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martedì 12 agosto 2014

Iraq: un premier (non) caccia l'altro, soluzione politica cercasi

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/08/2014 

Con un atto di forza da debole, il premier iracheno Nouri al-Maliki manda in piazza a sedare le proteste le sue truppe, che tanto di combattere le milizie del Califfato non sono capaci. E fa orecchie da mercante agli inviti, ormai tambureggianti, da Stati Uniti e partner europei, a cedere il passo, o almeno, a cercare un’intesa di unità nazionale.

Così, il presidente Fuad Masum, un curdo, affida il mandato di formare il nuovo governo a Haidar al-Abadi, un altro sciita. Ma al-Maliki non molla.

Il nuovo premier incaricato, che ha l’appoggio di Washington e ha fatto studi occidentali, gode del sostegno della coalizione sciita che prima appoggiava al-Maliki. Il primo atto del leader del partito Dawa, vicepresidente del Parlamento, è stato un appello, lanciato dalla tv di Stato, all’unità irachena contro la barbarie jihadista e l’offensiva terroristica.

Dagli Usa, esponente dell’Amministrazione lo incoraggia a formare “un nuovo governo inclusivo” di cui facciano parte anche sunniti e curdi.

Al-Maliki, pur avendo vinto le elezioni di primavera, non aveva né i seggi né gli alleati per ottenere la fiducia del Parlamento, ma ha tenuto per mesi la situazione in stallo. Come se l’Iraq fosse il Belgio, capace, senza scricchiolii, di un vuoto di governo di oltre 500 giorni, e non un Paese con la guerra in casa e sanguinose divisioni etniche e religiose.

Esponente sciita, al-Maliki non è mai riuscito ad assumere una leadership nazionale, a integrare nei suoi governi le tre componenti della società irachena, gli sciiti - la maggioranza, i due terzi - i sunniti, e i curdi, autonomi e bellicosi nella loro regione ai confini con Turchia, Siria e Iran.

Che al-Maliki valesse poco, lo sapevano anche George W. Bush e la sua Amministrazione, che pure lo avevano messo lì nel 2005, due anni dopo l’invasione e il rovesciamento del regime sunnita di Saddam Hussein. Non se ne fidavano al punto che un giorno Bush gli arrivò in ufficio, a Baghad, direttamente da Washington, senza che lui neppure sapesse della visita del presidente americano. Non lo avevano avvertito, per evitare il rischio che ne fosse informato qualcuno armato di cattive intenzioni.

Ma che fosse almeno scaltro, lo stesso Bush se ne era accorto il giorno della visita di congedo a Baghdad: riuscì a evitare con grande destrezza le scarpe che un giornalista iracheno lanciò contro il podio del presidente e del premier.

Liberarsene non è stato altrettanto facile che metterlo lì: dal nove anni governa l’Iraq sciiti contro sunniti, proprio come Saddam lo governava sunniti contro sciiti, ha vinto a modo suo tre elezioni e non vuole sapere di andarsene neppure adesso che emissari americani e ministri europei vanno in processione a Baghdad a spiegargli che è ora di sgomberare il campo.

Nell’avanzata delle milizie jihadiste, praticamente incontrastata dal riluttante esercito del governo iracheno, c’è però anche una responsabilità dei militari americani, che, nel 2011, certificarono a un accondiscendente Obama che le forze armate irachene erano in grado di garantire la sicurezza e la stabilità del Paese. L’Amministrazione democratica aspettava solo quel bollo tondo per decretare il ‘tutti a casa’, senza neppure lasciare nell’Iraq reduce da otto anni di occupazione militare un presidio capace almeno di impedire che le milizie jihadiste costituissero uno Stato nello Stato.

Sul terreno, gli Stati Uniti hanno proseguito i loro raid contro le posizioni qaediste e hanno fornito aiuti e armi ai curdi, i cui combattenti, i peshmerga, sono molto più efficienti dei soldati iracheni nel contrastare il nuovo Califfato.

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