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domenica 11 ottobre 2015

Libia: gli impegni dell'Italia alla cartina di tornasole dell'accordo

Scritto per Il Fatto Quotidiano dell'11/10/2015

Se le sarà chiesto, “l’Italia è pronta ad assumere un ‘ruolo guida’ in Libia, per un meccanismo d’assistenza e di stabilizzazione con il sostegno della comunità internazionale”: quest’affermazione del premier Renzi all’Assemblea generale dell’Onu, il 29 settembre, acquista maggiore concretezza adesso che un accordo, seppur fragile, c’è tra i poteri nemici di Tobruk e di Tripoli. A New York, Renzi aveva detto: "Siamo pronti a collaborare con un governo d’unità nazionale nei settori chiave".

Suona come un impegno preso, che adesso tocca rispettare. Anche se le probabilità che i libici ci tolgano d’impaccio, mandando tutto a monte, sono alte: l’intesa firmata a Skhirat in Marocco e mediata dall’inviato speciale dell’Onu Bernardino Leon, che sta per lasciare le consegne al suo successore, il tedesco Martin Kobler, deve essere ratificata dai parlamenti che siedono a Tobruck –quello internazionalmente riconosciuto – e a Tripoli – quello islamista -. Tripoli dice che non l’approverà; a Tobruk, il generale Khalifa Hiftar, che molti considerano il futuro ‘uomo forte’ libico, è ostile.

Nella missione americana, l’accento sulla Libia Renzi non l’aveva messo solo sul podio dell’Onu. Parlando il giorno prima al vertice contro il terrorismo presieduto e convocato dal presidente Usa Barack Obama, il premier italiano aveva detto: "Non solo Siria, non solo Iraq. Ma anche Africa e, per quel che interessa l'Italia, in particolare Libia". E aveva pure ricordato che la priorità in Siria è “evitare una nuova Libia'', spiegando che, nel 2001, gli "attacchi e le iniziative contro … Gheddafi erano stati condotti senza una strategia per il futuro. Così, dopo quattro anni, abbiamo un Paese fuori controllo".

Invece, una Libia ‘pacificata’ corrisponde agli interessi italiani: economici e di sicurezza, prima ancora che politici. L'auspicio italiano è che l'accordo, se attuato, consenta, fra l’altro, di esercitare un controllo sui traffici di migranti dalle coste libiche. Proprio venerdì il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha autorizzato l'operazione navale europea incaricata di sequestrare e distruggere al largo della Libia le imbarcazioni utilizzate dai trafficanti di esseri umani.

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è stato fra i primi, l’altro ieri, ad esprimere “soddisfazione” per l’intesa raggiunta, prima individualmente, poi in un contesto transatlantico, in un comunicato con i colleghi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna. Gentiloni ha pure avuto un colloquio telefonico con il premier designato Fayez al Sarraj, ribadendogli che l’Italia “è pronta a fare la sua parte”. Bisogna, però, che l’accordo sia ratificato perché la Libia possa “voltare pagina” e “guardare avanti” a quella stabilità in cui Roma vuole assumere un ruolo guida.

L'Italia "sostiene", dunque, gli sforzi in atto e si augura di potere presto "rispondere positivamente alla richieste del nuovo governo libico", a partire da quella –attesa- di una missione internazionale nel Paese nordafricano, anche per dare più efficacia alla risoluzione dell’Onu sui migranti.

Che cosa questo poi significhi, non è proprio chiaro. Mattia Toaldo, esperto dello European Center for Foreign Policy, corre un po’ troppo, prendendo alla lettera la determinazione di Renzi a svolgere “un ruolo da protagonista in uno scenario chiave per i nostri interessi”: “L’Italia s’è impegnata a guidare una missione di stabilizzazione in Libia e deve quindi decidere quante truppe mandare e con quali regole d’ingaggio”.

I militari si dicono preparati “a recepire le indicazioni del governo e della comunità internazionale per eventuali interventi di qualunque tipo”: “Abbiamo le unità pronte", parola del generale Graziano, capo di Stato Maggiore della Difesa.

Più misurata, e forse più realista, o semplicemente meno impressionata dal decisionismo renziano, Claire Spencer, ricercatrice di Chatham House, giudica, invece, essenziale che il governo libico “riesca a imporre il monopolio dell’uso della forza in un Paese profondamente diviso e dominato dalle milizie locali. Tale scopo potrà essere raggiunto con il supporto della comunità internazionale, sotto forma di investimenti e assistenza per la popolazione”. Niente ‘anfibi sul terreno’, dunque, se non per missioni umanitarie: molto meglio così, ché il peace enforcing e pure il peace keeeping rischiano di essere cruenti.

Gli sviluppi libici saranno discussi, domani, a Lussemburgo, dal Consiglio Esteri Ue.

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