La Super-Potenza sonnecchiante si risveglia dal suo torpore,
lancia un ruggito un po’ roco e dà un’unghiata letale, scegliendo di colpire
sul terreno di un ‘vecchio nemico’, l’Iraq. Presi nel gioco dei quattro cantoni
delle crisi (Gaza, Libia, Siria e Iraq e, ad Est, un revival di Guerra Fredda
sul fronte ucraino), gli Stati Uniti battono un colpo. Più che altro, per fare
vedere che ci sono.
E Barack Obama, presidente ‘tentenna’, indeciso alla pace,
riluttante alla guerra, eletto con promesse di disimpegno militare e di ritiro
delle truppe dai fronti esteri – in Iraq, fu cosa fatta a fine 2011; in
Afghanistan, lo sarà forse a fine anno-, decide, dopo un tiramolla di oltre due
mesi, di lanciare raid aerei contro le milizie jihadiste del Califfato
costituitosi sulle rovine di parte della Siria e dell’Iraq.
La molla scatenante sono le violenze compiute dai miliziani
qaedisti contro i cristiani locali, dopo le barbarie già attribuite loro contro
gli sciiti, maggioranza in Iraq, ma incapaci d’organizzarsi in modo politicamente
efficace. Obama, però, decide di passare all’azione con una reticenza evidente
e senza sapere con precisione fin dove vorrà e dovrà arrivare: lui che
denunciava le “guerre idiote” e “impulsive” del suo predecessore, deve pure sapere
che una guerra è idiota anche quando è (troppo) meditata.
Colui che, a fine 2011, dopo tre anni alla Casa Bianca, si
rallegrava di lasciare l’Iraq, dopo quasi nove anni di occupazione militare
americana, come “uno Stato sovrano stabile”, diviene il quarto presidente Usa
consecutivo ad avviare un’azione militare in quel Paese.
Nel 1991, George Bush padre guidò una coalizione sotto
l’egida dell’Onu per cacciare Saddam Hussein dal Kuwait occupato. Nella seconda
metà degli Anni 90, Bill Clinton creò sul Nord dell’Iraq una zona di non sorvolo,
che i caccia Usa fecero rispettar. Nel 2003, George Bush figlio invase l’Iraq,
addossando a Saddam responsabilità terroristiche che non aveva e accusandolo di
possedere armi di distruzione di massa che non c’erano. E, ora, Obama autorizza
attacchi contro le milizie jihadiste.
In un discorso solenne alla Casa Bianca, il presidente evoca
lo spettro d’un genocidio per decine di migliaia di cristiani e altre minoranza
minacciati di morte dagli integralisti ultra-radicali dello Stato islamico. Ma
aggiunge subito che non c’è una “soluzione militare” alla crisi.
L’azione militare parte con il freno a mano politico tirato:
una fonte dell’Amministrazione precisa che Washington non intende impegnarsi in
una campagna “prolungata”: “Non permetterò che siamo trascinati in una nuova
guerra in Iraq”, assicura Obama, proprio mentre pare muoversi in senso opposto.
Gli esperti sono scettici –una volta partiti i raid, è
sempre difficile dire quando ci si fermerà e fin dove si arriverà-. Gli alleati
sono perplessi: i raid paiono una variante della politica delle ‘mezze misure’
‘fuori tempo’: quando ci si muove tardi, quello che magari sarebbe stato
decisivo subito si rivela spesso insufficiente.
Gli avversari repubblicani chiedono di andare oltre la
denuncia della tragedia umanitaria. John Mc Cain e Lindsey Graham, due
senatori, entrambi già in corsa per la Casa Bianca, chiedono “un approccio
strategico, non solo umanitario”. E vogliono che gli jihadisti siano più
duramente colpiti: il Califfato avanza; e il governo sciita di Baghdad e il
regime alauita di Damasco non riescono a contrastarlo.
Si torna al peccato originale del presidente Obama, che,
nella fretta di lasciare l’Iraq, non negoziò il permanere sul territorio iracheno
di una presenza militare che poteva evitare lo sgretolamento dello Stato. La
Casa Bianca contesta l’analisi, ma, in Afghanistan, sta cercando d’evitare di
ripetere l’errore.
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