L’ennesimo
video della fabbrica dell’orrore del sedicente Califfato mostra l’esecuzione di
29 copti etiopi e minaccia i cristiani: la propaganda integralista sostiene che
la scena si svolge sulle rive del Mediterraneo, di quel mare che un tempo fu
Nostrum, ma che è stato pure loro, lungo quelle coste libiche dove sventola la
bandiera nera e da cui partono i barconi dei disperati.
E un’altra
propaganda, quella della diplomazia internazionale, afferma che un accordo tra
le fazioni in lotta sarebbe finalmente imminente in Libia: Bernardino Leon,
inviato dell'Onu, lo cerca da mesi, finora senza risultati. Ora ci saremmo
vicini, o almeno più vicini che mai in passato. Vedremo.
Non abbiamo
elementi per avallare le asserzioni dell’autoproclamato Stato islamico di avere
portato 29 copti sulle rive del Mediterraneo per metterli a morte, anche se la
protesta di Addis Abeba sembra almeno confermare la veridicità del rapimento e
dell’esecuzione.
Ma non vi
sono dubbi che la Libia sia in questo momento uno Stato fallito, come la Somalia,
dove gli interlocutori sono troppi, nessuno affidabile. C’è un governo internazionalmente
riconosciuto che fonda la propria legittimità su una consultazione elettorale a
bassissima partecipazione e che, abbandonata la capitale Tripoli, s’è rifugiato
a Tobruk, sulla costa –agli italiani ricorda soprattutto pagine della seconda
guerra mondiale, specie il fuoco amico che abbatté Italo Balbo-, non lontano
dal confine con l’Egitto, che di questa fazione è il grande protettore.
Poi c’è un
governo islamista, non proprio integralista, ma quasi, che sta a Tripoli nel
vuoto creato dalla fuga del governo legittimo e che ha il punto di forza
militare nelle milizie di Misurata, le sole ad opporsi sul campo alle bande del
Califfato. Gli interlocutori internazionali cercano di fare dialogare Tobruk
con Tripoli, che, tra l’altro, controlla i campi petroliferi al confine con la
Tunisia, che fanno riferimento all’Eni, e ne permette, anzi ne garantisce, il
regolare funzionamento.
Gli
jihadisti integralisti hanno la loro roccaforte, l’unica per il momento in
tutto il Paese, alla Sirte, la città di Gheddafi. S’erano spinti a Est a Derna,
da dove, però, i raid egiziani li hanno sloggiati.
Tutto
questo avviene lungo la costa di questo Paese grande tre volte l’Italia, che,
per il resto, sarà pure uno scatolone di sabbia o magari un immenso giacimento
di gas e di petrolio, ma il cui controllo è praticamente impossibile,
nell'intreccio di ostilità tribali e contrasti politici ed economici.
Anche per
questo, a un’azione militare sul terreno nessuno pensa seriamente, tranne forse
l’Egitto, che in Cirenaica si sente quasi a casa. E quando l’Italia si dice
pronta ad assumere la leadership d’un intervento in Libia, s’ignora quale sia
il piano –se c’è- e quali ne siano gli obiettivi, al di là della
stabilizzazione del Paese che la diplomazia cerca di ottenere con un’intesa tra
le parti.
Mancano pure interlocutori unicovi e affidabili: a Tobruk, ad esempio, Abdullah al-Thani, 61 anni, è il premier, ma Halifa Belqasim Haftar, 72 anni, generale, uno dei comandanti di Gheddafi in Ciad, poi indotto all’esilio negli Usa, si presenta come l’uomo forte –per conto di chi, non è chiaro-.
Mancano pure interlocutori unicovi e affidabili: a Tobruk, ad esempio, Abdullah al-Thani, 61 anni, è il premier, ma Halifa Belqasim Haftar, 72 anni, generale, uno dei comandanti di Gheddafi in Ciad, poi indotto all’esilio negli Usa, si presenta come l’uomo forte –per conto di chi, non è chiaro-.
Nessun commento:
Posta un commento