Con un atto di forza da debole, il premier iracheno Nouri al-Maliki manda in piazza a sedare le proteste le sue truppe, che tanto di combattere le milizie del Califfato non sono capaci. E fa orecchie da mercante agli inviti, ormai tambureggianti, da Stati Uniti e partner europei, a cedere il passo, o almeno, a cercare un’intesa di unità nazionale.
Così, il presidente
Fuad Masum, un curdo, affida il mandato di formare il nuovo governo a Haidar al-Abadi,
un altro sciita. Ma al-Maliki non molla.
Il nuovo premier
incaricato, che ha l’appoggio di Washington e ha fatto studi occidentali, gode
del sostegno della coalizione sciita che prima appoggiava al-Maliki. Il primo
atto del leader del partito Dawa, vicepresidente del Parlamento, è stato un
appello, lanciato dalla tv di Stato, all’unità irachena contro la barbarie
jihadista e l’offensiva terroristica.
Dagli Usa,
esponente dell’Amministrazione lo incoraggia a formare “un nuovo governo
inclusivo” di cui facciano parte anche sunniti e curdi.
Al-Maliki, pur
avendo vinto le elezioni di primavera, non aveva né i seggi né gli alleati per
ottenere la fiducia del Parlamento, ma ha tenuto per mesi la situazione in
stallo. Come se l’Iraq fosse il Belgio, capace, senza scricchiolii, di un vuoto
di governo di oltre 500 giorni, e non un Paese con la guerra in casa e
sanguinose divisioni etniche e religiose.
Esponente
sciita, al-Maliki non è mai riuscito ad assumere una leadership nazionale, a
integrare nei suoi governi le tre componenti della società irachena, gli sciiti
- la maggioranza, i due terzi - i sunniti, e i curdi, autonomi e bellicosi nella
loro regione ai confini con Turchia, Siria e Iran.
Che al-Maliki
valesse poco, lo sapevano anche George W. Bush e la sua Amministrazione, che
pure lo avevano messo lì nel 2005, due anni dopo l’invasione e il rovesciamento
del regime sunnita di Saddam Hussein. Non se ne fidavano al punto che un giorno
Bush gli arrivò in ufficio, a Baghad, direttamente da Washington, senza che lui
neppure sapesse della visita del presidente americano. Non lo avevano
avvertito, per evitare il rischio che ne fosse informato qualcuno armato di
cattive intenzioni.
Ma che fosse
almeno scaltro, lo stesso Bush se ne era accorto il giorno della visita di
congedo a Baghdad: riuscì a evitare con grande destrezza le scarpe che un
giornalista iracheno lanciò contro il podio del presidente e del premier.
Liberarsene non
è stato altrettanto facile che metterlo lì: dal nove anni governa l’Iraq sciiti
contro sunniti, proprio come Saddam lo governava sunniti contro sciiti, ha
vinto a modo suo tre elezioni e non vuole sapere di andarsene neppure adesso
che emissari americani e ministri europei vanno in processione a Baghdad a
spiegargli che è ora di sgomberare il campo.
Nell’avanzata
delle milizie jihadiste, praticamente incontrastata dal riluttante esercito del
governo iracheno, c’è però anche una responsabilità dei militari americani,
che, nel 2011, certificarono a un accondiscendente Obama che le forze armate
irachene erano in grado di garantire la sicurezza e la stabilità del Paese.
L’Amministrazione democratica aspettava solo quel bollo tondo per decretare il
‘tutti a casa’, senza neppure lasciare nell’Iraq reduce da otto anni di
occupazione militare un presidio capace almeno di impedire che le milizie
jihadiste costituissero uno Stato nello Stato.
Sul terreno, gli
Stati Uniti hanno proseguito i loro raid contro le posizioni qaediste e hanno fornito
aiuti e armi ai curdi, i cui combattenti, i peshmerga, sono molto più efficienti
dei soldati iracheni nel contrastare il nuovo Califfato.
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