Scritto per il blog de Il Fatto e, con varianti, per EurActiv.it il 31/12/2014
Quante Europe,
nel semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue: Matteo
Renzi e tutti i suoi corifei ce l’hanno annunciata ‘nuova’ e ‘diversa’ (non
‘altra’ perché quello è il marchio d’una sinistra alternativa), più politica e
meno burocratica e tecnocratica, addirittura -25 novembre- “senza approcci da
algoritmo”. Bello, ma che vuol dire?
Le formule si
sono sprecate, in una sorta di crescendo: l’Europa non si chiuda in un recinto
dorato -6 novembre-; l’Europa sia speranza o perde
una generazione –ancora il 25 novembre-; l’Europa cambi verso o sarà la
Cenerentola del Mondo, se si riduce a uno scontro di ragionieri non avrà futuro
-1 dicembre-; l’Europa è al bivio, o cambiamo direzione o la perdiamo -16
dicembre-; e, lo stesso giorno, la politica non la consegni ai tecnocrati; "Il
partito degli euroscettici crescerà, se non cambiamo l'Europa, e si prenderà
Paesi dalla grande, grande tradizione europea -29 dicembre-; e, ancora, "Il
nostro modello è la Germania, sono convinto che potremo fare meglio della
Germania”; “O l'Unione s’allarga o perde un’occasione … Quando qualcuno mette
in forse l'ingresso nell’Ue dei paesi balcanici come l'Albania, sbaglia di
grosso” -30 dicembre, a Tirana-.
Un’antologia di affermazioni, spesso
apodittiche, molte condivisibili, alcune efficaci. Talune consciamente false:
l’ingresso nell'Unione dei Paesi balcanici candidati, ad esempio, è escluso
prima del 2020 –e la diplomazia italiana lo sa bene-. Certo, il premier si
spende con Tirana, come con Belgrado e –su un altro piano- con Ankara, un
sostegno all'adesione sapendo che non dovrà comunque pagare pegno, perché a
frenare ci pensano altri.
Ma la sostanza del semestre d’Europa all'italiana?,
che, sia detto per inciso, finisce alla mezzanotte di oggi, 31 dicembre, quando
la Lettonia assume la presidenza di turno, e non il 13 gennaio, come, per
convenienza politica interna, Renzi va dicendo.
"Mi piace pensare che il 2014 sia
stato l'inizio d’una Europa casa della speranza e non più solo luogo della
burocrazia", afferma il premier, con un’altra formula. Ora, a parte che il
2014 si chiude a crisi greca riaperta, con conseguenti ansie da ‘effetto
contagio’, la presidenza italiana non poteva fare miracoli, specie in un
semestre segnato da avvicendamenti istituzionali e dall'inevitabile stasi dei
processi legislativi e decisionali europei, e non li ha fatti.
I risultati concreti ottenuti sono modesti
e appaiono persino deludenti, se confrontati con le attese della vigilia. I
progressi nell'integrazione ci sono: l’Unione bancaria è in porto –ma già lo
era-; l’euro s’allarga domani a 19 con la Lituania –ma già si sapeva-; il
negoziato tra Ue e Usa per l’area di libero scambio transatlantica va avanti
–ma non c’è stata nessuna accelerazione particolare-. E, durante il semestre,
passi avanti sono stati fatti sul fronte dell’immigrazione e su altri dossier.
Ma su quello che più sta a cuore
all’Italia, il cambio d’accento da rigore a crescita, ci sono più parole che fatti:
il ‘piano Juncker’ da 21 miliardi che diventano 315 deve essere messo a punto
dall'Esecutivo comunitario a metà gennaio e vagliato dal Consiglio europeo a
metà febbraio; e quanto ai margini di flessibilità, tante volte sbandierati,
vanno ancora definiti e precisati.
Dopo di che, bisognerà mostrare che
l’Italia, fanalino di coda dell’Unione per indicatori economici come la
crescita e la competitività, ma leader per corruzione e opacità, saprà
utilizzare bene i fondi del nuovo piano, quando non riesce a spendere quelli
per la coesione.
Un’Europa ‘diversa’ ci serve di sicuro. Ma
ci serve pure un’Italia diversa: meno parolaia e più concreta; meno formule e
più fatti.
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