Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 02/10/2015
Nobel per la Pace sulla
fiducia, insignito del premio dopo pochi mesi alla Casa Bianca, quando non
aveva ancora fatto nulla per meritarselo, a parte i discorsi, che sono il suo
forte, Barack Obama sta perdendo la guerra delle armi in casa propria, lui che
si rifiuta di andare a fare la guerra fuori. Sarà, a conti fatti, un Nobel
fedele al suo premio, per non avere mai acceso un conflitto, ma pure incapace
di fare progredire la pace, in America e nel Mondo, che raramente è stato un
posto così pericoloso come oggi.
“Affrontare il nodo
della violenza con le armi da fuoco resta una priorità del presidente”,
sostiene deciso il portavoce Josh Earnest, mentre è ancora in corso la
sparatoria in un’Università dell’Oregon. Un’affermazione che è, di per sé, una
dichiarazione d’impotenza: perché questa strage non cambierà nulla, come le
altre.
Eppure, la tragedia
all’Umpqua
Community College è confrontabile, nel suo bilancio, con la madre di tutte le
sparatorie studentesche americane, quella del liceo di Columbine nel Colorado
il 20 aprile 1999 -12 studenti e un insegnante uccisi, più i due killer
suicidi-; ed è l’ennesima sotto la presidenza di Obama, con la strage alla
scuola elementare Sandy Hook di Newtown nel Connecticut il 14 dicembre 2012 –
27 le vittime, fra cui 20 scolari tra i 6 e i 7 anni, oltre al killer suicida-.
Dopo Newtown, sembrò, per l’impatto di tutti quei bambinetti uccisi, che
l’opinione pubblica americana fosse pronta a una svolta. E, invece, niente. Non
bastano le sparatorie sui posti di lavoro, nelle scuole e persino nelle chiese
– Charleston, South Carolina, 18 giugno 2015, nove neri uccisi da un razzista
bianco, preso -. Non serve la sequenza, impressionante negli ultimi venti mesi,
d’errori o leggerezze fatali della polizia. Non vanno a segno le parole del
Papa davanti al Congresso in sessione plenaria, accolte, anzi, da un brusio di
perplessità appena sotteso ai tiepidi applausi.
Nulla scuote le certezze d’un’opinione pubblica nella maggioranza
favorevole alla pena di morte e non incline a rinunciare al II emendamento
della Costituzione, che sancisce il diritto a possedere un’arma. Poco importa
se quell'emendamento risale agli anni della Guerra d’Indipendenza, quando il
nemico contro cui essere armati erano gli inglesi di re Giorgio – e non il
compagno di banco e il collega di scrivania -.
Non c’è posto d’America al sicuro dalle armi, anzi dalla follia di chi può
entrarne in possesso senza difficoltà: metropoli o cittadine, basi militari o
paesini rurali. L’Università dell’Oregon teatro della sparatoria di ieri è a
Rosengurg, piccolo centro agricolo di 22.000 abitanti – più 19 mila studenti - di
uno degli Stati più liberal dell’Unione, nel vuoto del quale, però – tre quarti
dell’Italia con meno di 4 milioni di abitanti -, allignano pure sette fondamentaliste
e cellule terroriste.
La presidenza di Obama ha certamente segnato, di per sé, con un nero alla
Casa Bianca, e con la sua azione un allargamento della frontiera dei diritti civili
negli Stati Uniti, specie negli ultimi anni contro le discriminazioni basate
sull’orientamento sessuale, Ma, come per reazione, ha innescato rigurgiti di
razzismo e di intolleranza; e l’insicurezza, che è pure frutto del trauma
dell’11 Settembre e delle guerre non vinte in Afghanistan e in Iraq, alimenta
la violenza.
Il presidente e la first lady hanno
provato a scuotere il Congresso e i cittadini sul problema delle armi. Ma non
ci sono riusciti: “Leggi che ci proteggano dalla violenza delle armi restano
una priorità per questa amministrazione", recita il portavoce. Ma il
presidente è "realista" e “frustrato” ed ha “poche speranze che il
Congresso decida di agire”.
Adesso, per qualche giorno i sondaggi registreranno
un’impennata di dubbi. Entro due settimane, tutto sarà come prima. Fino alla
prossima sparatoria.
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