Trovare i voti. Ma, prima, trovare i soldi per cercare i voti. Le campagne elettorali negli Stati Uniti sono idee, slogan, promesse, primarie, dibattiti, famiglie sul palco, convention spettacolari, tonfi e ascese. Con un punto fermo: senza soldi, in fondo non ci arrivi. E quella 2016 s’annuncia fin d’ora come la campagna più costosa della storiia.
Mitt Romney, candidato dei repubblicani nel 2012, s’è fatto da parte prima ancora che cominciasse la conta dei suffragi: ha rinunciato dopo avere saputo che molti donatori che lo avevano sostenuto quattro anni or sono avrebbero foraggiato questa volta Jeb Bush.
Le campagne dei democratici e dei
repubblicani sono diverse sotto molti punti di vista: i messaggi e il modo di
veicolarli. Ma l’obiettivo di raccogliere quanto più fondi possibile è comune.
Nel tempo, i democratici hanno scoperto prima dei repubblicani la tv e internet
e i social media –ma oggi si sta ad armi pari. Per Usa 2016, Hillary, ha un
problema opposto ai suoi potenziali avversari: lei, che è arcinota, deve
evitare di strafare. Così, nel suo primo video, non è lei la protagonista, ma
l’America degli ‘ordinary people’, della gente qualsiasi: lei si propone come
il campione di quell’America.
I candidati repubblicani, quelli già
dichiaratisi e quelli che s’apprestano a farlo, hanno invece il problema di
farsi conoscere e riconoscere, ancora prima che di farsi apprezzare. E,
inoltre, impegnati nelle primarie in una battaglia fratricida, spenderanno lì
molti soldi, mentre Hillary potrebbe attraversare le primarie relativamente
indisturbata e, quindi, senza svenarsi troppo.
Però, le attuali regole del
finanziamento elettorale, che non limitano drasticamente, come in passato, le
donazioni dei grandi gruppi, favoriscono i repubblicani sui democratici: il ‘metodo
Obama’,, raccogliere somme enormi via internet con piccole donazioni
individuali potrebbe non bastare, davanti alla libertà d’azione dei Pac
(Political action committee, con limiti di spesa) e Super-Pac (senza limiti di
spesa, ma che non finanziano direttamente una campagna). Ma Pac e Super-Pac
c’erano già nel 2012 e non bastarono a Romney per vincere.
Certo, Hillary e i democratici non
possono lasciare i grandi finanziatori ai rivali repubblicani. Così, Politico.com
ha recentemente seguito le ‘primarie di Goldman Sachs’ che
Hillary e Jeb, i due battistrada dei rispettivi schieramenti, avrebbero discretamente
–ma neppure troppo- disputato nelle ultime settimane: obiettivo, accaparrarsi i
favori (e, quindi, i finanziamenti) della più potente banca di Wall Street.
Hillary, che mira a raccogliere più fondi di quanti non riuscì
a metterne insieme Obama, ha –lei personalmente e il marito Bill- un rapporto
di lunga data con i responsabili di Goldman Sachs. E Jeb li sta corteggiando
con una serie di visite a New York.
Il mese scorso, nello stesso giorno Bush ha partecipato a un
evento al Ritz Carlton organizzato da Dina Powell, che guida la Goldman Sachs
Foundation e che lavorò alla Casa Bianca con George W. Bush, fratello dell’ex
governatore della Florida, ed è intervenuto a un evento curato da Jim Donovan,
un dirigente della banca, nel 2012 fra i principali sostenitori di Mitt Romney.
Charles Geisst, storico di Wall Street al Manhattan College,
commenta: "A Goldman Sachs piace giocare sui due i fronti, in particolar
modo in questo caso, perché entrambi i candidati, Bush e Clinton, potrebbero in
definitiva rivelarsi utili”. La banca, dunque, foraggerà entrambi, come
spesso fanno, a conti fatti, le grandi corporations: avere un presidente amico
è fantastico, ma rischiare d’averne uno nemico è terribile.
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