
partite, sia pure tutte con il minimo scarto.
Sotto il regime di Saddam Hussein, il Comitato olimpico
iracheno e la nazionale di calcio erano sotto l’egida del figlio ‘cattivo’ del
dittatore, Uday, che non risparmiava minacce, umiliazioni e torture a giocatori
e allenatori, in caso di risultati deludenti. Con il fratello e un nipote di 14
anni, Uday fu ucciso a Mossul, nel 2003, in un conflitto a fuoco con le truppe
americane che avevano circondato l’abitazione dove s’era asserragliato.
Per la mancata
qualificazione ai Mondiali 1994 negli Usa, i giocatori furono imprigionati e
costretti a giocare a piedi nudi con una palla di pietra. E un capitano
della nazionale, Abdul Latif, raccontò d’essere stato incarcerato, torturato e
rasato anche delle sopracciglia per un cartellino rosso. Eppure, l'angoscia di quei racconti non ha mai spento la voglia
di calcio degli iracheni, riaccesa dai successi dei 'Leoni' in Turchia.
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