A cento giorni dall’inizio delle primarie, con le assemblee dello Iowa il 1° febbraio, e a poco più d’un anno dall’Election Day, l’8 novembre 2016, le campagna democratica e repubblicana vivono due momenti totalmente diversi. Fra i democratici, Hillary Rodham Clinton ha straordinariamente rafforzato, nel giro di dieci giorni, il suo ruolo di favorita, al punto da figurare ora quasi come ‘candidata unica’. Fra i repubblicani, invece, il plotone degli aspiranti alla nomination resta nutrito – sono ben15 -, nell’imminenza del terzo dibattito televisivo, pur se molto sgranato nei sondaggi. E comincia a delinearsi una mobilitazione di partito per frenare la corsa in testa di Donald Trump, dato come sicuro perdente nel voto per la Casa Bianca: lo showman, e magnate dell’immobiliare continua a inimicarsi fette dell’elettorato non indifferenti, come donne e ispanici, compiacendo qualunquisti e populisti (quelli che alle urne poi non ci vanno).
Democratici:
la candidata c’è - La posizione di Hillary, che
pareva vacillante, è stata successivamente rafforzata da tre fatti. Primo. la
sua prestazione nel dibattito televisivo democratico, da cui è uscita vincitrice,
anche grazie all’onestà intellettuale del suo principale rivale, il senatore
del Vermont Bernie Sanders, un indipendente ‘socialista’, che ha smontato le
polemiche contro l’ex first lady agitate dai repubblicani (“Basta con ‘sta
storia delle email –ha detto-: parliamo di ciò che interessa gli americani,
parliamo dei 27 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà”).
Secondo: la decisione del vice-presidente Joe Biden, forse
pure influenzata dalla sua performance televisiva, di non scendere in lizza.
Terzo: la calma e convincente testimonianza resa per 11 ore, giovedì 22, davanti
alla Commissione d’Inchiesta del Senato sui fatti che l’11 settembre 2011,
quando lei era segretario di Stato, costarono la vita a Bengasi
all’ambasciatore Usa in Libia e a tre altri cittadini americani.
Sia nel dibattito che di fronte alla Commissione
d’Inchiesta, Hillary è parsa molto presidenziale, fugando alcuni dubbi sulla
sua tenuta insinuatisi durante l’estate. In lizza con lei, oltre a Sanders,
troppo a sinistra per essere candidabile, resta solo un comprimario, l’ex
governatore del Maryland Thomas O’Malley: l’ex governatore di Rhode Island Lincoln
Chaffee e l’ex senatore della Virginia Jim Webb si sono ritirati. Con una punta
d’invidia, il politologo repubblicano Fergus Cullen constata: “In due
settimane, Hillary s’è trasformata da incerta battistrada in candidata quasi
sicura”, da ‘ferro vecchio’ usurata dalla politica e dalle polemiche a indomita
combattente.
La situazione non è però senza rischi, per la Clinton e per
i democratici: senza Biden in campo, Hillary dovrà continuare a logorarsi
facendo la corsa in testa, unico bersaglio di tutti gli attacchi; e se lei ‘fora’,
o inciampa in qualche scheletro nell’armadio o in quella nemica perfida che è
l’antipatia che suscita in parte dell’elettorato, i democratici non hanno una
ruota di scorta pronta.
La sensazione, però, è che, dopo questi dieci giorni, la nomination
e anche la Casa Bianca siano più vicine per l’ex first lady, che potrebbe ora
permettersi di non spendere troppo nelle primarie, tenendosi soldi e carte da
giocare per la campagna presidenziale vera e propria, dopo le convention
dell’estate prossima. “Vai a casa e riposati un po’”, le hanno detto a Seattle
le sue sostenitrici, dove lei ripartiva subito in campagna venerdì dopo la
testimonianza fiume.
La linea politica è chiara e gliel’ha pure avallata Biden
nel discorso della rinuncia: raccogliere l’eredità di Obama e fare avanzare
l’America sulla via dei diritti civili. Anche
se lei, orgogliosa, precisa: “Non sono candidata al terzo mandato di Barack
Obama, né di Bill Clinton. Sono candidata al mio primo mandato”. Per il quale le fioccano gli appoggi,
l’ultimo, quello del sindacato che rappresenta i dipendenti pubblici degli
Stati, delle Contee e dei Comuni, 1,6 milioni di iscritti: ancora un regalo per
i suoi 68 anni, che compie lunedì 26.
Repubblicani:
candidato cercasi – Diversa, se non opposta, la
situazione fra i repubblicani: c’è una pletora di aspiranti alla nomination e,
in testa alla corsa, ci sono i campioni dell’anti-politica che il partito
giudica votati alla sconfitta nelle elezioni. Intanto, al Congresso i deputati
gettano benzina sul rogo del qualunquismo, non riuscendo a decidere chi debba
essere il nuovo speaker, dopo le brusche dimissioni di John Boehner, esasperato
dalle divisioni intestine e dagli attacchi degli iper-conservatori e del Tea
Party.
Le difficoltà non solo nei sondaggi ma anche economiche di
Jeb Bush, il candidato preferito dall’establishment, indeboliscono la
convinzione che alla fine l’ex governatore della Florida riesca ad emergere
come vincitore: gli ci vuole un colpo d’ala alla Clinton – il terzo dibattito televisivo
gliene offre l’opportunità a breve -.
E così c’è chi si mobilita per organizzare almeno una
campagna anti-Trump, nel tentativo d’evitare che i danni fatti da ‘pel di
carota’ Danny diventino irreparabili. Secondo The Club for Growth, influente gruppo
conservatore basato a Washington, che ha speso un milione di dollari in annunci
contro Trump, recenti sondaggi nello Iowa mostrano che la leadership dello
showman s’indebolisce. E molti pensano che la sua ascesa sia in stallo, che la
sua corsa si sia fermata. Anche qui, il dibattito sarà una cartina di
tornasole.
Secondo Fred Malek, un donatore repubblicano citato dall’Ap,
“a questo punto non c’è un’alternativa singola a Donald Trump”: nessuno dei
presunti tenori repubblicani, come i senatori Marco Rubio e Ted Cruz o il
governatore Chris Christie, senza dimenticare Bush, va in doppia cifra nei
sondaggi. Ci vorrebbe il balzo in avanti di qualcuno, magari al prossimo
dibattito. Perché, se no, l’avversario di Trump è Ben Carson, un ex
neuro-chirurgo nero, iper-conservatore e senza esperienza politica, che nei
sondaggi sta intorno al 20% e che è capace d’attirare fondi. Un po’ come
saltare dalla padella sulla brace.
Nessun commento:
Posta un commento