Pubblicato da AffarInternazionali.it e, in versione diversa, da La Voce e Il Tempo il 17/11/2016
Due anni
di tempo per realizzare due programmi: quello del presidente eletto Donald
Trump e quello dei repubblicani. L’agenda del magnate è più fluida, funzione
dell’umore e del momento; quella del partito è più prevedibile. Ci sono punti
di contatto: la revoca, almeno parziale, dell’Obamacare, la riforma sanitaria
dell’Amministrazione democratica. Ci sono punti d’attrito: l’attuazione del
‘piano migranti’, l’erezione del muro e l’espulsione d’irregolari. Ci sono
concessioni ai fondamentalisti: la restituzione agli Stati del potere di
decisione sull'aborto, riportando indietro gli Stati Uniti di oltre
quarant'anni – questo è compito della Corte Suprema, che deve correggere
l’impatto di una sentenza del 1973 -.
Indicazioni
che gli analisti esprimono con cautela, dopo che sondaggisti, esperti, giornalisti, tutti siamo stati
persino peggio degli economisti, che non ci azzeccano mai, nel leggere
l’orientamento degli americani in vista dell’Election Day l’8 Novembre: la
vittoria di Hillary Clinton, largamente pronosticata, s’è tramutata in una
disfatta, nonostante l’ex first lady abbia ottenuto più voti popolari del suo
rivale – ma, nel sistema federale Usa, contano i Grandi Elettori -.
Stavolta,
gli elettori statunitensi hanno addirittura perso il loro senso dell’equilibrio
paradigmatico: Trump e i repubblicani si trovano nelle mani tutto il potere, la
Casa Bianca, il Congresso - Camera e Senato -, una netta maggioranza di
governatori e di parlamenti statali; e possono inoltre imprimere alla Corte
Suprema un orientamento decisamente conservatore – un giudice va nominato al
più presto, per riempire il vuoto lasciato dalla morte di Antonin Scalia; e un
altro posto sta per rendersi disponibile -. L’unico frangiflutti alla marea repubblicana
è quello rappresentato da Yanet Yellen, che guida la Federal Reserve dal
febbraio 2014 e che non può essere rimossa fino a fine mandato: nominata da
Barack Obama, rispettata da tutti, la Yellen non è però una democratica
d’ordinanza, ma piuttosto una tecnica.
Le proteste tardive di giovani (e
donne) schizzinosi
Dopo il
voto, l’America anti-Trump s’è messa in marcia e non s’è ancora fermata: ci
sono state manifestazioni in decine di città e università, centinaia di arresti,
un fiume in piena di giovani, donne, neri, ispanici che scandiscono lo slogan
‘Not My President’: sono reduci di Occupy Wall Street e militanti di Black
lives matter, sono i Millennials, la cui neghittosità nel giorno del voto,
però, è stata determinante, a favore del magnate. Ora vogliono smacchiarsi la
coscienza. Ma è tardi.
Se i
giovani – e le donne - l’8 novembre avessero votato numerosi come nel 2008 e
nel 2012, oggi Hillary sarebbe il presidente eletto e loro non sarebbero in
strada. Invece, la schizzinosità di chi – certo che Trump non ce l’avrebbe
fatta – non è andato alle urne perché orfano di Bernie Sanders o perché non in
sintonia con l’ex first lady ha messo le sorti dell’America nella mani di
baby-boomers ormai pensionati o quasi, bianchi e maschi, consegnando la
vittoria allo showman e alla sua cerchia di familiari, lobbisti e razzisti.
New York
e Los Angeles hanno registrato le contestazioni più numerose, Portland in
Oregon quelle più virulente. Il movimento coinvolge meno il Sud, le Grandi
Pianure, le Montagne Rocciose, l’America più conservatrice ed evangelica, che
Trump presidente l’ha voluto o se n’è fatta subito una ragione.
