I partiti europei calano un pokerissimo di uomini -che siano assi, re o fanti si vedrà; e si tengono la donna nella manica. Tsipras e verdi a parte, manca però un nome che sia garanzia di svolta economica e di rilancio politico.
A 11 settimane dalle elezioni europee, le maggiori famiglie politiche europee hanno scelto il loro candidato alla presidenza della Commissione europea: popolari, socialisti, liberali e sinistra puntano secco su un campione; i verdi mantengono un’alternativa uomo/donna. I conservatori non avranno un candidato; e neppure gli euro-scettici. Nessun italiano in lizza, forse anche perché la presenza di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea rendeva a priori improponibile una candidatura italiana.
La possibilità di manifestare una preferenza sul
prossimo presidente dell’Esecutivo comunitario è la grande novità delle
elezioni europee del prossimo maggio, anche se l’opzione espressa dai cittadini
europei non sarà vincolante per i capi di Stato e di governo dei 28, che si
riuniranno a Bruxelles già il 27 maggio per trarre le conseguenze dall’esito
del voto. La designazione del presidente della Commissione spetta al Consiglio
europeo, la cui scelta deve poi essere confermata dall’investitura del Parlamento
europeo.
A parte il greco Alexis Tsipras, leader di Syriza, che
potrebbe diventare alle europee la prima forza politica greca, e i volti verdi
–un maturo agricoltore francese anti-globalizzazione, José Bové, e una fresca ecologista
tedesca, Ska Keller, la più giovane del lotto con i suoi 33 anni-, le famiglie
politiche europee tradizionali sono andate sull’usato sicuro: l’ex premier
lussemburghese Jean-Claude Juncker, popolare; l’attuale presidente del
Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, socialista; e l’ex premier belga
Guy Verhiofstadt, liberale. Tutti vengono da Paesi fondatori della Cee e
protagonisti fin dall’inizio dell’integrazione europea.
Junker, Schulz e Verhostadt sono tutti intorno ai
sessant’anni (rispettivamente, 60, 59 e 61 anni –e il più anziano pare il più
giovane-), ma sono tutti da talmente tanto tempo sulla scena politica europea
da essere considerati dei veterani e, per quanto riguarda Juncker, addirittura
un sopravvissuto –è un doppio ex: ex premier lussemburghese, con una anzianità
di servizio da fare concorrenza a Helmut Kohl, ed ex presidente
dell’Eurogruppo-.
Dei tre, Verhofstadt è l’unico federalista, Schulz
sarebbe forse garante di una nuova alleanza tra Commissione e Parlamento,
Juncker appare un uomo del Consiglio, avendone fatto parte ininterrottamente
per un quarto di secolo. Dal punto di vista della nazionalità, la Germania non
ha più avuto un presidente dell’Esecutivo comunitario dal primo, che fu Walter
Hallstein –è passato oltre mezzo secolo-; il Belgio non l’ha più avuto da Jean
Rey, il successore di Hallstein; invece, il Lussemburgo ne ha già avuti due,
Gaston Thorn, liberale, e Jacques Santer, popolare. Entrambi, un disastro:
Thorn non fu confermato, dopo un quadriennio paralizzato dal ‘problema
britannico’; Santer dovette addirittura lasciare in anticipo, tarvolto dagli
scandali del suo Esecutivo.
Dal punto di vista politico, può suscitare qualche
curiosità il ‘conflitto d’interessi’ della cancelliera tedesca Angela Merkel:
come popolare, sostiene Juncker, che è abbastanza tedesco del suo; come
tedesca, non dovrebbe essere troppo ostile a Schulz, tanto più che i
socialdemocratici sono suoi alleati nell’attuale coalizione. Certo, il
garbuglio sarebbe stato maggiore se il Ppe avesse puntato sul francese Michel
Barnier: il presidente François Hollande e la cancelliera Merkel si sarebbero
trovati a sostenere candidati incrociati.
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