Scritto per Il Fatto Quotidiano del 10/11/2016 e ripreso da www.GpNewsUsa2016.eu e Formiche.net
La notte
dopo, e il giorno dopo, parlano Donald Trump, il vincitore, il 45° presidente
degli Stati Uniti, e Hillary Rodham Clinton, la sconfitta, la donna che non
sarà presidente: discorsi quasi scontati, ma che proiettano l’America nel ‘dopo
elezioni’, archiviando con poche scontate battute 18 mesi di campagna aspra e
spesso cattiva. Trump, per una volta, segue il copione: “Sarò il presidente di
tutti – dice -: è l’ora di essere uniti e di rinnovare il sogno americano. Con
il Mondo, cercheremo alleanze, non conflitti”. La Clinton ha bisogno di più
tempo per riprendersi dalla batosta e rimettere in sesto le idee: “La sconfitta
fa male – ammette -, ma ora bisogna accettare il risultato e guardare al
futuro. Trump ora è il nostro presidente”.
Discorsetti: frettoloso, quello di Donald, che aspetta di ricevere la telefonata di congratulazioni della rivale prima di presentarsi ai suoi fan, quando a New York è notte fonda e in Italia è l’alba; molto più emotivo, quello di Hillary, forse al passo dell’addio dalle ambizioni pubbliche. Per prendere le misure a Trump come presidente, bisognerà attendere il discorso d’insediamento, il 20 gennaio, e il primo discorso programmatico al Congresso riunito in sessione plenaria, entro fine gennaio.
In una lunga notte di tregenda elettorale, l’America s’è consegnata a Trump per i prossimi quattro anni e gli ha affidato la valigetta nucleare; e ha pure regalato al nuovo presidente un Congresso al suo servizio, tutto repubblicano. Il mix di frustrazione e populismo del magnate e showman travolge – proprio quand’era più necessario - il sistema di bilanciamento dei poteri voluto dai Padri Fondatori degli Stati Uniti. Un correttivo verrà, forse, dalla mancanza di sintonia tra presidente e partito, anche se, adesso che Trump ha vinto, sono già venuti dai leader repubblicani, in primi Paul Ryan, segnali d’allineamento.
Come già per la Brexit, vince la scelta opposta a quella pronosticata da sondaggi, esperti e allibratori: rabbia e protesta si confermano più forti di razionalità e competenza. Se l’America esce dal voto divisa, l’Europa e il Mondo ne escono preoccupati, impauriti, anche se i messaggi di congratulazioni al neo-presidente mascherano questi sentimenti dietro rituali auspici di cooperazione. Se l’America ha istituzioni democratiche forti e una Costituzione solida per affrontare la bufera, l’Ue non le ha: l’effetto domino, dopo la Brexit e l’elezione di Trump, può farla vacillare e crollare, specie se dovessero affermarsi altri populismi, in Francia, nel Benelux, in Germania, magari in Italia.
I mercati hanno sulle prime reazioni da panico: il dollaro va giù, l’oro va su, il peso messicano crolla. Poi, tendono a normalizzarsi, cominciando a metabolizzare la nuova situazione – la transizione durerà almeno sette settimane -. E ovunque ci s’interroga sull’impatto che l’elezione del magnate avrà, con tutte le sue incognite e contraddizioni economiche e di politica estera: l’immigrazione e il protezionismo; la Russia e l’arco di guerre dall’Afghanistan alla Nigeria via Medio Oriente e Nord Africa. In campagna, Trump aveva uno slogan per ogni problema; ora, dovrà proporre ricette e praticare soluzioni.
La mappa elettorale non esprime a pieno la spaccatura dell’Unione semplificata dal cromatismo rosso/blu degli Stati repubblicani e democratici, senza tenere conto delle divisioni etniche, di genere e di censo che venano la società americana. La scelta di Trump sembra il colpo di coda d’un’ex élite maschia e bianca, frustrata da otto anni di un presidente nero e forse irritata dall’idea di cedere il potere a una donna.
Ma non è solo questo, non sta tutto qui: c’è la ribellione al globalismo; c’è il mito eterno del ritorno all’età dell’oro; c’è il primato ostentato dell’apparenza e della brillantezza – magari ruvida, volgare, eccessiva – sulla sostanza e la concretezza; c’è una trasformazione, demografica e ideologica, del partito repubblicano, che esce dall’alveo di Abraham Lincoln e di Theodore Roosevelt e accoglie nelle proprie fila blue collars e classe media, democratici delusi.
E le contraddizioni s’addensano: Massachusetts e California – che votano Clinton – danno l’ok a legalizzare la marijuana per uso ricreativo. Nel Nebraska, che vota Trump, torna, invece, la pena di morte: il ripristino della pena capitale, là dove il boia non colpisce dal 1997, passa a un anno dalla decisione di sospenderla. Altrove, un referendum cancella il salario minimo da poco istituito.
C’erano elementi di premonizione nel messaggio con cui, a seggi non ancora ovunque chiusi, il presidente Barack Obama salutava l’inizio dello spoglio: “Comunque vada, l’America resta una grande Nazione”. E questa resta una pagina di democrazia nella storia di un grande Paese, che è sempre capace di cambiare, pur non sempre andando nella direzione della storia.
La notte dello spoglio era partita con sfumature di speranza per la candidata democratica, sostenuta da tutta una serie di segnali considerati per lei positivi, come l’alta affluenza. Ma vira in modo deciso, determinante, al rosso repubblicano quando i tre grandi Stati in bilico, la Florida, l’Ohio e la North Carolina, finiscono l’uno dopo l’altro, nel giro di un’ora, nel paniere di Trump.
