Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/11/2015 e ripreso da www.GpNewsUsa2016.eu
Noioso, non è
stato noioso: molto meglio del precedente, il mese scorso, un vero mortorio.
Magari perché stavolta erano solo otto sul palco, e non più dieci come sempre
accaduto finora, gli aspiranti alla nomination repubblicana hanno avuto tempo
per esprimersi e pure per attaccarsi fra di loro. Chi abbia vinto, non è
chiaro, anche se Donald Trump s’è affrettato ad autoproclamarsi vincitore.
Lo
confermerebbe un improvvisato sondaggio del Daily Telegraph: il magnate dell’immobiliare
e showman è l’unico a raccogliere più
apprezzamenti positivi che negativi, insieme – una sorpresa – al candidato
libertario Rand Paul, senatore del Kentucky. Tutti gli altri finiscono in rosso:
di poco Marco Rubio e Ted Cruz; nettamente Ben Carson, Jeb Bush e Carly
Fiorina, gli altri protagonisti più attesi.
Sulla scena di Milwaukee,
nel Wisconsin, e sugli schermi della Fox, i candidati repubblicani – ne restano
in lizza 15, sette sono stati relegati a un evento minore – hanno avuto, questa
volta, moderatori non ostili, com’era stato in particolare nel terzo dibattito
sulla Cnbc. A porre domande, c’era pure la celebre
anchorwoman Maria Bartiromo. Carson, ancora sotto tiro per i falsi racconti sui
suoi trascorsi studenteschi, ha ironicamente ringraziato perché nessuno gli ha
chiesto dove abbia mai fatto le elementari e come se la sia cavata.
S’è parlato soprattutto di economia, di
Obamacare, d’immigrazione: Trump vuole ‘deportare’ 11 milioni di immigrati
illegali e costruire un muro al confine con il Messico, come fa Israele “che se
ne intende”: gli ispanici a vario titolo Bush, Rubio, Cruz non sono d’accordo.
Ma vi sono pure state sortite, non sempre felici, sulla politica estera.
Su un punto, tutti sono stati d’accordo:
attaccare Obama e, quindi, Hillary Clinton, ormai quasi certa della nomination
democratica e intenzionata, una volta eletta, a portare avanti molte scelte
dell’attuale presidente. Tutti i candidati hanno avuto i loro momenti no.
Raccontiamone alcuni, seguendo gli input di Ruth Sherlock, una corrispondente
da Washington.
Ted Cruz e il fantasma di Rick Perry – Quattro anni fa, l’allora governatore del Texas Rick Perry si
ritirò dalla corsa alla nomination dopo non avere saputo citare le tre priorità
del suo programma, in un’intervista. L’altra sera, il senatore del Texas,
‘campione’ del Tea Party, ha fermamente annunciato l’intenzione di chiudere
cinque Agenzie federali, ma giunto alla quarta s’è fermato e non è andato
oltre. Quale sia la quinta resta un mistero. I moderatori l’hanno graziato.
Marco Rubio inciampa sul saldatore – Il senatore della Florida, che costituisce l’insidia maggiore
per Jeb Bush, dato per scontato che Trump e Carson si perderanno per strada, è
contrario, come tutti i suoi rivali, al salario minimo, ma, per dare forza al
suo argomento, sostiene che “i saldatori guadagnano meglio dei filosofi”. Sta
ancora parlando che i social media lo subissano di smentite, perché i filosofi
guadagnano in media il doppio dei saldatori, negli Stati Uniti. Forse, ipotizza
Catherine Addington, in un suo tweet, Rubio pensava a Carly Fiorina, laureata in storia medievale e filosofia: lei guadagna
59 milioni di dollari l’anno, ma è pur sempre un eccezione.
Chi conosce meglio Vladimir Putin? – E’ un privilegio che Trump e la Fiorina si contendono davanti
ai milioni di telespettatori americani. Invece, Rubio bolla il leader russo come
“un gangster, un figuro da crimine organizzato” – lui non gli ha mai parlato -.
La gara tra lo showman e l’ex ceo di Hp finisce pari: tutti e due hanno
effettivamente incontrato Putin, ma tutti e due solo in uno studio televisivo
mentre attendevano di essere intervistati. Vantaggio a Carly, però: l’attesa durò
ben 45 minuti.
Benson tratta il Califfo come il Faraone – L’ex neurochirurgo, un seguace della Chiesa avventista del
Settimo Giorno, non manda proprio giù i satrapi d’oriente, che siano quelli
d’una volta o quelli d’oggi giorno. Ai Faraoni, nega il merito di avere costruito
le Piramidi (opera dell’ebreo Giuseppe). E al Califfo predice una rapida fine: distruggere
lo Stato islamico sarebbe “un gioco da ragazzi”, basta portargli via la
provincia di Anbar, in Iraq. Peccato che da oltre un anno iracheni ‘lealisti’,
pasdaran iraniani, peshmerga curdi e la coalizione messa su dagli Stati Uniti
con i raid aerei ci stiano provando, senza risultato.
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