E’
un’altra tappa miliare nella laboriosa normalizzazione delle relazioni tra
Stati Uniti e Cuba: dopo oltre 54 anni, l’ambasciata di Washington a L’Avana è
stata riaperta, presenti il presidente cubano Raul Castro e il segretario di
Stato Usa John Kerry.
Ma questa
volta il lider maximo Fidel Castro, il padre e l’artefice della rivoluzione
cubana, non se ne sta zitto ai margini, non lascia tutta la ribalta al fratello
Raul che ne ha preso il posto ai vertici dello Stato e del partito, dopo che la
salute e l’età lo hanno quasi messo fuori gioco. Fidel riceve a Cuba gli
epigoni castristi, e bolivaristi, dell’America Latina, Evo Morales, presidente
della Bolivia, fresco della benedizione della visita a La Paz di Papa
Francesco, e Nicolás Maduro, successore
in Venezuela di quell’Hugo Chavez che ha dato un’impronta originale ed
evolutiva al retaggio castrista.
Morales e
Maduro gli portano gli auguri per il suo 89° compleanno. L’incontro dei tre ‘compañeros’
è un gesto simbolico. Il messaggio politico Fidel lo affida a Gramma, la
‘Bibbia’ della sua rivoluzione: scrive che gli Stati Uniti non possono
cavarsela con la fine dell’embargo, ma devono ancora pagare milioni di dollari
di indennizzo a Cuba per gli effetti negativi del blocco degli scambi
sull’economia dell’isola.
La visita
di Morales e Maduro fa da contraltare all’arrivo di Kerry per la cerimonia di
apertura dell’ambasciata. Con il segretario di Stato, ci sono tre marines che
il 3 gennaio 1961, poco più che ragazzi, ammainarono la bandiera statunitense
nell’isola e che oggi, uomini di oltre 70 anni, tornano per issarla.
Parlando
in inglese e in spagnolo, Kerry ha reso omaggio ai presidenti Obama e Castro
per “la coraggiosa decisione di non restare prigionieri della storia”, ha
ringraziato il Papa Francesco e la diplomazia vaticana per il ruolo avuto nella
riconciliazione Usa-Cuba e ha affermato: “Non siamo più nemici, siamo vicini”,
nell’attesa di diventare amici. Il segretario di Stato avverte che il processo
potrà andare avanti “a singhiozzo”, ma assicura che andrà avanti, anche se “il
cammino verso relazioni davvero normali è ancora arduo”.
Un
cammino cominciato con l’inattesa stretta di mano fra i presidenti Obama e
Castro ai funerali di Nelson Mandela, proseguito con la ripresa delle relazioni
diplomatiche, la fine delle limitazioni a comunicazioni e viaggi, e ora la
riapertura delle ambasciate. Perché la normalizzazione sia completa manca l’ok
del Congresso alla fine dell’embargo economico e commerciale. Una decisione è
attesa a settembre, ma non sarà una formalità, perché l’opposizione dei
repubblicani, che hanno la maggioranza al Congresso, è forte. I conservatori
rimproverano all’amministrazione democratica di avere fatto aperture a Cuba
senza ottenerne in cambio passi per l’evoluzione del castrismo verso la
democrazia all’occidentale.
Nel suo
discorso, ieri, Kerry ha insistito sui diritti dell’uomo nel rispetto delle
differenti culture. E’ evidente il desiderio di Obama di rendere irreversibile,
prima della fine della presidenza, la ‘pacificazione’ tra Usa e Cuba che,
insieme a quella tra Usa e Iran, può costituire il maggiore lascito di politica
estera del suo secondo mandato, cui fa da contrappeso il peggioramento delle
relazioni con la Russia, ripiombate per la crisi ucraina in un clima da guerra
fredda.
L’ideale di un
dialogo tra le civiltà come alternativa allo scontro tra Cristianesimo e Islam,
affermato nel discorso del Cairo del giugno 2013, è invece impantanato nelle
tensioni drammatiche del Medio Oriente, con gli strascichi irrisolti degli
interventi militari in Afghanistan e in Iraq, e le involuzioni in senso
repressivo o terroristico delle primavere arabe.
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