Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 02/10/2015
L’obiettivo è tenere aperta la Via
del Mare: quella che da Damasco, verso Est, va a Homs e, quindi, a Nord al
porto di Latakia sul Mediterraneo e a Sud alla base di Tartus, dove i russi
sono di stanza. Una striscia di terreno - un quarto della superficie siriana -
che coincide con l’insediamento alauita, quello della famiglia al-Assad: il
regime ha assolutamente bisogno di mantenerne la continuità e d’affermarvi il
proprio controllo. Saldo nel suo territorio roccaforte, protetto dai russi nei
cieli e dagli iraniani via hezbollah sul terreno, il presidente Assad è sicuro
d’avere d’un posto al tavolo dove si deciderà il futuro assetto del suo Paese.
Le notizie si accavallano alle voci.
Giunti al secondo giorno, i raid aerei russi contro le postazioni del Califfato
potrebbero estendersi dalla Siria all'Iraq; e c’è chi ipotizza l’impiego a
breve di truppe di terra, quelle che gli Usa non intendono mandare.
Mosca ammette che nel mirino, oltre
che le milizie jihadiste, ci sono altri gruppi anti-Assad, come gli
integralisti di al-Nusra, di cui anche Washington diffida. Ma nega di avere
intenzionalmente colpito l’Esercito di liberazione siriano, la cosiddetta
‘opposizione moderata’, la cui consistenza politico-militare è piuttosto
evanescente –efficace, invece, il servizio di propaganda-.
La diplomazia muscolare russa si
muove più velocemente e con più efficacia di quella occidentale: il patto
anti-terrorismo con Iraq e Iran lunedì; il discorso all’Onu e l’incontro con
Obama, martedì; e, subito dopo, senza frapporre tempo, il via agli attacchi.
Non è detto che sia l’inizio della
fine del Califfo, che sul terreno ha già dimostrato d’avere risorse. Ma di
certo allontana la fine di Assad: sbarazzarsene, o almeno pretendere di
ignorarlo al momento di disegnare la Siria che verrà, sarà ancora più difficile
adesso, con tutti quegli alleati ingombranti intorno.
In questa situazione, il vero rischio,
che tutti vogliono evitare, è un incidente tra gli alleati riluttanti, che
dicono tutti di combattere il Califfo, ma gli uni pro e gli altri contro Assad.
Per questo, i russi avvertono gli americani e la loro coalizione dei loro
piani, per evitare interferenze o peggio collisioni; e i russi, inoltre, si
coordinano con Damasco, mentre gli americani e i loro alleati non lo fanno.
Una videoconferenza dei vertici
militari dovrebbe assicurare un relativo coordinamento, mentre Kerry e Lavrov,
i responsabili degli Esteri, danno continuità ai rapporti diplomatici. Da New
York, il ministro Gentiloni esprime “preoccupazione”: l’escalation militare
allontana la soluzione politica, dice; ma neppure l’inazione l’ha molto
avvicinata finora. Ankara, da poco scesa in campo contro l’Is, avverte Mosca:
no –dice- alla strategia del fatto compiuto. Troppo tardi, forse.
Mercoledì, nell’area di Homs, la mira
dei russi era stata controversa: miliziani e insorti e civili, tutti sotto i
raid. Ieri, il Cremlino assicurava: “Abbiamo colpito obiettivi del Califfato,
nessun civile”. Ma mancano riscontri. Anzi dagli Usa arrivano accuse: sarebbero
stati bombardati ribelli addestrati dalla Cia, quelli che recentemente hanno
passato ad al-Nusra armi e bagagli; e Mosca vorrebbe solo tenere in piedi
Assad.
A stornare dal pensare che Putin ci abbia
visto giusto e stia azzeccando fini e mezzi, c’è però il fatto che gli danno
ragione il premier iracheno al-Abadi, che frigna per lo scarso aiuto
occidentale (!), e, soprattutto, Donald Trump, l’estroverso candidato alla
nomination repubblicana alla Casa Bianca, pronto a cacciare dall’Unione i
rifugiati siriani.
Ma l’affermazione di Obama, martedì,
al vertice anti-terrorismo Onu, “Batteremo l’Is sul campo” appare velleitaria, senza
fare comunella con russi e iraniani.
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