L’eccidio dei cristiani dà una spinta drammatica alla diplomazia umanitaria in Iraq, aiuti alimentari e asili facili, ma anche raid aerei. L’azione si sviluppa di getto, a macchia d’olio, ora che l’accanimento degli jihadisti del Califfato appare evidente.
E la vittoria
annunciata di Erdogan nelle presidenziali turche complica la geografia
politico-religiosa di questa crisi: i miliziani jihadisti avevano già promesso
di riconquistare Istanbul e di sottrarla al nuovo campione di un Islam ‘in
salsa turca’.
Forte del
successo, e tenuto ai margini dall’Europa, Erdogan vorrà ora puntare
all’egemonia regionale e sarà quindi un nemico giurato del disegno Califfato.
Senza essere, per questo, un amico dell’Occidente.
Di fronte alla
persecuzione dei cristiani, il Papa si dice sgomento, chiede una “soluzione
internazionale”, manda un inviato. La diplomazia vaticana trova eco in quella
dell’Italia, presidente di turno del Consiglio dell’Ue, e di altri Paesi
europei: Gran Bretagna e Francia sono tentate da esercizi muscolari, stile Usa,
e la Mogherini non dice no a una richiesta curda di aiuti militari.
Dopo il
viceministro italiano Pistelli, il ministro degli Esteri francese Juppé vola a
Baghdad e poi a Erbil, nel Kurdistan, per sovrintendere agli aiuti umanitari e
confermare la promessa di accoglienza in Francia per chi fugge dall’integralismo
qaedista.
Gli Usa
proseguono gli attacchi contro le milizie jihadiste. Ma il presidente Obama
inanella messaggi contraddittori: “Non trascinerò l’America in una nuova guerra
in Iraq”.
Il problema, per
gli Usa come per l’Europa, è la mancanza di partner locali presentabili:
combattere il Califfato, espressione estrema dell’orgoglio sunnita in una
regione sciita, vuol dire appoggiare in Iraq il governo del premier al-Malaki, simbolo
di gestione settaria del potere, e in Siria il regime alauita del presidente
al-Assad, osteggiato da tutto l’Occidente nei 40 mesi di guerra civile.
Nel contesto
regionale, combattere il Califfato significa fare un favore al regime di
Teheran, gran protettore dell’Islam sciita, e, quindi, indisporre gli alleati
di sempre, i sauditi e gli emiri.
Il sussulto
integralista dell’avanzata jihadista è contagioso, inasprisce la resistenza a
Gaza, infiamma il conflitto in Libia e arriva ai confini dell’Islam, dalla
Somalia alla Nigeria. Intervenire per spegnere sul nascere l’incendio
integralista sarebbe stato meglio: ora le milizie jihadiste hanno consolidato le
loro posizioni.
La mobilitazione
istantanea di questi giorni può alimentare nel mondo arabo la diffidenza per l’Occidente
che si muove solo quando gli toccano i cristiani. Come se l’azione umanitaria
fosse una questione di religione.
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