Sull’altare mediatico delle primarie democratiche, qualche agnello dovrà offrirsi all’aquila rapace della competizione 2016: Hillary Clinton vincerà a mani basse, ma qualche rivale bisognerà pur trovarglielo. I repubblicani hanno il problema opposto: sono tanti, ma una nidiata di pulcini, che, Jeb Bush a parte, pochi conoscono. La loro lista ufficiale ne conta già tre: Marco Rubio, senatore della Florida, s’è ieri aggiunto a Ted Cruz e Rand Paul, senatori anch’essi, di Texas e Kentucky – tutti ultra-conservatori -. Alla fine, saranno almeno sette.
Fra i democratici, invece, Hillary corre al momento sola. L’avversario
per lei più temibile, donna, brava, grintosa e liberal –troppo-, s’è chiamata
fuori: Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, colei che riconquistò il
seggio dei Kennedy strappato dai repubblicani dopo la morte di Ted, non
correrà. I maggiorenti del partito hanno accolto la decisione con un sospiro di
sollievo: Elizabeth poteva insidiare Hillary, ma, se avesse ottenuto la
nomination, sarebbe poi stata una palla al piede nelle presidenziali, perché
troppo di sinistra per un’America che non è solo, anzi è sempre meno New
England.
Di pezzi grossi, fra i democratici ce ne sono pochi. Due che
possono provarci, e che sono indubitabilmente presidenziabili, sono Joe Biden,
il vice di Obama, un ex senatore del Maryland, persona per bene che parla molto
–talora a sproposito- e vicina al centro. E John Kerry, il segretario di Stato
in carica –Hillary gli cedette il posto nel 2013-, che alla Casa Bianca andò vicino
nel 2004, quando, da senatore del Massachusetts, ottenne la nomination e sfidò
Bush, perdendo però.
Entrambi, più che alternative alla Clinton, sono ruote di
scorta del partito: fallisse Hillary, o cadesse in una delle mille trappole che
le saranno tese, ecco due modelli di ‘usato sicuro’. Kerry, a chi gli chiede se
si candiderà, risponde ‘Mai dire mai’. Biden, forse, ci proverà: molti vice lo
hanno fatto nel dopoguerra, con successo –Bush padre nel 1988- o più spesso
senza successo –Nixon nel 1960, Humprey nel 1968, Gore nel 2000-, ma sempre
però ottenendo almeno la nomination.
E, allora, chi correrà con Hillary? Facciamo qualche
ipotesi. Il senatore del Vermont Bernie Sanders, che si autodefinisce “un
democratico socialista” e propugna una democrazia “alla scandinava”. Lui sarebbe
poco più di una meteora: un sito di ricercatori della Stanford University, che
analizza i voti e le dichiarazioni dei potenziali candidati, lo considera il
più liberal di tutti, a 8,3 su una scala 10. Hillary sta a 6,4, a metà strada
tra Biden (4,4) e la Warren (8,2).
Poi ci sono Martin O’Malley, astro nascente, governatore del
Maryland per due mandati dopo essere stato sindaco di Baltimora, poco noto a
livello nazionale, e Jim Webb, senatore della Virginia per un mandato, che nel
2013 decise di non brigare un secondo mandato –‘per provarci nel 2016, si pensò-.
Uno che non farà l’agnello sacrificale è Andrew Cuomo, governatore
dello Stato di New York, figlio di quel Mario che non ci volle mai provare. A
58 anni, Andrew è abbastanza giovane per potere aspettare 4 o 8 anni. E provare
a fare filotto: il primo nero, la prima donna, il primo italo-americano.
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