Scritto per La Presse il 19/08/2015
Gli sviluppi della crisi in
Libia sono “deleteri per gli interessi italiani in quel Paese”. Per contrarli,
l’Italia deve puntare “su un forte impegno nel quadro d’un intervento
internazionale, accompagnato da efficaci e generosi aiuti tecnico-economici
bilaterali, più che sulla leadership dell’intervento”. Lo dice a La Presse
Roberto Aliboni, uno dei massimi esperti italiani di Libia, consigliere
scientifico per il Mediterraneo e il Medio Oriente dell’Istituto Affari
Internazionali (IAI).
D - L'offensiva degli
jihadisti in Libia allarma le diplomazie occidentali, con l'iniziativa, lunedì, degli Usa e di cinque Paesi europei (Gran
Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna) e lea presa di posizione di ieri della
Nato, in concomitanza con la riunione della Lega araba. Si può oggi ipotizzare un intervento militare circoscritto alle
milizie che fanno riferimento al Califfato?
R - Un intervento militare ‘terzo’ rispetto ai
libici e al sedicente Stato islamico (Is) - internazionale o solo occidentale -
o avviene in alleanza con una delle due fazioni in presenza (Tobruk ovvero
Tripoli) oppure avviene indipendentemente dalle due fazioni.
In quest’ultimo caso avremmo una situazione
simile a quella in Siria, con la coalizione anti-Is che combatte l’Is
indipendentemente dal regime di Assad, come pure dalle svariate milizie ribelli,
e invece in alleanza con – almeno per ora - modestissime e incerte milizie “moderate” facenti capo agli Usa. Ritengo
che un intervento del genere avrebbe come minimo le stesse difficoltà e la
stessa inconcludenza di quello siriano.
Escluderei l’evenienza di un intervento in
alleanza con Tripoli (che non gode del
riconoscimento della comunità internazionale, ndr).
Un intervento è invece possibile e prevedibile
in alleanza con Tobruk. Tuttavia, questo intervento (le cui caratteristiche
sono tutte e difficili da definire) si profila in modo diverso a seconda che
avvenga a ridosso d’un’intesa d’unità nazionale fra tutte le fazioni oppure
avendo contro le fazioni che non abbiano accettato tale accordo. In tal caso il
nuovo governo avrebbe il sostegno occidentale ma si troverebbe a combattere su
due fronti, Is e Tripoli (più Ansar al-Sharia e i qaedisti), più o meno
coalizzati fra loro, con problemi a lungo termine. Ciò metterebbe l’intervento
- internazionale o occidentale che sia - davanti a problemi non lievi, in una
situazione di nuovo simile alla siriana.
D - C'è una
possibilità che l'appello all'unità contro gli jihadisti venga accolto dalle fazioni libiche?, e che, quindi,
l'intesa parziale già raggiunta si
rafforzi verso una pacificazione nazionale?
R - Le fazioni libiche
combattono l’Is localmente e in ordine sparso, non solo e non tanto per la
divisione fra Tobruk e Tripoli ma anche perché nel conflitto sono impegnate
alcune tribù (pure importanti) e forze locali (come a Derna, a Bengasi e Sirte).
L’impegno diretto delle tribù contribuisce a frammentare ulteriormente il
quadro.
Le voci che in Libia esortano
a un impegno unitario contro l’Is, formazione che tutti avversano (con
l’eccezione di alleanze, tattiche, fra Is e Ansar al-Sharia), sono non poche,
ma non riescono a superare la divisione fra moderati e radicali che esiste nel
Paese (un’evoluzione – non esattamente coincidente con quella fra Tobruk e
Tripoli - dovuta soprattutto al negoziato condotto dall’inviato dell’Onu
Bernardino Léon). Perciò, mentre appare doveroso da parte occidentale e
internazionale esortare all’unità contro un pericolo comune, del resto percepito
come tale dai libici, tale unità d’intenti può diventare operativa solo se
interviene un accordo(sia fra tutte le fazioni, e allora sarà una unità
operativa forte, sia fra quelle pronte ad accettare il ‘primato’ di Tobruk, (e
allora sarà più debole).
D - Quali possono essere le
conseguenze degli sviluppi in atto sul traffico di migranti dalle coste libiche?, e
sugli interessi italiani in Libia? C'è lo spazio per un'iniziativa autonoma italiana a frenare il primo e a tutelare i
secondi?
R - La possibilità che un
risorto governo libico faccia uscire il territorio dall’attuale situazione di
“ungoverned space” (spazio non governato,
ndr) e freni dunque il flusso di emigranti e rifugiati, anche in presenza
di sviluppi favorevoli, non è vicina. L’intervento esterno, se sarà attuabile e
attuato, dovrebbe concentrarsi su questo punto e assumere una forte dimensione
di controllo delle frontiere (e credo che questo farebbe piacere a tutte le
fazioni e tribù libiche, anche ove restassero in contrasto fra loro),
Inoltre, non si deve
dimenticare che la stabilità della Libia è solo uno dei fattori dell’anomala
mobilità attuale. Non è neppure il più importante avendo un carattere meno
strutturale degli altri (é una circostanza favorevole, ma non una causa).
Per quanto riguarda gli
interessi italiani in Libia, gli sviluppi in corso sono deleteri. La
stabilizzazione del Paese avrebbe comunque effetti positivi. Tuttavia, ritengo
che un ingabbiamento della mobilità e una tutela degli interessi dovrebbero
essere affidati a una saggia e forte azione del governo italiano nel quadro
dell’azione collettiva internazionale, europea e occidentale.
Non tutti i libici vedono l’Italia con favore o, meglio, non vedono con
favore un’esposizione diretta italiana. Per cui punterei a un forte impegno
italiano nel quadro di un intervento internazionale, accompagnato da efficaci e
generosi aiuti tecnico-economici bilaterali, più che alla leadership
dell’intervento, come invece si caldeggia dal parte di taluni media e dal
governo.
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