In chi
manifesta, e in chi ne condivide la protesta, c’è il timore che Trump possa
tradurre in pratica la deriva xenofoba, razzista e sessista sventolata durante
la campagna elettorale. Si teme anche che prendano ulteriore vigore i gruppi
suprematisti bianchi: il Ku Klux Klan, esagerando, si attribuisce un ruolo
decisivo nell’elezione del magnate e annuncia un meeting a Charlotte, North
Carolina, mentre sui muri delle città compaiono scritte inquietanti, ma non
sorprendenti: "Rendiamo l'America bianca grande di nuovo", versione
razzista dello slogan presidenziale.
I repubblicani fanno bingo, i
democratici senza leader
La
stampa americana risale indietro nel tempo, anche di un secolo, chiedendosi se
e quando, vi sia mai stato un tale allineamento partitico dei tre poteri,
l’esecutivo, il legislativo, il giuridico. Va, però, detto che i confronti sono
difficili ed aleatori: il numero degli Stati varia, le modalità elettive del
Senato pure. Nel recente passato, è accaduto a tutti e tre gli ultimi
presidenti di avere dalla loro, almeno per un biennio, tutto il Congresso.
Il partito
repubblicano, che pareva a pezzi, condannato alla minoranza dall’evoluzione
demografica e diviso al proprio interno fra moderati, Tea Party, evangelici si
ritrova padrone di tutto: con Trump, che doveva esserne l’esecutore
testamentario, è risorto e ha fatto bingo, raccogliendo consensi che non aveva
mai avuto (e che forse non avrà mai più).
Il
partito democratico, che pareva destinato a tenere la presidenza e a
riprendersi almeno il Senato, si ritrova con zero potere e senza squadra
dirigente, perché nessuno dei suoi leader sarà spendibile nel 2020: Hillary
Clinton è bruciata, dopo i flop 2008 e 2016; John Kerry è bruciato dal 2004;
Bernie Sanders sarà troppo vecchio, come Joe Biden. E, se il mantra è il
cambiamento, bisogna trovare qualcuno che lo rappresenti: Elizabeth Warren ha
il volto giusto, ma l’età è un handicap – avrà 71 anni, uno in più di Trump
oggi -.
Il New
Yorker s’interroga su come il partito democratico possa uscire da questo
incubo. La riscossa non potrà venire, se verrà, prima delle elezioni di midterm
del 2018, quando le carte del Congresso potrebbero rimescolarsi.
Cambio di passo tra candidato e
presidente?
Altroché
cambio di passo, tra il candidato e il presidente: Trump, nella terra di mezzo
tra l’elezione e l’insediamento, non abbandona il populismo. E l’ipotesi di un disimpegno
degli Usa dagli accordi sul clima crea ansia e panico a livello planetario,
proprio quando l’Onu diffonde i dati più allarmanti sul riscaldamento globale.
Preso in
un vortice di interviste e telefonate, il presidente eletto annuncia che il suo
stipendio sarà d’un dollaro l’anno, mentre anche i think tank conservatori
s’interrogano su fattibilità ed efficacia d’alcune sue ricette, come il muro e
le espulsioni.
Nel suo
dire e fare post-voto, Trump fa il pendolo tra conferma della linea
anti-establishment e ricerca di compromesso con i moderati: blandisce il presidente
Obama, ma vuole smantellarne l’eredità; lusinga a modo suo Bill Clinton (“Ha
talento”) e tranquillizza Hillary (l’inchiesta per sbatterla in carcere, minacciata
nei dibattiti, non è una priorità); sceglie una colomba come capo dello staff
alla Casa Bianca - Reince Priebus, uomo del partito – e un falco come “stratega
e consigliere” – John Bannon, un razzista -.
Trump esce
confortato da un colloquio telefonico con Vladimir Putin: rispetto reciproco e
reciproca non ingerenza negli affari interni sarebbero i punti fermi del nuovo
rapporto Usa-Russia. Invece, non dà eco ai messaggi dei leader dell’Ue e della
Nato e riceve a casa sua il dandy euro-scettico Nigel Farage, l’artefice della
Brexit, mentre il presidente Obama trova in Europa interrogativi cui non sa
rispondere e inquietudini che non può stemperare.