Ennesimo rituale di vita e di morte, ieri, nel porto di Palermo, dove dalla nave militare irlandese ‘L.E.Niamh’ sono sbarcati 367 dei 373 superstiti -25 le donne, 13 i minori- del barcone stracarico d’immigrati che s’era rovesciato mercoledì a una quindicina di miglia appena dalle coste libiche (sei feriti erano già stati trasferiti in elicottero in ospedali per le cure del caso). Dalla stessa nave, però, sono pure stati sbarcati i cadaveri delle 25 vittime accertate –tre i bambini-, mentre le ricerche dei dispersi, che potrebbero essere centinaia, proseguono.
Un rituale cui la
diplomazia affianca i propri. Da Bruxelles, Federica Mogherini, alto
rappresentante dell’Ue per la politica estera e si sicurezza comune, e due suoi
colleghi della Commissione europea ricordano che, sul fronte dell’immigrazione,
“serve il coraggio collettivo di un’azione concreta”. E Italia e Egitto, in una
telefonata fra i ministri degli Esteri Gentioloni e Shoukry, concordano
“sull’importanza di riconvocare al più presto le parti per fare avanzare il
negoziato intra-libico”.
Perché, fin quando la
situazione in Libia non sarà sotto controllo, i barconi continueranno a partire
e i migranti a morire. Ma gli sviluppi della crisi libica testimoniano
un’ulteriore frammentazione degli schieramenti,
nonostante l’11 luglio, delegazioni libiche abbiano siglato a
Skhirat in Marocco la quinta versione di un accordo di concordia nazionale
negoziato con il rappresentante dll’Onu Bernardino Leon.
L’intesa, accettata dal governo riconosciuto dalla comunità internazionale,
rifugiatosi a Tobruk, e pure dalla Camera dei Rappresentanti, il Parlamento,
che siede pure a Tobruk, non è stata però sottoscritta dagli irriducibili della
coalizione ‘Alba della Libia’, d’orientamento integralista, che siede a Tripoli,
la capitale.
Roberto Aliboni, analista dell’Istituto Affari Internazionali, sottolinea la
friabilità dell’accordo e delle alleanze. “Dietro la firma di Skhirat, è evidente
la spaccatura sul generale Hiftar: circa la metà dei Rappresentanti non lo
vuole come capo supremo dell’Esercito nazionale libico e con altre forze, anche
in seno allo stesso Esercito, si preparano a farlo fuori”. Dovendo fare i conti
con l’Egitto, che invece lo protegge.
D’altro canto, “nei primi sei mesi di quest’anno, ‘Alba’ s’è frantumata. I duri
e gli irriducibili hanno costituito un ‘Fronte della Fermezza’ di milizie con buon
seguito nel Congresso nazionale generale, che non è andato a Skhirat e non ha
firmato l’intesa”.
E, intanto, le milizie di Misurata prendono le distanze da Tripoli senza
riconciliarsi con Tobruk. E le bande del Califfato, localizzate alla Sirte,
costituiscono, comunque, una minaccia e un elemento d’insicurezza fino alla
frontiera con la Tunisia. Nei cui pressi gli impianti dell’Eni sono ‘garantiti’
da formazioni armate locali, che non possono però impedire episodi come il
recente rapimento di quattro lavoratori italiani.
L’accordo è in sostanza una “road map”: prevede una nuova fase negoziale sui
dettagli cruciali e controversi rimasti aperti. “La mediazione dell’Onu –osserva
Aliboni- ha aggregato i moderati, interessati e pronti al compromesso, ma ha messo
ai margini i loro bracci armati ed ha consegnato la guida della transizione a
delle forze politiche inermi, esposte alle reazioni dei duri. E né Hiftar né i
comandanti delusi di ‘Alba’ sono dei Cincinnati”.
Se questo è il quadro, i barconi dalle coste fuori controllo della Libia
continueranno a partire. E i riti di vita e di morte a ripetersi.
Nessun commento:
Posta un commento