Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 03/03/2014
Per crescere da 6 a 15, la Comunità e poi l’Unione
europea ci hanno messo circa 40 anni, dal 1957 al 1995. Poi, quasi d’un botto,
nel primo scorcio del XXI Secolo, i Paesi dell'Ue sono diventati 27:
l’allargamento, andato a discapito dell’approfondimento dell’integrazione, fu
un modo di ancorare alla democrazia i Paesi dell’ex blocco sovietico
dell’Europa centrale e del Baltico.
Oggi, c’è meno ressa, alle porte dell’Unione: i
Paesi realmente in lista d’attesa per l’adesione all’Ue sono solo due, la
Serbia e il Montenegro, con Albania e Kosovo di rincalzo. Bosnia e Macedonia
sono più lontane dall'obiettivo. La Turchia di Erdogan s’è quasi dimenticata la
prospettiva dell’ingresso nell’Ue, anche se i negoziati vanno avanti senza che
nessuno davvero ci creda.
I confini dell’integrazione si fermano lì: ai
Balcani smembrati della ex Jugoslavia. La nuova cortina, che non sarà di ferro,
ma resta piuttosto rigida, lascia fuori Bielorussia, Ucraina, pure Moldavia e
Georgia. Sono Paesi che la Russia considera parte della sua zona d’influenza:
una percezione che nessuno, a Bruxelles e neppure a Washington, è pronto a
contestare a fondo, perché il prezzo –e l’Ucraina rischia di esserne la
dimostrazione- potrebbe essere quello di processi secessionisti. Che, in
Georgia, sono già passati attraverso un conflitto.
I
Balcani da stabilizzare
Fra gli obiettivi dell’Ue dichiarati, “c’è
la stabilizzazione dei Balcani col processo d’integrazione”, ricordava tempo fa
su AffarInternazionali Andrea Cellino, uno dei responsabili della missione Osce
in Bosnia Erzegovina. Due Paesi della ex Jugoslavia sono già approdati
nell'Unione, la Slovenia, che è addirittura nell'euro, fin dal 2004, e la
Croazia, che, il 1o luglio 2013, è divenuto il 28o Stato.
Nel Balcani, il potere d’attrazione dell’Unione
resta relativamente alto: in Croazia, il referendum sull'ingresso nell’Ue vide
la vittoria dei sì con i due terzi dei voti espressi, nonostante la crisi abbia
indubbiamente mitigato l’entusiasmo per modelli e politiche europei.
Della stabilizzazione, l’adesione
all'Unione è, per ogni Paese, l’ultima tappa, una sorta di visto
sull'acquisizione d’una almeno relativa credibilità democratica ed economica. Del resto, la Regione, solo 15 anni or sono,
era teatro di conflitti e di interventi di ‘peace enforcing’ –la guerra di
Serbia è del 1999- ed è tuttora luogo di
missioni di ‘peace keeping’.
Le tre coppie
Paesi formalmente candidati all'adesione
sono attualmente la Serbia e il Montenegro: per ottenere lo statuto e l’avvio
dei negoziati, Belgrado ha dovuto depurare la sua immagine dalle scorie
ultra-nazionaliste dell’era Milosevic, accettando di consegnare l’ex presidente
e i principali responsabili di crimini di guerra e pulizia etnica alla
magistratura internazionale.
C’è pure voluto un doppio accordo col Kosovo: uno sulle frontiere,
uno sull'accettazione informale da parte serba della presenza kosovara in
consessi internazionali.
Al Montenegro, lo statuto di candidato
all'adesione è costato politicamente di meno, ma i negoziati sono lenti e
complessi, visti i problemi economici, la presenza diffusa della criminalità
organizzata e la difficoltà del governo di Podgorica a fare applicare le leggi,
a varare le riforme e ad assicurare un funzionamento delle istituzioni
efficiente.
Dopo Serbia e Montenegro, potrebbe
toccare ad Albania e Kosovo, anche se, in quell'area, ci può essere la
tentazione di costruire l’unità della nazione albanese, prima di puntare
davvero all'integrazione europea. E comunque i progressi da fare, sul piano sia
economico che istituzionale, a Tirana e a Pristina, sono ancora molti.
Più lontani dall’Ue, a Sud la Macedonia,
che deve ancora fare i conti con la diffidenza della Grecia, e –nel cuore dei
Balcani- la Bosnia-Erzegovina: le cronache di disagio e divisione, di violenza
e rabbia delle scorse settimane testimoniano che l’esasperazione economica è
oggi più forte e più urgente delle tensioni etniche, che pure non sono state
del tutto superate.
Il sogno, che qualcuno aveva magari
coltivato, di celebrare, nel 2014, a cent’anni dallo scoppio della Grande
Guerra, vero e proprio conflitto civile europeo, la pacificazione e l’
‘europeizzazione’ dei Balcani s’è fatto più nebbioso. E proprio Sarajevo, da
dove partì la scintilla di quella carneficina con l’assassinio dell’arciduca
Francesco Giuseppe, è la capitale dell’area più lontana da Bruxelles.
Il caso turco e i confini dell’impero
La mappa dell’allargamento dell’Ue non
cancella la Turchia, ma il desiderio d’adesione di Ankara non è mai stato così
labile e la voglia d’integrazione di Bruxelles così impalpabile. La Turchia
post Erdogan potrebbe cercare di ridare vitalità alle trattative, che, per il
momento, proseguono, ma non vanno sostanzialmente avanti.
Se il confine del Bosforo è culturale e
psicologico, oltre che economico e sociale, il confine ad Est è soprattutto
geo-politico e potenzialmente persino militare: Bielorussia e Ucraina
soprattutto, Moldavia e Georgia in misura minore, sono per Mosca avamposti russi
irrinunciabili. E, in ciascuno di quei Paesi, ad eccezione della Georgia già
depotenziata territorialmente, c’è un’opinione pubblica che condivide
l’approccio russo.
L’euro ‘colonizzatore’
Capita che la moneta arrivi prima
dell’economia e della politica: l’euro brucia le tappe, non solo nell’Unione,
che non ne regge il ritmo, ma anche fuori. Così, da oltre dieci anni è la
divisa legale nel Montenegro e nel Kosovo. In entrambi i casi, spiega Giorgio
Gomel, capo del Servizio studi e relazioni internazionali di BankItalia, si
trattò di una decisione unilaterale per ragioni economiche -iperinflazione e forte
contrazione- e politiche –la voglia di sganciarsi dalla Serbia e dal suo
dinaro-.
C’è, irrisolto, un problema di congruità di tali regimi monetari atipici con i Trattati europei. E c’è l’ipotesi, quasi assurda, che se dovessero mai entrare nell'Unione i due Paesi dovrebbero … uscire dall'euro, perché le loro economie non rispettano i criteri dell'eurozona.
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