Da quel momento, l’ultima ridotta democratica si riduce nel MidEst tra Wisconsin e Michigan. Ma neppure lì Hillary tiene le posizioni: gli Stati manifatturieri delle fabbriche perdute seguono l’illusione del ritorno dei posti di lavoro promesso da Trump. A tratti, l’andamento dello spoglio ha echi delle elezioni del 2000, quelle rimaste in bilico per settimane tra George W. Bush e Al Gore; ma tutto si risolve poco dopo la mezzanotte di New York, che non viveva una serata elettorale così, con tutti e due i candidati nella Grande Mela, dal 1944.
Discorsetti: frettoloso, quello di Donald, che aspetta di ricevere la telefonata di congratulazioni della rivale prima di presentarsi ai suoi fan, quando a New York è notte fonda e in Italia è l’alba; molto più emotivo, quello di Hillary, forse al passo dell’addio dalle ambizioni pubbliche. Per prendere le misure a Trump come presidente, bisognerà attendere il discorso d’insediamento, il 20 gennaio, e il primo discorso programmatico al Congresso riunito in sessione plenaria, entro fine gennaio.
In una lunga notte di tregenda elettorale, l’America s’è consegnata a Trump per i prossimi quattro anni e gli ha affidato la valigetta nucleare; e ha pure regalato al nuovo presidente un Congresso al suo servizio, tutto repubblicano. Il mix di frustrazione e populismo del magnate e showman travolge – proprio quand’era più necessario - il sistema di bilanciamento dei poteri voluto dai Padri Fondatori degli Stati Uniti. Un correttivo verrà, forse, dalla mancanza di sintonia tra presidente e partito, anche se, adesso che Trump ha vinto, sono già venuti dai leader repubblicani, in primi Paul Ryan, segnali d’allineamento.
Come già per la Brexit, vince la scelta opposta a quella pronosticata da sondaggi, esperti e allibratori: rabbia e protesta si confermano più forti di razionalità e competenza. Se l’America esce dal voto divisa, l’Europa e il Mondo ne escono preoccupati, impauriti, anche se i messaggi di congratulazioni al neo-presidente mascherano questi sentimenti dietro rituali auspici di cooperazione. Se l’America ha istituzioni democratiche forti e una Costituzione solida per affrontare la bufera, l’Ue non le ha: l’effetto domino, dopo la Brexit e l’elezione di Trump, può farla vacillare e crollare, specie se dovessero affermarsi altri populismi, in Francia, nel Benelux, in Germania, magari in Italia.
I mercati hanno sulle prime reazioni da panico: il dollaro va giù, l’oro va su, il peso messicano crolla. Poi, tendono a normalizzarsi, cominciando a metabolizzare la nuova situazione – la transizione durerà almeno sette settimane -. E ovunque ci s’interroga sull’impatto che l’elezione del magnate avrà, con tutte le sue incognite e contraddizioni economiche e di politica estera: l’immigrazione e il protezionismo; la Russia e l’arco di guerre dall’Afghanistan alla Nigeria via Medio Oriente e Nord Africa. In campagna, Trump aveva uno slogan per ogni problema; ora, dovrà proporre ricette e praticare soluzioni.
La mappa elettorale non esprime a pieno la spaccatura dell’Unione semplificata dal cromatismo rosso/blu degli Stati repubblicani e democratici, senza tenere conto delle divisioni etniche, di genere e di censo che venano la società americana. La scelta di Trump sembra il colpo di coda d’un’ex élite maschia e bianca, frustrata da otto anni di un presidente nero e forse irritata dall’idea di cedere il potere a una donna.
Ma non è solo questo, non sta tutto qui: c’è la ribellione al globalismo; c’è il mito eterno del ritorno all’età dell’oro; c’è il primato ostentato dell’apparenza e della brillantezza – magari ruvida, volgare, eccessiva – sulla sostanza e la concretezza; c’è una trasformazione, demografica e ideologica, del partito repubblicano, che esce dall’alveo di Abraham Lincoln e di Theodore Roosevelt e accoglie nelle proprie fila blue collars e classe media, democratici delusi.
E le contraddizioni s’addensano: Massachusetts e California – che votano Clinton – danno l’ok a legalizzare la marijuana per uso ricreativo. Nel Nebraska, che vota Trump, torna, invece, la pena di morte: il ripristino della pena capitale, là dove il boia non colpisce dal 1997, passa a un anno dalla decisione di sospenderla. Altrove, un referendum cancella il salario minimo da poco istituito.
C’erano elementi di premonizione nel messaggio con cui, a seggi non ancora ovunque chiusi, il presidente Barack Obama salutava l’inizio dello spoglio: “Comunque vada, l’America resta una grande Nazione”. E questa resta una pagina di democrazia nella storia di un grande Paese, che è sempre capace di cambiare, pur non sempre andando nella direzione della storia.
La notte dello spoglio era partita con sfumature di speranza per la candidata democratica, sostenuta da tutta una serie di segnali considerati per lei positivi, come l’alta affluenza. Ma vira in modo deciso, determinante, al rosso repubblicano quando i tre grandi Stati in bilico, la Florida, l’Ohio e la North Carolina, finiscono l’uno dopo l’altro, nel giro di un’ora, nel paniere di Trump.
Da quel momento, l’ultima ridotta democratica si riduce nel MidEst tra Wisconsin e Michigan. Ma neppure lì Hillary tiene le posizioni: gli Stati manifatturieri delle fabbriche perdute seguono l’illusione del ritorno dei posti di lavoro promesso da Trump. A tratti, l’andamento dello spoglio ha echi delle elezioni del 2000, quelle rimaste in bilico per settimane tra George W. Bush e Al Gore; ma tutto si risolve poco dopo la mezzanotte di New York, che non viveva una serata elettorale così, con tutti e due i candidati nella Grande Mela, dal 1944.
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