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sabato 22 agosto 2015

Corea: 'Good Morning Pyongyang', minacce di 'guerra della radio'

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 22/08/2015

Una guerra di radio: una cosa vintage al tempo della guerra sui social e della propaganda sul web del Califfato. Vengono in mente quei soldati tedeschi ‘traditi’ dalle note sensuali di Lilì Marleen; o, in epoca più recente, il Good Morning Vietnam di Robin Williams, soldato anti-militarista; o ancora Radio Free Europe, arma della Guerra Fredda, o le trasmissioni destinate alla popolazione irachena durante l’invasione del 2003.

Qui, il fronte è il confine fra le due Coree –se vi serve una suggestione cinematografica, ‘Mash’, dove però la radio da campo serve ad amplificare le imprese sessuali di ‘Bollore’ e del suo partner-. Il regime di Pyongyang non manda giù i programmi di musica pop, previsioni meteo e buddismo che altoparlanti lungo la zona demilitarizzata che separa le due Coree rovesciano dal Sud sul Nord.

E così, dopo uno scambio di colpi di artiglieria e altre scaramucce, il dittatore Kim Jong-un, figlio e nipote d’arte, perché quella dei Kim è un’autentica dinastia comunista, ha messo sul piede di guerra le sue truppe. Lo riferisce l'agenzia ufficiale Kcna: l’ordine ai militari è di entrare in "un semi-stato di guerra" -che cosa significhi, non è ben chiaro-.

In attesa che scada oggi l’ultimatum di 48 ore lanciato giovedì, le forze armate nordcoreane devono "essere del tutto pronte al lancio a sorpresa di qualsiasi azione militare". Beh, con tanto d’annuncio l’effetto sorpresa si sarà un po’ perso. Ma nessuno ha davvero voglia di passare alle vie di fatto. Sempre che Kim non abbia davvero guai grossi ad affermare la propria leadership in patria: alzare la tensione internazionale è un vecchio artificio del nonno e del papà, quando le cose non vanno bene nel Paese.

Seul ha già replicato intimando a Pyongyang di astenersi da ogni "azione avventata" e avvertendo che, com’e' già successo, i soldati sudcoreani sono pronti a rispondere. Quando, giovedì, il Nord provò ad abbattere con un razzo uno degli altoparlanti ‘invasori’, il Sud rispose con tiri d’artiglieria.

Rispetto ai rischi, la ‘posta in gioco’, però, appare minima: Pyongyang pretende che Seul rimuova tutti gli altoparlanti. La zona demilitarizzata che dall’armistizio del 1953, dopo un conflitto durato tre anni e forse milioni di vittime, separa i due Paesi d’uno stesso popolo ne ricorda di peggio.

Da un ventennio, la penisola coreana è in bilico tra momenti di distensione tra le due capitali e accessi di tensione, tra un dialogo internazionale sui programmi nucleari nord-coreani e sussulti d’orgoglio nazionalistico sud-coreano, seguendo percorsi non sempre logici in apparenza e intrecciati alle vicende interne politiche ed economiche –il Nord è esposto a devastanti carestie-.

Già nel 2013 Kim, giunto al potere inaspettatamente giovane, aveva dichiarato "lo stato di guerra" con Seul, senza mai passare alle vie di fatto. Tre anni prima, nel 2010 quando alla guida del Paese c'era il padre, Kim Jong-il, i due episodi più gravi: in marzo un sottomarino di Pyongyang affondò una nave da guerra sudcoreana, la corvetta Cheonan –morirono 46 dei 104 marinai a bordo-; e poi, in novembre, l'artiglieria nordcoreana martellò l'isola sudcoreana di Yeonpyeong – restarono uccisi due civili e due soldati-. In quest'ultimo caso, Seul rispose al fuoco.

A sventare il conflitto, in genere hanno concorso le pressioni internazionali: su Seul, quelle Usa; e su Pyongyank quelle cinesi. Oggi l’influenza di Washington e Pechino sui rispettivi interlocutori s’è, però, un po’ appannata –anche se il nazionalismo sudcoreano è più indirizzato contro il Giappone che contro la Nord Corea, un fastidio e un anacronismo più che un vero nemico-.

A fare cadere il muro di Panmunjom, Bill Clinton provò negli ultimi mesi della sua presidenza, fine 2000: ci andò vicino, non ci riuscì. Obama ci vorrà provare?, dopo avere smantellato quelli diplomatici ed economici con Cuba e con l’Iran.

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