E’ il Nobel dell’Opportunismo.
Accolto dall’Ipocrisia di reazioni senza recriminazioni. Nessuno discute il
lavoro dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, l’Opac, cui
è stato assegnato il premio. Ma il comitato norvegese che attribuisce il
riconoscimento ha fatto una scelta politica e un po’ ruffiana verso i Grandi
del Mondo, senza tenere conto del sentire della gente e neppure dell’impatto
mediatico.
Non è la prima volta che accade, certo.
E temo che non sarà l’ultima. Ma questa volta non deludere le attese, e magari le
speranze, di mezzo e più Mondo era facile: Malala, la sedicenne pachistana
divenuta il simbolo della lotta per il diritto all’istruzione, contro ogni
pregiudizio e ogni stupidità, era sulla bocca di tutti. La forza della
candidatura della ragazzina era ancora cresciuta dopo che aveva preso la parola
alle Nazioni Unite, il 12 luglio: un messaggio contro la discriminazione,
culturale, religiosa, di genere.
Perché non Malala, dunque? Una
risposta che stia in piedi non c’è: paura di spiacere ai talebani, che la
ferirono alla testa l’anno scorso in un agguato all’uscita da scuola?, o
desiderio di ‘smarcarsi’ dal Parlamento europeo, che, la vigilia dell’assegnazione
del Nobel, ha insignito l’indomita pachistana del Premio Sakharov per i diritti
umani, in passato andato, fra gli altri, a Nelson Mandela e a Aung San Suu Kyi?
Forse, Malala è troppo giovane: glielo daranno, il Nobel, magari fra 50 anni,
se ci arriva, con l’odio che l’estremismo integralista nutre per lei, e se qualcuno
se ne ricorderà.
L'Opac, che monitora dal 1997 il rispetto del Trattato per
mettere al bando gli armamenti chimici, non è la prima organizzazione a
ricevere il premio Nobel. Dal 1901 a oggi, il riconoscimento è andato a una
ventina di sigle: per tre volte, al Comitato internazionale della Croce Rossa,
due volte all'Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Lo scorso anno, ne
venne insignita a sorpresa (e non senza perplessità) l'Unione europea. Nel XXI
Secolo, quasi la metà dei Nobel per la Pace è toccata ad organizzazioni, non a
individui.
Una sigla, in genere, non dispiace a nessuno. Ma pure le
scelte individuali possono peccare d’opportunismo: quello del 2009 al
presidente americano Barack Obama gli venne dato prima che potesse fare
alcunché per meritarselo –e, in fondo, stiamo ancora aspettando che lo faccia-;
e quello a Mohamed el Baradei, allora segretario generale dell’Agenzia dell’Onu
per l’energia atomica, parve un riconoscimento a un arabo che piaceva
all’Occidente –troppo, visto che, tornato in Egitto, non è riuscito a recitare
un ruolo politico nel suo Paese, ma solo sulla stampa occidentale-. E già
nell’immediato dopoguerra, non potendosi proprio dare il Nobel della Pace a
Winston Churchill che aveva vinto la guerra (per quanto giusta potesse essere
quella contro il nazismo), senza magari darlo pure a Stalin – Roosevelt era
morto -, si premiò lo statista inglese col Nobel per la Letteratura.
Nessuno nega i meriti dell’Opac. Ma se non ci fosse stata il mese scorso la capriola
diplomatica dell’accordo per smantellare l’arsenale chimico siriano, impedendo,
così, al Nobel per la Pace Obama di lanciare una ‘guerra punitiva’, di quella
sigla nessuno si sarebbe ricordato. Anche perché, a ben guardare, i gas siriani
saranno pure resi progressivamente inoffensivi, ma il conflitto laggiù continua
a essere un bagno di sangue quotidiano.
La motivazione del premio recita: "Grazie
al lavoro dell'Opac l'uso delle armi chimiche è un tabù”, o almeno lo diventerà.
Forse. Il Nobel vuole essere “un
messaggio ai Paesi che non hanno ratificato il Trattato di messa al bando delle
armi chimiche" e un invito a firmarlo per chi ne è fuori. Il premio sarà
consegnato a Oslo il 10 dicembre, nell'anniversario della morte di Alfred
Nobel: una medaglia, un diploma e un assegno da circa 910.00 euro.
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