Scritto per La Presse il 19/11/2015, insieme a Matteo Bosco Bortolaso
"L'accordo vincolante, che ovviamente noi auspicheremmo fortemente come italiani ed europei, non sembra realizzabile. Ma io sono sempre del parere di vedere nel bicchiere mezzo pieno la parte piena: partiamo da una situazione in cui 160 Paesi hanno dichiarato i loro impegni. Non era mai successo prima. Questi 160 Paesi rappresentano il 90% delle emissioni mondiali. Dai calcoli fatti, la totalità degli impegni rispettati porterebbe a fine secolo ad un aumento della temperatura di 2,7 gradi. E' troppo, ma siamo lontani 85 anni. Si parte quindi da una base di tutto rispetto, molto importante. Se si andasse avanti con i ritmi attuali, l'aumento della temperatura a fine secolo sarebbe di 6 gradi. Riusciamo, quindi, a più che dimezzare questa previsione".
L'ambasciatore Massimo Gaiani, direttore generale alla Farnesina per la mondializzazione e le questioni globali, è uno degli italiani più coinvolti nella preparazione della Cop21, la conferenza sul clima che, nonostante la carneficina a Parigi del 13 novembre, si aprirà nella capitale francese il 30 novembre, presenti capi di Stato o di governo, ministri e delegazioni di 194 Paesi.
In una conversazione con LaPresse, l'ambasciatore Gaiani conferma le indicazioni venute da più parti sulla difficoltà di giungere a Parigi a un accordo vincolante, ma sottolinea i risultati positivi già raggiunti e ulteriormente migliorabili. "Noi insisteremo particolarmente - dice, riferendosi all'Italia e all'Ue - sul carattere vincolante delle revisioni periodiche: è un obiettivo assolutamente alla portata, anche se bisogna vedere con quale cadenza, con quale regolarità ci saranno le revisioni periodiche.
D - Ma se i risultati sono già conseguiti, perché riunire a Parigi una conferenza così importante, con tutti i rischi -di fallimento, oltre che di sicurezza- che ciò comporta?
Le cose non sono così semplici: dopo lunghe trattative, abbiamo un testo di una cinquantina di pagine con una serie d'opzioni aperte. Una, in particolare, riguarda il nesso tra l'impegno degli Stati Ocse più ricchi della Terra - e di quelli emergenti che possono farlo - e il sostegno a quei Paesi che hanno invece bisogno di aiuti. E' una questione estremamente importante: siamo usciti dalla logica di Kyoto, che prevedeva allegati con impegni precisi solo per una categoria di Paesi. Adesso c'è un obiettivo comune, pur in base a responsabilità differenziate, in funzione di ciò che ciascuno può fare e del punto da dove ciascuno parte. Ci sono ancora sul tavolo gli aspetti finanziario e del trasferimento tecnologico, altrettanto importanti.
D - Ci sarà qualcosa di analogo al protocollo di Kyodo, che prevedeva un preciso taglio percentuale delle emissioni prendendo come dato base il 1990?
Il concetto degli impegni nazionali è molto più elastico. Ogni Paese ha scelto la base che ha ritenuto più opportuna, per cui c'è chi parte, come l'Unione europea, dal 1990, e chi parte, come Stati Uniti e Cina, dal 2005; c'è chi parla di riduzioni delle emissioni in termini assoluti e c'è chi invece si riferisce alla intensità energetica o parla di rapporto della crescita delle emissioni in funzione dell'andamento del Pil. E' come se qualcuno contribuisse con la propria moneta e qualcun altro con beni in natura. Però, l'insieme di questi impegni porta ad un risultato estremamente significativo. Il problema maggiore - ed è un'altra delle questioni sul tappeto - è che tipo di sorveglianza e di valutazione verrà poi fatta.
D - Per i controlli, si prevede di costituire una struttura 'ad hoc'?
Ci penseranno le organizzazioni già esistenti, a livello di Nazioni unite e di altre agenzie specializzate. Si tratterà di vedere come il meccanismo funzionerà. E ci sarà tutta una serie di elementi che daranno una certa flessibilità a questo sistema. I Paesi emergenti hanno ad esempio insistito perché, in caso di catastrofe naturale o di altri eventi, il loro impegno potrà essere riconsiderato.
D - Quindi è possibile immaginare una sorta di foro dell'Onu in cui i Paesi ciclicamente s'incontrano e si rileva, più o meno perentoriamente, che alcuni impegni non sono stati rispettati...
Esatto. Però direi che, rispetto a precedenti esperienze, qui ci sono spinte molto forti. Il fronte non è più tra Paesi ricchi che chiedevano riduzioni - avendo già fatto loro un percorso di crescita - e Paesi in via di sviluppo che attraversavano la fase in cui i Paesi industrializzati avevano inquinato senza attenzione. Ora abbiamo gruppi di Paesi come le piccole isole o che si trovano su coste particolarmente a rischio che esercitano una fortissima pressione. Per cui le voci a sostegno sono forti. E devo dire che è radicalmente cambiato anche l'approccio di molte grandi imprese. Ne abbiamo due esempi piuttosto importanti in casa nostra: Enel e Eni sono molto impegnate e hanno ben compreso che si deve cambiare, si deve fare qualche cosa.
D - Però non sono previste sanzioni, se uno non rispetta gli accordi?
No, non c'è un impianto sanzionatorio.
D - E c'è un piano di aiuti?
Al di là di un primo contingente di 100 miliardi l'anno che era stato promesso a Copenaghen e che è in fase d'allocazione, è chiaro che il sistema ha margini di miglioramento ampi. Siamo, però, confrontati ad atteggiamenti virtuosi da parte di molti Paesi: negli ultimi due, tre anni, a fronte d'un incremento importante del Pil, non c'è stato un incremento delle emissioni a livello globale ed è la prima volta nel secolo che accade. Alcuni Paesi emergenti, nel loro ritmo di sviluppo, continuano a incrementare le emissioni, ma vengono compensati dalle riduzione di altri.
D - Se ci proiettiamo a gennaio 2016, che cosa avremo?, un protocollo di Parigi? E ne servirà una ratifica?
L'accordo che salterà fuori da Parigi avrà un punto di partenza nel 2020. E quindi avremo da lavorare anche sulla transizione da qui ad allora. Si sta immaginando una specie di midterm review, nel 2017-'18, per vedere che cosa è stato fatto e che cosa rimane da fare. Però il senso di urgenza si avverte da parte di tutti.
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