Scritto per Il Fatto Quotidiano del 19/11/2016
Incontrarsi per dirsi addio, anzi arrivederci: sulle
panchine ai giardinetti della storia. A Berlino, ieri, il Vertice delle anitre
zoppe è stato soprattutto questo: l'ultimo saluto del presidente Barack Obama
ai leader europei; e viceversa. Amicizia in qualche caso sincera, sorrisi un
po’ tirati, strette di mano e pacche sulle spalle: se ne va un decano della
combriccola transatlantica – solo Angela Merkel ha un’anzianità di servizio
superiore -, si chiude una pagina lunga otto anni, se ne sta per aprire un’altra
fatta di punti interrogativi.
Erano tutti a Berlino, i leader europei, con un
orecchio a Washington e con l’occhio a casa loro, dove molti hanno problemi
grossi - alcuni neppure sono sicuri di avere il tempo di conoscere Donald
Trump, il presidente eletto degli Stati Uniti -.
Chi sperava che Obama spiegasse ai partner l’America
che verrà è rimasto deluso (ed è ripartito preoccupato): se l’arrivo di Trump
alla Casa Bianca “non è l’apocalisse”, ma solo perché “la fine del Mondo è
quando il Mondo finisce”, l’analisi del presidente uscente equivale a “fin che
c’è vita c’è speranza”. E l’invito a lavorare col suo successore per cercare
soluzione “ai problemi comuni”, sulla base “dei valori condivisi”, suona ovvio
e non troppo convinto.
Obama era seduto tra la Merkel e Matteo Renzi, al
tavolo del Vertice nella Cancelleria; e c’erano pure François Hollande, Mariano
Rayoj, Teresa May. Dall'incontro non scaturiscono decisioni, ma piuttosto
labili indicazioni: le sanzioni alla Russia per l’Ucraina restano, almeno fino
a che Trump non s’insedierà alla Casa Bianca; e in Libia ci vuole un governo
stabile. Di immigrazione, assicura la Merkel, non s’è parlato, perché gli
europei non volevano affliggere Obama con lo spettacolo delle loro divisioni.
Quando già Obama è in volo per il Perù, dove, oggi e
domani, lo attende un altro rito di congedo, stavolta dai Paesi del Pacifico, da
Washington giunge notizia che il presidente ha battuto un pugno sul tavolo del
Congresso repubblicano: ha bloccato tutte le nuove trivellazioni nell'Artico,
tenuto conto del carattere “unico e difficile” di quell'ambiente.
Trump ci metterà un rigo di penna a cancellare questa
decisione, come a ripristinare il gasdotto Keystone dal Canada al Texas. Ma,
intanto, il magnate e showman snocciola nomine, che vanno tutte nello stesso
senso: pare di stare in un film sul razzismo aristocratico del Profondo Sud,
stile l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’ o il Mississippi di ‘The Help’.
Ieri, Trump ha indicato due personaggi molto discussi
per il ministero della Giustizia e la direzione della Cia: il senatore Jeff
Sessions (Alabama) e il deputato Mike Pompeo (Kansas). Prima, Trump aveva
scelto, come consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Michael T.
Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall'Amministrazione Obama ed entrato
nelle sue fila in campagna elettorale.
Sessions, 69 anni, è favorevole all'espulsione degli
immigrati irregolari ed è contrario all'aborto ed ai matrimoni fra omosessuali.
Contro di lui, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e
una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano
marijuana”.
Pompeo, 59 anni, origini italiane, è un Tea Parti
vicino al vice-presidente Mike Pence: la priorità è l’abolizione dell’accordo
sul nucleare con l’Iran, “disastroso” perché fatto “con lo Stato principale
sostenitore del terrorismo al Mondo”.
Mancano ancora tasselli importanti, gli Esteri, la
Difesa, il Tesoro. E, nel fine settimana, Trump vedrà, fra gli altri, Mitt
Romney, il suo maggiore antagonista nel partito repubblicano.
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